giovedì 2 aprile 2015

Corriere 2.4.15
Anticorruzione
Mezzo passo avanti due anni dopo. Nel frattempo il fenomeno galoppa
di Corrado Stajano


Non sembra utile l’ottimismo di maniera in un tempo di grave crisi come il nostro, anche se le cose sembra vadano a tratti un po’ meglio. Si ha l’ impressione di un furbesco tentativo di mascherare la realtà, di attribuirsi meriti trattando ancora una volta da sudditi i cittadini ignari che hanno perso fiducia nella politica.
Non è passata la tempesta. Il prodotto interno lordo aumenta di qualche millesimo? Sembra la notizia della vittoria in una battaglia campale, con Renzi, il salvatore di turno protetto da un’entità superiore, caracollante su un cavallo bianco nel pianoro di Austerlitz. Neppure il pessimismo giova, naturalmente, sia da un punto di vista umano, sia da un punto di vista politico. Sarebbe preferibile tentare di vincere la passività diffusa con iniezioni di passione. La crisi, infatti, non è soltanto politica ed economico-finanziaria. È anche una crisi culturale e non pare proprio che i giovani governanti di oggi, smarriti nel loro narcisismo, posseggano saperi, competenze, sensibilità per capire, al di là di se stessi, com’è difficile vivere oggi per milioni di persone. La ricetta anche e soprattutto dei momenti duri è il rispetto della verità. L’altro giorno Maria Elena Boschi che, con la sua giovanile inesperienza, governa due non facili ministeri, ha detto che il Pd «andrà avanti sulle strade del cambiamento: ha una grande responsabilità perché rappresenta il 40-41% degli italiani ed è l’unico partito in grado di cambiare il Paese».
Bisogna replicare ogni volta con pazienza. Quel 40-41% ottenuto nel 2014 alle elezioni europee, che non hanno nulla in comune nel sentire e nella logica di chi vota con le consultazioni politiche e amministrative, conta relativamente se si considera che a votare è stato il 57,22% degli italiani.
Prima preoccupazione dei governanti, dopo il dissennato ventennio berlusconiano e il pasticcio per uscirne, dovrebbe essere quella di ricreare la fiducia riportando quei milioni di italiani esclusi a vivere la democrazia. Che è il rispetto delle opinioni degli altri, il confronto delle idee, cercando di ridare dignità e diritti ai tanti che non li posseggono, chiusi in se stessi e nei propri difficili problemi: il posto di lavoro, il futuro dei giovani, un’esistenza sicura.
E invece viviamo in un clima segnato, più che nel passato — ed è tutto dire — da un trasformismo spicciolo, spesso indecente. I cambi di casacca, i rinforzi anche insospettabili portati a chi per ora viene considerato il vincitore dovrebbero ingolosire gli scrittori del grottesco, gli eredi di Gadda e del suo Eros e Priapo, se ci sono. O anche di Gogol e delle sue Anime morte. Il linguaggio della politica vincente è ultimativo, minaccioso: o con noi o contro di noi. È anche sportivo: il calcio di rigore, il corner, i tempi supplementari, il fischio finale dell’arbitro.
La discussione è «un azzardo»: l’arroganza è difficile da negare, madre o figlia di un autoritarismo da governo presidenziale che si esercita su temi di somma importanza senza tener mai conto delle opinioni differenti che dovrebbero essere il sale della democrazia. La dialettica di partito è flebile, nutrita dai continui aut aut a chi non è d’accordo con la linea del segretario-premier. E pensare che i regolamenti delle Camere danno ai parlamentari anche il diritto di prender la parola in aula in dissenso dalla decisione del gruppo.
La riforma della Rai, poi, tra le più importanti per il nuovo grande comunicatore. Ha accontentato anche Gasparri che se non altro era il sottufficiale d’ordinanza di Berlusconi e delle sue antenne. Ha giustamente detto Benedetta Tobagi, consigliere d’amministrazione di viale Mazzini in un’intervista a La Repubblica : «Si parla di un amministratore delegato nominato dal Consiglio sentendo il ministero dell’Economia, una sorta di fiduciario del governo». Anche qui comanda chi siede a Palazzo Chigi godendo persino del potere di nominare i direttori dei giornali e dei telegiornali. La Dc lo sapeva fare con maggiore decenza. Dobbiamo rimpiangere Bernabei? E persino Berlusconi che — come ha detto Landini — non osò togliere di mezzo l’articolo 18? (Siccome non esistono più destra e sinistra, secondo l’opinione di certi saggi di casa, si imbocca l’eterna politica di destra).
Infine la corruzione. Secondo Transparency International l’Italia è il Paese più corrotto dell’Unione europea e tra i più corrotti nel mondo. Il Disegno di legge è andato ora in porto almeno al Senato. Pietro Grasso, l’artefice — non era ancora presidente — lo presentò il 15 marzo 2013: la corruzione, nel frattempo, ha galoppato. (Nel 2012 è stato valutato in sessanta miliardi di euro l’anno l’impatto del malaffare sulla nostra economia).
«Non è attraverso un processo penale che si può risolvere un problema endemico come la corruzione in Italia. (…) Le indagini di Mani pulite hanno infatti contribuito a svelare un sistema sommerso ma incredibilmente diffuso, rispetto al quale il processo penale può solo dare risposte specifiche su quel che è già successo. Altri avrebbero dovuto assumersi la responsabilità di prevenirlo», ha scritto Gherardo Colombo nel suo piccolo libro Lettera a un figlio su Mani pulite (Garzanti). Raffaele Cantone, il non invidiabile presidente dell’Autorità anticorruzione, con l’incarico di vigilare anche su Expo 2015, nel libro firmato con il giornalista Gian-luca Di Feo Il male italiano (Rizzoli), ha scritto una frase che deve far pensare: «La corruzione non è un peccato veniale, ma è il peccato capitale della democrazia perché sgretola le basi della convivenza».