Corriere 27.4.15
Quel pittore incorruttibile rispettato ma poco amato
L’incapacità di adattarsi al nuovo gusto della corte
di Francesca Bonazzoli
A 25 anni Mantegna aveva già ricevuto da parte di Ludovico Gonzaga l’offerta di trasferirsi a Mantova. Lo stipendio sarebbe stato fisso: quindici ducati all’anno; il cibo assicurato e anche la legna e l’alloggio. Una gran bella offerta per un nato «d’umilissima stirpe», come scrive il Vasari. Eppure il pittore ci pensò su tre anni. All’epoca, non aveva ancora paura del precariato, tanto meno dei figli che gli causeranno tali problemi da ridurlo in povertà. Ma quando finalmente si decise, rimase presso la corte dei Gonzaga 46 anni: servì Ludovico, il figlio Federico e il nipote Francesco assieme all’ambiziosa moglie Isabella d’Este.
«Ogni zorno ne havemo fastidio e affanno», si lamentava il marchese Ludovico di quell’artista querulo, lento e permaloso, ma che tuttavia condivideva con lui l’immensa passione per l’antico. I Gonzaga avevano acquisito il titolo marchionale con l’oro pagato dal padre di Ludovico all’imperatore Sigismondo e per il prestigio della casata era più che mai necessario un grande pittore. Tuttavia lo stile di Mantegna era privo della «gratia» in voga nelle pitture di corte, come nel ciclo di tema arturiano già affrescato da Pisanello nel Palazzo Ducale. Galeazzo Maria Sforza, il duca di Milano, per esempio, aveva scritto a Ludovico come avesse fatto bruciare alcuni disegni di Mantegna che lo ritraevano troppo crudamente. Anche se eri un genio, e Mantegna lo era, era difficile sopravvivere con padroni che si servivano dell’arte per la propaganda e l’adulazione. Nulla di cui stupirsi, dunque, se quando morì anche il marchese Federico, Mantegna ebbe paura di rimanere senza protezione.
Preso dal panico, scrisse una lettera a Lorenzo de Medici, forse pronto a lasciare Mantova. Alla fine, però, anche il nuovo marchese Francesco tenne con sé il vecchio pittore di famiglia. Nel 1488 arrivò l’occasione di trasferirsi a Roma, ma fra Innocenzo VIII e Mantegna non scoppiò mai una passione.
Non solo il pittore si scontrò con il papa per la lentezza dei pagamenti, ma dalle sue lettere non traspare nemmeno un minimo entusiasmo per le amate antichità romane. La corrispondenza, invece, racconta la crescente nostalgia per Mantova, dove Mantegna tornò nel 1490. Nel frattempo Francesco Gonzaga si era sposato con Isabella d’Este e Ercole de’ Roberti, pittore della corte ferrarese della sposa, aveva sostituito Mantegna in tutti gli incarichi che riguardavano le decorazioni per le nozze. I rapporti fra il pittore sessantenne e la capricciosa sposa sedicenne furono sempre tesi. Isabella era ambiziosa, voleva qualcosa di diverso dallo stile duro del Mantegna che sentiva ormai superato, ma non sapeva bene cosa. Per arredare il suo studiolo contattò Giambellino, Leonardo, il Francia, il Costa, Perugino, nello spasmodico tentativo di orecchiare le nuove mode artistiche. Così, mentre negli ultimi quindici anni di vita Mantegna portava a termine per Francesco Gonzaga i capolavori dei «Trionfi», mentre dipingeva ancora opere straordinarie come il «Cristo morto» o il «Trionfo della Virtù», la sua stella cominciava a spegnersi nel momento stesso della sua luminosa esplosione, incapace di adeguarsi al nuovo gusto tenero e sfumato; incapace di dare alla sua umanità eroica, al suo mondo antico e incorruttibile, le mezze tinte dei sentimenti.
Quando si spense, il 13 settembre 1506, a 75 anni, Isabella ne informò il marito senza alcuna commozione: «Mantegna è morto subito dopo la partenza di Vostra Signoria». A Norimberga, invece, nel ricevere la notizia, Albrecht Dürer provò «il più grande dolore» della sua vita.