venerdì 17 aprile 2015

La Stampa 17.4.15
Il vuoto e la voglia di far sapere
Le lettere degli scampati ai Lager
Il museo dell’Olocausto di Gerusalemme rende pubbliche le prime missive scritte subito dopo il 1945. “Sono sopravvissuto, il resto è perduto”
di Maurizio Molinari


«Mio figlio di 11 anni è stato gasato, mi chiedo perché sono sopravvissuta, era meglio morire»: la lettera di Olga alla zia Jenny è una delle centinaia scritte dai sopravvissuti all’Olocausto subito dopo la liberazione dei campi. Il centro di ricerche dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, le ha raccolte sin dagli Anni Sessanta e in occasione del 70° Giorno dell’Olocausto, che Israele ha celebrato ieri, ha deciso di renderle pubbliche anticipando l’uscita del libro Sono sopravvissuto, il resto è perduto. «Le lettere sono la prima testimonianza che abbiamo da parte dei sopravvissuti - spiega Iael Nidam-Orvieto, direttore dell’Istituto internazionale di ricerca sull’Olocausto che ha curato il progetto assieme a Robert Rozett, direttore delle Biblioteche dello Yad Vashem - e ci consentono di comprendere cosa provarono, pensarono e fecero nei giorni immediatamente seguenti l’apertura dei cancelli dei lager».
Lo spunto per la ricerca nasce dalla missiva che Primo Levi, appena liberato, scrisse alla famiglia. Godfried Bolle, nell’agosto 1945, riassume così al fratello Leo, ad Amsterdam, il senso della «prima lettera»: «Finalmente riesco a farlo». E poi aggiunge: «Ne seguiranno altre con i dettagli su quanto di terribile è avvenuto alla nostra famiglia, così che possiate farlo sapere agli altri». Negli ultimi tre anni lo Yad Vashem è entrato in possesso di centinaia di «prime lettere» di sopravvissuti grazie all’iniziativa «Raccogliamo i frammenti» che ha portato migliaia di famiglie a consegnare ogni tipo di oggetti risalenti al periodo della persecuzione e dello sterminio di sei milioni di ebrei europei da parte dei nazisti e dei loro alleati.
I contenuti dei testi aiutano ad entrare nelle menti di chi era appena scampato alla morte. «Scrivono anzitutto per ricordare chi non c’è più, per far sapere ai famigliari cosa è avvenuto - spiega Nidam-Orvieto - ma anche per esprimere una forte voglia di ricominciare a essere vivi, fare progetti, immaginare attività, iniziative, vite possibili».
Colpisce, in ogni testo, l’assenza totale di euforia per l’avvenuta liberazione da parte degli alleati. Prevale, pagina dopo pagina, una netta sensazione di vuoto che si tenta di colmare ricostruendo quanto avvenuto e guardando all’avvenire possibile, spesso nella Palestina meta dell’emigrazione ebraica o anche negli Stati Uniti «terra dove si lavora duro ma si respira liberamente» come scrive una giovane all’ex insegnante Zvi.
La descrizione dell’inferno appena attraversato è minuziosa, sempre accompagnata alla scelta di frenarsi nel racconto. «Ho avuto il tifo ed ho particolarmente sofferto la fame, era terribile lavorare dalle 3 del mattino fino a notte avendo fame, ci sono state volte che la fame era tale da accecarmi - scrive Olga, sopravvissuta ad Auschwitz e Bergen Belsen - a sorvegliarci erano i cani delle SS, sono ancora piena dei segni dei loro morsi, ma non voglio più scrivere di queste cose, è incredibile che degli esseri umani abbiamo fatto ciò ad altri esseri umani».
Poi c’è il «come» queste lettere furono scritte: in una moltitudine di lingue europee, in yiddish ed anche nell’ebraico allora poco adoperato, indirizzandole a qualsiasi persona o ente conosciuto. Come se il bisogno di scrivere, comunicare, prevalesse sull’identità del destinatario. «C’è chi spedisce la lettera ad un’organizzazione ebraica o sionista, chi scrive alla famiglia, chi a lontani conoscenti e chi a singole persone conosciute limitando a indicare come località la città dove immagina che possano trovarsi».
Esprimendo il desiderio di ricominciare ad esistere. Come fa la giovane scampata che, ricevuta la prima lettera di risposta, ammette di «averci giocato» assaporando il ritorno alla vita.