martedì 21 aprile 2015

La Stampa 21.4.15
“Terrore, morte e schiavitù: ecco da cosa scappiamo”
di Domenico Quirico


Sul molo dieci, al porto, l’unica voce che voglio sentire è quella di un pescatore che vicino alle barche dai dolci nomi di donna, «Paola», «Maria Lucia», guarda la folla dei giornalisti e delle televisioni, le autorità, i soccorritori, che preparano l’arrivo della nave che trasporta i pochi superstiti della tragedia dei migranti. Parla sottovoce, riflessivamente, con quella discrezione che è propria dei marinai; la cautela, quasi il timore, di guastare col pensiero qualcosa che è accaduto e che dipende da elementi tanto incerti, il mare.
Qui, al riparo del molo, non è inospitale, nemico e intrattabile come quello che ha ucciso, continuamente all’assalto della terra, lava perennemente il cemento che regge sicuro l’approdo.
«In mare tutto è matematico, se carichi troppo la barca o sposti il peso ecco che affonda… Non si può barare con il mare».
Via da qui, dunque, via dallo striscione «mai più naufragi», dalle scritte in tre lingue, atrocemente beffarde, che augurano «benvenuti a Catania». Come posso qui, su questo molo, nel vuoto dei morti, spiegare perché i migranti partono e vengono da noi; e perché muoiono. La domanda, l’unica domanda.
Bisogna aprire, anche in me, un sepolcro da gran tempo murato. Io che pure ho accompagnato il loro viaggio, ma per scrivere un articolo e ora mi sembra bestemmia, devo buttarmi con avidità nella loro coscienza, nella parte che sta fitta nella loro carne come una spina: partire. Fino a diventare per tutto il resto ciechi e sordi. Rivedere questi uomini che si muovono, parlano, hanno rapporti, storia drammi, la vitalità, la forza, l’istinto è come ritrovare la vita del creato, degli animali e dei pesci. Bisognerebbe per capire raccontare tutto il dolore del mondo, un mondo di sconfitti a cui stiamo attenti come a una epidemia. Mentre nasconde l’unico vero tesoro.
Ho chiesto ieri a un ragazzo nigeriano, uno che ha fatto il viaggio dalla Libia sulle barche della morte, davanti al campo siciliano di accoglienza che da due anni è la sua casa, se qualche volta aveva rimpianto: sarebbe rimasto a Benin City se avesse saputo ciò che lo aspettava nel viaggio e poi in Europa? Ma poi mi sono accorto che erano pensieri simili al vento, non si condensavano in lacrime né in disperazione perché una cosa non era possibile senza l’altra e quindi neanche l’altra è più ammissibile. Non si poteva restare, non possono restare. Nulla sta fermo, né noi né gli altri. Tutto ciò che restava nel magnifico pomeriggio siciliano nella pianura di Mineo, tra gli ulivi di un verde arrogante, era la malinconia, la malinconia che l’uomo sente per tutto ciò che passa. Ed egli è l’unico essere che lo sa, come pure sa che questo è un conforto anche se non lo comprende.
Per capire è meglio lasciare Catania, la Catania del dolore ufficiale e pubblico, e andare proprio verso Mineo, sulla strada di Caltagirone e di Gela, dove è il più grande centro di accoglienza d’Europa, 3500 ospiti. Perché quella è davvero la destinazione finale del viaggio, non il molo delle autorità e delle telecamere. Mineo dove andranno magari già oggi i sopravvissuti e sarebbero entrati i novecento che invece sono rimasti laggiù, nel mare.
Lungo la strada, ancora lontani dal campo, file di prostitute africane presidiano una campagna vuota di uomini e di campi, dove splendidi fiori gialli che coprono il lordume di pneumatici gettati, mucchi di calcinacci di qualche cantiere, antiche conduttore dell’acqua divelte. Escono con un guizzo dal loro silenzio di agguato, si disputano ogni raro automobilista con grandi gesti di invito. Alcune sono grosse, altre giovani e graziose: vite, tutte, trangugiate e sfiorite. Molte di loro vengono dal campo di Mineo, ma si allontanano per non «dare scandalo», per non attirare con il loro offrirsi le punizioni dei responsabili.
Un gruppo di giovani neri arranca sulle infinite sconnessure della strada spingendo vecchie biciclette. Si vede che hanno appena imparato, sbandano, rischiano ad ogni istante di cadere. Vengono dal Mali, la terra lungo il fiume dove il deserto si spegne ansando nell’Africa dell’acqua e dei giganti vegetali. Conosco la loro città, dove ho visto Al Qaeda uccidere e prosperare.
Hanno lasciato il Campo, si offrono lungo la strada per lavorare in nero per i contadini. Mi raccontano che qui non è come nel Sahel, dove la sabbia avanza e bisogna liberare ogni giorno la poca terra che è buona, bionda e fertile. Intanto la popolazione aumenta e bisogna dar da mangiare ai ragazzi. La guerra degli islamisti scesi dal nord ha completato la rovina. Con le mani diventate aride di cavatori di sabbia che non riescono a stringere un’altra mano tanto sono abituate a una fatica troppo pesante hanno attraversato mezza Africa per venire qui a piantare altri germogli e a raccogliere il frutto di altri. «Tutto cresce così in fretta, una meraviglia, come potevamo restare là a morire? Ci hanno detto che c’era un posto dove scendevano in mare flotte che partivano per il paradiso. Che cosa possono fare gli uomini se non correre dove si posa ricavare dalla natura qualcosa?».
Già. Li lascio all’imbocco di un viottolo che si perde tra gli aranceti, una grande montagna di ceste di plastica gialla li attende. Riconosco questa gente paziente, forte di una forza quasi naturale che noi disprezziamo.
Ecco il campo, il residence delle arance, è scritto nei cartelli segnaletici. Villini lindi un tempo destinati agli americani, il centro sembra essersi cacciato nella valle e essersi addormentato nel sole. Proprio all’ingresso si giocano partite accanitissime di calcio. I soldati presidiano l’uscita e i loro gipponi percorrono costantemente i reticolati che lo cingono. Per entrare occorre un permesso della prefettura: mi spiace, non le faccio perder tempo, mi dice gentilissimo e risoluto un funzionario.
I migranti domani verranno qui, scopriranno che possono assentarsi dal campo per 48 ore. Ma dove possono andare? Un bus è fermo in attesa, fa servizio per Mineo, la cittadina sulla montagna. Lunghe file di auto guidate da gente del posto si allungano intorno: fanno servizio a pagamento per Catania e Messina. Dove i migranti vanno a mendicare, dove c’è meno rischio che vengano individuati. I superstiti del naufragio scopriranno i traffici che sono possibili, vendere comprare scambiare. Fino a ieri avrebbero incontrato gli organizzatori dei viaggi, che vivevano qui e che ora sono in prigione. Si accorgeranno che devono far code per tutto e che è meglio dormire quindici ore, per non finire in qualche rissa o traffico pericoloso.
Sono morti per tutto questo? Per odiare questo lindo carcere aperto nel nulla e per sognare «il documento», l’ossessione che apre le porte del mondo?
«Lo sai perché comunque sono venuto qui?», mi dice un eritreo seduto sul guard-rail come su un mondo: «Perché nel mio paese ero uno schiavo, un vero schiavo fin da bambino, arruolato a spaccare pietre. Qui almeno sono vivo...».
Davanti a queste storie, come possiamo proporre la domanda: perché? Viene tristezza a chiederlo a questo gruppo di ragazzi che si rincorrono sulla strada vuota davanti al campo e ridono di un riso naturale, sano, nuovo, una espressione non consumata da convenienze. Uno è un poco più avanti negli anni e già con un viso più forte e solcato; gli altri, come se il rischio e il pericolo li avesse sfiorati al primo vento della gioventù, si capisce che tutti ubbidiscono a una occhiata di quell’uno.
Lui, che è siriano, infatti risponde: «No, nessuno ci vuole qui, sono uno straniero e potrò esser contento che non mi si scacci in un campo peggiore. Non sono né libero né ricco ma nel mio paese era la stessa cosa. Questo è già un paradiso, un paradiso di ombre se vuoi, separato da tutto ciò che importa agli altri e anche a me. Un paradiso per sperare un momento. Ma mi guardo indietro, dove vivevo io sono solo rovine, due miei fratelli sono stati uccisi, suo fratello, lo vedi quello piccolo?, è stato sgozzato perchè non aveva soldi per pagare il riscatto… dovevano star dietro una ringhiera a guardare i massacri, la gente seppellita viva sotto le macerie? Mentre il sangue monta di un centimetro ogni giorno ringraziare perché voi invece potete alzarvi, bere il caffè, leggere le notizie di noi sul giornale?».
Un ragazzo del Mali e una giovane del Gambia mi chiedono di portarli fino a Catania. Accetto. Gli parlo dei morti in mare, il mare dove anche loro sono passati. Restano in silenzio. La campagna è come tramortita. Stanchezza, vecchiaia, rovina del mondo. Sembra impossibile che possa resuscitare.