mercoledì 29 aprile 2015

La Stampa 29.4.15
Nella Baltimora che brucia: “La polizia ci vuole morti”
Neri in rivolta per l’uccisione di un 25enne. Coprifuoco, arriva l’esercito
di Paolo Mastrolilli


«Siamo stanchi anche di essere stanchi». Abdul Malik indossa con orgoglio la tunica, che ostenta come simbolo della sua fede musulmana, e allarga le braccia: «Io ho un figlio di sei anni, e ieri sera a casa sentiva la puzza della farmacia incendiata qui davanti. Era il negozio dove andavo a comprare il latte per lui: ora cosa gli do da mangiare? Ci siamo stancati, di tutto.
Siamo stanchi della povertà che ci circonda, della violenza della polizia e di essere dimenticati. Però siamo anche inferociti con questa gente venuta a bruciare il nostro quartiere. Noi qui ci viviamo: dopo che l’abbiamo distrutto, dove andiamo?».
Malik parla all’incrocio fra Pennsylvania e West North Avenue, epicentro della guerriglia urbana che lunedì notte ha sconvolto Baltimora. La farmacia Cvs davanti a noi fuma ancora, e le vetrine dei negozi saccheggiati sono infrante. Abdul però dice cose che senti ripetere da molti, e marcano la differenza con Ferguson. Laggiù, dove l’ondata delle proteste razziali era cominciata ad agosto, tutto era legato all’uccisione del diciottenne nero Mike Brown per mano del poliziotto bianco Darren Wilson. Qui le manifestazioni sono cominciate quando Freddie Gray, un nero di 25 anni arrestato per una sciocchezza, è morto con la spina dorsale spezzata sotto la custodia degli agenti bianchi.
Eppure il reverendo Washington, pastore della True Light Free World Baptist Church, dice che dietro c’è molto di più: «Queste proteste non sono per Freddie, vanno oltre. Sono per le condizioni ignobili in cui viviamo, la povertà, la disoccupazione, la totale mancanza di speranze per il futuro. Quando a questo ci aggiungi il poliziotto bianco che ammazza un ragazzo nero, diventa genocidio. Il problema però è assai più grande degli abusi delle forze dell’ordine: è lo stato della nostra vita. Perciò siamo arrabbiati con i violenti, che lunedì sera hanno rovinato tutto: noi vogliamo attenzione per ricostruire le nostre comunità, non per distruggerle».
Oltre la violenza
Per capire, basta guardarsi intorno. Intere file di case abbandonate, che cadono a pezzi. Gente in mezzo alla strada, perché la disoccupazione è sopra il 30%. Un ghetto abbandonato a se stesso nella prima vera città del Sud americano, 70 miglia sotto la linea Mason-Dixon, dove nel 1860 solo il 2% degli elettori votò per Lincoln, e il parco Wyman è ancora dominato da una grande scultura del generale confederato Robert Lee. L’ultima volta la rabbia scoppiò nel 1968, con la rivolta dopo l’assassinio di Martin Luther King, e Baltimora non si è più ripresa: allora aveva oltre un milione di abitanti, ora poco più di 600.000.
Gli scontri di lunedì sono cominciati con una manifestazione di studenti liceali al Mondawmin Mall, dopo i funerali di Freddie Gray. L’avevano annunciata sui social media, presentandola come una «purge», una protesta anarchica per mettere in ginocchio la città. È finita con 235 arresti, oltre venti poliziotti feriti, 144 auto e 19 edifici distrutti. Il sindaco Stephanie Rawlings Blake e il governatore del Maryland Larry Hogan, colti di sorpresa, hanno reagito con lo stato d’emergenza, la chiusura delle scuole e dello stadio di baseball degli Orioles, e il coprifuoco, a partire dalle 10 sera. Hanno mandato mille soldati della Guarda Nazionale a presidiare le strade.
Soldati e scope
Ora i militari sono schierati all’incrocio dove è andata in fumo la farmacia, e dove Casey Burnett è venuto con la scopa, insieme ai volontari decisi a ripulire il quartiere. Casey è bianco e insegna alla scuola superiore locale: «Ieri diversi miei studenti erano qui a manifestare. Ho parlato con loro e mi hanno detto che gli incidenti sono stati provocati da infiltrati, membri di gang, venuti apposta per provocare. Le violenze sono inaccettabili, ma i motivi della protesta sono sacrosanti. Questo è un quartiere che la parte ricca di Baltimora ha cancellato. Non c’è lavoro, non c’è istruzione: a scuola non abbiamo neppure le sedie. Se l’America non capisce che non può abbandonare così un’intera fetta della sua popolazione, queste tensioni di classe, prima che di razza, continueranno ad esplodere ovunque».
Un po’ come dice il reverendo Jesse Jackson, che verso mezzogiorno arriva davanti alla farmacia incendiata: «È un problema di opportunità, prima che di razza. Povertà, disoccupazione, abbandono sociale sono le vere cause. Poi i poliziotti invece di proteggerci ci ammazzano, e allora il risentimento e il disagio diventano rivolte».
Il presidente Obama, parlando alla nazione, cerca di tenere tutto insieme: «I criminali vanno trattati come tali. Anche la polizia, però, non sempre fa la cosa giusta. Detto questo, ci illudiamo se non affrontiamo le radici del problema, che stanno nella mancanza di opportunità». Poche ore dopo arriva la notizia di un altro nero, sospettato di rapina, ucciso da un poliziotto a Detroit. A Baltimora intanto cala la notte sul coprifuoco. L’imam Malik, il reverendo Washington e il professor Burnett si schierano davanti alla linea dei poliziotti, per impedire che vengano ancora attaccati: «Dobbiamo salvare la nostra città, non condannarla».