martedì 21 aprile 2015

Il Sole 21.4.15
La via stretta di Renzi e il rischio urne prima del 2018
di Emilia Patta


Via i capilista bloccati e sì agli apparentamenti tra liste per il ballottaggio. Oppure, in alternativa, riscrittura dell’articolo 2 del Ddl Boschi sulla composizione e la modalità di elezione del nuovo Senato. Queste le richieste della minoranza del Pd in cambio del via libera definitivo all’Italicum previsto alla Camera per i primi di maggio. E da qui l’incaglio che ha portato alle dimissioni del capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza e al rischio di una grave rottura politica.
Vista l’«intoccabilità» dell’Italicum 2.0 più volte dichiarata dallo stesso Matteo Renzi e votata prima dalla direzione del Pd poi dall’assemblea del gruppo dei deputati, gli eventuali margini per ricucire lo strappo vanno cercati sull’altro fronte, quello della riforma del Senato. Il collegamento non è pretestuoso come potrebbe apparire a prima vista, perché come ha spiegato l’ex leader Pier Luigi Bersani si tratta di «un combinato disposto» che porterebbe a un Parlamento quasi tutto di nominati. Il meccanismo dei capilista bloccati e della doppia preferenza di genere per gli altri in lista fa sì che i partiti minori abbiano tra i loro eletti quasi tutti capilista bloccati: da qui, nell’ottica bersaniana, la richiesta di un riequilibrio che introduca qualche forma di scelta diretta da parte dei cittadini per il futuro Senato delle Autonomie. Ma è anche noto alla stessa minoranza del Pd che riscrivere l’articolo 2, regolamento del Senato alla mano, non si può: è possibile infatti intervenire solo sulle parti nel frattempo modificate dalla Camera e l’articolo 2 non è tra queste. Quindi, a meno che la minoranza del Pd non punti a un possibile accordo sulla legge ordinaria che disciplinerà l’elezione indiretta dei nuovi senatori, la richiesta equivale di fatto a ricominciare daccapo. Richiesta inaccettabile per Renzi. Così come per lui è inaccettabile riportare l’Italicum nella “palude” del Senato dove i numeri per la maggioranza sono risicatissimi (meno di 10) e i dissidenti del Pd sono una trentina.
Questione di numeri e di tempi, ma non solo. Perché è chiaro che la battaglia della minoranza nasconde, e neanche troppo bene, una prova di forza sull’attuale leadership. Su tutto, un’idea diversa di partito: a vocazione maggioritaria per Renzi, partito che riesca ad attrarre nell’area coalizionale tutta la sinistra per la minoranza. Sono questioni legittime, ma da affrontare più nel futuro congresso di partito che cambiando due aspetti di una legge elettorale che ha comunque il pregio di dare al Paese governabilità. Legge elettorale che nel suo impianto - va ricordato - ricalca la cosiddetta proposta D’Alimonte-Violante ripresa nel documento finale dei saggi nominati dal governo Letta. Così come il Ddl Boschi si inserisce nella linea riformatrice della “bozza Violante” (2007), peccando semmai di eccessiva prudenza dal momento che quella bozza prevedeva il potere del premier di nominare e revocare i ministri. Si capisce allora anche la “fretta” di Renzi, che ha legato il suo mandato a Palazzo Chigi proprio al superamento di un sistema politico bloccato dopo la sentenza della Consulta che ha prodotto un proporzionale quasi puro.
Uno scontro frontale senza via d’uscita, al momento, se non quella della fiducia. Che arriverebbe dopo la sostituzione dei membri “dissidenti” in commissione Affari costituzionali effettuata ieri e definita «non indolore» dai protagonisti (Bersani, Cuperlo, Bindi e D’Attorre tra loro). Una rottura così plateale comporta naturalmente dei rischi per il governo: approvare l’Italicum a colpi di fiducia senza trovare un accordo politico sulla riforma del Senato rischierebbe di accorciare di fatto la legislatura al di là delle intenzioni del premier, mettendo a rischio anche le necessarie riforme economiche messe in campo. Perché sempre con questo Parlamento deve fare i conti Renzi fino al 2018, e la minoranza del Pd in Senato è in condizioni di affossare o ritardare qualsiasi provvedimento. Insomma, i numeri e il buon senso politico consiglierebbero a Renzi di vincere senza stravincere, senza umiliare la minoranza del suo partito; d’altra parte ricominciare daccapo sulla riforma del Senato non appare possibile: questa la via stretta del premier, che forse ha già in messo in conto le possibili urne prima del 2018.