Corriere 3.4.15
Giganti di rivalità
Borromini , una vita a opporsi al dominio del superbo Bernini e lo scontro accese il Barocco
di Francesca Bonazzoli
Politicamente ai margini dell’Europa, l’Italia del Seicento era diventata, secondo la definizione del Sorel, il «mercato dei regni» offerti come merce di scambio nelle contese fra Francia, Spagna e Austria. Il solo grande potere che ancora reggeva era quello della chiesa romana, perfettamente attrezzato per la propaganda.
L’esaltazione dei santi, il culto dei martiri, la militanza della fede nei nuovi continenti, l’esercizio del potere, si manifestavano attraverso uno stile spettacolare, un’ebbrezza trionfale delle immagini cui fu dato il nome di Barocco. La città eterna era il centro d’irradiazione del nuovo linguaggio artistico che, intorno al 1630-40, favorì la collaborazione fra tutte le arti (architettura, pittura, scultura) come era avvenuto nel Trecento con il gotico.
La storia di questo stile passa attraverso migliaia di artisti che scendevano a Roma dall’intera Europa, ma su tutti, due furono le personalità che ne segnarono le fortune internazionali: Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) e Francesco Castelli, detto Borromini (1599-1667).
Tuttavia i due genii del Barocco non potevano essere più diversi. Anzi, si può dire che Borromini dedicò la vita a contraddire il rivale: se il primo dilatava illusionisticamente gli spazi, il secondo li contraeva; se l’uno mirava all’espansione urbanistica, l’altro si concentrava sui particolari bizzarri degli edifici. Bernini era consapevole di essere il più grande artista d’Europa. Tracotante e superbo, ricercatissimo per la brillante conversazione, i motti e le caricature, ma anche «padron del mondo» detestato dai colleghi, fu lui il regista della Roma barocca, al servizio di otto papi. Scultore, pittore, architetto, urbanista, scenografo e commediografo, fu il leader geniale di quell’avanguardia artistica che invase l’Europa e il mondo, fino all’America Latina. Adolescente è già «così celebre per Roma, che da tutti universalmente era acclamato, e mostrato a dito, come giovane di non ordinaria aspettazione». Poco più che ventenne diventò presidente dell’Accademia di san Luca. A 23 anni Gregorio XV lo nominò Cavaliere di Cristo. E quando, nel 1655, Alessandro VII salì al soglio pontificio, fu la prima persona che mandò a chiamare.
Solo papa Innocenzo X gli preferì il Borromini. Costui, partito dal Ticino, aveva lavorato a Milano come scalpellino e aveva continuato in questa modesta attività a Roma presso il Maderno, lontano parente, prima di riuscire a mostrare il suo incredibile talento nella minuscola chiesa di san Carlo alle Quattro Fontane. Aveva un carattere introverso e irascibile e tutta la vita fu amareggiato dallo strapotere del Bernini, che lo denigrava e gli sottraeva spazio. Vero è che Bernini, avido di committenze, «vomitava per tutto veleno, e sempre seminava spine pungentissime di avversioni per quel sentiero che conduceva al possesso di altri lavori», scriveva Giovan Battista Passeri.
Con un abile trucco soffiò a Borromini, che ne aveva ricevuto l’incarico, anche la committenza dell’odierna fontana dei Fiumi, in piazza Navona. Introdusse in casa dell’ostile Innocenzo X un modellino in argento della fontana e il papa capitolò: «Bisognerà pure servirsi del Bernini... perché a chi non vuole porre in opera le cose sue, bisogna non vederle».
Inutile dire che, appena ne aveva l’occasione, Borromini ne approfittava per vendicarsi come quando, nel 1662, richiesto di ampliarne lo spazio, fece abbattere la cappella dei Re Magi costruita una ventina di anni prima da Bernini nel palazzo di Propaganda Fide.
Non contento, pare che Borromini fece poi scolpire grandi orecchie d’asino sulla sommità della facciata per sfregio nei confronti del rivale il quale aveva lo studio-abitazione nel palazzo di fronte. In risposta, Bernini collocò la scultura di un grande pene tra i mensoloni del suo palazzo, ma entrambe le «opere» furono fatte scalpellare per decenza.
Quando, con l’elezione di Alessandro VII, l’attività di Bernini riprese il suo passo trionfale, per Borromini l’umiliazione divenne insostenibile. Il 2 agosto del 1667, a sessantotto anni, si gettò sopra una spada. Sopravvisse l’intera giornata, perfettamente cosciente, e dopo aver fatto testamento, si liberò dell’incubo del suo nemico.