venerdì 3 aprile 2015

Corriere 3.4.15
Adonis, il poeta che si fa pittore e va a caccia della propria infanzia
di Sebastiano Grasso

Già di per sé, la calligrafia islamica è un’opera d’arte, anzi l’unica arte araba. Se, poi, fa da sfondo a figure colorate (nero e verde; arancione, blu e giallo; grigio e nero; verde acqua e verde scuro; rosso e bianco; nero e giallo), il risultato può diventare sorprendente. L’autore? Adonis (Qassabin, Siria, 1930), il maggiore poeta arabo vivente, che da 25 anni si è dato anche alla pittura. Un rapporto diretto con il corpo, con la vita di tutti i giorni, con l’inconscio. Il poeta si confronta con Nietzsche, con il Faust di Goethe, con gli dei dell’Olimpo che predispongono i destini e dominano l’antica Grecia. «Qualcuno dirà che io faccio dei collages per ricompensare la mia infanzia, ma non è così. Io ho perduto la mia infanzia, non l’ho mai conosciuta. Sono nato già uomo».
All’«uomo senza infanzia», Parigi dedica un’antologica con oltre 80 opere, di cui molte inedite (Galleria Azzedine Alaïa, 18 rue de la Verrerie, sino al 10 maggio). In catalogo, testi di Abdssemed, Alaïa, Coccia, Arwad e Ninar Esber, Grau, Zanzotto: un coro a più voci. Tradizione araba e avanguardie europee.
Che cosa emerge? La fantasia aiuta: come da un’altalena, s’intravvedono «macchie» di Tápies, personaggi di Miró, fantasmi di Giacometti, tori e toreri di Picasso. E le macchie di caffè di Victor Hugo (sino ai limiti del Tachisme) che, ai suoi tempi, anticipa l’Informale: il disegno si amalgama con la scrittura, creando una sorta di crepuscolo visionario.
L’elenco dei poeti che si sono tuffati nell’arte è lunghissimo. Basta ricordare Guillaume Apollinaire e Rafael Alberti, Hermann Hesse e Alberto Savinio Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, Henry Miller e Günter Grass; parole e immagini hanno uguale incidenza. «Vuole un autografo? Glielo dipingo», titolò, una trentina d’anni addietro Giampiero Dell’Acqua, un articolo su un poeta che aveva fatto una mostra di poesie a colori, a Milano, nella galleria di Piero Fornasetti.
Adonis trascrive, nella grafia araba, versi classici dell’Islam o propri: «Nel lago del mattino che esplode / nel cuore di Parigi, una ninfea / mi giunse dal suo amore. / La poserò sul mio corpo: / è un canto / e il mio amore, flauto delle sue sventure» ( L’orizzonte mi insegnò il garbo delle nuvole , traduzione di Hadam Oudghiri, Es, pp. 138, € 20). Quindi costruisce una sosta di mosaico con spezzoni di papiri, brandelli di tessuti, campiture spezzettate di colori, segni grafici dipinti e incollati, piccoli oggetti che danno vita a veri e propri componimenti poetici dal sapore dada o surrealista. Dappertutto aleggia lo spirito bretoniano, anche quando Adonis mutua il linguaggio da pittori e letterati come Francis Picabia e Jean Cocteau cui aggiunge una grande ironia.
Il poeta siriano, scrisse Andrea Zanzotto, crea un «ritratto multiplo», esattamente «come faccio io stesso con un collage di linguaggi». Alla base, l’amore inteso come sentimento universale. «Sin dall’inizio – fa eco Youssef Ziedan all’autore italiano – Adonis svela l’idea fondamentale che amore e passione non sono altro che la condizione primordiale della poesia» («Ti renderò la mano, come dici, / ma vedi qual vuoto che s’alza fra di noi? / Vuoto / dove sbocciano calici di rose / senza passioni. / Dove sei, e chi eri veramente / quando il vento scelse di svanire?»).
Poesia che si appropria del mistero delle cose («Come l’anonimo ambiguo e incerto / ogni alba rinasco di nuovo») e persino di fogli («Scrivo / sono terrorizzato / e impazzisco: mi temono / persino l’inchiostro e i fogli / e chiedo a me stesso: sto / realmente scrivendo o bruciando?»). I personaggi di Adonis non smettono di farsi domande. Il poeta è quasi ossessionato dalla figura femminile? All’alba, chiede se la donna s’è svegliata, perché ha visto il suo volto cesellato intorno alla casa. Poi, tirandosi dietro l’alba alle spalle, si rivolge alla rugiada delle fronde e al sole. È arrivata, hanno letto i suoi passi, dove ha sfiorato la porta? Ed ecco che l’amore si sveglia e la notte rientra nella sua caverna, come l’alba.
Che cosa fanno gli innamorati? «Versano i nomi dei calamai / dove l’inchiostro conosce solo la loro morte». Le figure in nero si allontanano, galleggiando quasi, su silhouettes nere - come i Sancho Panza di Salvador Dalí - che coprono tappeti di versi tracciati a colori su fondo giallo-oro. Più in là, scatole magiche multicolori, sovrapposte, assumono il ruolo di personaggi: bastano un palloncino marrone unito con un filo sottile (che fa da testa) e due strisce arancioni che penzolano a mo’ di braccia.