giovedì 30 aprile 2015

Repubblica 30.4.15
Il premier: “Ho forzato. Ma anche se non ho tutti a bordo, adesso la nave va”
“Non voglio morire democristiano”
di Francesco Bei


ROMA «Certo, ho fatto una forzatura e ho perso qualcosa sulla sinistra. Ma esercitare la leadership non è avere tutti a bordo: la leadership è muovere la nave. Per avere tutti a bordo bastava Letta». A sera, consumato il primo strappo in Parlamento, mentre i renziani festeggiano i numeri della fiducia e lo sfarinamento della minoranza, con i fedelissimi il premier ammette «la forzatura» sulla questione di fiducia. I voti per ora gli hanno dato ragione e due ex segretari come Bersani e Epifani non sono riusciti a convincere che una ventina di Area riformista a non votare la fiducia. «Sul Jobs Act erano stati in 33 a non votare, stavolta sono saliti a 38: tanto rumore per nulla».
Ma lo strappo in realtà impensierisce anche a palazzo Chigi, soprattutto in vista della prossima battaglia, quella al Senato sulla riforma costituzionale. Dove anche una ventina di senatori dissidenti potrebbero bastare a rendere necessario il ricorso a Denis Verdini e ai suoi amici sparsi dentro Forza Italia e Gal. Un soccorso imbarazzante per Renzi. Eppure il capo del governo continua a ritenere di non aver avuto altra scelta. «Conosco questo Parlamento. Avrei perso. Non faccio forzature inutili. Senza la fiducia - ripete ai suoi - saremmo andati sotto su soglie e apparentamento. Al Senato sarebbe ricominciato tutto da capo, come accade ormai da anni. Senza la fiducia avremmo fatto un’operazione nobile, ma ci saremmo tenuti il Consultellum, la più pericolosa legge elettorale perché costringe alle larghe intese permanenti».
Ecco dunque il cuore del renzismo, la filosofia che lo spinge sempre alla sfida frontale rispetto alla mediazione: «Preferisco forzare ma non morire democristiano e avere una legge elettorale col ballottaggio per la prima volta nella storia italiana ». Davide Ermini, responsabile giustizia del Pd, uno che lo segue da quando aveva vent’anni, la spiega in questo modo: «Solo chi non lo conosce si può stupire di questa decisione. Lui è fatto così. Anche quando era presidente della provincia di Firenze e pensava di candidarsi alle primarie da sindaco, io glielo sconsigliai in tutti i modi. “Ci faranno un c...così”. Per fortuna non mi diede retta e vinse».
Il suo “metodo” il premier lo rivendica oggi alla luce dei risultati già raggiunti. «Ho portato Berlusconi al tavolo e la minoranza se ne è andata: però le riforme sono ripartite. Abbiamo fatto la riforma del lavoro, gli 80 euro, la giustizia dall’autoriciclaggio alla responsabilità civile. Abbiamo eletto Mattarella con lo stesso Parlamento che aveva fatto schifo la volta scorsa e questo nonostante la contrarietà iniziale di Alfano e l’opposizione Berlusconi». Insomma, il “metodo” funziona. E la scelta intransigente di Bersani, Cuperlo, Letta e Bindi ha visto più defezioni che consensi nella stessa minoranza. «Del resto era una scelta incomprensibile - confida Matteo Orfini - anche perché in un partito ci si sta seguendo le regole. Io me lo ricordo ancora Enrico Letta premier quando, in un’assemblea di gruppo, ci obbligò nel 2013 a votare la fiducia al ministro Cancellieri dicendo che “sfiduciare lei equivale a sfiduciare il mio governo”. E noi tutti obbedimmo, turandoci il naso, compreso Civati».
I rapporti insomma sono lacerati, in tanti ieri in Transatlantico non si salutavano più e si guardavano in cagnesco. Ma la battaglia del Senato incombe e lì si misurerà la capacità di Renzi di ricompattare il partito. Intanto, da subito, partirà un’offensiva sul fronte sinistro. Con l’uso del “tesoretto” per gli incapienti, con il comizio domenica alla Festa dell’Unità, con le unioni civili, lo ius soli. E il riconoscimento di una nuova leadership della minoranza dopo che cinquanta deputati di Area riformista hanno voltato le spalle a Roberto Speranza. Il premier già si rivolge al ministro Maurizio Martina come nuovo interlocutore per l’opposizione interna.
Dunque, a palazzo Madama, Renzi punta a gettare sul tavolo alcune aperture per bilanciare lo strappo sull’Italicum. Ma il nodo centrale resta quello del Senato elettivo, la minoranza non intende accontentarsi di alcune operazioni di semplice ritocco su parti marginali della riforma costituzionale. Sono già stati chiesti dei pareri di autorevoli costituzionalisti per sostenere l’ipotesi di una riapertura dell’articolo due, quello che riguarda appunto la composizione del Senato con i consiglieri regionali. La minoranza punta all’elezione diretta, in un listino a parte, dei futuri senatori. Secondo l’idea a suo tempo sostenuta da Gaetano Quagliariello. Ma c’è chi va oltre. Il bersaniano Miguel Gotor sostiene infatti, alla luce dell’approvazione dell’Italicum, che palazzo Madama dovrebbe diventare «un Senato delle garanzie e non più della autonomie, passando dal modello tedesco del Bundesrat a quello spagnolo». Significherebbe allargare le competenze di palazzo Madama ai diritti civili. Inoltre, sull’elezione del capo dello Stato, per la minoranza dem si dovrebbe prevedere una norma di chiusura, con il ballottaggio finale tra i primi due candidati più votati. Insomma, i bersaniani si aspettano una discussione vera, su punti qualificanti della riforma. Solo in questo caso potrebbero dare voto favorevole alla legge costituzionale, sottraendosi alle sirene dei forzisti che puntano ad arruolarli per far fallire il progetto del governo. «Ora - tuonava ieri bellicoso a Montecitorio Augusto Minzolini - state certi che a Renzi faremo saltare la riforma a palazzo Madama. Così si andrà a votare con l’Italicum alla Camera e con il Consultellum al Senato».