Corriere 30.4.15
Le regole come atto di fede
di Michele Ainis
Più che la fiducia, ormai serve la fede. Un atto religioso, non politico. Un giuramento, non un voto. Ieri il governo ha chiesto (e ottenuto) la fiducia dai parlamentari; ma è come se l’avesse chiesta a tutti gli italiani, separando gli infedeli dai fedeli. È infatti questo il retroscritto della legge elettorale: non ne cambio più una virgola, nemmeno quella falsa clausola di salvaguardia che desterà non pochi grattacapi a Mattarella quando dovrà metterci una firma. Non lo faccio perché l’Italicum è già il meglio, perché non si può migliorare il meglio. E voi dovete crederci.
Noi crediamo alle buone intenzioni del presidente del Consiglio. Ne ammiriamo l’energia, ne appoggiamo il progetto d’innovare norme e procedure. Ma quando l’impeto riformatore investe le stesse istituzioni occorre la ragione, non la fede. E il costituzionalismo alleva una ragione scettica, diffidente nei confronti del potere. Perché ha esperienza dell’abuso, sa che l’uomo troppo potente diventa prepotente. Non sarà il caso di Renzi, ma può ben esserlo di chi verrà dopo di lui. D’altronde le regole del gioco durano più dei giocatori.
Da qui il primo dubbio che ci impedisce d’ingoiare l’ostia consacrata. L’Italicum determina l’elezione diretta del premier, consegnandogli una maggioranza chiavi in mano. Introduce perciò una grande riforma della Costituzione, più grandiosa e più riformatrice di quella avviata per correggere le attribuzioni del Senato. Ma lo fa con legge ordinaria, anziché con legge costituzionale .
L’ avessero saputo, i nostri costituenti sarebbero saltati sulla sedia. Loro non volevano questa forma di governo, e infatti ne hanno stabilita un’altra. Dunque l’Italicum stride con la Costituzione vecchia, ma pure con la nuova. Perché quest’ultima toglie al Senato il potere di fiducia, e toglie dunque un contrappeso rispetto al sovrappeso dell’esecutivo. Mentre a sua volta dimagrisce il peso dell’opposizione: con una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento, in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Eppure basterebbe poco per trasformare i vizi in altrettante virtù. Alzando la soglia dal 3 al 5 per cento, come avviene in Germania. Distribuendo il premio fra tutti gli alleati, o meglio fra i partiti coalizzati che abbiano superato quella soglia minima, per evitare che in futuro si ripeta quanto sperimentò Prodi con Mastella. Rendendo obbligatorio il ballottaggio se nessuno conquista il 45 (non il 40) per cento dei consensi, in modo che il bonus di maggioranza lo decidano sempre gli elettori, anziché il legislatore. E magari aggiungendo un bonus di minoranza, in premio al secondo partito. Come del resto succede in Champions League, dove accedono le prime due del campionato. Ne otterremmo in cambio un’opposizione più forte, non un governo più debole. Nessuno di questi correttivi demolirebbe l’impianto dell’Italicum. Il presidente del Consiglio tuttavia li ha rifiutati, declamando una parola magica: governabilità. Sta a cuore anche a noi, rendere il sistema più efficiente. Ma la governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla. La governabilità dei numeri — su cui insiste, per esempio, D’Alimonte — è una formula rozza, oltre che fallace. Quest’ultima deriva viceversa dalla legittimazione dei governi, dunque da regole legittime e da politiche condivise. Altrimenti divamperà l’incendio, sicché a Palazzo Chigi avremo bisogno d’un pompiere. Come disse Leonardo Sciascia in Parlamento (5 agosto 1979): «governabilità nel senso di un’idea del governare, di una vita morale del governare». Ma Sciascia è morto, e neanche noi stiamo troppo bene.