Il Sole Domenica 26.4.15
La lotta armata
Il fascino della violenza plateale
di David Bidussa
Alla fine degli anni ’70, scrive Gabriele Donato nella parte finale del suo libro, «si diffuse la drammatica illusione che le perdite inflitte agli avversari in termini di vite umane, fossero l’unico fattore realmente decisivo nell’equazione che avrebbe dovuto produrre il risultato della rivoluzione».
Il confronto politico sulla lotta armata, giustamente secondo Donato, ha altro significato se letto non nella parabola cupa dell’ultima stagione delle Br, ma prima, negli anni dei movimenti, nei primi anni ’70, piuttosto che alla fine di quel decennio.
La discussione che l’autore ricostruisce attentamente, testimonia, infatti, che la scelta della lotta armata non discende, se non marginalmente, dalla convinzione che in Italia stesse maturando un possibile “golpe”. È conseguente, invece, alla convinzione in alcune aree della sinistra estrema, successiva alle lotte dell’“autunno caldo” del 1969, che occorresse «alzare la posta dello scontro» e che fosse possibile «l’assalto al cielo».
Ciò che segna questa convinzione non è la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), ma le lotte operaie dell’estate di quello stesso anno che in gran parte mettono fuori gioco i sindacati. Nel corso dell’autunno i sindacati in parte recuperano il loro ruolo. Questo recupero, a fronte di un livello altissimo di forza operaia nelle fabbriche, è ciò che convince a spostare lo scontro sul piano politico, quello della guerra contro lo Stato, affidandosi alle armi.
Che la lotta armata fosse una scelta politica fondata sull’idea di vivere un momento decisivo del confronto sociale è provato anche da un secondo fatto su cui insiste opportunamente Donato: quella discussione avviene “in pubblico”.
I documenti che corrono in quegli anni – tra 1969 e 1972, infatti, si trovano sui fogli dei movimenti (Lotta Continua, Potere operaio) il cui interlocutore è soprattutto il Collettivo politico metropolitano (Cpm), la formazione che costituisce l’anticamera delle Brigate Rosse. E sono documenti pubblici.
Che caratteristiche ha quella discussione? Dell’ampia e dettagliata lettura che ne dà Donato, fino alla primavera 1972 l’espressione “lotta armata” allude a significati diversi: azione esemplare, stimolo a un innalzamento dello scontro, raramente sostituzione rispetto alle lotte sociali.
Il sequestro del dirigente della Sit - Siemens Idalgo Macchiarini (3 marzo 1972) cambia il quadro. Un rapimento che dura pochi minuti. Macchiarini viene rinchiuso in un furgone e gli viene scattata una foto: una pistola alla guancia, in primo piano un cartello con la scritta «Mordi e fuggi! Niente resterà impunito. Colpiscine 1 per educarne 100», sovrastato dalla scritta “Brigate Rosse”. La lotta da quel momento è armata.
Quel che poi segue, tuttavia, non è la crescita del conflitto sociale così come Potere operaio, una parte di Lotta Continua e il Cpm ritengono. Il sindacato riuscirà a reggere il confronto contrattuale nell’autunno 1972, la campagna politica contro la Democrazia Cristiana, volta ad accreditare il partito come una forma aggiornata di fascismo, fallisce. La scelta che dal 1973 matura verso la lotta armata che spacca Potere operaio trasforma il Cpm nelle Brigate Rosse, allontana da Lotta continua una parte di quei militanti attratti verso la scelta estremista delle armi: si forma la consapevolezza che un ciclo di lotte si è chiuso.
Si apre una nuova stagione segnata da una violenza che comunica: svalorizzazione del corpo del nemico; fascino per la “bella morte”; estetica dell’atto plateale. Il fine non è creare una nuova condizione rivoluzionaria, bensì dare testimonianza della propria irriducibilità. È una stagione che durerà un decennio e che segna definitivamente un prima e un dopo.
Gabriele Donato, La lotta è armata. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica (1969-1972) , Derive Approdi, Roma, pagg. 380, € 23,00