martedì 21 aprile 2015

La Stampa 21.4.15
Le scelte possibili per gestire l’emergenza
di Giovanna Zincone


Quello che molti vorrebbero davvero è «non sapere». Sarebbe meglio se nel Mediterraneo si morisse di nascosto, senza fare notizia. E, in effetti, quando i migranti annegano in piccoli numeri riesce facile non fare le somme.
Ora, due catastrofi troppo grandi in meno di una settimana, un altro naufragio a Rodi nella giornata di ieri, non consentono di applicare una comoda sordina. Eppure quel fastidioso peso sulla coscienza, che vorremmo non sentire, non coglie tutti: c’è sempre qualcuno per cui gli immigrati, anche da morti, sono un buona materia prima per polemizzare. D’altra parte, chi cerca di affrontare umanamente e razionalmente questi drammi, lo fa con crescente fatica, perché sa di avere di fronte un problema che, come purtroppo tanti altri problemi umani, non ha risposte pronte e risolutive. Non le ha, sia perché l’esodo è diventato un fenomeno gigantesco, sia perché, a livello internazionale, resta il nodo insoluto del burden-sharing, della disponibilità a condividere almeno in Europa responsabilità e oneri rispetto alla distribuzione dei rifugiati.
Il fenomeno non solo è troppo grande, ma è in aumento. I fuochi di guerra da cui si scappa (Libia, Siria, Iraq, Somalia) non si spengono e i Paesi confinanti vogliono disfarsi degli sfollati. Presenze e flussi insostenibili in termini quantitativi, dopo pesanti atti di terrore da parte di gruppi islamisti, diventano qualitativamente inaccettabili, troppo pericolosi. Il Kenya, anche in seguito all’attentato al campus universitario di Garissa, ha iniziato la costruzione di un muro di settecento chilometri al confine con la Somalia e ha deciso di chiudere il campo profughi che ospita circa mezzo milione di rifugiati somali. Dove andranno? Anche ai rifugiati siriani in Libano si guarda con crescente diffidenza. E, a causa dell’ondata islamista, le minoranze cristiane cercano riparo dalle persecuzioni attuali o attese, pure al di fuori dei Paesi in guerra. Il problema non trova soluzioni credibili, anche perché non sono abbastanza chiare le priorità. Oggi l’obiettivo esplicito pare sia evitare, diciamo meglio limitare, le morti in mare. Si prospetta la distruzione delle imbarcazioni più o meno di fortuna utilizzate dai trafficanti. Si torna ancora a progettare di trasformare l’operazione Triton, scarsamente finanziata e destinata soprattutto al controllo delle frontiere, in una nuova e più robusta Mare Nostrum, indirizzata a individuare e salvare i natanti in pericolo. Tornano le promesse di non lasciare l’Italia sola, arrivano almeno rassicurazioni sulla disponibilità di fondi Ue per rafforzare Triton. Ma poi? Si noti che, al momento del salvataggio, sulla stessa nave o, più convenientemente, in un centro fuori delle frontiere europee dove fossero trasferiti i salvati, dovrebbero iniziare le pratiche per verificare quanti tra i recuperati siano solo clandestini, quanti malfattori di vario genere, e quanti possano avere diritto d’asilo. E, una volta accertata la non palese infondatezza delle richieste di asilo, gli Stati europei dovrebbero farsi carico di accoglierli. Ma nei vari salvataggi, quante persone dovrebbero essere assegnate di volta in volta a quali Stati? Sono stati ideati vari convincenti criteri di suddivisione (ad esempio densità della popolazione, reddito pro capite, disponibilità di strutture di accoglienza); per ora però – come è noto – la presa in carico avviene solo su base volontaria. Secondo la Convenzione di Dublino il compito spetta ai primi Stati sicuri, ai primi regimi democratici dove i rifugiati arrivano; quindi di questi tempi molto spetta all’Italia, che ha visto più che raddoppiare (+141%) le presenze nel 2014. Gli altri Stati possono andare a prendersi i rifugiati nei campi profughi, o accettare di riceverli da un altro Paese membro, ma non sono tenuti a farlo. Né i richiedenti asilo sono liberi di scegliere il Paese sicuro dove vogliono andare. Alcuni Paesi, come la Svezia, sono molto generosi: mentre in Italia i rifugiati sono l’1,1 per mille della popolazione, un po’ meno della media europea (1,2), in Svezia hanno raggiunto l’8,4. Altri Paesi subiscono grandi numeri, come l’Ungheria, perché sono stati di confine Ue; altri ancora, come il Portogallo, si sottraggono al compito. Ma se il recupero avviene in acque internazionali, non c’è uno Stato di confine obbligato ad assumersi l’onere di accogliere e processare le richieste di asilo. Quindi, se chi fa domanda di protezione internazionale non può scegliere liberamente il Paese dove andare, e se mancano criteri di assegnazione consensualmente accettati, come ci si regola? Lo stesso intoppo si presenta rispetto alla proposta di creare centri di raccolta ben prima che i potenziali rifugiati si avvicinino ai confini libici e poi al Mediterraneo, ossia di collocarli in Paesi i cui regimi sono in buoni rapporti con l’Europa. Questi campi di raccolta temporanea dovrebbero essere considerati come zone di competenza di tutta l’Unione, quindi il nodo del burden-sharing si ripresenterebbe in seguito; a meno che non si decidesse di lasciare i potenziali richiedenti asilo, meri clandestini o malfattori, in quei campi fuori dall’Unione Europea e scaricare definitivamente tutto il peso dell’accoglienza sulle fragili spalle di un Paese terzo: una scelta che contribuirebbe a destabilizzare i pochi regimi relativamente stabili dell’area. Anche creare un blocco in una zona controllata del Niger potrebbe impedire l’accesso alla Libia, ma di nuovo non risolverebbe il problema della suddivisione del carico dei profughi. L’alternativa a queste ipotesi, che sono comunque di tipo umanitario e civile, consiste nel respingere tutti indietro infischiandosene del loro potenziale diritto d’asilo e della loro sorte. Ma allora è bene avere il coraggio di dirlo: «di quei bambini sotto le bombe, di quei cristiani decapitati a caso ce ne infischiamo». Senza arrivare a posizioni così drastiche e fortunatamente minoritarie, è inutile nascondersi il fatto che anche l’Europa civile oscilla tra la paura dell’invasione e il dovere di non abbandonare dei disperati. Conciliare questi due sentimenti, fare scelte politiche e trovare strumenti adeguati che ne tengano conto non è certo facile. Provarci è un dovere.