Il Sole 5.4.15
Ora il cristianesimo rischia di scomparire nei luoghi dove è nato
di Alberto Negri
Un terrorismo anti-cristiano e soprattutto anti-umano, questo suggerisce la strage degli Shabab somali al college di Garissa in Kenya. Un massacro che ricorda quello, già dimenticato, attuato nel dicembre scorso dai talebani pakistani di 144 studenti alla scuola militare di Peshawar, territorio al confine con l’Afghanistan dove il Califfato fa sempre più proseliti.
Le vittime di questa violenza estrema che usa la religione come un marchio sono sia i cristiani che i musulmani perché è in atto una profonda lacerazione nell’Islam che travolge un’intera civiltà, infiammando conflitti di natura etnica, economica e sociale.
Quando si parla di religione entra in gioco inevitabilmente anche la geopolitica. Il cristianesimo dove è nato rischia di scomparire. In Medio Oriente la tendenza si è accelerata con la guerra americana in Iraq nel 2003: alla caduta di Saddam Hussein, che aveva un vice caldeo, Tarek Aziz, i cristiani, fino a quel momento protetti dal regime sunnita, presero la fuga, e di oltre un milione e mezzo ne sono rimasti centomila, in gran parte scacciati in Kurdistan dall’avanzata dello Stato Islamico.
Accade lo stesso da quattro anni in Siria, dove il potere, monopolizzato dagli alauiti, si è storicamente appoggiato ad altre minoranze religiose per controbilanciare i sunniti. Ma in Siria si è verificato anche il paradosso positivo, assai poco menzionato, che sono stati dei musulmani, gli sciiti Hezbollah, alleati di Damasco e Teheran, a liberare villaggi cristiani come quello di Maloula, dove si parla l’aramaico di Gesù Cristo, sconfiggendo gruppi islamici sunniti come Jabat Al Nusra (sostenuti dal Qatar e dai sauditi) che avevano incendiato le chiese e profanato gli altari. Ma con il Califfato alle porte di Damasco sarà difficile vedere oggi quello che un tempo era una consuetudine: le processioni di Pasqua al tocco delle campane .
A Garissa sono stati uccisi i cristiani, la prossima volta potrebbe toccare agli studenti musulmani soltanto perché vogliono educarsi e uscire dall’ignoranza che insieme alla violenza è il carburante dei jihadisti della nostra epoca. Del resto gli Shabab somali, dal 2012 integrati con al Qaeda, somigliano molto ai Boko Haram della Nigeria, il cui nome significa che l’istruzione occidentale è proibita. I Boko Haram, che hanno aderito al Califfato, destabilizzano un’intera regione con l’obiettivo di smantellare la Nigeria dove i cristiani sono maggioritari al Sud e i musulmani al Nord. Con i Boko Haram per i cristiani non c’è posto, le chiese sono state tutte bruciate, ma anche i musulmani se la passano male, stritolati dalla legge islamica accompagnata da esecuzioni sommarie.
Un aspetto inquietante è che l’attacco a Garissa, come quello al centro commerciale di Nairobi del 2013, è stato ideato da Mohammed Kuno che prima di aderire alle Corti islamiche e al movimento jihadista al-Shabab, era stato preside di una madrassa, una scuola islamica, proprio a Garissa. Già nel 1998, quando al-Qaeda fece esplodere le bombe alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salam, le scuole coraniche del Nord Est si segnalavano nella diffusione del verbo estremista e anti-occidentale.
Ma come è accaduto che al-Shabab, in ripiegamento di fronte alle truppe locali e dell’Unione africana, si stia allargando al Kenya? Il problema, oltre all’instabilità cronica della Somalia cominciata con la caduta di Siad Barre nel ’91, è proprio il Kenya diventato un nemico diretto degli islamisti da quando è entrato in guerra insieme all’Uganda nel 2011. Il Kenya, 40 milioni di abitanti, ha 70 etnie, e nel Nord Est di Garissa la maggioranza è costituita da 2,5 milioni di somali musulmani cui si sono aggiunti in questi anni 450mila profughi.
Questo territorio, che dalla fine del colonialismo britannico coltiva spinte separatiste, è uno dei più poveri del Kenya. Qui e sulla costa gli islamisti hanno fatto proseliti facendo leva sulle rivendicazioni dei musulmani nei confronti dei cristiani dell’interno, denominati con un termine peggiorativo i wachenzi, i selvaggi. E quando il governo del presidente Uhuru Kenyatta si è lanciato in una dura repressione nel Nord Est, la comunità somalo-kenyota si è rivolta per vendicarsi agli Shabab di cui prima diffidava.
Ma perché la geopolitica è fondamentale per combattere il jihadismo? Lo ha spiegato bene il Papa a Erdogan in Turchia: «Sarebbe bello che tutti i leader islamici condannassero questi atti dicendo: noi musulmani non siamo questo, il Corano non è questo». Cristiani e musulmani, insieme, aspettano ancora che questo accada.