Il Sole 22.4.15
Dal voto rinnegato al trionfo della tattica
di Barbara Fiammeri
La storia della Repubblica di «strappi» ne ha visti parecchi. Ma quel che sta avvenendo sull’Italicum regala nuovi e certo poco lusinghieri episodi «senza precedenti». È da un anno e mezzo che si discute di riforma elettorale. Giusto un anno fa arriva il primo sì della Camera. Poi, dopo una lunga trattativa sia all’interno della maggioranza che con Fi, a gennaio il Senato partorisce il nuovo Italicum. Passano poco più di due mesi e tutto viene nuovamente rimesso in discussione. Forza Italia arriva addirittura alla scelta estrema di seguire M5S, Sel e Lega nell’abbandono dei lavori della commissione, per protestare contro la decisione del Pd di sostituire i deputati della minoranza interna, i quali a loro volta sono divisi sia sul merito delle modifiche all’Italicum sia sulle modalità per esprimere il dissenso.
Un caos che probabilmente ha poco a che fare con i contenuti della legge elettorale. Difficile infatti credere che la battaglia contro il mancato ritorno alle preferenze invocato dalla minoranza dem rappresenti davvero una minaccia per la democrazia, quando fu proprio la sinistra a schierarsi per prima contro quello che un tempo veniva ritenuto il volano del voto di scambio. E altrettanto poco credibile è Fi, che oggi si schiera contro una riforma definita di stampo autoritario e che proprio Silvio Berlusconi nei mesi scorsi non aveva mancato di apprezzare pubblicamente e sulla quale si era consumata la rottura con Raffaele Fitto.
Certo la minoranza Pd può rivendicare che già in occasione del passaggio a Palazzo Madama aveva manifestato il proprio dissenso abbandonando l’aula al momento del voto. E Renato Brunetta, capogruppo alla Camera di Fi, non mancherà di ricordare che in questi tre mesi si è consumata la rottura del Patto del Nazareno sull’elezione del Capo dello Stato. Ma basta tutto questo per giustificare la scelta aventiniana? E perché la minoranza Pd ritiene legittimo non rispettare le decisioni della maggioranza del proprio gruppo?
Quel che emerge è che l’obiettivo, il vero e forse unico obiettivo, è Matteo Renzi. Il premier ne è consapevole. Per questo metterà la fiducia sui quattro articoli della legge elettorale. Un altro strappo, non c’è dubbio. E per altro non sufficiente a garantirgli di passare indenne dal fuoco incrociato che si aprirà a Montecitorio in occasione del voto finale, che sarà segreto. È ovvio che se il governo ottenesse la fiducia ma poi la maggioranza venisse meno nel voto segreto, Renzi, come ha già detto e ripeterà, salirà al Quirinale per rassegnare le dimissioni e chiedere il ritorno davanti agli elettori. Una prospettiva che spaventa non pochi, anche nelle opposizioni, tanto che c’è già chi parla di un esercito di «franchi soccorritori». Le divisioni dentro Fi sono già palesi. E non si tratta solo dei deputati che fanno capo a Denis Verdini (una decina) ma di quei tanti peones che temono di vedersi tagliati fuori per sempre dal Parlamento perché non inclusi tra i “fedelissimi”. Discorso che vale ovviamente anche per gli ex grillini e per i tanti che grazie al Porcellum sono diventati «onorevoli».