sabato 18 aprile 2015

Corriere 18.4.15
Tra Israele e Unione Europea scatta la guerra dell’etichetta
Sedici Paesi chiedono a Mogherini di far segnalare i prodotti delle colonie
di Francesco Battistini


DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME Made in Israel. O made in West Bank? Che sia un ortaggio o un formaggio, un olio o un vino, è l’Europa a dirlo: sull’etichetta, la differenza va segnalata. Perché nel primo caso si tratta d’un «normale» prodotto israeliano. Nel secondo, potreste avere in mano merce di coloni che occupano i Territori palestinesi (e che spesso le olive o le viti, ai palestinesi, le rubano).
L’Ue da anni pretende che lo si stampi sulle etichette: «Prodotto israeliano proveniente da insediamenti illegali in Cisgiordania», giusto perché l’acquirente poi si regoli. Ma a parte la Gran Bretagna e i Paesi scandinavi, nessuno lo fa.
Lunedì scorso sedici su 28 fra i ministri degli Esteri europei, Germania esclusa, hanno scritto alla «collega» Ue, Federica Mogherini, esigendo che le etichette trasparenti siano finalmente messe. E che «i consumatori non siano più fuorviati da false informazioni». La Mogherini non ha risposto, anche se si sa come la pensa. Israele invece non ha perso tempo, ed è partita la protesta.
«Possono anche mettere una stella gialla su tutti i prodotti della Giudea, della Samaria o del Golan», la replica del ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che chiama la Cisgiordania coi suoi nomi biblici e fa notare l’«ipocrita» coincidenza d’una simile lettera nei giorni in cui Israele ricorda la Shoah: «Sappiamo come funziona: si marchiano i prodotti israeliani e poi si passa subito a boicottare tutto ciò che viene da Israele».
Altro che coloni, la tesi è d’un boicottaggio bell’e buono: «Questa mossa può creare caos nella nostra economia — Yair Lapid, già ministro delle Finanze, ha telefonato alla Mogherini —. Non c’è nessuna differenza tra prodotti al di qua o al di là della Linea Verde», il confine del ‘67 al quale Israele è tenuto a tornare.
E poi: perché tanta severità coi coloni — proprio lunedì, Human Rights Watch li ha accusati di sfruttare il lavoro dei bambini palestinesi — quando nessuno si fa troppe domande su quel che arriva dalle fabbriche-lager in Asia, per non dire del mondo arabo?
La lista (nera) della spesa europea negl’insediamenti è di circa 500 prodotti. Un affare da mezzo miliardo di dollari l’anno. Già due anni fa ci aveva provato la precedente «ministra» Ue, Catherine Ashton, minacciando di congelare le partnership finanziarie che riguardavano i coloni. Ma erano i mesi in cui si tentava di far ripartire i negoziati di pace, e fu la Casa Bianca a chiedere all’Europa di soprassedere.
Ora che Abu Mazen ha preso la strada dei tribunali penali internazionali, che Netanyahu ha escluso la soluzione dei due Stati e che le colonie continuano ad ingrandirsi, per i 16 governi europei è tornato il momento: «L’etichettatura è un passo importante».
Ha firmato anche l’Italia, col ministro Gentiloni. Cinque anni fa, quando la Coop provò a far rispettare l’obbligo d’etichetta trasparente, venne giù il mondo e il Partito democratico ordinò ai «suoi» supermercati di fare retromarcia. Evidentemente, nel centrosinistra ci hanno ripensato.