lunedì 27 aprile 2015

Corriere 27.4.15
Gli insulti agli ebrei uno strappo a sinistra
La sfilata del 25 Aprile L’aggressione antisemita di Milano nasconde un meccanismo perverso: si nazifica Israele e si de-umanizza il popolo ebraico
Su questo punto politica e cultura devono aprire un dibattito
di Donatella Di Cesare


A stento la Brigata ebraica ha ottenuto diritto di cittadinanza nel corteo del 25 Aprile a Milano. In altre città, per esempio a Roma, ha rinunciato a sfilare. Perché era sabato; ma non solo. Eppure, nel giorno della Liberazione, le bandiere con lo scudo di David dovrebbero essere accolte con gioia, sollievo, soddisfazione — e più di un rammarico, guardando al passato. Dovrebbero essere il cuore del corteo, non una componente al margine che occorre addirittura difendere contro offese e insulti.
In questi giorni c’è chi, per legittimarne la presenza, ha ripercorso la storia della Brigata ebraica, impegnata in operazioni civili più che militari, e di quei profughi che, dopo esser stati scacciati, tornarono in Europa per liberarla. Come non pensare a Enzo Sereni, ricordato dal presidente della Repubblica? E che dire del filosofo Hans Jonas che, dopo aver messo da parte i libri, combattendo attraversò l’Italia, per entrare infine in Germania? Certo la Resistenza è stata italiana; ma il suo valore fu internazionale, il suo afflato internazionalista.
Non si tratta, dunque, di una guerra di bandiere. E la questione è ben più complessa. Forse è venuto il momento di dire che quel che è accaduto al corteo del 25 Aprile, e che si era purtroppo già ripetuto negli ultimi anni, costituisce uno strappo nella sinistra, e più in generale nel mondo della politica e della cultura. Proprio perciò non si può consegnare l’episodio alla cronaca ed è invece necessaria una discussione, anche aspra.
Le bandiere con lo scudo di David non sono solo il simbolo della Brigata ebraica. Rappresentano anche il riscatto di un popolo contro cui la Germania nazista e l’Italia fascista hanno sferrato una guerra non dichiarata, una guerra che ha avuto il suo esito finale nelle camere a gas dei campi di sterminio. Ma agli occhi di molti quelle bandiere sono anche l’emblema dello Stato di Israele.
Ecco allora il perverso meccanismo che si instaura: la vittima ingombrante del passato diventa il comodo carnefice dell’oggi. Si nazifica Israele, per giudaizzare i palestinesi. Chi ritiene illegittimo Israele, e intende pregiudicarne l’esistenza, ritiene illegittime anche le bandiere della Brigata ebraica. Più grave degli insulti, che non di rado sconfinano in minacce violente, è l’accusa di immoralità. Gli ebrei sono tacciati di essere immorali, anzi disumani. Si pretende di espellerli non solo dal corteo, ma dal consorzio umano. Subumani prima, nell’Europa di Auschwitz, diventano ora disumani — in entrambi i casi vengono de-umanizzati.
Mentre viene avallata una banalizzazione manichea del conflitto mediorientale, dove il bene sta solo da una parte, il male solo dall’altra, l’indignazione prevale, i toni si accendono. Le invettive contro Israele si riversano su ebrei italiani, cittadini europei, che diventano bersaglio di un conflitto anzitutto mediatico il cui scopo è distruggere il prestigio morale degli ebrei, lederne l’immagine. Non sembra infatti che questa nuova, antica inimicizia, questo rinnovato odio abbia altro risultato. Perché è dubbio che i «filo-palestinesi» amino davvero il popolo palestinese e contribuiscano alla ricerca della pace.
Si è parlato di «tensioni» tra gruppi opposti durante il corteo. Ma sarebbe opportuno dire che si è trattato di una aggressione antisemita a nome di un non meglio precisato concetto di democrazia e di vaghi ideali universali, quegli stessi che nel passato recente hanno fatto apparire l’ebraismo un particolare da superare.
Alle manifestazioni antifasciste del Dopoguerra dove, con un’intatta fede nel progresso, si celebrava la Liberazione, gli ebrei sopravvissuti sfilavano accanto agli ex combattenti, cercando di sentirsi di nuovo cittadini, malgrado la ferita delle leggi razziste, le discriminazioni, lo sterminio. In fondo quel posto lo cercano ancora. E forse non potranno trovarlo finché resterà immutata la vecchia impalcatura di un progressismo astratto, di un integralismo ugualitario, che rischia ogni volta di essere chiuso, dogmatico.
Che sia questo il compito del popolo ebraico, di portare la differenza, di impedire la chiusura totalizzante? Che il caso della Brigata ebraica non possa aprire a sinistra — ma non solo — un dibattito su un rinnovamento effettivo?