sabato 18 aprile 2015

Corriere 18.4.15
Guerra fredda, che nostalgia
Sergio Romano sottolinea che la contrapposizione bipolare garantiva l’ordine mondiale
di Franco Venturini


I n alcuni libri la libertà intellettuale dell’autore mette alla prova quella del lettore. Quest’ultimo non è chiamato necessariamente a condividere, ma piuttosto a liberarsi delle idee fatte e pronte all’uso, del politically correct, del conformismo che purtroppo spesso pervade anche la storia. L’ultimo lavoro dell’ambasciatore Sergio Romano, ben noto ai lettori del «Corriere», appartiene a questa categoria di libri. E non lo nasconde, anzi lo sottolinea sin dal titolo: In lode della guerra fredda. Una controstoria (Longanesi).
Romano si spiega subito: «Suppongo — sono le sue prime parole — che il titolo di questo libro possa provocare sorpresa e fastidio». E subito ricorda che la caduta del Muro di Berlino, la sera del 9 novembre 1989, non aveva certo rattristato o allarmato i cechi, i polacchi, gli ungheresi, insomma tutte quelle popolazioni dell’Est che Kundera chiamava «l’Europa rapita» e che dalla fine della Seconda guerra mondiale avevano dovuto sottostare al giogo sovietico. Eravamo contenti anche noi europei occidentali, del resto, perché pensavamo che la fine dei blocchi avrebbe garantito la pace.
Si fa presto a constatare, oggi, che le cose sono andate diversamente e che ci troviamo in un mondo dove i conflitti non cessano di moltiplicarsi. Abbiamo sbagliato a rallegrarci per la fine della guerra fredda, allora? Romano ripercorre nel suo libro le molte crisi e anche le guerre che caratterizzarono quei decenni. Ma l’autore mette l’accento su un punto centrale: malgrado i dissensi e talvolta gli scontri indiretti, tra le due superpotenze protagoniste della guerra fredda non vi fu mai un contrasto davvero capace di scatenare una guerra. Perché la minaccia reciproca di un olocausto nucleare imponeva di fermarsi, di mantenere gli equilibri, e così quei decenni furono globalmente decenni di pace. Nei quali poterono trovare spazio processi distensivi come quello dall’Atto finale di Helsinki, i trattati di disarmo atomico, il cruciale accordo Abm del 1972 (poi unilateralmente denunciato da George W. Bush), nel quale Usa e Urss stabilivano le regole per rimanere vulnerabili a un attacco nucleare, vedendo in ciò la massima garanzia che esso non avrebbe mai avuto luogo.
Ma arrivano, dal 1980 in poi, gli anni in cui l’Urss e ancor più il suo blocco imperiale cominciano a traballare per ragioni economiche, sociali e politiche. Parte l’accelerazione della storia. A Mosca sale alla ribalta Gorbaciov, e sarà Boris Eltsin, dopo averlo liquidato, a sancire lo smembramento dell’Urss nel 1991. Quella per il Kosovo sarà presto la prima guerra della Nato. L’America diventa superpotenza unica e si abitua a imporre il suo volere, ma giunge il trauma dell’11 settembre, che porterà all’intervento in Afghanistan e subito dopo a quello in Iraq. Nel raccontare il nuovo mondo troppo caotico, anche Romano dà l’impressione di voler riprendere il «suo» filo. E allora ecco gli allargamenti della Nato dal 2004 al 2009, in contrasto con quanto era stato promesso a Gorbaciov (ma solo verbalmente) quando si discuteva di riunificazione tedesca. Ecco che già nel 2008 gli Usa provano ad avviare l’Ucraina verso l’Alleanza atlantica, mentre gli europei frenano, sapendo che toccare l’Ucraina significa andare a colpire sensibilità e interessi della Russia. Il salto fino alla crisi tuttora in corso tra Kiev e i separatisti dell’Est diventa automatico, e l’autore lo fa precedere da un promemoria storico troppo spesso trascurato.
A questo punto, per coerenza con la premessa, è opportuno che il lettore dica la sua su un paio di punti che lo vedono in dissenso con Sergio Romano. L’autore si chiede, lasciando spazio allo scetticismo, se l’annessione della Crimea nel marzo 2014 sia stata un errore. «Non era forse stato altrettanto grave cambiare i confini della Nato, accogliendo Paesi che avevano lungamente appartenuto a una diversa area di influenza?». Credo che l’annessione formale della Crimea, di fatto già militarmente occupata e controllata, sia stata un errore-chiave di Vladimir Putin, senza il quale sarebbe diventato più difficile colpirlo con le sanzioni. L’annessione, inoltre, ha aiutato chi non voleva negoziare con Mosca, e ha reso più arduo lo sforzo franco-tedesco sfociato negli accordi (fragili) di Minsk II. Questo senza nulla togliere agli errori commessi da parte occidentale, e alla presenza, in Occidente come certamente in Russia, di poteri e persone che vogliono lo scontro.
L’autore si pone poi un interrogativo fondamentale: chi ha vinto la guerra fredda? E scrive che «l’Unione Sovietica fu sconfitta dalle riforme di Gorbaciov». Dissento. L’Urss e il suo sistema economico erano arrivati al limite estremo della sopravvivenza (anche per le enormi spese fatte nel tentativo di tenere il passo delle «guerre stellari» di Ronald Reagan) prima che Gorbaciov andasse al potere e tentasse un processo riformista già abbozzato nel breve regno di Andropov. La perestrojka (ristrutturazione, che fallì diversamente dalla glasnost , trasparenza) era un programma economico disperato, che aveva poche probabilità di successo, ma non fece perdere la Guerra fredda all’Urss. Mosca ha perso per consunzione di tutte le sue componenti umane e materiali prigioniere di un sistema non riformabile. Ed era politicamente impossibile che la parte vincitrice, in un mondo cambiato, ragionasse in termini di zone d’influenza. Le richieste di entrare nella Nato dei nuovi Stati sovrani dell’Est non potevano essere rifiutate, a meno che non fossero foriere di nuovi pericoli. È quanto gli europei hanno capito per l’Ucraina nel 2008, e c’è da sperare che continuino a capire oggi.
Ecco perché il libro di Sergio Romano si raccomanda da solo: perché fa discutere, perché fa pensare, prima di concludere con una struggente constatazione del ruolo che l’Europa potrebbe avere, ma non ha.