sabato 25 aprile 2015

La Stampa 25.4.15
L’unica via per fermare gli scafisti
di Federico Varese


La riunione straordinaria dei leader europei dedicata alla tragedia dei migranti morti nel mediterraneo non ha svegliato l’Unione Europea dal suo torpore. Si deve dare atto a Renzi di aver posto con forza il problema dell’immigrazione clandestina, ma gli altri Paesi, Regno Unito in testa, non sono disposti a prendersi responsabilità concrete, mentre nessuno si rende conto che gli scafisti sono solo un anello di una catena ben più complessa.
Il Primo Ministro inglese è uscito dalla riunione di Bruxelles promettendo di affiancare alla flotta italiana l’ammiraglia HMS Bulwark. Si è però subito affrettato a dichiarare che i migranti salvati dalle unità inglesi non avranno diritto di chiedere asilo al Regno Unito. Questa posizione contraddice le convenzioni europee, le quali permettono di chiedere asilo una volta saliti a bordo. L’egoismo britannico, in gran parte responsabile della fine della missione umanitaria Mare Nostrum, è sconcertante.
Quali sono le soluzioni di lungo periodo? Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha confermato il piano della Unione Europea di «catturare e distruggere» le imbarcazioni usate dai trafficanti. Stupisce che tale ipotesi venga presa seriamente in considerazione. Distruggere le navi equivale a confiscare in massa i computer nella capitale romena degli hacker, oppure le automobili usate negli Anni Venti negli Stati Uniti. Come è possibile sapere come verrà utilizzata un’auto, un computer oppure un’imbarcazione? Gli osservatori presenti nel porto libico di Zuwara, da dove partono ogni giorno chiatte in direzione dell’Italia, raccontano che non esistono attracchi separati per gli scafisti. La stessa imbarcazione usata per pescare oggi trasporta centinaia di persone domani. Solo quando essa è in mare possiamo essere certi che viene usata per fini criminali. Ma a quel punto è troppo tardi. La proposta europea avrà l’effetto di mettere in ginocchio l’economia costiera, spingendo i pescatori locali nelle braccia del crimine organizzato.
Le voci più sensate - come quella di Romano Prodi su La Stampa - hanno sottolineato che una soluzione di lungo periodo va trovata sulla terraferma. Eppure molti osservatori non distinguono due tipi di attori in questo business disgustoso: gli scafisti che forniscono il «servizio», e coloro che permettono a questi individui di utilizzare indisturbati le coste. Tale distinzione è evidente nel caso della Somalia. In quel Paese i pirati vengono protetti dai clan locali e dal gruppo terroristico Al Shabaab, come dimostrato dall’economista Anja Shortland e da me in diversi saggi sul tema. Lo stesso avviene in Libia: gli scafisti pagano il «pizzo» al protettore che controlla la costa, oppure alla guardia costiera corrotta che finge di non vedere. Ad esempio, il porto di Zuwara è controllato dal gruppo etnico berbero degli Amazigh. Come i clan somali, anche gli Amazigh vivono di traffici e di commercio. Essi hanno la governance del territorio e possono far cessare da un giorno all’altro le partenze. È cruciale intrattenere rapporti diretti con i leader di questi gruppi e offrire loro incentivi per smettere di proteggere il traffico di esseri umani.
Il business degli scafisti viene descritto dai giornali come un «sistema criminale perfetto» e gli investigatori sono alla disperata ricerca di un Boss dei Boss da arrestare. L’ultima illusione europea consiste nell’ingigantire il ruolo dei trafficanti, come Hajj, un laureato in legge di etnia Amazigh che organizza le partenze dal porto di Zuwara, intervistato ieri dal Guardian. Hajj e altri come lui sono dei criminali e degli opportunisti che non potrebbero esistere senza la protezione armata di chi non è direttamente coinvolto nel business. Nel caso della Somalia, diversi clan hanno smesso di proteggere i pirati quando le opportunità di guadagno nei mercati legali erano maggiori del pizzo offerto dai pirati. Nulla vieta di tentare la stessa strategia anche in Libia, un primo passo verso la stabilizzazione del Paese. Le vittime della storia ottengono, per qualche giorno, la simpatia del mondo civile, ma si meritano ben altro.