Il Sole 8.4.15
Se le strade di Usa e Israele si separano
di Vittorio Emanuele Parsi
Come aveva pubblicamente annunciato il governo di Tel Aviv sta tentando di far naufragare “a qualsiasi costo” l’intesa tra la comunità internazionale e l’Iran sul programma nucleare. Bibi Netanyahu, forte di una insperata riconferma elettorale, ha individuato nella Casa Bianca l’anello fondamentale su cui esercitare la massima pressione affinché l’accordo politico preliminare non si trasformi in una intesa definitiva.
Com’è evidente, se gli Stati Uniti facessero marcia indietro, ovvero se avallassero un’interpretazione dell’intesa diversa da quella fin qui sostenuta e inaccettabile per l’Iran, tutto andrebbe a carte quarantotto e il faticoso processo di riavvicinamento tra Washington e Teheran si trasformerebbe nel suo opposto: la sanzione di un’inconciliabile opposizione, che darebbe libero sfogo alle posizioni degli intransigenti da una parte e dall’altra. Netanyahu non può non sapere che il presidente Obama si gioca tutto proprio sulla definitiva conclusione di un’intesa con l’Iran. In fondo, per lui, è giunto il momento di meritare sul campo quel Premio Nobel per la Pace incautamente assegnatogli all’inizio della sua presidenza. Ma il falco di Tel Aviv sa anche che nel Congresso dominato dai repubblicani molti rappresentanti e molti senatori sarebbero ben felici di assestare un colpo mortale al sogno di Obama di passare alla storia, oltretutto condividendo una totale diffidenza verso la Repubblica islamica ed essendo sempre pronti a offrire a Israele un sostegno incondizionato.
Così, tra il premier dello Stato ebraico e il presidente degli Stati Uniti è iniziato un vero e proprio gioco a rimpiattino sui media americani (dal New York Times ai grandi network televisivi), in cui il primo cerca di far passare il secondo per un ingenuo e pericoloso dilettante, mentre il secondo insinua il dubbio che l’altro stia sciupando l’opportunità storica di rendere il Medio Oriente più sicuro per tutti (Israele compreso) a causa delle sue paranoie. In realtà ciò che si sta consumando sono gli effetti di una parziale e progressiva divaricazione tra la politica mediorientale di Washington e Tel Aviv. Per l’America la priorità è diventata sconfiggere il fondamentalismo radicale sunnita, eliminare Daesh ed evitare che un solo Paese possa condizionare il flusso del petrolio estratto nella regione. A tale scopo è necessario impedire che l’Arabia Saudita possa ottenere l’egemonia sul Levante, rendersi autosufficiente in termini di difesa e quindi sempre più autonoma e meno controllabile nella sua politica estera ed energetica dagli Stati Uniti. In quest’ottica, il progressivo rientro in gioco dell’Iran – di un Iran non più estremista come ai tempi della presidenza di Ahmadinejad e pienamente affidabile sulla natura esclusivamente civile del proprio programma nucleare – è un elemento fondamentale. Israele viceversa ha scelto di giocare fino in fondo la carta saudita in funzione anti-iraniana, prendendo partito a fianco dei sunniti nella loro battaglia contro gli sciiti, e valutando che per la propria sicurezza i guerriglieri sciiti libanesi di Hezbollah siano più pericolosi delle milizie sunnite siriane di Jabat al-Nusra.
Si tratta di valutazioni legittime, per gli uni e per gli altri evidentemente, ma che marcano il tramonto dell’automatica sovrapposizione tra gli interessi di sicurezza israeliani e quelli americani, sulla quale fino ad ora Israele ha sempre potuto contare. «L’accordo non dipende dal riconoscimento di Israele da parte dell’Iran», ha chiarito Obama a un Netanyahu che aveva provato anche questa carta per farlo saltare: ovvio, ma per nulla scontato fino a pochi anni fa. Parafrasando le parole di Netanyahu nel suo discorso al Congresso Usa, «i nemici dei miei amici non sono necessariamente e sempre i miei nemici» e, oggi, per combattere Daesh, l’apporto delle milizie sciite libanesi e irachene e dello stesso Iran è difficilmente sottovalutabile. Tanto più quando l’impegno sullo stesso fronte dei propri amici appare parecchio “distratto”.
Nulla testimonia maggiormente la siderale lontananza odierna tra Washington e Tel Aviv delle parole con cui il premier israeliano ha descritto l’Iran: «Lo Stato più terrorista del mondo», quando, se si guarda ai fatti, l’Arabia Saudita e non l’Iran è la principale responsabile della progressiva islamizzazione della politica mediorientale, della moltiplicazione di movimenti politico-religiosi radicali e della crescita esponenziale della minaccia terroristica di matrice islamista (al-Qaeda, Daesh, Jabat al-Nusra, Shebab, Boku Aram). Ma anche le parole del presidente Obama, volte a rassicurare l’opinione pubblica americana e israeliana sull’impegno Usa a difesa di Israele, hanno sottolineato questa nuova distanza, nel voler rimarcare un concetto: «L’America sarà sempre a fianco di Israele in caso di attacco». Appunto: in caso di attacco; ma non qualora Israele dovesse decidere un’azione militare unilaterale e preventiva contro gli impianti nucleari iraniani. Un punto fermo, quello espresso dal presidente Obama, destinato a restare tale almeno finché l’accordo di Losanna sarà ritenuto valido dagli Stati Uniti: un fatto che spiega piuttosto bene la foga con cui Netanyahu sta facendo “campagna” affinché il Congresso lo ripudi…