Corriere 12.4.15
Nelle grandi opere il racconto sofferto della natura mortale
A Palazzo Reale alcuni dei pezzi più famosi
di Roberta Scorranese
Forse a pochi come Leonardo da Vinci è toccato in sorte il massimo privilegio dell’arte: aver contezza della propria natura «finita», peritura. Milano ne custodisce l’esempio più struggente: quel Cenacolo che il vinciano affrescò con amore, cura e rivoluzionaria psicologia (il Giuda non viene privato dell’aureola, ma si condanna da solo, con la consapevolezza del peccato) cominciò subito ad autodistruggersi, con un cancro che solo un lunghissimo restauro ha di recente arginato.
Ecco, «Leonardo 1452-1519. Il disegno del mondo», questa grande mostra che si aprirà presto a Palazzo Reale senza pretese agiografiche, va presa per quello che è: un racconto trasversale, illustrativo, a tratti aneddotico (a confronto con altri artisti, come Verrocchio o Corot), di Leonardo come uomo e come artista. Uno che, proprio perché incrociò l’assoluto dell’arte con le dimostrazioni della scienza, comprese che «la natura è piena d’infinite ragioni, che non furon mai in isperienzia». Merito anche, come sottolineano i curatori, Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, di quella Milano governata con capriccio astuto dal Moro, il quale teneva Leonardo in bilico tra sperticata ammirazione e improvvise freddezze.
Milano fu un detonatore per il da Vinci: si propose non come artista, ma come «ingegnero», per realizzare macchine da guerra, strumenti idraulici (due i prestiti del Museo della Scienza e della tecnica), giostre e spettacoli teatrali e, ovviamente, opere d’arte nelle quali, come dicono i curatori, c’è la «spia di un metodo che applica gli stessi strumenti d’indagine a campi diversi». Ma prima di correre davanti a opere come il Battista o la Madonna Dreyfus, si presti attenzione ai disegni e ai manoscritti: sta qui il segreto delle ombre soffuse nel volto della Belle Ferronière (dal Louvre). Leonardo scriveva e disegnava in continuazione. Certo, lo faceva per definire le idee, ma anche perché consapevole che le intuizioni sono periture, che la vita stessa va catturata in qualche modo. Va raccontata per non perderla. Le ombre rosate sul viso della Crivelli (l’epiteto Ferronière nasce dal ciondolo sulla fronte della dama), amante del duca, non sono che l’epilogo di studi sulla natura dell’acqua e dell’aria, i riflessi del mondo posati sulle cose.
Come anche i riccioli del Battista richiamano il movimento delle acque, moto che poi Leonardo studierà più approfonditamente a Venezia, nelle ricerche sui bacini in chiave di difesa anti-Turchi. E si vada alla bellissima Annunciazione, con un occhio attento alle ali dell’angelo: la delicatezza delle punte all’insù che cosa sono se non il barbaglio di un sogno che lo ossessionava da anni, ovvero quello di volare?
Nell’Uomo Vitruviano, in arrivo dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, Leonardo tenta quello che per lui è necessario: fare filosofia attraverso il tratto grafico (così come la pittura è «poesia muta») e quella ricerca della compiutezza umana commuove se si pensa al destino del Cenacolo o dell’unico autoritratto (quasi) mai discusso, quello custodito a Torino, aggredito dalla spietatezza del tempo: la misura delle cose serve a poco, la materia deperisce, come la pittura, come le donne che ha immortalato con lo sguardo rivolto altrove, come il potere dei suoi signori, compreso Cesare Borgia, per il quale fece il ministro della guerra.
In questa mostra non si cerchi l’immortalità di Leonardo, perché lui comprese bene che non esiste. Ma si cerchi l’intelligenza delle cose che lui capì e raffigurò sotto forma di santi (san Girolamo) o madonne o carri falcati o teste arcigne...