sabato 4 aprile 2015

Il Sole 4.4.15
Londra al voto
Le elezioni inglesi ostaggio del nazionalismo scozzese
L’Snp rischia di diventare terzo partito e ago della bilancia
di Leonardo Maisano


Londra Va male tutto, anche un’intramontabile gloria come il whisky. Le esportazioni sono calate del 7,4% ai minimi dell’ultimo ventennio sotto i colpi del Bourbon americano che ha sullo Scotch lo stesso effetto dello shale oil sul prezzo del barile. La caduta del liquore nazionale mima, infatti, quella della ricchezza nazionale, il petrolio del mare del Nord che avrebbe dovuto finanziare la secessione dal Regno Unito. Edimburgo l’ha scampata per un pugno di voti nel settembre scorso. Scampata proprio, alla luce di come sarebbero andate le finanze di uno Stato indipendente, fiaccate dalla congiuntura che deprime i costi dell’energia oltre ogni ragionevole previsione. La propaganda nazionalista nei giorni precedenti la consultazione popolare insisteva sulla ”convenienza della solitudine” grazie alla generosità dei pozzi off shore, unica vera garanzia di gettito per le casse dei territori oltre il Vallo. Oggi la Scozia si ritroverebbe con il cappello in mano. Ne deriva, per associazione logica, che i sostenitori della secessione dovrebbero essere in umiliante ritirata.
I sondaggi dicono il contrario: perduta la battaglia per l’addio da Londra, uomini e donne di highlands e lowlands si preparano a invadere Westminster. È l’unico dato certo di elezioni nel segno della più assoluta incertezza. Tutti gli istituti di statistica assegnano allo Scottish national party un successo senza precedenti alle elezioni britanniche del 7 maggio, in marcia verso il terzo posto alla Camera dei Comuni, alla spalle di Tory e Labour. A pagare il prezzo più alto sono i laburisti e LibDem – i conservatori eleggono un solo parlamentare nei collegi oltre il Vallo – destinati ad essere decimati da una spinta nazionalista che porterebbe, per taluni, l’Snp sulle soglie dell’en plein, conquistando 56 dei 59 deputati che si assegnano in Scozia. London school of economics è meno radicale nel suo studio sulla dinamica elettorale, ipotizzando 40 deputati per Snp, un multiplo rispetto ai 6 eletti del 2010. Il consenso per i nazionalisti è al 4% su base nazionale quindi, in termini percentuali, è molto più contenuto rispetto al moltiplicatore garantito dal sistema elettorale britannico, il first past the post. Ovvero quel maggioritario secco che, invece, penalizza Nigel Farage e l’Ukip. Il sostegno popolare per il partito eurofobo, dicono i sondaggi, sta calando dal 20% che mediamente si registrava nei mesi scorsi al 12-15 % di oggi, ma a sconfiggerli – sulla carta – è il meccanismo di calcolo del voto che agisce in modo speculare al “favore” che, il meccanismo stesso, garantisce a Snp. A fare la differenza è la concentrazione territoriale del consenso nel caso scozzese, a fronte della diffusione sul territorio nazionale dell’Ukip che così cade nella tagliola del maggioritario British style e rischia di eleggere solo un paio di Members of Parliament.
La slavina tartan è su Westminster, ben rappresentata dal contrappasso storico che si va delineando a Glasgow dove cinque dei sette seggi Labour dovrebbero passare ai nazionalisti con uno swing di cui pochi hanno memoria, visto che i laburisti non perdono un deputato nella città da più di trent’anni. La slavina farà più danni al partito di Ed Miliband in Scozia di quelli che potrà fare l’Ukip ai Tory in tutto il Regno, ma le conseguenze non finiscono qui. La crescita dell’Snp di fatto renderà ingovernabile il Paese se è vero che l’impalpabile maggioranza che Lse assegna ai Tory sul Labour (4 deputati) non basterà per mantenere David Cameron a Downing street, rendendo come ipotesi più probabile un governo di minoranza abbarbicato ai voti nazionalisti. In altre parole, un esecutivo con un premier Labour e con il sostegno esterno di LibDem e Snp. Per la City è lo scenario peggiore. E non solo perché la Gran Bretagna marcia verso un lessico politico da Italia della Prima Repubblica, inoltrandosi nei meandri dell’instabilità di governo, fatta di multiple coalizioni e patti di non belligeranza. L’impronta socialista tradizionale (rispetto alla Terza Via di Tony Blair) del Labour di Ed Miliband, infatti, coniugata con il moltiplicatore radicale dell’Snp, porterà a spinte ancor più estreme su welfare e spesa pubblica, ma anche su temi come il nucleare con i Trident al centro di un delicato dibattito che coinvolge sicurezza e difesa del Regno. I rischi sono soprattutto altri, gli stessi paventati dal dibattito secessione.
«Se Snp faràun accordo con il Labour – spiega Tony Travis scienziato della politica, esperto di dinamica del consenso alla London School of Economics - avrà influenza importante sulle scelte nazionali. Tratterà per spuntare benefici a favore di Edimburgo, innescando così la reazione degli elettori inglesi o delle altre nazioni». È il timore ultimo della dissoluzione del Regno, quello stesso che si era materializzato con il referendum scozzese e che riemerge per l’effetto perverso di un sistema elettorale inadeguato al mutare dei tempi. La debole rappresentatività del first past the post britannico funzionava, in uno scambio tacito con la stabilità politica, nel mondo bipolare di Tory e Labour. Oggi le forze in campo sono sette e il bacino dei due grandi partiti che un tempo si spartivano il 90% dei voti è al 65-68 per cento. La frammentazione avanza oltre la Manica riscrivendo la storia. Con la erre arrotata in gran voga da Edimburgo in su.