il Fatto 31.3.15
Guido Veneziani L’editore de l’Unità
“Addio Gramsci, voto M5S, viva Renzi”
di Alessandro Ferrucci
Obiettivo 25 aprile. “Sarebbe bello, sarebbe fantastico. Per riuscirci ho provato a indossare la tuta di Capitan Power, ma non so se basterà”. Resta aperta l’ipotesi, quella di riportare in edicola l’Unità nel giorno della Liberazione: a confermarlo è il nuovo proprietario, Guido Veneziani, torinese classe 1964, già editore di periodici come Top, Vero, Stop e Miracoli.
Non ha molto tempo a disposizione.
Infatti è molto complicato, ma ci stiamo lavorando a fondo.
Il nome del nuovo direttore?
Questo argomento mi diverte molto, magari esce domani dopo il Cda. Ma ho in mente qualcuno o qualcuna.
Renzi cosa le dice?
Mai parlato con lui, solo una volta, quattro minuti, all’ultima Leopolda. Però oggi ha rilasciato una dichiarazione bellissima.
Il premier a proposito dell’Unità ha detto di non volere un giornale “come strumento di propaganda”...
Esatto! E poi io non ho mai pubblicato prodotti caratterizzati, per questo penso a un giornale libero con nuove sezioni.
Sveliamo qualche novità.
Noi abbiamo un progetto editoriale, tutti i prodotti editoriali sono prodotti.
Tradotto?
Bisogna andare incontro al gusto delle persone.
Va bene, come?
Ci sarà la politica, l’economia, tutte le parti storiche, più altre innovative. Non voglio svelarle alla concorrenza, dietro c’è uno studio.
Molti studi di settore dicono che ancora sono tette e culi a incuriosire i lettori.
(Silenzio. Pausa) È vero. (Ancora silenzio)
Quindi donne nude sull’Unità?
Senta, vendono anche i personaggi nati e idealizzati dalle televisioni, i loro amori e tradimenti. Poi c’è modo e modo di pubblicare certe cose.
È vero che alle Politiche ha votato Grillo?
Sì. Però con me il 25 per cento degli italiani!
Si è pentito?
No, non mi pento quasi mai. Però non sono uno impegnato nelle vicende politiche. Il mio era un voto di protesta.
In gioventù cosa votava?
Mi ritengo... non immagino.
Cosa?
Non ci sono più i tempi della destra, della sinistra, dobbiamo superare certi concetti...
Sì, da giovane?
Di sinistra, poi è arrivato il lavoro e mi sono distratto.
Comunque nell’urna ha tradito Renzi.
Oggi no, oggi voterei per lui.
Come l’ha convinto?
Sta portando avanti un rinnovamento politico che incide sul sociale, e in maniera veloce. E noi lo sproneremo. Questo Paese ha bisogno di qualcuno che fa. E oggi lo voterebbe il 51 per cento degli italiani!
Pensa ancora che l’Unità è il giornale di Gramsci?
Se il giornale ha chiuso è perché non incontrava più il gusto della gente, non interessava cosa si scriveva: non si può portare avanti un rendiconto nostalgico di tempi che non esistono più. Però Gramsci ha scritto pagine importantissime e attuali, come molti altri politici dell’epoca. Comunque la stampa è in forte crisi.
E allora perché questa avventura?
A pensarci per primi sono stati i miei collaboratori, io diffidente. Poi è arrivato l’entusiasmo.
Giochiamo a “Indovina chi? ”. Ci dica almeno se il nuovo direttore sarà un uomo o una donna...
Ah ah ah. Mi piace. La mia idea è quella di un uomo.
In che anno è nata l’Unità?
Ho pochissima memoria. (Silenzio prolungato. Sospiro). Bravo, non me lo ricordo.
il Fatto 31.3.15
I matti possono attendere Le Regioni sono in ritardo
Oggi dovrebbero chiudere per legge gli ospedali psichiatrici giudiziari
ma le residenze controllate dalle Asl non sono ancora pronte
di Silvia D’Onghia
Sorridevano, i matti, presi da una serenità incomprensibile masticavano quei fiori colorati e, per un attimo, parevano ombre felici”. Ci sono occasioni in cui la letteratura può sovrapporsi alla realtà e allora anche il racconto dei matti di Ugo Riccarelli (Comallamore, Mondadori) rischia di apparire la fotografia di una giornata storica per l’Italia. Almeno sulla carta. Perché non tutti i racconti godono di un lieto fine.
OGGI È il giorno in cui dovrebbero svuotarsi – questo prevede la legge – i sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), l’ultima frontiera degli internati, coloro che, colpevoli di un reato ma inadatti per problemi psichici a scontare la pena in galera, sono finiti in una struttura carceraria gestita dalle Asl. Polizia penitenziaria e infermieri insieme, sbarre e antidepressivi (in misura molto maggiore rispetto ai normali istituti detentivi, dove pur se ne abusa). Un ibrido, che non serve a espiare una colpa né tantomeno a guarire da una malattia. Una tortura, ha decretato l’Europa più volte e anche l’ispezione voluta nel 2010 dall’allora presidente della commissione parlamentare sul Servizio sanitario, Ignazio Marino, che trovò pazienti legati al letto con un buco nel mezzo per feci e urine. Una vergogna da chiudere, anche secondo l’ex presidente della Repubblica, Napolitano. Una battaglia parlamentare bipartisan, che ha portato alla legge 9 del 2012 (governo Monti) e alla 81 del 2014 (governo Renzi). Il doppio pronunciamento si è reso necessario per dare il tempo alle Regioni di adeguarsi alla chiusura degli Opg: niente più sbarre o poliziotti, infatti, ma strutture dedicate ai pazienti sotto l’esclusiva gestione delle Asl. Le hanno chiamate Rems, residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria. Non più soltanto sei, come gli ospedali, ma 990 posti letto su tutto il territorio nazionale.
MATTI COME “ombre felici”, dunque, trasferiti oggi in residenze con giardinetti al posto delle sbarre? Non proprio. Perchè, essendo in Italia, un conto è fare la legge (e già ci sono voluti parecchi anni), un altro è applicarla. Le Regioni non sono pronte, le strutture non costruite, gli infermieri specializzati non pervenuti. E non lo dicono i giornali o le associazioni come Antigone. Il 13 febbraio scorso, nella relazione firmata dai ministri della Salute Lorenzin e della Giustizia Orlando, “l’Organismo di coordinamento delle amministrazioni centrali e regionali ha preso atto del fatto che sarebbe impossibile adempiere al dettato normativo della chiusura degli Opg alla data del 31 marzo 2015”. Lo Stato decreta il ritardo di se stesso, in un processo kafkiano che si gioca sulla pelle delle persone.
E dire che non stiamo parlando di chissà quali cifre. Gli internati negli Opg sono poco più di 700 (761 il 30 novembre 2014, e poi in calo grazie alle alternative psichiatriche garantite dalle stesse Regioni) e tra loro, sostiene sempre l’Organismo di controllo, oltre 450 sono stati dichiarati dimissibili a partire dal primo giugno dello scorso anno. Si tratterebbe, dunque, di trasferire circa 350 persone, considerate ancora pericolose socialmente e bisognose di assistenza residenziale. Perché, allora, oggi i pazienti che verranno spostati saranno pochissimi? Perché ogni Regione, dopo aver ricevuto decine di milioni di euro dallo Stato (con un decreto ministeriale del dicembre 2012), volendo fare le cose in grande non ha terminato il proprio lavoro. O in alcuni casi non l’ha proprio cominciato. Prendiamo il Piemonte, per esempio, che ha previsto di costruire due strutture residenziali in provincia di Biella e di Alessandria. Costo totale: 12,6 milioni di euro per 70 posti letto (quando gli internati non dimissibili sono meno di 20). Tempi di realizzazione: 24 mesi. E nel frattempo, i pazienti possono tranquillamente restare dove sono o andare in Lombardia. Regione che, nell’attesa che vengano realizzate tre strutture nuove e venga riqualificato l’Opg di Castiglione delle Stiviere (costo totale: 34 milioni di euro per 240 posti letto), accoglie anche i pazienti della Valle d’Aosta. Praticamente un domino. E anche nel caso di Rems pronte da ieri mattina, come quella di Ponte-corvo, nel frusinate, bisognerà attendere chissà quanto per avere infermieri specializzati e di ruolo. La domanda per la selezione del personale, come da bando pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, si è chiuso solo ieri. “Nel frattempo utilizziamo personale del Centro di salute mentale – fa sapere il responsabile della struttura, Ferrauti – che lavora a quota oraria”. Oggi la struttura sarà inaugurata dal governatore Zingaretti, e quindi tutto deve essere in ordine. “Ad Aversa questa sera la situazione sarà la stessa – commenta Susanna Marietti di Antigone, che ieri ha visitato l’Opg del casertano –. L’unica cosa positiva è che almeno non entrerà più nessuno”. Analoga sorte per Montelupo fiorentino, perché neanche la regione di provenienza del premier è pronta. Del resto non c’è fretta: negli Opg si sconta l’“ergastolo bianco”, si sa quando entra ma non si sa quando (e se) si esce. Le ombre felici possono ancora aspettare.
il Fatto 31.3.15
Noi e loro
Signori matti, si chiude. A voi qualcuno penserà
di Maurizio Chierici
STAMATTINA chiudono gli ultimi manicomi sopravvissuti alla legge Basaglia, ospedali psichiatrici giudiziari, discariche umane con fantasmi sigillati dietro le sbarre: 750 numeri senza nome anche se in anni lontani i loro nomi avevano acceso la curiosità di giornali e Tv. Quei delitti nel delirio della follia. Non so con quale procedura verranno sciolti dalla sorveglianza delle guardie armate. Ricordo l’altra “liberazione”, primavera 1978, legge approvata malgrado l’opposizione dei primari che accusavano il Basaglia primario di svuotare le loro cattedre riconoscendo dignità e diritti a pazienti fino a quel momento corpi sotto chiave. Legge che doveva naufragare nel grottesco: al plurimanicomio di No-cera Inferiore (centinaia di pazienti) organizzano il teatrino della provocazione. Subito impacchettano i derelitti, subito li rimandano a casa. Un medico basagliano mi chiama testimone. Nel cortile del manicomio le corriere accolgono malati sporchi, seminudi, rimbambiti dai calmanti, inzuppati negli odori del ghetto. I familiari respingono un ritorno che li sconvolge. Dove alloggiarli?
Urgenza superata grazie a cliniche frettolosamente inaugurate dai registi della rivolta che fanno calcolo sulle casse delle amministrazioni locali. E la legge riempie le tasche dei baroni ai quali hanno svuotato il palazzo. Eppure la legge tiene, l’Italia comincia a cambiare. 37 anni dopo vanno in pensione i 6 manicomi dimenticati. 750 persone non fanno una folla che impressiona ma i problemi restano complicati. Nessuno si era accorto di loro fino a quando il senatore Ignazio Marino (allora presidente della commissione d’inchiesta sulla Sanità nazionale) ispeziona a sorpresa gli ospedali psichiatrici.
NELLA Sicilia di Barcellona Pozzo di Gotto pesca il personale “mentre svolge atti coercitivi“. Pazienti legati ai letti, 329, un solo medico, nessuno psichiatra. A Reggio Emilia corde “di contenzione in appositi locali attrezzati“. Struttura per 132 persone, se ne ammucchiano 234. Perfino nel mantovano di Castiglione della Pescaia dove non esistono guardie armate per convenzione con altre strutture, “letti attrezzati con cinghie“: lombardi, sardi, piemontesi e liguri inchiodati così. Marino porta il video al presidente Napolitano che nel 2011 va in Tv per pretendere la chiusura. Entro un anno, non di più. Le regioni resistono: facciamo nel 2017. Napolitano arriva al 2015. Adesso ci siamo anche se l’Italia dei gattopardi giura di non essere pronta. La Toscana delle eccellenze vorrebbe trasformare la villa medicea del carcere in albergo di lusso. Immaginava di trasferire gli 80 incomodi a San Miniato, ma il sindaco non li vuole. Senza contare il problema del cosa fare di chi conclude i 20 o i 30 anni di condanna. Finora sono rimasti lì. A chi affidarne la libertà? Ai parenti non se ne parla: centri sociali o cooperative di solidarietà con infermieri e medici a portata di mano, moduli di 20 persone, non di più per non ricadere all’orrore degli ospedali pollaio. Ma quasi nessuno è pronto. Solo Franco Rotelli, psichiatra erede di Basaglia, presidente della commissione Friuli-Venezia Giulia della sanità, sembra tranquillo: posti letto in case famiglia che già ospitano altre persone. Trieste non trema per aver accompagnato l’utopia di chi voleva “liberare i matti“: ha cambiato la loro vita e trasformato la città. Dubita di certi posti dove la cultura può restare punitiva, restrittiva, legata al dogma medicalità-pericolosità. Credo sia meglio dire che stamattina cominciano a chiudere i manicomi giudiziari: fra uno anno o due sistemeranno in qualche modo chi sopravvive. Gli anziani sono tanti e la provvidenza può dare una mano.
il Fatto 31.3.15
Renzi tramortisce la minoranza e pensa già a far fuori Landini
La direzione Pd dà la fiducia all’Italicum. Gli oppositori non votano
di Wanda Marra
In maniche di camicia (bianca) e jeans d’ordinanza, seduto al banco della presidenza, Matteo Renzi guarda lo smartphone mentre la direzione Pd vota la “fiducia politica” all’Italicum. Non solo non tradisce preoccupazione, ma neanche prende in considerazione le reazioni e le richieste della minoranza del Pd: tant’è vero che si risparmia pure la replica.
È UN SÌ all’unanimità. La minoranza, come annunciato, non vota. I sì sono120 su circa su circa 200 (si contano una ventina d’assenze, tra cui Bersani e D’Alema). Il segretario-premier, dopo aver annientato il dissenso in un intervento fiume di sfondamento, è già “oltre”: come avversario vede praticamente solo Maurizio Landini. “Anche tu sei diventato un soprammobile da talk show”, gli dice (in diretta streaming nazionale), rimproverandogli di non sapere cosa c’è nella legge di stabilità. “La coalizione sociale io non la sottovaluto. Ma non rappresenta il futuro e neanche il passato della sinistra. È un tentativo che sarà respinto dalla realtà”. È “una sfida” che “non mi toglie il sonno”. Ma che evidentemente richiede una riflessione e non lo lascia così indifferente. “Io non lascio la parola sinistra solo a chi la usa con più frequenza”, dice Renzi. Partendo da questa premessa lancia la “sua” coalizione sociale: “Organizziamo tra luglio e settembre un grande dibattito pubblico, con soggetti culturali ed educativi, sulla sinistra in Italia, in Europa e nel mondo”. Strumento ne sarà la nuova Unità (in edicola da fine aprile). Ostenta indifferenza, Renzi. Ma Landini è un elemento politico da tenere in considerazione. Mentre Salvini ormai è più che derubricato (anche lui a fenomeno televisivo) e Beppe Grillo da “spauracchio è diventato sciacallo”. Questo, se è per l’opposizione esterna. Se è per quella interna, ieri il segretario ci è andato giù pesante. Niente dibattito supplementare sulla legge elettorale, niente ritocchi: Renzi vuole l’Italicum a fine maggio. E ieri ha messo di fronte alla minoranza una serie di argomenti “scomodi”.
A PARTIRE dal ruolo avuto nella “defenestrazione” di Letta: un voto compatto di tutto il Pd in direzione, con l’alibi sullo sfondo della legge elettorale che non si riusciva a fare: “Non c'è stato qualcuno che ha scelto di staccare la spina al governo precedente. Non riusciva ad andare avanti sul percorso delle riforme. Questo ha stabilito la direzione all'unanimità”. C’era “un blocco” che “veniva reso plastico, sublimato, sulla legge elettorale”. E adesso allora: “Chiedo un voto per la dignità e la qualità di questo governo”. Non fa passi indietro, Renzi, neanche sulla possibilità di mettere la fiducia sull’Italicum: “Ne parleremo tra di noi. Permettetemi ora di mettere la fiducia al nostro interno”. Stoccatina: “Fossi in voi rivendicherei le mediazioni ottenute”. Conclusione: “Considero un clamoroso errore riaprire la discussione
al Senato, è un azzardo che ci espone a molti problemi, non si spiega politicamente alla Camera, riapre un accordo di coalizione già chiuso e, soprattutto dà il senso di una politica come un grandissimo gioco dell'Oca”. Che lo sfondamento del premier abbia avuto effetto lo dicono i balbettii e la faccia stravolta di Roberto Speranza. Che arriva a evocare le proprie dimissioni da capogruppo a Montecitorio: sono sul piatto dalla prossima riunione del gruppo dem alla Camera, che dovrebbe essere dopo Pasqua. Lo dicono gli interventi di Cuperlo e Fassina, che richiamano il segretario a una mediazione che non ha alcuna intenzione di mettere in atto. Come il tentativo di rilancio di D’Attorre, che mentre definisce “ricatto inconcepibile” la fiduicia sull’Italicum arriva a minacciare esplicitamente il percorso delle riforme in Senato. La minoranza è tramortita: il non voto è una non decisione, un problema rimandato. I renziani, invece, sono
compatti, all’attacco. Il senatore Andrea Marcucci la butta sul filosofico (“la minoranza non ha sempre la verità in tasca”), Matteo Richetti reagisce a D’Attorre (“Non ci si può lamentare che è in atto un ricatto sulla legge elettorale e poi dire che se non si cambia la legge elettorale le riforme sono su un binario morto”,) Roberto Giachetti fa uno show, ricordando tutti i cambi di posizione di quelli che oggi si vestono da pasdaran (“Bersani dice che ‘il Mattarellum lo firmerebbe anche domani’. A Bersani dico, l’avete avuta l'occasione di votare Mattarellum, e avete imposto di votare contro”). Voto in direzione scontato. Futuro ipotetico. La parola scissione per adesso è solo un fantasma. “Continueremo la battaglia in Aula. Ci voteremo i nostri emendamenti”, dice D’Attorre. Ma finora, Renzi l’ha avuta sempre vinta.
Corriere 31.3.15
Il premier vince, ma tra i Dem restano focolai di resistenza
di Massimo Franco
Era prevedibile che non ci sarebbe stata mediazione. Per Matteo Renzi, accettare di ridiscutere la riforma elettorale significherebbe entrare in un cunicolo di trattative con la minoranza, dalle quali riemergerebbe come minimo indebolito. Per i suoi avversari, peraltro ancora divisi, il problema è se rompere quando la legge arriverà in Parlamento; oppure se rientrare in una strategia della quale hanno accreditato la pericolosità. La direzione di ieri ha confermato insomma che il presidente del Consiglio sta vincendo, sebbene non abbia ancora vinto.
E l’Italicum rischia di essere approvato da una maggioranza monca. Riforme fatte dal solo Pd «e senza un pezzo di esso» sono indebolite, avverte il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza. «Oggi il rischio enorme è la spaccatura interna». I margini per evitarla, a oggi, rimangono esigui. Tra l’altro, quando l’ex segretario Pier Luigi Bersani motiva le sue perplessità sostenendo che «qui è in gioco la democrazia», l’ipotesi di un compromesso diventa inverosimile: a meno che uno dei due ceda. Questo rende la discussione insieme avvelenata e senza apparente via d’uscita.
Non c’è accordo, non c’è rottura formale, ma prosegue una marcia vittoriosa del premier circondata da un’eterna precarietà politica. Per il partito perno del sistema è l’ennesima tappa di una guerra sorda e tuttora non finita. Più si avvicina il «sì» all’Italicum, che per Renzi dovrebbe arrivare a fine maggio, più per i suoi oppositori la fronda diventa una sfida dalla quale possono uscire seriamente sconfitti. Bisognerà vedere che cosa succede dopo le elezioni regionali di fine maggio; e quale sarà lo sviluppo delle inchieste giudiziarie che a livello locale stanno falcidiando molti esponenti locali del Pd.
Se Renzi riuscirà a riprendere un qualche dialogo con Forza Italia, i numeri parlamentari ritornerebbero a livelli tali da garantirgli un margine di sicurezza, soprattutto al Senato. Ma se non accadrà, la vera incognita riguarda la consistenza e la compattezza del fronte trasversale dei «no» alla riforma elettorale e del bicameralismo. La domanda, alla quale oggi non c’è risposta, è se potrebbe saldarsi in funzione antigovernativa e creare problemi a palazzo Chigi quando il Senato voterà la propria riforma a maggioranza assoluta dei membri.
Per quanto irrituale, l’appello di FI a chi nel Pd si oppone alle riforme renziane è un sintomo. Lo è altrettanto l’ipotesi, avanzata da alcuni esponenti della minoranza, di ricorrere al voto segreto contro l’Italicum se il premier non accetterà una mediazione: un’eventualità che ha irritato Renzi e lo ha fatto parlare di «ricatto inaccettabile». Ma se passa la riforma elettorale, sarà più facile far pesare il deterrente del voto anticipato per piegare gli oppositori. Chiedere la fiducia su questo tema sarebbe a dir poco inelegante. Eppure continua a essere una possibilità da non scartare affatto.
La Stampa 31.3.15
Italicum
La madre di tutte le battaglie
di Marcello Sorgi
Sarà la madre di tutte le battaglie - e la partita in cui si deciderà il destino di questa legislatura nata sciancata, senza un vero baricentro politico e una vera maggioranza - la sfida che si prepara alla Camera sulla legge elettorale. Renzi ha scelto di anticiparla, somministrandone ieri un sapido antipasto alla minoranza del Pd, perché ha capito che ogni giorno in più d’attesa rischiava di trascinare lui e il suo governo nel pantano che corrisponde all’umore di pancia dell’attuale Parlamento.
Un Parlamento in cui nessuno o quasi vuole andare a votare, temendo di perdere il posto, ma pensa che se proprio ci si dovrà andare, presto o tardi, sarebbe meglio con il Consultellum, il meccanismo di emergenza previsto dalla Corte Costituzionale con la sentenza con cui ha cancellato il Porcellum. Che prevede, appunto, un proporzionale con le preferenze grazie al quale verrebbero elette nuove Camere abbastanza simili a quelle attuali, in cui nessuno ha ottenuto la maggioranza e il governo si regge sull’alleanza del centrosinistra con un pezzo di centrodestra e sulla disponibilità trasformista dei gruppi e gruppuscoli che continuano a nascere dalle scissioni dei partiti maggiori.
Va detto che non potevano fare altro i giudici costituzionali - tra i quali, va ricordato, al momento della sentenza, figuravano ben tre candidati alla Presidenza della Repubblica, nonché accademici tra i più conosciuti in materia costituzionale: Giuliano Amato, Sabino Cassese e Sergio Mattarella, padre di un’altra legge elettorale maggioritaria e da qualche settimana eletto Capo dello Stato con largo suffragio. Chiamati a proclamare la manifesta incostituzionalità del Porcellum introdotto dieci anni fa dal centrodestra, e non potendo lasciare il Paese privo di sistema elettorale, dovettero cucire i pezzi di quel che restava della vecchia legge per assicurare una ruota di scorta, nel malaugurato caso che il Parlamento privo di maggioranze non fosse in grado di assolvere al suo compito e approvare una legge più organica.
A dire il vero, di ipotesi sul da farsi ce n’erano, per questa come per altre riforme. A metterle per iscritto, nel tempestoso avvio di legislatura del 2013 in cui le Camere non erano state capaci, né di dar vita a un governo, né di eleggere il nuovo Presidente dal Repubblica, tanto che era stato necessario procedere alla rielezione di quello uscente, ci aveva pensato il Comitato dei saggi voluto da Giorgio Napolitano. Quel comitato aveva prodotto un catalogo di proposte, alcune condivise, altre no, che dovevano fornire un semilavorato per i Costituenti a venire. E in effetti, fu proprio a partire da quel decalogo che il centrodestra e il centrosinistra, ma in realtà Renzi e Berlusconi, a un certo punto trovarono l’accordo - il famigerato patto del Nazareno - per realizzare il minimo indispensabile delle riforme che aspettavano da anni, per non dire da decenni, di essere approvate: la fine del bicameralismo perfetto, una diversa disciplina dei rapporti tra Stato e Regioni e la legge elettorale.
È esattamente su questo programma che le Camere hanno lavorato in questa prima metà della legislatura. Con più o meno accordo, anzi con tassi di disaccordo crescente, ma tuttavia giungendo alle prime due approvazioni (delle quattro necessarie) della riforma del Senato e all’approvazione da parte del Senato della riforma elettorale, che adesso arriva alla Camera per il sì definitivo. Questi i fatti. Non ci sarebbe neppure bisogno di ricordarli, tanto sono vicini e presenti a tutti. Ma giova farlo egualmente, dato che questo insieme, da un giorno all’altro, diciamo dall’elezione del Presidente della Repubblica in poi, dacché era un programma condiviso, o almeno sostenuto da una maggioranza, s’è trasformato nella «deriva autoritaria» di Renzi: che a giudizio di Berlusconi, non più suo alleato, e degli oppositori interni del Pd, vorrebbe imporre una specie di golpe per garantirsi nientemeno che un decennio di potere assoluto.
Ora, che in qualsiasi momento di un percorso parlamentare possa esserci un ripensamento, di uno o più partiti, e le riforme che fino a ieri sembravano opportune possano essere rimesse in discussione, è legittimo, e ci mancherebbe. Nel passato recente e in quello remoto (basti pensare alla famosa Bicamerale di D’Alema e al «patto della crostata» tradito in una notte) è già accaduto. Tra l’altro, se parliamo del centrodestra, lo sfarinamento del partito di Berlusconi è tale da non consentire all’ex Cavaliere di governare nessuna intesa. Se invece ci si accosta all’opposizione interna del Pd, è innegabile che molte delle richieste che venivano dalla minoranza anti-renziana, specialmente in materia elettorale, siano state accolte nel corso del lungo iter parlamentare della legge: il doppio turno al posto di quello singolo, le preferenze reintrodotte a dispetto del referendum del ’91 che le aveva abolite, la riduzione e l’innalzamento delle soglie, secondo che si tratti di quelle minime, per consentire ai partiti minori di entrare in Parlamento, o di quella massima per ottenere il premio di maggioranza grazie al quale si ottiene un risultato chiaro e un governo dotato di una maggioranza per governare. La trattativa è stata così lunga che a un certo punto anche il presidente Napolitano, che aveva svolto un’opera di mediazione tra il premier e i suoi oppositori, dovette arrendersi al dubbio che il negoziato fosse allungato all’infinito, più per evitare di decidere, che non per migliorare la legge.
Ieri Renzi e gli avversari dell’Italicum hanno incrociato le armi per l’ultima volta in direzione, prima di contarsi a Montecitorio. Stretta a sinistra dal nascente movimento di Landini e dai grillini, e a destra, ma meglio sarebbe dire da sopra, dall’incalzante pressione del premier, la minoranza Pd va allo scontro divisa e nell’imbarazzante condizione di doversi alleare con il centrodestra e i suoi franchi tiratori, pur di fermare la legge e riportarla al Senato. Così è chiara almeno la posta in gioco nella madre di tutte le battaglie: la scelta non è tra due diverse riforme; ma tra la riforma e l’eterno vizio italiano del rinvio.
Repubblica 31.3.15
Lo spartiacque dei democratici l’ultimo addio al vecchio partito
Renzi non ha concesso nulla alla minoranza.
Sarebbe apparso strano il contrario: la sinistra Pd non fa paura
di Stefano Folli
È STATA una direzione del Pd che a suo modo segna uno spartiacque. A causa del clima interno, per la frattura netta — e tuttavia priva di conseguenze drammatiche — fra le correnti sulla legge elettorale. Ma anche per il clima esterno: le inchieste giudiziarie, l’arresto del sindaco di Ischia, le cooperative coinvolte con accuse pesanti. È una coincidenza, senza dubbio, ma carica di simbologie.
È come se il vecchio partito nato venticinque anni fa dalla consunzione del Pci, via via arricchito dall’innesto di altri filoni culturali, a cominciare dalla sinistra cattolica, passato attraverso l’esperimento dell’Ulivo prodiano e infine sfociato nel Partito Democratico, avesse concluso la sua parabola. La legge elettorale che il premier-segretario sta imponendo con inesorabile determinazione crea di fatto un altro soggetto politico, centrato su di una leadership forte e pronto a portare in Parlamento, quando sarà il momento, una cospicua rappresentanza della nuova Italia renziana. Il cambio di passo annichilisce i sopravvissuti delle stagioni trascorse, li cancella come protagonisti e persino comprimari del dibattito politico. Li lascia in campo fino al 2018 (o meglio, fin quando durerà l’attuale legislatura), ma solo come testimoni del passato. Inoltre li costringe ad assistere al lento smantellamento di un sistema di potere.
Comunque si voglia giudicarle nel merito, infatti, le iniziative della magistratura hanno un retrogusto politico: colpiscono un certo mondo della sinistra fatto di quadri locali, di piccoli e medi amministratori connessi, in forma diretta o indiretta, alla rete delle cooperative. Si ipotizzano reati, talvolta anche gravi, che riempiono le cronache. Ma il significato è più ampio, va al di là della singola indagine giudiziaria. In realtà si incrinano le fondamenta del «sistema». Un sistema privo nella maggior parte dei casi di risvolti illeciti, ma espressione di un vecchio rapporto fra il partito e i centri economici. Tale rapporto viene messo in discussione, un passo alla volta, dall’avanzata del «renzismo». Ed è l’aspetto più rilevante. Ma poi gli arresti, gli indagati, le notizie di tangenti fanno capire quanto possa essere rapida la crisi dell’antico assetto.
All’interno di questo scenario, Renzi non ha concesso nulla alla minoranza sulla legge elettorale. Sarebbe apparso strano il contrario: la sinistra Pd non fa più paura. Di qui i toni secchi al limite dell’irrisione, il rifiuto esplicito del «ricatto», la volontà di approvare il testo alla Camera entro maggio. Renzi ha vinto a mani basse il confronto con i suoi oppositori e anche in questo caso non c’è da meravigliarsi. Ha ottenuto la «fiducia politica» richiesta: quanti hanno votato si sono espressi all’unanimità in suo favore; gli altri, gli avversari, non hanno partecipato al voto. In tal modo hanno evitato di contarsi, ma hanno anche dimostrato la loro estrema debolezza. Se avessero preso parte alla votazione, il fronte anti-Renzi aveva buone probabilità di spaccarsi, assecondando la strategia del premier che punta — e non da oggi — a separare i giovani dai vecchi capi storici, i Bersani e i D’Alema. Una divisione che nei fatti è già avvenuta, come si vedrà nel prossimo futuro.
Ne deriva che un mattone dietro l’altro prende forma la fisionomia del nuovo partito, grazie al collante della riforma elettorale. Intorno al leader si aggregano pezzi di correnti in via di scomposizione e figure singole approdate da altre formazioni, dal Sel a Scelta Civica. Oppositori e dissidenti perdono terreno giorno dopo giorno. Ma non tutto è in discesa nemmeno per il premiersegretario. È vero che le inchieste della magistratura colpiscono il sistema di potere preesistente a Renzi, ma è pur sempre lui il capo del Pd, cioè il responsabile politico delle zone opache. La faccenda dei sottosegretari indagati non è in realtà risolta e pesa. Come pesa la questione De Luca in Campania. La costruzione del nuovo «partito della nazione» richiede ancora molti passaggi spinosi per il leader.
Repubblica 31.3.15
L’opposizione evoca la scissione: “La ditta non c’è più”
di Goffredo De Marchis
ROMA La Ditta non esiste più, «non a caso ieri non l’ha nominata nessuno», osserva Pippo Civati. La tenuta del Partito democratico stavolta è davvero a rischio, non funziona più l’antico slogan coniato da Bersani per indicare la fedeltà alla linea, sempre e comunque. Roberto Speranza mette in guardia: «Rischiamo di perdere un pezzo del Pd. Ma io credo ancora in una soluzione». Sembra essere l’unico a sperare in un lieto fine. O almeno in una tregua. «Non c’è più il Pd che abbiamo costruito — drammatizza Alfredo D’Attorre —. Di conseguenza non c’è più la Ditta. Renzi non ha nemmeno replicato al dibattito in direzione. Significa che ha già deciso ed è tutto finto, roba buona solo per lo show in streaming».
Finto o finito? La minoranza non ha partecipato al voto sulla legge elettorale. Il premier non ha lasciato margini di trattativa e in questo modo i dissidenti si tengono le mani libere per la discussione in aula. Se l’Italicum è la madre di tutte le battaglie per Renzi, lo è diventata anche per i ribelli. «Io non so se chiamarla scissione — spiega Civati —. So che adesso tutti quelli che si oppongono al segretario hanno capito che i margini della trattativa sono nulli. Chiamiamola rottura, chiamiamola spaccatura. Comunque il Pd è più diviso di ieri. Lentamente si vede che una parte dei nostri elettori non ci segue più. Forse è il 10 per cento, forse il 5. Ma è una massa, piccola o grande che sia, in fuga. Per loro la scissione è già cominciata. Hanno capito prima di noi parlamentari che non si può dialogare con Renzi».
Se è una conta, i numeri sono decisivi. Le minoranze unite, che ieri hanno dato un primo timido segnale di compattezza evitando di votare in direzione, stanno valutando le truppe di cui dispongono alla Camera. Il dato oscilla tra 100 e 110 deputati, un terzo del gigantesco gruppo parlamentare, un piccolo esercito sufficiente a mandare sotto il governo e a rovinare i piani di Renzi: approvare l’Italicum prima delle regionali dribblando un possibile ritorno del testo al Senato. Ora Fassina dice che il loro “no” all’Italicum non influisce sul governo, non lo indebolisce perché «le materie di rango costituzionale vivono di vita propria». Figurarsi. Non è quello che pensa Renzi, il quale affida alle sorti della legge quelle del governo e della legislatura. Ovvero, se si verifica un incidente in aula si torna a elezioni. E non ci crede tanto neppure Fassina che evocando lo slogan bersaniano lo rottama: «La Ditta funziona quando il capo sa ascoltare davvero, oltre che decidere». Se il capo si comporta come Renzi, l’azienda si scioglie. O diventa un’altra cosa.
La battaglia dell’Italicum punta, nelle intenzioni della minoranza, a dimostrare che il Pd ha subito una «mutazione genetica». L’occasione è proprio il voto in aula. Nel caso arrivasse il soccorso azzurro di una ventina di deputati fedeli a Denis Verdini, nostalgico del patto del Nazareno, sarà la prova che il Partito democratico si è spostato verso la destra più invisa a un certo elettorato. È il modo per dimostrare che a sinistra lo spazio si allarga e si può costruire qualcosa. Semmai, la scissione la fa Renzi accettando la stampella di Verdini.
In un clima incandescente, sul terrazzo della sede Pd da cui si accede alla sala della direzione, il premier viene accusato delle peggiori intenzioni. «Si tiene aperte due caselle ministeriali (Affari regionali e In- frastrutture ndr) promettendo posti a tutti per guadagnarsi il favore di pezzi di minoranza », dice un bersaniano. Altri sospettano una “compravendita” di deputati. Esplicitamente insinuano il dubbio che voglia andare a elezioni presto, lasciando da parte la riforma costituzionale. A Speranza, in un incontro recente, Renzi ha spiegato che basta una decreto ministeriale per estendere l’Italicum anche al Senato non riformato. «Ecco, appunto», chiosa il bersaniano.
Le minoranze si preparano a usare tutte le cartucce. Compreso il richiamo a Sergio Mattarella, extrema ratio di una lotta feroce. «Renzi ci ha sempre chiesto di fidarci di lui — ricorda Francesco Boccia —. Stavolta sia lui a fidarsi di noi, del Pd». Sono i tentativi finali di trovare un compromesso, contando su una marcia indietro del premier alla vigilia del voto in aula, previsto dopo il 27 aprile. Speranza, leader di Area riformista, proverà fino in fondo. Chiede 20 giorni di tempo per decidere. Mette a disposizione la sua poltrona di capogruppo, se è un problema di teste da tagliare. Cuperlo garantisce una solidità del voto al Senato in cambio di modifiche condivise che riportino il testo a Palazzo Madama. Posizione distinte sulle quali i renziani contano per spaccare il fronte del no e avere i voti necessari subito. Ieri, a fatica, è passata la proposta di Civati che ha portato tutte le minoranze a astenersi dal voto in direzione: «A suo modo ha funzionato perché è stata finalmente una giornata di chiarezza ». Ma le carte sono tutte da giocare. Anche quella del voto di fiducia che ieri Renzi non ha smentito. E che ridurrebbe la quota 100 dei dissidenti a numeri molto inferiori. Ma lascerebbe lo stesso una ferita insanabile.
il manifesto 31.3.15
Democrack
«Vuoi le urne, dillo», «Peggio del Nord Corea». La sinistra non vota
La minaccia della minoranza: «Al senato le riforme su un binario morto»
La direzione Pd inizia con un applauso a Ingrao, padre del dissenso, e finisce con il dissenso spianato e un voto bulgaro
di Daniela Preziosi
qui
Corriere 31.3.15
Potentati e cacicchi
Il renzismo si è fermato a Eboli
di Antonio Polito
qui
il Fatto 31.3.15
Ischia, l’isola delle tangenti
D’Alema beccato, Renzi intercettato
11 arresti. La megacoop Cpl accusata di mazzette e legami col clan dei Casalesi
Il premier, che usava un cellulare intestato a Big Bang di Carrai
di Vincenzo Iurillo
Napoli Tangenti rosse nell’isola verde. La coop modenese vicina a Massimo D’Alema, secondo l’accusa, foraggiava il sindaco pd di Ischia per accaparrarsi i lavori di metanizzazione dei sei comuni ischitani. Coop rossa, la modenese Cpl Concordia, multiutility dell’energia e del gas con appalti in tutta Italia, presieduta per 40 anni e fino allo scorso gennaio da Roberto Casari, da ieri in carcere per associazione a delinquere e corruzione. Rossa sì, ma secondo i magistrati trasversale nel pagare mazzette travestite da consulenze (anche a un ex parlamentare salernitano del Pdl), e scendere a patti con chiunque, anche con gli emissari del clan dei Casalesi, se necessario. Il grosso degli affari, però, si concentra nei Comuni a guida Pd. Come Ischia, che da ieri è senza sindaco: con Casari e altre otto persone è finito in carcere il democrat Giosi Ferrandino, sindaco e primo dei non eletti pd alle Europee con oltre 80 mila preferenze.
È L’EPILOGO di un’inchiesta, coordinata dai pm di Napoli Woodcock, Loreto e Carrano e condotta dal Noe del colonnello Sergio De Caprio, più noto come ‘Ultimo’ che ha scoperchiato un presunto giro di tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Durissime le valutazioni del gip Amelia Primavera a corredo di accuse di associazione a delinquere, corruzione, corruzione internazionale, false fatturazioni, turbata libertà degli incanti e riciclaggio: “Da parte dei dirigenti Cpl è emerso il sistematico ricorso a un modello organizzativo ispirato alla corruzione che li ha portati ad accordarsi non solo con i Sindaci, gli amministratori locali ed i pubblici funzionari, ma anche con esponenti della criminalità organizzata casertana e con gli amministratori legati a tali ambienti criminali”. Quest’ultimo riferimento è ai lavori di Cpl Concordia per la metanizzazione nell’agro aversano, sui quale i pm della Dda partenopea Sirignano, Maresca e Giordano hanno aperto un altro fascicolo.
IL “SISTEMA” attingeva da fondi neri in Africa formati attraverso la Tunita, una società di Francesco Simone, responsabile relazioni esterne Cpl, e un contratto fittizio tra Tunita e Cpl dallo stratosferico importo di 180.000 euro annui. Simone, arrestato, è un personaggio chiave: avrebbe trasportato i contanti nascosti nel passeggino della figlia durante le trasferte in Tunisia; intercettato il 19 febbraio 2014 con un dirigente Cpl dice di avere “a libro paga” un direttore di banca a Tunisi, chiede come “cortesia” un bonifico di 30.000 euro su un conto di San Marino “e portarmeli cash”, mentre in altre conversazioni con Casari proverebbe a mascherare i viaggi dei contanti chiamandoli “progetti”.
Gli inquirenti non abboccano. La Tunita è sconosciuta anche a molti dirigenti Cpl escussi. Però il contratto rivenuto grazie a una perquisizione nel modenese è firmato da Casari. Durante la campagna delle Europee Simone telefona al candidato Ferrandino e dice di essere in compagnia dell’ambasciatore di Albania grazie al quale potrebbe procurargli “10.000 voti” di albanesi ormai residenti in Italia: “Aspe’ ti passo un attimo l’ambasciatore così lo inviti a Ischia, poi ci sentiamo... ”.
Il “metodo Concordia” è ben descritto a verbale da BrunoLancia (non indagato), responsabile per l’azienda modenese della metanizzazione a Ischia: “Casari tende sempre a ingraziarsi le amministrazioni locali dei Comuni in cui eseguiamo i lavori, e che successivamente dobbiamo anche gestire per molti anni”. Come? In questo caso, assumendo il fratello del sindaco, Massimo Ferrandino, come consulente legale con un contratto da 2.500 euro mensili lordi, e stipulando due convenzioni annuali ritenute anomale tra Cpl Concordia e l’albergo Le Querce di proprietà dei Ferrandino. Le convenzioni riguardano l’utilizzo di sette stanze per i dipendenti con la formula del “vuoto-pieno” durante la bella stagione, per un importo totale di circa 300.000 euro. Casari personalmente visita l’albergo e tratta con la sorella del sindaco.
L’AVVOCATO Ferrandino si lamenta perché il compenso “è basso in relazione al beneficio che egli ritiene di aver permesso a Cpl di guadagnare”, e verrà accontentato. Altissimi invece i guadagni dell’hotel con la formula “vuoto-pieno” che si fa coi tour operator e raramente con altre aziende. I dipendenti modenesi avrebbero fruito di pernottamenti solo per circa 50.000 euro. Il resto sarebbe una “tangente mascherata”. Come la consulenza al fratello del sindaco, commissionata per compiti ritenuti inutili, su “chiamata diretta” di Casari. A sua volta “ringraziato” dal sindaco con la cittadinanza onoraria di Ischia. Ferrandino dal canto suo spiana la strada a Cpl Concordia in tutta l’isola, in lavori slegati dalla metanizzazione.
Il colosso modenese non lavora soltanto a Ischia. Lancia verbalizza l’elenco degli appalti in Campania. Il “referente politico” in provincia di Salerno sarebbe stato un ex parlamentare Pdl, PasqualeVessa. In Cpl lo ha introdotto Simone. Vessa non risulta indagato ma per il gip è il destinatario di “una tangente” sotto forma di consulenza. E dalle perquisizioni sbucano due contratti tra Cpl e Ambiente Energia, la società di Rachelina Vessa, per progetti fotovoltaici tra Teggiano ed Eboli di circa 500.000 euro ciascuno, e un incarico per procacciare contratti da 1.000 euro mensili. Dice Lancia: “(Vessa) si era speso per farci aggiudicare due appalti”.
Il “sistema” si era esteso in Basilicata, a Tursi (Matera), dove si sarebbe attivato un consigliere comunale, e a Rodi Garganico (Foggia). È il “metodo Concordia”. La disponibilità “a mettere le mani nella merda”, ovvero a sporcarsi in nome del profitto. È la colorita espressione ascoltata dagli inquirenti l’11 marzo 2014 mentre intercettano Simone al telefono con Nicola Verrini (arrestato), responsabile commerciale Cpl Concordia per Lazio, Campania e Sardegna. Si parla di gare, ci sono omissis. Verrini: “Il mio problema però è questo... queste persone poi quando è ora le mani nella merda ce le mettono o no? ”. E Simone replica: “È molto più... è molto più utile investire negli Italiani Europei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo capito... D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose”.
Repubblica 31.3.15
L’inchiesta di Ischia imbarazza il Pd “Siamo preda delle lobby”
di Francesco Bei
ROMA Sul palco si discetta di Italicum. «Ma in sala e nei corridoi — ammette Gennaro Migliore — si parlava di Ischia. Io mi sento cuocere, questa roba mi brucia dentro». Lunedì pomeriggio, a via Sant’Andrea delle Fratte si allontanano alla spicciolata i membri della direzione Pd, confusi tra i turisti. La mazzata è pesante, l’arresto del sindaco Giosi Ferrandino, presidente dell’Anci Campania e supervotato alle europee (oltre 80 mila preferenze), il coinvolgimento di una delle più importanti coop rosse emiliane, le telefonate su D’Alema. Ce n’è abbastanza per deprimere e terrorizzare un partito alle prese con una difficile campagna elettorale.
Antonio Misiani, tesoriere del partito nell’era Bersani, trangugia un caffè nero e sospira: «Una brutta faccenda, non c’è che dire. Ecco cosa succede quando si abolisce il finanziamento pubblico, i partiti finiscono preda degli appetiti delle lobby». Ma il problema, ormai, sembra aver raggiunto un livello endemico per il Pd. Che, a torto, riteneva se stesso immune da questi scandali. «Errore, perché quando hai troppo potere, quando vieni percepito come l’unico partito spendibile per il governo, quando da nessuna parte si vede un’alternativa credibile, è chiaro che chi vuole fare affari si rivolge a te. Una brutta faccenda, ripeto: dovremo d’ora in poi tenere non due ma quattro occhi aperti ». Una vigilanza che evidentemente è mancata. E se anche Renzi ritiene in privato che si tratti di una vicenda circoscritta e che valga comunque la presunzione d’innocenza, pure dal palco riconosce il problema. Anzi, annuncia che si farà una direzione ad hoc «per un momento di riflessione comune su come ci stiamo muovendo sui territori. Con le luci e le ombre che ci sono». Ombre soprattutto.
Fosse solo Ischia. Un mese fa è stato arrestato l’ex sindaco di Casavatore, Salvatore Sannino, del Pd. Ex sindaco solo perché, con lungimirante accortezza, pochi giorni prima dell’arresto la giunta del comune confinante con Casoria era stata sciolta. E sempre per restare in zona, una settimana fa l’Antimafia ha arrestato a Eboli due esponenti del Pd perché, in cambio di certificati di residenza falsi per far lavorare le donne rumene nei campi, chiedevano voti alle primarie Pd regionali e nazionali. È intervenuta pure l’Interpol. Poi ci sarebbe la questione di Vincenzo De Luca, con il suo strascico di inchie- ste e la condanna. Ma lo stesso Migliore, che pure contro De Luca era pronto a candidarsi alle primarie, invita a «non fare di tutta l’erba un fascio, perché nel suo caso si tratta di una questione amministrativa».
Ma comunque, e per l’ennesima volta, è inevitabile farsi la domanda: esiste una questione morale nel Pd? Se lo chiedono in molti. «Io faccio politica alla “spera-in-dio” — sussurra Pippo Civati affrettando il passo lontano dal Nazareno — e spesso vado in rosso sul conto corrente, faccio una vita normale, prendo il treno e gli autobus. Ma qui dentro c’è gente che vive in certe case... che gira con certe macchine... ma come fanno? certi stili di vita mi fanno pensare». E poi, secondo Civati, c’è il grande tema delle fondazioni politiche legate ai singoli capicorrente. «È inutile che facciamo il discorso sulla trasparenza dei bilanci dei partiti e poi ognuno si fa la sua fondazione per fare come gli pare».
Com’era forse inevitabile, dato lo scontro mortale in corso tra minoranza e maggioranza, nel Pd il caso Ischia per alcuni diventa il caso Renzi. E per altri invece è il caso della vecchia “Ditta”, troppo contigua al sistema coop rosse-appalti. «D’Alema - confida un renziano - si è difeso con le stesse argomentazioni di Lupi, se la prende con le intercettazioni. Questa schifezza oggi ci casca addosso a noi perché al Nazareno c’è Renzi, ma è tutta roba loro». Basta spostarsi di qualche metro e Alfredo D’Attorre, dopo l’assalto di telecamere e taccuini, si abbandona a una considerazione opposta: «Questa di Ischia è una vicenda inquietante. Ferrandino era il sindaco di un comune importante, è stato candidato alle europee fortemente sostenuto dalla segreteria nazionale, tanto che ha preso decine di migliaia di preferenze ». E chi vuole capire capisca.
Sulla direzione del Pd scende la sera, dopo il voto all’unanimità sulla relazione del segretario, sindaci, assessori e parlamentari sciamano nei ristoranti della zona. Mercedes e Audi con l’autista intasano piazza San Silvestro. Decisamente troppe.
Repubblica 31.3.15
Cantone: “I corrotti non possono più nascondersi”
di Liana Milella
ROMA . «Storia brutta in sé...», scappa detto a Raffaele Cantone non appena gli si chiede che pensa dell’ennesimo scandalo su amministratori pubblici e mazzette esploso a Ischia. Il presidente dell’Authority Anti-corruzione mette subito le mani avanti: «Non ho ancora letto approfonditamente le carte, ma siamo di fronte a una nuova indagine che svela il malaffare». Non le crea difficoltà che ogni giorno esploda un caso di corruzione peggiore di quello del giorno prima? La risposta è pronta: «Purtroppo è così. Ma non lo valuto affatto come un segnale negativo. All’opposto credo che si tratti di un segnale positivo perché significa che corrotti e corruttori non riescono più a nascondersi ma vengono individuati».
L’ex magistrato anti-camorra sta dando gli ultimi ritocchi al duplice intervento che svolgerà oggi in un meeting della sua struttura, l’Anac, con l’Ocse, da sempre molto severa verso l’Italia e il suo livello di corruzione. Proprio dall’Ocse sono venute ripetute rampogne sulla nostra prescrizione, considerata troppo breve proprio per questi reati.
Com’è già è avvenuto in altre occasioni — dall’Expo, al Mose, a Mafia Capitale, all’inchiesta di Firenze — Cantone è restio dal pronunciarsi a caldo su indagini in corso. Ma sul ruolo delle cooperative e su quello delle fondazioni è pronto a dare un giudizio. Dice lo zar Anti-corruzione: «Sulle coop, purtroppo, non c’è da meravigliarsi. Non è la prima volta che il mondo cooperativo, che pure ha un ruolo economicamente importante nel nostro Paese, viene coinvolto in fatti di corruzione. Obiettivamente, è un fatto che dispiace».
Netto il giudizio sulle fondazioni, ovviamente senza entrare nel merito del caso D’Alema, proprio perché, come ripete più volte, «potrò dare un giudizio solo quando avrò letto l’ordinanza». Ma, secondo Cantone, è ormai tempo che le fondazioni soggiacciano alla più totale trasparenza. Dice l’ex pm: «A prescindere da ogni valutazione sul caso specifico, ripeto qui quello che ho scritto anche nel mio libro ( Il male italiano, Rizzoli, con il giornalista dell’ Espresso Gianluca Di Feo, ndr). È tempo che le fondazioni accettino le regole della massima trasparenza che, d’ora in avanti, dovranno essere rispettate sia dalla pubblica amministrazione, sia dalle società partecipate dal ministero dell’Economia». Il presidente dell’Authority parla del decalogo appena messo a punto dal Mef e dall’Anac cui dovranno attenersi non solo le società quotate e non quotate che fanno capo al Mef, ma pure le fondazioni.
Dice Cantone: «Seguire regole di assoluta trasparenza finisce per essere una garanzia anche per le fondazioni serie, per evitare speculazioni, perché quanto più la situazione è chiara e non c’è nulla da nascondere, tanto più si evitano speculazioni e soprattutto non si va incontro a possibili strumentalizzazioni». In una parola, secondo Cantone, «una maggiore pubblicità può essere solo un vantaggio anche per le fondazioni». Inutile, a questo punto, tentare di insistere su D’Alema e sulle intercettazioni contenute nell’ordinanza di Napoli: «Mi dispiace, non insista, di questo non parlo...».
il Fatto 31.3.15
Il malaffare, Cantone e le regole per gli altri
di Antonio Padellaro
Gli arresti di amministratori pubblici si susseguono (ultimo arrivato il sindaco pd di Ischia) ma la domanda è sempre la stessa: possibile che bisogna sempre affidarsi ai carabinieri per scoprire il malfatto? Ai piani alti della burocrazia (ma anche nel mezzanino) chi è addetto ai controlli si gira i pollici o si gira dall’altra parte? E anche la cosiddetta società civile non è piuttosto distratta? A questo proposito è illuminante l’episodio raccontato a Gianluca Di Feo dal commissario anticorruzione, Raffaele Cantone, nel suo libro-intervista Il male italiano, quando al momento della nascita dell’Autorità, una docente universitaria chiese di incontrarlo. Una persona impegnata su legalità e antimafia. “Mi disse che le sarebbe piaciuto diventare consigliere dell’Autorità, ma quando le spiegai che i termini per il bando erano chiusi la sua replica fu sorprendente: “E che problema c’è? Facciamo in modo che non siano chiusi, c’inventiamo un protocollo alla buona”. Non la fermò neppure l’obiezione che ormai tutte le domande erano sul sito web: “Scriviamo che per un problema tecnico la mia domanda non è stata inserita”. Prima di metterla alla porta, Cantone sbotta: “Ma si rende conto che questa è l’Anticorruzione...”. Risposta: “Ho parlato con alte cariche istituzionali... hanno detto che si può...”. Questa la doppia faccia dell’Italia dove si è sempre pronti a chiedere le regole per gli altri. Quelli che sbandierano grandi principi salvo smentirli se sono in ballo i loro interessi.
Corriere 31.3.15
«Compriamo libri e vino di D’Alema». Poi la frase sullo sporcarsi le mani
di Fiorenza Sarzanini
ROMA Quando parlavano di politici, amministratori e istituzioni, facevano una sola distinzione: quelli a disposizione e quelli che rifiutavano. In realtà l’espressione utilizzata dai vertici della cooperativa «Cpl Concordia» era ben più colorita: «Quelli che mettono le mani nella m...». E naturalmente per agevolare questo atteggiamento erano disposti a pagare tangenti da migliaia di euro, ma anche a elargire donazioni e favori grazie alle conoscenze di Francesco Simone, che prima di occuparsi delle pubbliche relazioni della coop era segretario fedelissimo di Bettino Craxi. «Asservito», secondo il giudice di Napoli, è il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino, del Partito democratico, che riesce ad agevolarli nell’affare della metanizzazione dell’isola. Lui ne trae numerosi vantaggi, forse anche per soddisfare le proprie ambizioni che vanno oltre l’incarico che ha. E infatti, in occasione della campagna elettorale, decide di andare a Roma «per parlare con Lotti», il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Tra i favori elencati dai magistrati per dimostrare il tentativo di condizionare le personalità c’è l’acquisto di centinaia di copie dei libri scritti da Massimo D’Alema e Giulio Tremonti, le 2.000 bottiglie di vino che sempre D’Alema aveva prodotto, i viaggi in Tunisia offerti a numerosi amministratori.
La sottosegretaria
È il novembre del 2013. Simone scrive una mail ai vertici della «Cpl» e allega la legge di stabilità approvata dal Senato. Sottolinea, come si legge nell’ordinanza, «che il sottosegretario Simona Vicari — il cui intervento era stato da loro stessi invocato — è la persona che si sarebbe impegnata (appunto su loro indicazione) a far assegnare 140 milioni di euro (distribuiti in 20 milioni per 7 anni) per il completamento delle opere di metanizzazione dell’Italia del sud, di cui beneficerà evidentemente anche “Cpl”. Stando a Simone, Vicari si sarebbe personalmente impegnata a far rimuovere, durante i vari passaggi parlamentari, le parole “nei limiti” alla cifra di 140 milioni».
«Ci ha dato cose»
Scrive il giudice: «Per comprendere fino in fondo e delineare in maniera completa il sistema affaristico gestito dalla “Cpl” appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti con l’onorevole Massimo D’Alema». Si torna all’11 marzo 2014 quando Simone parla con il responsabile commerciale di «Cpl» Nicola Verrini. «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo... D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Dieci giorni dopo lo stesso Simone parla con un’impiegata della Fondazione «dell’acquisto da parte di “Cpl” di alcune centinaia di copie dell’ultimo libro del politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un’azienda agricola riconducibile allo stesso D’Alema».
Il giorno dopo Simone chiama il sindaco Ferrandino «e lo informa che il 10 e l’11 maggio D’Alema andrà a Ischia, sottolineando l’importanza dell’evento che cade nel periodo della campagna elettorale per le europee: “Questo pure è un segnale forte che ti appoggia tutto il partito”».
I bonifici
Il 6 novembre scorso Simone dichiara a verbale di fronte al pubblico ministero Henry John Woodcock: «Confermo che la “Cpl” ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema, tuttavia posso rappresentarvi che fu D’Alema in persona in occasione di un incontro casuale, a proporre l’acquisto dei suoi vini». Il giudice dà conto di una perquisizione effettuata il 20 novembre 2014 negli uffici della «Cpl» durante la quale venivano sequestrati: «Tre dispositivi di bonifici effettuati da “Cpl” in favore della Fondazione Italianieuropei ciascuno per l’importo di 20mila euro (uno dell’8 novembre 2012, l’altro del 9 giugno 2011, un altro ancora del 7 febbraio 2014) nonché un ulteriore dispositivo di bonifico effettuato l’8 luglio 2014 per l’importo di 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo “Non solo euro”. Venivano acquisite anche due fatture sull’acquisto da parte della “Cpl” di due diversi libri scritti dall’ex ministro Giulio Tremonti rispettivamente di 7.440 euro e 4.464 euro».
Il colloquio con Lotti
Agli inizi del 2014 Giuseppe Ferrandino è in campagna elettorale. Il 21 gennaio il fratello Massimo «gli passa una certa Milena e lei lo rimprovera che le avrebbe detto che sarebbe andata a Roma e l’avrebbe chiamata. Lui dice che andrà mercoledì, domani pomeriggio. Milena dice: “Perché ti devo parlare qua. Ho parlato con tuo fratello, c’è un interscambio che dobbiamo fare io e te”. Ferrandino dice che domani a Roma deve andare al Parlamento a incontrare due deputati, Milena insiste per sapere chi sono i deputati. Ferrandino dice che si tratta di Cuomo e Piccolo. Milena in proposito dice: “Giosi punta in alto!”. Ferrandino dice che i voti li deve prendere in Campania e che deve parlare con Luca Lotti».
Servizi e Vaticano
Per far comprendere quale sia la «rete» di Simone e dei responsabili della «Cpl» il giudice inserisce nell’ordinanza un’intercettazione ambientale tra Simone, il sindaco Ferrandino e l’imprenditore Massimiliano D’Errico «durante la quale Simone dice che un suo amico che si è appena laureato carabiniere vuole andare ai Servizi.
Ferrandino : «Lo dimo a D’Alema».
Simone : «A Minniti?».
D’Errico : «E facimmo prima. Sennò parliamo con Esposito, il generale Esposito».
Ferrandino : «Pollari».
Simone : «Qua sotto Pollari e Marco Mancini».
D’Errico : «E allora tutti quanti».
Ferrandino : «E Fini lo conosci?».
D’Errico : «No».
Simone : «Vi presento Angelo Proietti, il novanta per cento dei lavori che fanno al Vaticano, li fa lui. Era l’uomo di Anemone e Balducci... alla grande, tutti i cardinali adesso hanno messo sotto mano il Bambin Gesù... si è risistemato».
D’Errico : «Tengo questo ragazzo che è il figlio di questo qua... vuole andare... spostare all’Interpol».
il Fatto 31.3.15
I compagni compravano i libri e i vini di D’Alema
Renzi intercettato per caso mentre parla con un generale della GdF
di Marco Lillo
Massimo D’Alema non è indagato nell’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia. Però fa una pessima figura perché la sua Fondazione incassa 60 mila euro dalla coop rossa Cpl Concordia che compra libri e vini dalemiani. Matteo Renzi non è nemmeno citato negli atti depositati ieri, ma al Fatto Quotidiano risulta che è stata intercettata dal Noe dei carabinieri una sua conversazione con un importante generale della Guardia di finanza, Michele Adinolfi. Le conversazioni in questione, comprese quelle del sottosegretario alla presidenza Luca Lotti con il generale, sono state trasferite a Roma in un fascicolo senza ipotesi di reato e senza indagati destinato all’archivio senza nemmeno un’ipotesi di reato contro ignoti. Però in quel fascicolo c’è una notizia giornalistica: il telefonino usato da Matteo Renzi era ed è pagato dalla Fondazione Big Bang, fondata da Marco Carrai nel febbraio 2012 e che ora ha cambiato il nome trasformandosi nel novembre 2013 in Fondazione Open.
LA FONDAZIONE è finanziata da donazioni di privati rese pubbliche in ottemperanza al verbo renziano dell’open data, salvo che i donatori non chiedano l’anonimato. Cosa che accade spesso. “Il telefonino fu dato a Renzi”, spiega il presidente di Fondazione Open Alberto Bianchi, “al momento in cui iniziò l’attività connessa alle primarie e alle varie Leopolda, in cui la Fondazione è stata coinvolta”. Negli atti dell’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia infine è citato un terzo big del Pd: il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, Marco Minniti. In una telefonata uno degli arrestati, Francesco Simone, si interroga su chi sia la persona giusta per raccomandare un suo amico, “appena laureato carabiniere a Vicenza” che voleva entrare nei servizi segreti: “D’Alema o Minniti? ”.
In un secondo passaggio in parte omissato dell’ordinanza il gip Amelia Primavera fa riferimento a una seconda fondazione citata da Simone, difeso dall’avvocato Maria Teresa Napolitano. Scrive il gip: “Simone proferisce, in riferimento alla quota associativa da pagare ad un’altra fondazione (della quale, per ragioni investigative, si omette la denominazione): ‘dobbiamo pagarlo perché ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento”.
Chissà qual è la Fondazione misteriosa. L’ordinanza riporta conversazioni telefoniche di Simone con Giovanni Santilli, vicesegretario generale della Fondazione Icsa, legata al mondo militare e dei servizi e oggi guidata dal generale dell’Aeronautica Leonardo Tricarico ma in passato presieduta da Minniti.
Le indagini del pm Henry John Woodcock disegnano un ritratto inedito dell’ex leader della sinistra italiana e della sua Fondazione Italianieuropei. La coop rossa Cpl finanziava la Fondazione, comprava libri e vino marchiati “D’Alema” con l’intento, dichiarato nelle intercettazioni, di ottenere l’appoggio di un uomo potente che, secondo i manager della società, sarebbe potuto di lì a poco diventare commissario europeo.
Massimo D’Alema ieri era infuriato con la stampa e con i pm di Napoli: “La diffusione di notizie e intercettazioni che non hanno alcuna attinenza con le vicende giudiziarie di cui si occupa la procura di Napoli è scandalosa e offensiva”. Però quando la Cpl donava 60 mila euro e comprava vino e libri al fumantino ex premier non è venuto un dubbio? Simone dice che bisogna “investire negli Italiani Europei” in quanto “D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose”. Simone dice: “È molto più utile investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo capito... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose”. Scrive il gip che presso Cpl venivano sequestrati “tre dispositivi di bonifici effettuati dalla Cpl in favore della Fondazione Italiani Europei, ciascuno per euro 20 mila, un ulteriore bonifico dell’8 luglio 2014 per 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo: Non solo euro”.
QUANDO SIMONE scopre che sui libri di D’Alema, la Fondazione fa solo uno sconto del 10% si lamenta: “Se questi soldi andassero alla Fondazione mi starebbe bene... ma vanno alla casa editrice”. E la segretaria della Fondazione replica: “Vanno alla Fondazione”.
Simone, interrogato da Woodcok, ha spiegato: “Confermo che la Cpl ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema tuttavia fu Massimo D’Alema in persona in occasione di un incontro casuale tra me, lui, il suo autista e il presidente (allora a capo di Cpl Concordia, ndr) Casari, a proporre l’acquisto dei suoi vini”. Replica D’Alema: “Non ho avuto alcun regalo ed è ridicolo definire l'acquisto di 2000 bottiglie di vino in tre anni come un ‘mega ordine’ peraltro fatturato e pagato con bonifici a quattro mesi”.
il Fatto 31.3.15
Le intercettazioni
“Se parliamo finiamo tutti al gabbio”
di Fabrizio d’Esposito
Dice Massimo Ferrandino, fratello più piccolo del sindaco di Ischia Giuseppe detto Giosi: “A detta di Giosi andiamo a finire tutti in galera”. Il quale Ferrandino junior, gratificato da una consulenza alla Cpl Concordia con un fisso mensile di 2.500 euro, viene così descritto da Giulio Lancia, uomo della coop nonché sindaco di un paesino abruzzese, ai magistrati: “Per essere sincero mi risulta che l’avvocato Massimo Ferrandino non sappia nulla e non capisca nulla della materia di cui abitualmente si occupa la Cpl”. Ma è lo spettro delle sbarre, di vedere il cielo a scacchi, quello che tortura e tormenta i personaggi dell’inchiesta. A parlare, stavolta, è Francesco Simone, responsabile delle relazioni esterne della Cpl Concordia. Simone è nel suo ufficio e si rivolge a un interlocutore, Nicola De Vecchi: “Forse non hai ancora capito, no ma non hai proprio capito un cazzo, quelle situazioni lì, qui lo dico e qui lo nego, le gestisco solo io”. De Vecchi: “Ma infatti se mi lasci finire di parlare”. Ma Simone lo interrompe: “Se parliamo, finiamo al gabbio tutti forse non hai capito, cioè non ne voglio più sentire perché ho cinque figli, meno si parla e meglio si sta... poi tu parli con chi cazzo vuoi tanto lì da me vengono”.
MA CHI È SIMONE? A differenza di Ferrandino che è un marpione democristiano poi riciclatosi con tempismo bipartisan, cioè prima berlusconiano di Forza Italia poi renziano del Pd, Franco Simone è un vecchio socialista pugliese, classe ‘57. Gli ex del Psi craxiano, forse in onore del ritorno in auge di Tangentopoli, spuntano ovunque nelle ultime inchieste. Come questa di Ischia e come quella delle Grandi Opere di Ercole Incalza, a sua volta ex craxiano. Simone, per gli investigatori, è il cervello della finanziaria Tunita, con cui portare i contanti “neri” dalla Tunisia in Italia per pagare tangenti. Candidato alle Politiche del 2006, capolista alla Camera per i socialisti di Bobo Craxi, Simone è ancora legato al figlio dell’ex leader Psi Bettino. I magistrati evidenziano alla fine il sunto di una telefonata tra Simone e Bobo Craxi, in cui è citato il presidente tunisino Essebsi: “Simone ha scoperto che lo pseudo-nipote di Essebsi era in aereo con lui e lo guardava strano. Craxi taglia corto dicendo che ne parleranno di persona. Craxi riparla di Massaro e dice che lavora giù in Tunisia e vuole sapere chi sia. Simone dice che l’ufficio in Tunisia è operativo e vuole prendere la residenza in Tunisia, atteso che c’è molto da fare”. Per i soldi portati in Italia, i magistrati ecco come spiegano anche la “spiccata pericolosità sociale” e la “non comune attitudine all’inquinamento probatorio” del socialista Simone: “Non potrebbe essere diversamente qualificata la condotta di chi non esita a nascondere del denaro nella carrozzina della figlioletta poco più che lattante e che, non contento, distribuisce soldi in contante nelle tasche dei suoi compagni di viaggio”. Nell’aprile del 2014, a Fiumicino, Simone nasconde le banconote nel passeggino della figlia: “Metto sotto il passeggino, cioè chi cazzo lo controlla, hai capito”. In più d’una occasione, Simone rivendica amicizia e rapporti antichi con vari politici. Tipo il nuovo sindaco di Bari, Antonio Decaro: “Se permetti lo dico io ad Antonio Decaro, che è il prossimo sindaco, l’ho cresciuto, stiamo anche guardando la cordata che acquisterà la parte della gestione”. L’ossessione della galera torna spesso: “Non una parola in più, non una parola in meno poi sarà cazzi si va al gabbio. Siediti che mi fai venire l’ansia”. E quando Ferrandino si candida alle ultime Europee, il solerte Simone gli fa l’elenco di tutte le persone da chiamare per portare voti in Puglia, compreso l’ex senatore Alberto Tedesco, altro socialista del Pd, arrestato alla fine del suo mandato parlamentare e poi prosciolto da tutte le accuse.
IL CRAXIANO è anche un laico socialista che crede fortemente nel dialogo Oltretevere, con la sponda cattolica. Scrivono i magistrati: “Simone parla al telefono con Angelo Proietti. (...). Saluta l’interlocutore e attacca il telefono. Poi dice che questo Proietti era l’uomo di Balducci, è il numero uno al Vaticano, aggiunge che era stato coinvolto nello scandalo della casa di Tremonti e poi dice ‘il novanta per cento dei lavori in Vaticano li fa lui, Angelo Proietti. E adesso c’è in ballo finalmente l’efficientamento energetico del Vaticano’”. L’orgoglio socialista gonfia il petto anche di Nicola Pinto, sindaco di Rodi Garganico che dice a Roberto Casari, presidente della Cpl Concordia: “Io sono uno di quelli che non fa la politica con la magistratura, ma capisco tutto e il contrario di tutto. Sono sempre socialista”. Anche Pinto promette voti a Ferrandino per le Europee e a quel punto viene fuori la richiesta del sindaco di Rodi Garganico di potenziare il turismo religioso via mare. Ancora una volta il dialogo tra laici e cattolici. Il politico di Ischia si trova negli uffici dell’armatore Salvatore Lauro, già parlamentare berlusconiano. Chiama Pinto e lo fa parlare con un responsabile della società. Il sindaco di Rodi Garganico espone: “L’interesse principe che dovrebbe tirare è quello di carattere religioso cioè Padre Pio e la Madonna di Medjugorje. Padre Pio da Rodi dista 45-50 minuti e la Madonna di Medjugorje che dista da Ploce 25-30 minuti: quindi in giornata calcolando tre ore di traversata andata e tre ore a ritorno si potrebbe andare a Ploce e tornare a Rodi”.
Tra i politici citati nell’ordinanza non può mancare un parlamentare dell’attuale Ncd alfaniano. In questo caso è il sottosegretario siciliano Simona Vicari. I magistrati riportano mail di Simone che indicano in lei “la persona che si sarebbe impegnata su loro indicazione a far assegnare 140 milioni di euro per il completamento delle opere di metanizzazione dell’Italia del sud, stanziamento di cui beneficerà evidentemente anche la Cpl”. La cura dei dettagli è estrema: la “Vicari si sarebbe personalmente impegnata a far rimuovere, durante i vari passaggi approvativi tra i due rami del Parlamento (la legge di Stabilità, ndr), la parola ‘limiti’ riferita, dal dettato della norma, alla cifra di 140 milioni”. Soldi, soldi, soldi. Ennesimo politico è l’ex parlamentare forzista Pasquale Vessa. Ecco un sms di Diego Polizio a Nicola Verrini: “1. Pizza ok con Carmine 2. Domani Casari viene a Salerno per incontrare Vessa. Lo sapevi? 3. Contributo elettorale, riesci? È importante. Ciao”. Prima di Vessa, poi, Simone cita a un certo punto “l’uomo di Saccomanni”. Altro giro, altra corsa.
il Fatto 31.3.15
Cpl acquistò anche le opere di Tremonti
IL 20 NOVEMBRE 2014, in una perquisizione presso la Cpl Concordia nell’ambito dell’indagine coordinata dalla Procura di Napoli, gli investigatori che indagano sulle presunte tangenti ad Ischia hanno recuperato anche due fatture per l’acquisto da parte della Cpl di copie due diversi libri scritti dall’ex ministro Giulio Tremonti, rispettivamente di 7.440 e 4.464 euro. È quanto si legge negli atti dell’inchiesta. Cifra irrisoria rispetto alla quale l’ex ministro di Silvio Berlusconi, naturalmente non indagato, ha comunque precisato: “I diritti d’autore che via via vengono calcolati sui miei libri uso via via distribuirli in beneficienza. A riprova del fatto che con la cultura non si mangia”. Erano copie acquistate da Cpl, ha spiegato Tremonti, per regalarle ai partecipanti a due diverse presentazioni pubbliche a Modena e a Ischia.
il Fatto 31.3.15
Coop rosse e affari
di Giorgio Meletti
COOP ROSSE & AFFARI LA RETE DI CASARI DA TREMONTI A POLETTI
PER TRENTANOVE ANNI AL VERTICE DI CPL CONCORDIA, ARRESTATO IERI, L’EX PRESIDENTE DELLA COOPERATIVA È SEMPRE STATO ABILE NELL’ALLARGARE LE SUE AMICIZIE POLITICHE
Se all’esito dell’inchiesta giudiziaria cadessero le gravi accuse per le quali Roberto Casari è stato arrestato ieri, resterebbe solo una cosa da dire: che l’ex presidente della coop cosiddetta rossa Cpl Concordia è un genio del management. Un anno fa, all’assemblea di bilancio presenziata dall’amico di sempre Giulio Tremonti, Casari snocciolava orgoglioso i suoi risultati: “Nel 2007, all’inizio della crisi, contavamo circa 800 persone e 200 milioni di euro di fatturato: oggi in assemblea Cpl si presenta con 1400 occupati e 415 milioni di euro di valore della produzione consolidata”. Un miracolo: in sei anni di crisi nerissima dell’economia italiana fatturato più che raddoppiato con un’azienda che ha come clienti enti e società pubbliche afflitte da tragici problemi di bilancio. Ma nessuno ha sollevato interrogativi. Anzi.
LA STORIA della Cpl Concordia, indipendentemente dall’inchiesta, è esemplare della parabola dei boiardi rossi, veri e propri intoccabili a cui tutto è permesso grazie allo scudo spaziale chiamato Legacoop, un sindacato datoriale pronto a rintuzzare ogni minima critica evocando il consueto fantomatico “attacco al movimento cooperativo”. Fino a un anno fa il lord protettore era Giuliano Po-letti, ex funzionario comunista di Imola, per anni presidente di Legacoop, oggi ministro del Lavoro.
Ieri ha detto: “Se qualcuno ha sbagliato pagherà”. Dieci anni fa, di fronte a scandali analoghi, non aveva dubbi: “I nostri manager sono onesti e rispondono ad aspettative etiche più alte rispetto ai loro colleghi privati”. Negli stessi giorni un grande vecchio della sinistra come Bruno Trentin diceva cose diverse: “Sembra che gran parte del movimento cooperativo abbia perso l’anima”. Erano i giorni in cui la cupola del movimento cooperativo, guidata da Pierluigi Stefanini, oggi presidente di Unipol-Fonsai, e dal boss di Manutencoop Claudio Levorato, oggi plurindagato, faceva fuori Gianni Consorte dal vertice dell’Unipol dopo la fallita scalata alla Bnl. Casari, amico di Consorte, restava al suo fianco, tanto da supportarlo poco tempo dopo nella nuova iniziativa imprenditoriale, la merchant bank Intermedia. E Trentin si chiedeva come mai Poletti, in nome di chissà che cosa, fosse schierato sempre a fianco della Confindustria contro i lavoratori.
Gli intoccabili delle coop sono anche in guerra tra loro. Due anni fa Casari ha presentato alla procura di Bologna un esposto proprio contro la Manutencoop di Levorato. Arrivato secondo nella gara per la centrale tecnologica dell’ospedale Sant’Orsola, il capo di Cpl Concordia ha sollevato dubbi sulla correttezza della gara. La solidarietà cooperativa non fa velo all’odio per Levo-rato: “Le persone che prevaricano mi danno fastidio, per questo non parlo con Levorato da quindici anni”, ha dichiarato a Panorama.
SI ACCUSANO TRA LORO di giocare sporco, e si conoscono bene. Gli autocrati delle coop rosse si somigliano tutti, padroni in casa loro come nessun capitalista è mai stato nell’azienda di famiglia. Levorato è presidente della Manutencoop dal 1984. Ma Casari è stato presidente della Cpl Concordia dal 1976 allo scorso 30 gennaio, quando ha lasciato per godersi la pensione e affidare l’azienda ai suoi scudieri. Come giustificare 39 anni al vertice? Con i risultati ovviamente. La Cpl sotto la guida di Casari ha decuplicato il fatturato, e portato i posti di lavoro oltre quota 1600. Si è anche espansa all’estero, impetuosamente. Ma per 39 anni nessuno ha potuto criticare i metodi.
Il fatto è che mentre si seccavano i rubinetti delle grandi opere, è toccato alle aziende dei servizi, come Manutencoop e Cpl, fare la parte del leone con gli enti pubblici: gas, elettricità, illuminazione stradale, pulizie degli uffici. Commesse milionarie in nome dell’esternalizzazione e della razionalizzazione, con un punto di forza, la mano d’opera a basso costo senza che nessuno protesti, perché se la coop è rossa può fare ai lavoratori ciò che vuole.
L’abilità di Casari è stata anche di allargare il giro delle amicizie politiche, con una politica dell’immagine che non ha direttamente a che fare con la corruzione. Avere Tremonti alla cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria di Ischia (12 aprile 2014) è un segnale per l’esercito di sindaci e funzionari comunali con ambizioni di carriera. E così l’assemblea di bilancio 2009 vede ospite d’onore il ministro Renato Brunetta, quella del 2010 vede sul podio il ministro Maurizio Sacconi, nel 2011 è la volta di Massimo D’Alema, e poi ancora Tremonti, e il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. E sempre, con loro, Poletti, l’uomo che aveva un solo modo di vigilare sull’etica coop: non accorgersi di niente.
il Fatto 31.3.15
Dall’ex Cavaliere al Boy Scout: rimane un Paese che puzza
di Dario Fo
Ma dove, in che mondo stiamo vivendo? Come possiamo assistere senza alcuna indignazione allo spettacolo di un uomo, per di più giovane d’aspetto e d’età, che accetta di aver rapporti con personaggi fortemente compromessi pur di facilitare la sua scalata al potere? E soprattutto che prende come esempio da seguire un altro già maturo e collaudato mentitore, famoso per il coraggio di ripetere le proprie menzogne più volte senza batter ciglio? Appunto: dove stiamo vivendo? Ma con questo discorso non vogliamo alludere all’ambiente sociale, economico, in cui abitiamo, ma piuttosto a quello fisico, quello degli astri, dei pianeti e delle costellazioni.
Prima dell’abiura
Galileo Galilei, nella tragicommedia scritta e allestita da Bertolt Brecht, a un certo punto lo vediamo scuotere un giovane frate francescano perché egli faccia uno sforzo per intendere la verità. “Tu credi alle falsità ben costruite – gli grida – da chi vuole convincerti che, come narra la Bibbia, la dimensione del creato sia ridotta al minimo. Da sempre, la Chiesa dominante ha cercato di convincere i fedeli che noi della Terra siamo naturalmente al centro del creato, e che dietro al turbinare dei pianeti ben conosciuti, Venere, Marte, Giove e gli altri, non ci sia che un fondale di stelle decorative. Poi più nulla: l’immenso è qualcosa di circoscritto”. Ma ecco che, uno dietro l’altro, da qualche tempo in qua, appaiono scienziati e scopritori di stelle che buttano all’aria tutta la rappresentazione tolemaica a cui eravamo abituati e ci rivelano al suo posto l’esistenza di un universo infinito, cioè a dire qualcosa di talmente immenso che Dio stesso non è riuscito a finire. Quindi nell’universo non roteano soltanto gli astri della nostra galassia, ma infiniti mondi coi loro soli, i loro pianeti e le loro comete. Ne nasce un universo incommensurabile, dove il tempo e lo spazio sono concetti che noi non riusciamo a comprendere. “Ecco, lassù, una stella sta cadendo, un’altra esplode! ”. “Niente di che meravigliarsi, è da sempre che le stelle cadono nel cielo”. “Sì, ma prima di oggi nessuno era venuto a darci l’avvisata: ‘Attento, quella stella è esplosa a milioni di anni luce da noi, e mentre noi la vediamo esplodere in realtà è già sparita dall’universo da secoli’”. Questo è un concetto di fronte al quale nessuna persona dotata di intelligenza e sensibilità può fare a meno di sentirsi all’istante ridotto a un’entità minima. Quindi io mi chiedo: come può un essere umano, davanti a questa consapevolezza, atteggiarsi a uomo potente e insuperabile, e soprattutto guardare con disprezzo a tutti coloro che non hanno acquisito né potere né ricchezza?
Quel “Patto” infame
Ebbene, è per questo che è proprio del personaggio in maggior evidenza del momento nel nostro Paese che noi siamo costretti a parlare. Nel febbraio del 2014, mentre Saturno era in congiunzione con Mercurio, Renzi assicurava che mai avrebbe formato un governo con Berlusconi. Ed è stato di parola, non ha formato un governo con Berlusconi, ma con lui s’è incontrato al Nazareno e ha steso un accordo segreto nel quale si impegnava a salvare dalla galera il Cavaliere, ma nello stesso tempo, con il suo voto, Berlusconi avrebbe sostenuto il giovane arrampicatore, nel caso egli fosse riuscito a diventare presidente del Consiglio.
“Enrico stai sereno”
È passato solo un mese, Venere sfiora Marte, Letta è presidente del Consiglio e teme di venir defenestrato. Renzi lo rassicura: “Enrico, stai sereno”, come dire “ci sono io che ti proteggo”. E infatti ecco che, con un colpo da maestro, il toscano butta giù dal suo seggiolone l’ignaro Letta e prende il suo posto diventando capo del governo. Molti osservatori politici hanno sottolineato che quella defenestrazione equivalesse a una pugnalata alla schiena di un caro amico di partito. Ma, come si dice in politica, à la guerre comme à la guerre! Le pugnalate si sprecano. Oh, che strano, un’altra meteora sta solcando il cielo. Il ragazzo dal colpo basso facile sale al governo e promette che la legge sul conflitto di interessi sarà finalmente messa in atto. È da vent’anni che è lì, ferma, bloccata, tutti promettono che sarà risolta, ma guai chi a si muove! E finalmente arriva lo sdraghignazzo di Firenze e si dà immediatamente da fare perché nulla sia fatto. Renzi s’è reso conto che, oltre a Berlusconi, troppe sono le persone di potere e le lobby che vedono con orrore il nascere di una legge che impedisca di essere, per esempio, ministro dell’Agricoltura e nello stesso tempo proprietario di un’azienda agricola.
Continuiamo ad aspettare
Ma ci sono tutte le leggi ad personam che attendono di essere cancellate, tolte di mezzo, come quella sul falso in bilancio. Per Dio! Con un governo di sinistra come questo è il primo gesto veramente legale che tutti gli italiani si aspettano! Italiani, state aspettando? Ebbene, continuate così, aspettate. Nessuno di questi catorci messi in piedi da Berlusconi, ora che è in affari con Renzi, verrà mai spostato da dove si trova! Un’altra stella sta cadendo dal cielo, non distraetevi, è solo per ricordare l’immensità dell’universo, continuiamo tranquilli a operare su misere cose terrene.
Il progetto di Confindustria
“Quindi ora – annuncia Matteo – il mio governo metterà mano allo statuto dei lavoratori. Anche questo accordo è lì in stand by da anni, intoccabile, ma noi faremo il miracolo. Ma attenti, non andremo a casaccio, ma ci consulteremo con un testo sacro sul lavoro, cioè a dire fotocopieremo per intero il progetto della Confindustria. E tanto per incominciare manometteremo l’articolo 18. Il tutto per rendere più facile il licenziamento di ogni operaio e impedire che la vertenza sia, come al solito, decisa in tribunale, dove il datore di lavoro rischia quasi sempre di risultare perdente. La risolveremo fra di noi. L’imprenditore darà l’ordine di fine contratto e il lavoratore si limiterà ad acconsentire rispettosamente”. “Ma questa è un’aberrazione infame! ” urla il solito rompiscatole di sinistra. “Non direi infame, abbiamo soltanto spostato il nostro partito un po’ più a destra, direi nel centro, e la virtù, come è risaputo, sta nel mezzo”. Oltretutto Matteo ribadisce sempre che egli è orgoglioso di essere a capo di un partito che nasce dalla lotta di classe e che è al servizio del popolo dei lavoratori. Ma, proprio per dimostrare di non essere un uomo di parte, visceralmente nemico di chi detiene il potere, non disdegna di incontrarsi con personaggi spesso ritenuti palesi prevaricatori della classe operaia.
L’amico fraterno di Marchionne
Tanto per cominciare egli dimostra di essere amico fraterno, l’abbiamo appena ricordato, del presidente Berlusconi, e soprattutto dell’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, che è un dirigente di origine italiana naturalizzato canadese, ma abita e paga le tasse in Svizzera, pur lavorando la maggior parte del suo tempo in Italia. Il Marchionne è famoso per aver imposto una votazione a tutti gli operai Fiat sull’accettazione o meno del suo programma, una votazione che i lavoratori sono stati costretti ad accettare obtorto collo. È l’uomo che brutalmente disse: “O firmate per me o io traslocherò la fabbrica dove lavorate all’estero, per esempio in Romania, dove finalmente non avrò più a che fare con i sindacati, perché non ci sono, e risparmierò una notevole quantità di denaro pagando per gli stipendi una cifra di gran lunga più bassa di quella che sono costretto a sborsare in questo Paese”.
Il clima di mafia e ingiustizia
L’Italia è anche la patria delle grandi imprese che avvelenano l’aria e gli abitanti che vivono nei pressi della fabbrica, come per esempio l’Ilva di Taranto, o il caso delle polveri di amianto che hanno ucciso nel Monferrato in trent’anni circa milleottocento fra operai e cittadini. E alla fine, proprio quest’anno, nel momento in cui Giove incontra Saturno, gli industriali svizzeri responsabili di quella strage sono stati “liberati ” dal tribunale italiano per sopraggiunta prescrizione. E qui bisogna ammettere che è con una certa ragione che a questo proposito Renzi s’indigna gridando: “Che c’entro io con queste infamità? Io non c’ero, in alcuni casi ero addirittura un bimbo! ”. Ha ragione, povera creatura. Al suo arrivo ha trovato un’Italia già massacrata da ingiustizie, delitti e corruzione. Semmai l’unica sua colpa è il fatto di aver mantenuto e preservato quel clima di ingiustizia. Ma dove stavi, se non a Palazzo Chigi, quando a Roma è esploso lo scandalo di Mafia Capitale, con 37 arrestati per associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, turbativa d’asta, false fatturazioni, riciclaggio di denaro e corruzione? E a Milano? Come hai reagito quando hai scoperto che la mafia gestisce cantieri in tutta la Lombardia, e specialmente nell’area dell’Expo? Un tempo si diceva che la mafia sta inserendosi nelle istituzioni, ma per come stanno andando le cose mi pare che si debba asserire che sono le istituzioni che si stanno infiltrando nella mafia. Ma allora ha proprio ragione papa Francesco quando si mette a urlare: “Attenti voi, che con la mafia e la corruzione state andando oltre il segno. Non cedete alle lusinghe di facili guadagni o di redditi disonesti. Sono la ricchezza di oggi ma la fame di domani. Dicono gli antichi che il denaro non ha odore, ma la corruzione puzza, e come! ”.
E noi aggiungiamo: attento, Matteo. Non ti sarà più di vantaggio indossare il giubbotto di Fonzie, metterti a correre per fare il giovane sportivo. Addosso, continuando così, a essere furbo, scaltro, disponibile a ogni corruttela, ti resterà uno strano odore, meglio, la puzza della corruzione e dell’inganno. E non varranno né spruzzate di profumo né bagni nell’acqua termale. La puzza dei furbi si diffonde in ogni luogo, anche in Parlamento, e fa esclamare: “Dio, che tanfo!”.
La Stampa 31.3.15
La disoccupazione risale e torna al 12,7%
Tra i giovani è al 42,6%
qui
La Stampa 31.3.15
Camusso: “Il mio bacio con Landini? Cofferati non dia lezioni di affettività”
La leader della Cgil al suo predecessore: «Non accetto lezioni da chi da un giorno all’altro se ne andò a fare il sindaco a Bologna»
qui
Corriere 31.3.15
Ora Camusso incalza Landini: sgomberi il terreno dalle ambiguità
di Alessandro Trocino
ROMA «Il sindacato non deve dare messaggi ambigui». Susanna Camusso, da Piazza pulita , si rivolge a Maurizio Landini, che con la sua coalizione sociale e la manifestazione in piazza del Popolo ha lanciato un messaggio politico contro il governo: «L’ambiguità non fa bene al sindacato — spiega il segretario della Cgil —. Non fa bene dare il dubbio ai lavoratori e alle lavoratrici che ci stiamo preparando dei destini personali: sgombera il terreno».
La Camusso era in piazza sabato, anche se ha deciso di non parlare dal palco. Sergio Cofferati, che aderirà alla coalizione sociale con una sua associazione, giudica il bacio con Landini «un brutto bacio, un gesto brutto, con lei che si ritrae». La Camusso replica così: «Lezioni di affettività da Cofferati non ne prendo. Trovo che sia scadente disquisire su una foto. Eravamo insieme nell’ultimo pezzo di corteo. Dobbiamo discutere di chi un giorno ci ha detto “ciao ciao, vado a fare il sindaco di Bologna?”».
Intanto la coalizione sociale si è messa in moto. Si esclude che l’obiettivo finale sia la costituzione di un partito, mentre probabilmente la tappa intermedia sarà un coordinamento. Ci sta lavorando, oltre a Landini, Michele De Palma, coordinatore nazionale Fiat-auto del sindacato dei metalmeccanici. Ne faranno parte alcune associazioni, come Libera. Gino Strada, di Emergency, invece non ne sa nulla: «Cos’è sta roba? Sono in Sierra Leone da sei mesi, non ci tirate in mezzo. Sono iscritto alla Fiom e sostengo Maurizio. Ma la cosa per ora finisce lì. Poi vediamo cosa farà, se farà politica o altro».
La svolta di Landini è guardata con diffidenza dai colleghi sindacalisti. Carmelo Barbagallo, segretario della Uil, lo avverte: «Tutti gli ex sindacalisti che si sono messi a fare partiti sono scomparsi dalla scena politica». Dura anche Annamaria Furlan, leader della Cisl: «Il grande movimento che vuole costruire Landini di sindacale ha davvero poco. Landini sono tre anni che non firma contratti, ha dimenticato come si fa». Ancora più esplicito il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli: «Operazione sbagliata, è apprendistato pre-elettorale». Ostili anche i 5 Stelle — «è nostalgico», dice Luigi Di Maio — mentre Goffredo Bettini apprezza: «Come Renzi vuole fare saltare il banco, burocratico: per questo viene criticato sia dal sindacato tradizionale sia dalla sinistra del Pd».
Repubblica 31.3.15
La parola Sinistra e la bussola dei diritti
Governare il pluralismo non è per nulla facile
La Sinistra ha un compito arduo e non immune da rischi di divisioni e abbandoni
di Nadia Urbinati
LAVECCHIAS inistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.
LIBERARE la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.
«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?
La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.
Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.
La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.
il manifesto 31.3.15
Coalizione
din Alberto Leiss
qui
Il Sole 31.3.15
Riforma e casi ignorati
Le occasioni mancate della «buona scuola»
di Andrea Ichino e Guido Tabellini
Incrementare l’autonomia dei singoli istituti. È questo uno dei principali obiettivi del nuovo disegno di legge “La buona scuola”. L’obiettivo è giusto e ampiamente condiviso, ma gli strumenti indicati per raggiungerlo sono inadeguati ed è facile prevedere che falliranno. Eppure l’esperienza internazionale è chiara nell’indicare strade percorribili, che il governo ha scelto invece di ignorare.
L’autonomia scolastica è indispensabile per almeno due ragioni. Innanzitutto perché non esiste “una” scuola che vada bene a tutti. Gli italiani hanno preferenze e opinioni molto diverse tra loro su come istruire i propri figli. È naturale ed è un bene che sia così: lo è in tutto il mondo. Una buona offerta scolastica, quindi, deve essere differenziata e orientata dalle scelte delle famiglie, il che presuppone ampi margini di autonomia a livello di singolo istituto.
Inoltre, un’ampia evidenza empirica mostra che, più ancora dei contenuti e delle strutture, contano gli insegnanti, la loro preparazione e motivazione. Sono quasi un milione i docenti in Italia, dislocati in migliaia di scuole. Senza un’effettiva autonomia scolastica, è impensabile che essi possano essere scelti e gestiti in modo efficiente dal centro. Non ci riuscirebbe un’impresa efficiente, figuriamoci lo Stato italiano.
Per realizzare una vera autonomia, all’estero si osservano nuove forme di scuole gestite da privati ma regolate e finanziate dallo Stato, con fondi che seguono le scelte delle famiglie. L’esempio più noto è quello delle Charter Schools americane, i cui gestori no-profit operano con obiettivi definiti e limiti alla discrezionalità (ad esempio, non possono scegliere gli studenti, ma sono liberi di reclutare i docenti preferiti a condizioni di mercato). Non sono scuole private, quindi, perché la collettività le controlla (e a volte le chiude) avendo un ovvio interesse a garantire una buona qualità del sistema educativo. Né sono scuole per ricchi, anzi hanno ottenuto i risultati migliori proprio nei contesti più disagiati (http://seii.mit.edu/).
Una Charter School risolverebbe meglio i problemi che il nostro Stato non sa affrontare. Ad esempio, per sopperire alla drammatica carenza di insegnanti per le materie scientifiche, offrirebbe condizioni retributive migliori rinunciando con flessibilità a quel che è meno necessario. La “Buona scuola” invece, a colpi di concorsi, circolari ministeriali e assenza di selezione, non ci riuscirà, causando un danno irreparabile alle competenze scientifiche di un'intera generazione di giovani italiani.
Non basta scrivere un obiettivo educativo in una norma perché esso si realizzi, se il corpo docente, soprattutto a parità di condizioni contrattuali, non è adatto allo scopo. Quale educazione musicale potranno impartire gli attuali insegnanti delle elementari che non abbiano alcuna competenza di questo tipo? E chi non conosce lingue straniere potrà davvero insegnare la sua materia in inglese, come auspica la “Buona Scuola? La formazione non basta a riqualificare i docenti: i più anziani, delusi e poco motivati non cambieranno facilmente abitudini.
Nulla, nel disegno del governo, lascia sperare che la scuola italiana riuscirà ad attirare docenti migliori. L'idea di far dipendere meccanicamente la retribuzione degli insegnanti da parametri oggettivi è illusoria. Nessun indicatore misurabile può descrivere adeguatamente la complessità dei compiti di chi opera nella scuola. Non sorprende quindi che il governo abbia fatto marcia indietro su questo, confermando solo gli scatti di anzianità.
Ancor più preoccupante è che non si sappia nulla su come saranno reclutati e incentivati i presidi, nonostante tutto il potere che essi avranno. Nei sistemi che consentono una vera autonomia scolastica, sono gli utenti, con le loro scelte, a valutare i dirigenti, soprattutto riguardo a quali insegnanti assumere e a come retribuirli. Per poterlo fare, però, le famiglie devono essere ben informate. Il compito prioritario dello Stato dovrebbe essere garantire questa informazione, non gestire le scuole.
I nuovi modelli di autonomia scolastica sperimentati all'estero ci consentirebbero di fare un uso migliore delle risorse finanziarie disponibili e di attirare docenti capaci di offrire quel che le famiglie (non il ministro di turno) davvero desiderano per i loro figli.
Perché il governo ha scelto di ignorare le migliori esperienze internazionali? Forse per diffidenza istintiva nei confronti del privato, ma certamente ha anche influito un calcolo politico. La riforma della scuola è stata un'occasione per risolvere i problemi occupazionali dei docenti, anteponendo i loro interessi al diritto degli studenti a una buona istruzione. I precari italiani, imbrogliati da anni di insensate politiche di reclutamento, meritano di essere risarciti dallo Stato (come richiesto dalla UE) e di essere assistiti in caso di perdita dell'impiego. Ma non dovrebbero insegnare se non hanno le capacità per farlo o se quel che conoscono è obsoleto.
Il Sole 31.3.15
Comuni e Province, oggi arrivano i tagli da 2,2 miliardi
di Gianni Trovati
MILANO È oggi la giornata campale per la spending review negli enti locali, ma non succederà tutto quello che il ricchissimo calendario ha messo in conto per oggi.
Partendo dai dati più certi, nella Conferenza Stato-Città in programma a mezzogiorno il Governo presenterà la distribuzione dei tagli di Comuni e Province, un conto da 2,2 miliardi di euro per quest’anno. Per i Comuni, Governo e sindaci sembrano vicini sulle modalità di distribuzione del taglio, che non replicheranno i parametri utilizzati per distribuire la stretta da 563,4 milioni chiesta dal decreto sul bonus Irpef (sforbiciata proporzionale ai Comuni interemdi) ma dovrebbero essere parametrati alle risorse standard di ogni ente. Il quadro però è ancora in movimento sulle modalità di distribuzione del fondo di solidarietà comunale, cioè l’altra gamba dei provvedimenti in attesa oggi, ed è solo dall’incrocio di questi due fattori che può scaturire il quadro delle risorse 2015 di ogni Comune.
Se i sindaci attendono di conoscere la geografia di tagli da 1,2 miliardi, per Province e Città metropolitane la partita vale un miliardo (900 milioni nei territori a Statuto ordinario). In questo quadro, il taglio dovrebbe essere distribuito per un quarto sulle Città e per il resto sulle Province. I risultati definitivi di queste due mosse dipenderanno infine anche dalle clausole di salvaguardia che saranno poste per evitare un taglio troppo drastico sui singoli enti, e che in genere accompagnano questi provvedimenti quando cambiano i parametri di distribuzione rispetto all’anno precedente.
Nel calendario delle Province e delle Città metropolitane, però, sotto la data di oggi è segnata un’altra scadenza importante: in base al programma scritto nella circolare 1/2015 dei ministeri della Pa e degli Affari regionali, gli enti di area vasta dovrebbero infatti aver individuato con nome e cognome il personale «in soprannumero», cioè gli esuberi da ricollocare o da portare in pensione con le regole pre-Fornero entro fine 2016. Questo passaggio, però, non è avvenuto, e al massimo alcune amministrazioni hanno stabilito ufficialmente quanto costa il personale in eccesso, pari al 50% del totale per le Province e al 30% per le Città metropolitane. Tagli e riorganizzazione del personale sono legati a doppio filo, perché dall’alleggerimento degli organici dipende gran parte della possibilità di realizzare davvero i risparmi chiesti dalla manovra.
Il problema, però, rimane su gran parte del territorio l’inattuazione della riforma Delrio, che chiede alle Regioni di decidere a chi vanno le funzioni ex provinciali. Oltre alla Toscana, solo la Liguria ha approvato la propria legge, e fra gli inadempienti ci sono anche molte delle Regioni che vanno al voto. Tagli o non tagli, insomma, il personale rischia di rimanere in carico alle Province ancora a lungo.
L’ultima scadenza di oggi riguarda le partecipate: enti territoriali, università e autorità portuali devono entro oggi inviare alla Corte dei conti i propri «piani di razionalizzazione», con l’obiettivo di tagliare doppioni, scatole vuote e società lontane dai fini istituzionali degli enti. Anche da questo punto di vista, però, i ritardi sono diffusi, e servirà probabilmente più tempo anche perché la norma, vale a dire la piccola parte del «piano Cottarelli» finita nella legge di stabilità, non prevede sanzioni.
Repubblica 31.3.15
Roma, incendio doloso contro i rom
di Rory Cappelli
Panico nel centro d’accoglienza alla Rustica: cento evacuati tra cui moltissimi bambini e due neonati Il sindaco Marino: “Episodio grave e non casuale”. L’ombra di Mafia Capitale sulla struttura in smantellamento
ROMA Cento persone, tra cui 62 bambini, due emodializzati, tre donne al quarto mese di gravidanza, e due neonati, uno di tre mesi e l’altro di 40 giorni. Finiti nel panico e poi in mezzo alla strada quando nel cuore della notte tra domenica e lunedì è scoppiato un incendio all’interno del centro di accoglienza di via Armellini, a La Rustica, zona a est di Roma. Le fiamme altissime sono partite dal primo piano della zona sovrastante gli uffici, un’area abbandonata, vuota di persone e cose, e hanno raggiunto il terzo piano e da lì il solaio e il tetto. Per gli investigatori questo è il motivo che fa pensare a un incendio doloso o colposo: sono proprio i vigili del fuoco ad argomentare che per sviluppare un incendio di questo volume e di questa portata il materiale deve essere stato veramente tanto, voluminoso e corposo. Ma saranno le indagini a stabilirne definitivamente le cause e le modalità.
Morti o feriti non ce ne sono stati soltanto perché lo stabile è una ex fabbrica ristrutturata, tutta in cemento armato. Riportata in vita in epoca Veltroni, è stata poi destinata, con lo sgombero in epoca Alemanno degli insediamenti rom di Ponte Mammolo, Casilino 900 e La Martora, a diventare centro accoglienza. Ieri notte gli ospiti si sono riversati in strada assistiti dalla Protezione civile di Roma Capitale che ha fornito coperte, sciarpe, berretti, venti sacchi a pelo e d’acqua.
A gestire il centro anche la cooperativa Domus Caritatis, coinvolta nell’inchiesta Mafia Capitale. Anche su questa coincidenza gli investigatori vogliono vederci chiaro. Ieri mattina è arrivata a La Rustica anche l’assessora alle Politiche sociali Francesca Danese, che sembra aver preso con grande serietà la questione nomadi, rom, sinti e camminanti, e anche tutto il disagio vissuto dagli emarginati della città, per comprenderne le difficoltà, ed arrivare a possibili soluzioni: è rimasta a lungo sul posto, seguendo le operazioni e assistendo e parlando con le famiglie, con i bambini e con le donne.
Di sicuro una novità, soprattutto pensando alle storie scoperte proprio dalle inchieste di Mafia Capitale e tutte cucite sulla pelle dei migranti e dei nomadi. Forse non a caso la Danese si è trovata minacciata e sotto scorta. Di certo, dice, «stiamo andando verso una politica dell’accoglienza completamente diversa. Per esempio, stiamo lavorando per spostare le persone che vivono qui: il centro ha un contratto con il Comune fino a fine aprile. Poi la gestione attuale scade. E una nuova gestione certamente non avrà costi così elevati e qualità della vita delle persone così bassa. Insomma — conclude — stiamo affrontando il problema dell’accoglienza a Roma in tutte le sue sfumature».
Anche il sindaco Ignazio Marino è intervenuto sulla vicenda: «Esprimo preoccupazione — ha detto — davanti a un episodio grave e non casuale che arriva in un momento in cui questa amministrazione sta smantellando un sistema su cui aveva investito anche la criminalità organizzata. Ricordo, a questo proposito, che mettere le mani in questo mondo ha costretto da qualche settimana sotto scorta l’assessore alle Politiche sociali Francesca Danese a causa delle minacce ricevute ».
il Fatto 31.3.15
Ustica, il governo ha scovato i colpevoli: pagano le vittime
Schiaffo di Stato “Non date risarcimenti”
di Enrico Fierro
MAURILIO MANGO, L’AVVOCATO CHE RAPPRESENTA IL GOVERNO, PRESENTA APPELLO: “LE RICHIESTE DEI 18 PARENTI DELLE VITTIME SONO PRESCRITTE O INFONDATE”
L’avvocato dell’esecutivo chiede di non pagare i risarcimenti
Lo stesso Stato che ha depistato e inquinato le indagini sul volo Itavia precipitato nel 1980, ora stabilisce che le famiglie dei morti non hanno diritto a ricevere alcun indennizzo. Anzi, devono anche risarcire le spese legali
Altro che muro di gomma. Questa volta i familiari delle vittime della strage di Ustica si schiantano contro un muro di marmo. Per 35 anni hanno avuto diritto solo a brandelli di verità sulla morte di mogli, figli, fratelli, sorelle, padri e madri. Per 35 anni si sono scontrati con uno Stato indifferente, subalterno a quei Paesi (Stati Uniti e Francia) che pure avevano e hanno cose da dire sui misteri della sera del 27 giugno 1980.
Uno Stato nemico, complice, che ha depistato le indagini, le ha inquinate, ostacolate, rendendo difficile il lavoro dei magistrati che si ostinavano a cercare la verità. Ora, quello stesso Stato li sbatte di fronte a una durissima realtà: non hanno diritto ad alcun risarcimento, devono farsene una ragione e mettere anche mano al portafogli per pagare le spese legali. Dura lex sed lex. Ma all’italiana.
LA RICHIESTA dell’avvocato dello Stato Maurilio Mango alla Corte d’Appello di Palermo è netta: bisogna rigettare le richieste di risarcimento per “prescrizione o infondatezza”. I 18 familiari di alcune vittime che ancora si ostinano su questa strada, devono pagare “le spese di lite oltreché quelle prenotate a debito”. L’avvocatura dello Stato, che dipende dalla Presidenza del Consiglio, si sofferma poco su cavilli di leggi e norme, entrando a piedi uniti nei processi. Non c’è la prova regina che ad abbattere il DC9 sia stato un missile, questo lo sostengono i giornali e i familiari delle vittime. Le ricostruzioni giudiziarie e mediatiche sulla strage “sono state talvolta influenzate dal progressivo formarsi e consolidarsi di un immaginario collettivo che ha individuato la causa del disastro nell’abbattimento dell’aeromobile da parte di un missile, con la conseguente responsabilità delle amministrazioni derivante dall’omesso controllo dello spazio aereo”. Insomma, che quella notte si sia combattuta una battaglia aerea nei cieli di Ustica, lo dicono giornalisti fantasiosi, studiosi in vena di dietrologie, familiari. Processi, sentenze, relazioni di Commissione d’inchiesta parlamentare,valgono zero. Meno ancora le rivelazioni fatte da Francesco Cossiga, all’epoca della strage presidente del Consiglio, nel 2007. L’ex capo dello Stato parlò di un missile a “risonanza e non ad impatto” lanciato da un aereo partito dalla portaerei Clamenceau con l’obiettivo di colpire un velivolo su cui viaggiava il leader libico Gheddafi.
I PROCESSI sono stati fatti male, afferma in soldoni l’avvocato Mango, perché “in mancanza di elementi tecnici hanno supplito i mezzi di informazione, che denunciando (spesso senza alcun riscontro) trame e complotti internazionali” hanno convinto l’opinione pubblica che a causare l’abbattimento del DC9 sarebbe stata una battaglia aerea. Nessun atto di guerra e meno che mai nessun complotto,“rimasto misteriosamente senza colpevoli e segreto, nonostante avesse coinvolto almeno un centinaio di persone”. E allora, appello. Scelta molta diversa da quella presa ai tempi del governo Letta, che impedì il ricorso in Cassazione contro la condanna al risarcimento, per 1,2 milioni di euro ciascuno, ai familiari di tre vittime della strage. '“Sono allibito, questa è una operazione dal punto di vista politico incredibile, inspiegabile”. Paolo Bolognesi, deputato del Pd e presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, non si dà pace. “Voglio sapere se l’Avvocatura ha agito autonomamente, oppure se ha risposto a un input del governo.Aspetto una risposta immediata da parte della Presidenza del Consiglio e del ministro della Giustizia. Questo è un ricatto ai familiari delle vittime di tutte le stragi, da Bologna a Ustica, da via dei Georgofili a Piazza della Loggia. Vogliamo sapere se questo Stato e questo governo vogliono la verità o se l’obiettivo è un altro: imporre il silenzio a chi vuole giustizia. Finitela lì, basta, accontentatevi delle verità parziali. Lo ripeto, non credo che quello dell’avvocatura sia un gesto spontaneo”. Inutile chiedere lumi al Guardasigilli Orlando, “il ministro è impegnato alla direzione del Pd, forse risponderà domani (oggi, per chi legge, ndr)”, ci dicono da via Arenula. Silenzio anche da Palazzo Chigi. E imbarazzo per la contraddittorietà del ricorso rispetto alle sentenze, l’ultima all’inizio di questo mese, con la condanna a risarcire con un milione di euro i familiari di quattro vittime, sentenza successiva a quella di ottobre che imponeva il risarcimento di oltre 5 milioni per gli eredi di 14 vittime. Se Daria Bonfietti, che ha speso una vita intera a battersi per avere un pizzico di verità sulla notte di Ustica, giudica “vergognosa e inaccettabile la posizione dell’Avvocatura dello Stato, che non tiene conto delle precedenti sentenze della Cassazione, etorna a parlare di bomba a bordo”, c’è chi esprime soddisfazione. Lo fa l’ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico, “è una richiesta che condivido e sottoscrivo. I risarcimenti vanno in senso contrario alla verità acclarata da tre gradi di giudizio, che hanno visto la produzione di migliaia di pagine di testimonianze e perizie”. Amen, si rassegnino i familiari degli 81 morti di Ustica, ancora una volta lo Stato è contro di loro.
il Fatto 31.3.15
Il delitto di Perugia
Meredith e i mali del nostro processo
Quando la Cassazione smentisce se stessa
di Gian Carlo Caselli
Anche al netto delle reazioni scomposte che vi sono state, è purtroppo innegabile che la vicenda processuale legata all’omicidio di Meredith Kercher non giova alla credibilità della nostra giustizia. Per certi versi potrebbe persino sembrare un disastro. Un colpo da ko che minaccia di appannare quel molto di positivo che quotidianamente si produce in un’infinità di processi d’ogni tipo, a tutela dei diritti dei cittadini sui versanti più diversi, dai litigi di strada alla corruzione alle mafie.
Ma se un fatto – per quanto eccezionale – rivela crepe profonde nel sistema, occorre porvi rimedio se non si vuole rischiare un crollo. Nessun sistema giudiziario può riscuotere fiducia né reggere a lungo se nel suo interno trovano posto meccanismi che consentono un’estenuante altalena di decisioni come quella che si è verificata per il delitto di Perugia. Il bilancio di un percorso durato, fra indagini e processi, quasi otto anni, traccia un labirinto nel quale è difficile ritrovarsi. È vero, infatti, che il pluralismo interpretativo – in fatto e in diritto – è fisiologico tutte le volte (ed è la regola...) che la verità dei fatti non è assolutamente indiscutibile e certa, sicché vi sono spazi anche consistenti per ricostruzioni diverse, fra loro non collimanti, sul piano della verità “soltanto” processuale. È però altrettanto vero che non è facile spiegare con la fisiologia un accavallarsi di incongruenze e contrasti che – pur rimanendo nel perimetro della procedura – portano per altro verso al superamento di limiti di decisiva rilevanza.
NEL CASO della povera Meredith è accaduto che il processo diretto a stabilire chi fossero i responsabili dell’omicidio si è sdoppiato lungo due strade. Un imputato (Rudy Guede) ha scelto il rito abbreviato (art. 438 c. p.p.). Gli altri due (Amanda Knox e Raffaele Sollecito) quello ordinario-dibattimentale. Guede è stato condannato per aver commesso il delitto in concorso con altre persone. Per lui la decisione di colpevolezza è sempre stata la medesima nel giudizio di primo grado, in appello e in Cassazione. Per la Knox e per Sollecito, invece, la sequenza delle pronunce ha avuto un andamento simile a quello di un ottovolante. Condanna in primo grado (Corte d’Assise di Perugia), ribaltata in secondo grado con l’assoluzione da parte della Corte d’Assise d’Appello. La sentenza di proscioglimento è stata bocciata dalla Cassazione, che ha disposto un nuovo giudizio avanti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze, dove si è tornati a condannare i due imputati. Contro tale condanna nuovo ricorso in Cassazione, che questa volta ha annullato senza rinvio, di fatto assolvendo definitivamente Knox e Sollecito.
In complesso, dunque, si sono avute ben otto sentenze, tre in abbreviato e cinque in ordinario. Decine di giudici hanno contribuito a costruire una montagna di carte processuali, che però alla fine non hanno risolto il caso se non in minima parte, anzi hanno lasciato persistere o addirittura seminato ombre dubbi e incertezze a non finire (rimasti ignoti, in particolare, i pur certi “concorrenti” di Guede).
Per convenzione l’ultima sentenza, quella della Cassazione, chiude il caso con un sigillo irrevocabile. Usa infatti dire che la Cassazione trasforma il bianco in nero. Senonché nel caso in esame non c’è una sola pronuncia della Cassazione. Ce ne sono due che sembrano fra loro confliggenti. Per cui la seconda e ultima dovrà anche motivare come il nero che era diventato bianco possa, nella stessa “officina”, essere tornato di nuovo nero.
Ma il vero problema è a monte. Si determina un vero paradosso se le norme procedurali risultano congegnate in modo tale che (pur restando nel perimetro della loro osservanza) possono trasformare il processo in un ottovolante o in una sorta di lotteria, per di più con “estrazione” finale a distanza di molti anni dall’inizio dei lavori. È evidente che qualcosa non funziona e va decisamente cambiato. Anche intervenendo alla radice dei problemi.
Col nuovo codice (1989) ci siamo dati un sistema processuale di tipo accusatorio e abbiamo abbandonato il rito inquisitorio, infinitamente meno garantista. In questo modo abbiamo realizzato un importante progresso di civiltà giuridica allineandoci alle altre democrazie occidentali.
MA ABBIAMO dimenticato che in tutti i paesi di rito accusatorio di fatto esiste un solo grado di giudizio, perché l’appello è consentito unicamente in casi assai circoscritti. Noi invece abbiamo conservato la possibilità di appellare sempre e comunque: come a dire che anche dopo l’introduzione del rito accusatorio ci piace avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Troppa grazia. E soprattutto troppi spazi per un ping-pong fatto di continui rimpalli che con le garanzie non hanno nulla a che vedere. Salvo intenderle come privilegi per pochi: a scapito del diritto di tutti a un funzionamento del processo che non ricordi la tela di Penelope.
il Fatto 31.3.15
Obama e l’eredità avvelenata a Israele
Il presidente potrebbe riconoscere lo Stato di Palestina prima della fine del suo mandato
di Alon Altaras
La vittoria di Netanyahu alle elezioni del 17 marzo è stata netta, ma nche le reazioni del presidente americano e del suo gabinetto abbiamo avuto una svolta senza precedenti nei rapporti fra i due stati. In campagna elettorale Netanyahu aveva dichiarato che finché lui sarà primo ministro, non nascerà alcuno Stato palestinese. Obama ha subito replicato che il premier israeliano non potrà cancellare il suo impegno del 2009 per “due Stati per due popoli”, e se lo farà, gli americani riconsidereranno la loro politica in Medio Oriente. Il fresco vincitore Netanyahu ha allora ribadito in una serie di interviste ai media americani il suo impegno verso la soluzione tanto sostenuta dal presidente americano. Ma il ping pong non è finito. Obama ha sottolineato di credere nella prima affermazione del premier israeliano, ovvero che finché durerà il governo Netanyahu non nascerà uno stato palestinese. È importante analizzare proprio in quest'ottica il futuro esecutivo israeliano. Personaggi come Bennett, Liebermann, Deri, faranno grande fatica a sostenere un'apertura di Netanyahu verso i palestinesi. Il loro elettorato non vede nel compromesso politico una soluzione attuale e rilevante. Questa compagine politica dice chiaramente al mondo che le trattative di pace fra Israele e i palestinesi sono finite.
Se uno Stato palestinese non rientra nei programmi politici del nascente governo di Tel Aviv, che senso ha scomodare l'80enne Abu Ma-zen per l'ennesimo ciclo di trattative senza alcun cambiamento? Quando Obama dice di voler riconsiderare la sua politica verso la questione palestinese, ha nelle sue mani mezzi diplomatici molto efficaci. Per esempio, la decisione dell'amministrazione democratica americana di voler condurre una iniziativa concordata con l'Unione europea, per riconoscere lo Stato Palestinese nei confini del '67 e Gerusalemme Est come possibile capitale di questo per ora ancora virtuale stato (esclusa Gaza di Hamas, che al contrario di Abu Mazen non è disposta a una soluzione pacifica).
Le conseguenze di un riconoscimento del genere presso le Nazioni Unite farà sì che la maggior parte dei paesi nel mondo riconosceranno lo Stato palestinese, trattandolo come Stato a tutti gli effetti. In altre parole, non più “Autorità palestinese”, ma uno Stato riconosciuto globalmente proprio come quello israeliano, mentre Israele si ritroverà a occupare i territori di uno stato confinante, che gode di legittimità internazionale, senza una vera ragione politica o bellica.
Anche nell’Unione europea, in paesi importanti come la Gran Bretagna, negli ultimi anni si è parlato della legittimità giuridica di un boicottaggio economico dell'industria israeliana situata nei territori occupati dopo la vittoria della Guerra dei Sei Giorni. Vi sono dossier di grandi giuristi europei che sostengono che un tipo di boicottaggio del genere non violerebbe alcuna legge europea, perché la Cisgiordania non è riconosciuta dalle leggi internazionali come territorio israeliano. A tale iniziativa si sono espressi positivamente paesi quali Danimarca, Svezia, Sudafrica, Irlanda.
A QUESTO PUNTO il futuro governo israeliano dovrà trovare una risposta politica alla iniziativa di riconoscimento e alla minaccia di boicottaggio. Finora i presidenti americani hanno usato il veto per bloccare iniziative del genere; una volta che l'iniziativa arriverà proprio dall'amica storica di Israele, è chiaro che il veto su ogni risoluzione Onu non favorevole a Israele non sarà più automatica come negli ultimi decenni. L'occupazione della compirà mezzo secolo fra due anni. Non è sorprendente che grandi potenze dello scacchiere diplomatico mondiale comincino a chiedersi se lo Stato di Israele avrà mai dei confini riconosciuti dal diritto internazionale, confini definitivi, come ogni altro stato. Pare che questa complessa sfida caratterizzerà le vicende della politica estera del prossimo governo israeliano. La retorica che la destra ha usavo in passato in questi casi era di dire agli israeliani che “tutto il mondo è contro di noi”, e perciò dobbiamo unirci in un no deciso. Verrà tirato in ballo il pericolo di un Iran nucleare, l'avanzamento del cosiddetto Califfato e il fanatismo politico di Hamas. Questo tipo di strategia della paura, almeno nell'era di Netanyahu, ha sempre funzionato. Ma non è certo che reggerà l'urto di un riconoscimento dello Stato palestinese, dalle dimensioni globali.
Il Sole 31.3.15
Una partita complessa
La normalizzazione dei rapporti è avversata dai repubblicani, dai sauditi e da Israele
In tre (e più) a sperare in un fallimento
di Alberto Negri
Chi teme l’accordo con l’Iran? Sono sostanzialmente in tre: la maggioranza repubblicana del Congresso, Israele e l’Arabia Saudita. Ma questi tre attori rappresentano un fronte più vasto: il Congresso, come ha dimostrato il discorso di Benjamin Netanyahu il 3 marzo, ha un filo diretto con le lobby ebraiche e anti-iraniane; Israele parla anche per una parte consistente dell’Occidente che diffida della propaganda anti-ebraica dell’Iran; l’Arabia si fa portavoce degli interessi delle monarchie del Golfo e di quel mondo sunnita che comunque dipende per salvare i bilanci dai petrodollari degli emiri.
Questa è una partita dove si scontrano interessi strategici ed economici. Dentro al Cinque più Uno la Francia per motivi di commesse militari e d’affari è incline a esprimere le preoccupazioni dei suoi ricchi clienti sunniti del Golfo. Ma allo stesso tempo invia missioni d’affari a Teheran per approfittare dell’eventuale allentamento delle sanzioni. Lo fa anche l’Italia naturalmente che con l’Iran intrattiene ottimi rapporti diplomatici ma il nostro Paese, pur invitato, rinunciò alcuni anni fa al tavolo negoziale: come dice uno dei responsabili dalla Farnesina «è come aver detto di preferire la Champions League in tv invece di giocarla».
Perché l’amministrazione Obama vuole un’intesa con Teheran? Washington teme che il fallimento dei negoziati possa condurre allo sgretolamento del sistema delle sanzioni e di ogni concreta pressione su Teheran. Russia, Cina, India e alcune nazioni europee hanno accettato di sostenere l’apparato sanzionatorio per arrivare a un’intesa, non perché diventasse permanente.
Israele e il Congresso, dove il Senato si prepara a varare un nuovo disegno legge di misure anti-Teheran, la pensano in modo opposto. Netanyahu, recentemente rieletto, è in rotta con l’amministrazione Obama per la determinazione della Casa Bianca nel voler normalizzare i rapporti con Teheran. Non si può escludere la possibilità che Israele decida, se ritenesse l’accordo con l’Iran insufficiente a prevenire lo sviluppo di un nucleare militare, di bombardare i siti iraniani come già fece con quelli di Saddam Hussein in Iraq nel 1981 o più di recente, nel 2007, in Siria. Ma questa al momento è un’ipotesi contestata all’interno dello stesso Israele e per evitare scenari catastrofici alla fine il governo potrebbe inghiottire il boccone amaro di un accordo. Ma Israele, attraverso il Congresso, non rinuncerà a tenere il fiato sul collo dell’amministrazione Obama sulle sanzioni. Come pure c’è da aspettarsi un aumento di tensione alla frontiera con il Libano perché l’arma iraniana che Israele teme di più non è l’atomica virtuale di Teheran ma gli Hezbollah sciiti che nella guerra del 2006 hanno bloccato l’avanzata dello Stato ebraico.
L’Arabia Saudita è in una situazione ben più delicata. A differenza di Tel Aviv, Riad non ha un arsenale nucleare. E se l’ostilità iraniana verso Israele è soprattutto ideologica e propagandistica, la rivalità tra gli ayatollah e i sauditi - che incendia lo scontro tra sunniti e sciiti in tutta l’area - è molto più profonda a livello strategico e geopolitico. È ben visibile nel conflitto in Yemen, roccaforte di al-Qaeda, dove l’Iran sostiene i ribelli sciiti Houthi ma anche in Iraq e in Siria dove le monarchie del Golfo appoggiano i movimenti radicali sunniti: a fare la guerra al Califfato sono sciiti e curdi, certo non gli Stati sunniti che partecipano ai raid perché lo hanno chiesto gli americani. È possibile che anche se ci sarà un accordo a Losanna le guerre mediorientali continueranno come e forse peggio di prima.
Corriere 31.3.15
Israele-Arabia Saudita quell’asse segreto che unisce i «nemici»
di Davide Frattini
GERUSALEMME «I nemici dei miei nemici sono miei nemici» proclama Benjamin Netanyahu nel discorso davanti ai deputati e ai senatori americani. Parla al Congresso perché Barack Obama intenda: non ha senso — ammonisce il premier israeliano — smerciare la ricercata intesa con l’Iran come una decisione pragmatica motivata dall’avere avversari comuni (i fondamentalisti sunniti).
Eppure gli israeliani sembrano applicare la stessa strategia del presidente americano, quella che Netanyahu con abilità retorica ha cercato di ribaltare: i nemici dei miei nemici sono miei amici. Così lo Stato ebraico si ritrova — e coltiva attraverso canali segreti — alleati inaspettati come l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo (escluso il Qatar). Tutti insieme convinti che l’accordo con gli ayatollah sul programma nucleare sia «pessimo».
Ahmad Al-Faraj, editorialista del quotidiano saudita Al Jazirah , considera «Obama uno dei peggiori presidenti nella storia americana» — Netanyahu probabilmente è d’accordo, non si è mai potuto permettere di dirlo in pubblico — e ha elogiato l’interventismo e le pressioni del premier israeliano sul Congresso: «Con le sue critiche a una possibile intesa, perseguita dagli Stati Uniti a scapito degli alleati storici nella regione, difende anche i nostri interessi. Gli sono grato». L’assenza di relazioni diplomatiche non ha impedito al ministro Ali al-Naimi di ipotizzare la vendita di petrolio a Israele: «Abbiamo sempre cercato buoni rapporti con tutti — ha spiegato dopo una riunione dell’Opec a Vienna — e lo Stato ebraico non è un’eccezione». O non ha impedito al principe Turki al-Faisal di scrivere un editoriale per Haaretz . Il capo dei servizi segreti fino al 2001 ha scelto il quotidiano pubblicato a Tel Aviv per rilanciare quella che viene chiamata «l’iniziativa saudita»: le nazioni arabe sarebbero disposte a stabilire normali legami con Israele in cambio del ritiro dai territori per permettere la nascita di uno Stato Palestinese.
È quello che suggeriscono analisti israeliani come Alon Ben-David, proprio nei giorni dei negoziati a Losanna. «I Paesi che capiscono quello che sta succedendo in Medio Oriente — commenta sul giornale Maariv — si sono riuniti a Sharm el Sheikh. Anche Israele avrebbe dovuto partecipare». Perché, sostiene, gli interessi dello Stato ebraico sono identici a quelli delle nazioni sunnite che hanno partecipato al vertice in Egitto. «Questi possibili alleati chiedono però una fermata a Ramallah prima di arrivare a Sharm, uno stop per far ripartire il processo di pace. È l’opportunità che dobbiamo cogliere per non restare ai margini di un processo che sta ridisegnando il Medio Oriente».
Sul Mar Rosso è stato deliberato di creare una forza militare panaraba e di continuare le operazioni in Yemen fino al ritiro dei ribelli. Sono le risposte a quello che viene percepito come un pericoloso espansionismo persiano e sciita. La pensa così anche Netanyahu e lo ha dichiarato sempre nel discorso al Congresso: «L’Iran domina già quattro capitali: Bagdad, Sana’a, Damasco, Beirut. Se non verrà tenuto sotto controllo, ingurgiterà altre nazioni».
Non è la prima volta che israeliani e sauditi si trovano d’accordo su quale debba essere l’esito di una guerra civile in Yemen. Quando nel 1962 un gruppo di ufficiali rovescia la teocrazia al potere e riceve il sostegno del leader egiziano Gamal Abdel Nasser, Riad (preoccupata dai disordini al suo confine sud) e Londra (i britannici non vogliono perdere il protettorato di Aden) chiedono aiuto — mai riconosciuto ufficialmente — all’aviazione di Tsahal. Perché sanno che il pilota Aryeh Oz è specializzato nelle operazioni di rifornimento in zone impervie come le montagne desertiche dello Yemen. È a lui e al suo Squadrone 120 che lo Stato Maggiore a Tel Aviv dà l’ordine di consegnare armi e materiali per le milizie rimaste fedeli al re. Il coinvolgimento deve restare segreto, così uno dei lanci dal cielo viene annunciato ai capi tribali dal monarca deposto, che è anche leader religioso, come un dono divino.
«Se gli israeliani e i sauditi hanno messo da parte i loro dissensi allora — ragiona Asher Orkaby, docente ad Harvard, sulla rivista Foreign Affairs — possono farlo anche oggi». Gli obiettivi in Yemen restano comuni anche dopo 53 anni: questa volta va arrestata l’avanzata di Teheran. «È nel nostro interesse che i ribelli Houti, sostenuti dall’Iran, vengano sconfitti — commenta Efraim Inbar dell’università Bar-Ilan al quotidiano Jerusalem Post —. Dobbiamo anche augurarci la caduta di Bashar Assad in Siria per impedire la creazione di un corridoio sciita attraverso il Medio Oriente».
La Stampa 31.3.15
“Il copilota in cura per tendenze suicide”
Resta il giallo sui motivi del gesto. La Procura: Lubitz in psicoterapia prima di prendere il brevetto
di Tonia Mastrobuoni
«Non emergono, né dagli ambienti vicini a lui, né dalla famiglia, motivi particolari che avrebbero potuto fornire elementi per un possibile movente». Tuttavia, la procura di Duesseldorf ha rivelato ieri pomeriggio un dettaglio importante della vita di Andreas Lubitz, il pilota Germanwings che, secondo quanto emerso ad oggi, potrebbe aver provocato volontariamente il disastro aereo sulle Alpi francesi di martedì scorso. Poco dopo le tre del pomeriggio, il capo degli inquirenti, Christoph Kumpa, ha affrontato decine di giornalisti accampati sin dalla mattina davanti alla procura e ha rivelato che «il pilota era stato anni fa - prima di conquistare il brevetto da pilota - per un prolungato periodo di tempo in psicoterapia, a causa di tendenze suicide».
I successivi controlli
Tuttavia, sempre secondo Kumpa, «nel periodo successivo, fino alla fine, ci sono state visite presso neurologi, psichiatri, psicoterapeuti con le relative prescrizioni mediche, senza che sia mai riemersa la tendenza al suicidio o un’aggressività verso terzi». Ieri l’Uniklinikum di Duesseldorf ha anche trasmesso agli inquirenti i materiali su Lubitz in suo possesso. Ma un altro dettaglio interessante delle conclusioni degli inquirenti è che «i documenti medici escludono malattie organiche». Sembra smentita l’indiscrezione sul fatto che Lubitz avesse gravi problemi agli occhi.
Eppure, alcuni media insistono che all’Uniklinikum il pilota ventisettenne avrebbe visitato anche un oculista e che avrebbe avuto disturbi agli occhi, probabilmente dovuti a problemi psicosomatici. Ma l’ospedale ha smentito la scorsa settimana che il pilota tedesco fosse in cura per disturbi mentali.
Il certificato strappato
Altre indiscrezioni insistono sul fatto che il famoso certificato medico trovato stracciato nell’appartamento, lo avrebbe esonerato dal lavoro fino al 29 marzo per problemi di depressione. In effetti, su quel certificato strappato e rinvenuto nell’appartamento di Duesseldorf, come rivelato dagli stessi magistrati, continua ad esserci un mistero. Il capo degli inquirenti francesi, Jean-Pierre Michel, continua a pensare che «chi commette un atto del genere debba avere dei motivi psicologici». La sfida, ora, è capire «cosa abbia destabilizzato Lubitz e cosa lo abbia indotto a un gesto del genere».
La Stampa 31.3.15
“I piloti non possono sfuggire ai controlli”
di Luigi Grassia
In casa di Andreas Lubitz c’erano diversi certificati medici stracciati. Buttarli via è stato sufficiente per aggirare i controlli? La Lufthansa e l’autorità tedesca del trasporto aereo non sapevano che quel pilota non avrebbe dovuto volare? Non sarà che il sistema ha sacrificato 150 vite a troppi scrupoli sulla privacy?
«Bisogna distinguere - risponde l’ingegner Alessandro Cardi (direttore centrale della Regolazione tecnica dell’Enac, Ente italiano per l’aviazione civile) – fra le visite mediche che un pilota fa da privato cittadino e quelle periodiche, ufficiali, che il pilota deve fare per conservare l’abilitazione».
Che cosa capita nei due casi?
«Se un pilota si fa visitare dal suo medico nessuno viene a sapere del risultato. È un normale cittadino, protetto dalle regole generali sulla privacy. Quindi può tenere riservato l’esito della visita. Può stracciare tutto. Diverso il caso delle visite obbligatorie di controllo. Un pilota le fa ogni anno (o ogni 6 mesi, dopo i 40 anni) per conservare l’abilitazione, davanti a un medico certificato o Aviation Medical Examiner. Fa queste visite a sue spese, ma l’esito e la cartella clinica vengono trasmessi all’autorità nazionale di controllo, che poi gira l’esito (e solo quello, non la cartella, che è protetta dalla privacy) alla compagnia per cui il pilota lavora».
Le regole che sta esponendo sono uguali in tutti gli Stati?
«Le leggi sulla privacy variano da Stato a Stato, ma quelle che riguardano le visite presso gli Aviation Medical Examiner sono internazionali, tant’è vero che un pilota può farsi fare la visita di controllo anche in un Paese straniero. Quindi quello che dico vale ovunque, in Italia come in Germania».
Quindi se da una visita ufficiale emerge che il pilota non poteva volare, poniamo, per X mesi, la compagnia non poteva non saperlo?
«Se il pilota non è in condizione di volare, e questo viene accertato nella visita obbligatoria, il pilota non vola. Punto». Se invece le cose fossero andate in altro modo ci sarebbe una grave falla nel sistema.
La Stampa 31.3.15
Fuoco incrociato sulla Lufthansa: “Possibile che non sapesse nulla?”
Ma la compagnia insiste: quando prese l’abilitazione era idoneo
di Tonia Mastroibuoni
qui
La Stampa 31.3.15
Dall’astensionismo alla Le Pen
La sinistra ha tradito Hollande
In molti feudi “rossi” gli operai hanno disertato le urne o votato a destra
di Leonardo Martinelli
Il dipartimento del Nord, quello di Lilla, terra di operai e industrie: al secondo turno delle provinciali, domenica, la sinistra l’ha perso. L’Essonne, alle porte di Parigi, periferia popolare: perduta anche questa provincia. Le Bouches-du-Rhône, l’agglomerato di Marsiglia, altro bastione storico per i socialisti: caduto, inesorabilmente. Nessuno di questi dipartimenti è passato al Front National: sono andati tutti all’Ump, la formazione conservatrice, quella di Nicolas Sarkozy. L’estrema destra, però, ha favorito tale esito «aspirando» una buona parte dei voti della gauche, quelli dell’elettorato più popolare, che alle presidenziali del 2012 aveva votato Hollande.
Le ali estreme
«Quasi mai si tratta di una migrazione diretta – sottolinea Jérôme Sainte-Marie, presidente dell’istituto di sondaggi Pollingvox -. Avviene, invece, per tappe. Quegli elettori passano prima attraverso il limbo dell’astensionismo. Poi, se ritornano a votare, in tanti scelgono l’Fn ». Questo avviene anche nel caso del Front de Gauche, l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che nel 2012 votò per Hollande e ora lo tratta da traditore. Lo scetticismo nei confronti dell’euro e certi discorsi battaglieri contro le banche accomunano Mélenchon a Marine Le Pen: ma anche tra le due formazioni il trapasso, quando c’è, avviene progressivamente. Ad esempio è stato «digerito» con l’astensionismo alle elezioni europee o a quelle municipali dell’anno scorso.
Sainte-Marie non dispone ancora di dati nazionali. Ma ha gestito di persona i sondaggi in alcuni dipartimenti che erano roccaforti storiche della sinistra, nella zona di Parigi e nel Sud. «Quando ho visto che al primo turno il 50% degli operai ha dichiarato di aver votato il Front – sottolinea -, ho dovuto ricontrollare le cifre. Non ci potevo credere. Le loro mogli sono spesso impiegate di basso livello. Tra di loro l’Fn era al 40% perché le donne fanno più resistenza a votare per il partito della Le Pen».
I sondaggisti
Una cosa è certa : sondaggisti e analisti concordano sul fatto che nessuno (o quasi) degli elettori persi dai socialisti è andato verso l’Ump. O diventano astensionisti o votano per l’Fn. «Anzi, domenica, al secondo turno delle dipartimentali, abbiamo assistito a un ritorno di voti all’Ump, persi in precedenza proprio a favore dell’Fn», osserva uno dei consiglieri strategici di Sarkozy (e che non vuole essere citato). «In media nei collegi dove al ballottaggio l’Ump ha affrontato il Ps, i due terzi di coloro che avevano votato Fn al primo turno hanno optato poi per il candidato del partito di Sarkozy». Anche Stéphane Rozès, consulente per Hollande alle presidenziali del 2012, conferma che «non ci sono voti persi dai socialisti che sono passati all’Ump. Gli elettori delusi dalla sinistra, se non diventano astensionisti, passano all’Fn».
I guai dell’Eliseo
Rozès è ancora oggi all’Eliseo un «visitatore della sera», come a Parigi chiamano coloro che alla fine della giornata vengono ammessi alla corte di re François: a cercare di trovare una soluzione agli svariati problemi che la gestione Hollande si trova ad affrontare. Il presidente ha annunciato che, malgrado la disfatta delle ultime elezioni, va avanti sulla sua strada: Manuel Valls come premier non si tocca. Neppure la politica dell’austerità voluta dall’Europa. «Hollande l’aveva promesso nel 2012: vuole mantenere il modello socio-economico francese, ma riformandolo, in sintonia con Bruxelles – conclude Rozès -. La Le Pen promette di conservarlo senza sottostare agli obblighi che arrivano dall’esterno ». I francesi, quelli resi più deboli dalla crisi, le vogliono credere.
La Stampa 31.3.15
Guerra ai narcos, il Messico perde il conto dei morti
Le autorità messicane ammettono: il numero di fosse comuni è così grande che calcolarlo significherebbe «generare un’interruzione sostanziale e irrazionale nelle attività dell’area designata a produrre l’informazione».
di Filippo Fiorini
qui
Repubblica 31.3.15
Fermiamo la Jihad la marcia di Tunisi dimostra che l’Islam può essere libero
di Tahar Ben Jelloun
I POPOLI sono contro il terrorismo. L’11 gennaio a Parigi, il 29 marzo a Tunisi. È importante che i capi di Stato manifestino alla testa del popolo: non è solo una dimostrazione di solidarietà, è anche un messaggio alla minoranza criminale che minaccia la pace dove può.
LA polizia tunisina è riuscita a eliminare nove membri del commando che aveva pianificato l’attentato al museo del Bardo e anche il loro capo è stato ucciso. Per una volta la Lega araba ha capito la necessità di unirsi contro il pericolo del terrorismo guidato dal Daesh, lo Stato islamico, e da Al Qaeda e ha preso decisioni concrete. In questo momento il problema più urgente è risanare la situazione in Libia. Il guaio è che la Libia non è uno Stato, non ha nessuna struttura statale e per questo è diventata il rifugio di tutti i terrorismi. Il caos che regna sul territorio, con cinque tribù e due governi, di cui uno non riconosciuto, favorisce la nascita di nuovi gruppi terroristi, mettendo in grave pericolo la sicurezza di tutto il Maghreb.
Il Marocco è nella linea di tiro del Daesh perché partecipa alla coalizione armata per la lotta contro il cosiddetto Stato islamico. La polizia marocchina, che si è recentemente provvista di un’organizzazione simile all’Fbi, è in allerta permanente. La settimana scorsa ha smantellato nove gruppi di terroristi che si preparavano a commettere attentati nel Paese, a uccidere personalità in vista e ad attaccare i turisti. Questi gruppi erano sparpagliati in tutto il Paese, da Agadir a Tangeri passando per Casablanca e altre città.
L’attentato al museo del Bardo è stato vissuto dalla popolazione magrebina come un crimine contro tutto il Maghreb. Colpendo il turismo, gli assassini cercano di rovinare il Paese e di sottometterlo al Daesh.
La grande manifestazione di Tunisi, con la presenza di François Hollande e di Matteo Renzi, tra gli altri, potrebbe spingere l’Europa a cancellare il debito tunisino.
È il momento di rendere concreta la solidarietà affettiva, perché questo piccolo Paese, l’unico che riesce a portare avanti la propria primavera, ha bisogno di essere aiutato. La Tunisia è l’unico Paese arabo e musulmano ad aver votato una costituzione rivoluzionaria che riconosce parità di diritti a uomini e donne e sancisce la “libertà di coscienza”, cosa che nessun Paese musulmano osa fare. Questo Paese oggi è noto anche per la sua apertura naturale verso l’Europa, grazie alla sua vicinanza all’Italia e alla Francia, dove vivono oltre 700.000 immigrati tunisini. È l’unico Paese arabo ad aver rivisto tutti i manuali scolastici nell’ottica del progresso e della modernità. La manifestazione è, dunque, un successo della società civile che, come in Marocco, è nelle mani delle donne.
Si parla di intervenire in Libia per riportare l’ordine, per fermare quel caos che permette l’addestramento dei terroristi (i due assassini tunisini del Bardo erano stati addestrati in campi libici tenuti da gente del Daesh) e per aiutare il Maghreb a resistere. Se il Daesh riesce a insediarsi in quella regione, tutta l’Europa ne sarà minacciata direttamente. La pace nel Maghreb condiziona anche la pace in Europa. Quello che si è visto domenica nelle strade di Tunisi è il senso della solidarietà europea. ( Traduzione di Elda Volterrani)
Corriere 31.3.15
Sofia, al museo dove la Bulgaria ha «rinchiuso» il comunismo
qui, con una galleria fotografica
Corriere 31.3.15
Cristiani e armeni a Mardin. Un secolo fa la strage rimossa
Il cinico calcolo dei Giovani turchi, laici: aizzare l’odio delle popolazioni islamiche
Nella Turchia sudorientale, in una zona abitata prevalentemente da curdi, vi è una delle più belle città del Medio Oriente. È Mardin, una meta turistica premiata dall’Unesco per la straordinaria varietà della sua architettura religiosa: chiese, monasteri, moschee, sinagoghe, castelli medioevali. Oggi la sua popolazione è in grande maggioranza musulmana, ma nel 1915, quando fu teatro degli avvenimenti evocati in un libro di Andrea Riccardi pubblicato ora da Laterza, i cristiani avevano nove chiese, tre conventi e formavano una sorta di catalogo vivente del Cristianesimo romano e greco: armeni in buona parte, ma anche cattolici di rito latino, ortodossi, assiri, siriaci, caldei, tutti assistiti dai loro vescovi e patriarchi. I campanili e i minareti svettano ancora sulla città, costruita sul pendio di una grande montagna, ma le comunità cattoliche e ortodosse sono oggi soltanto il pallido ricordo di un mondo in buona parte scomparso.
Questo libro ( La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo , pp.240, e 18) è anzitutto un’opera di pietà storica, scritta per ricordare la sorte dei cristiani d’Oriente, travolti anche in anni più recenti dalle guerre combattute in Libano, in Iraq, e in Siria. Riccardi dice implicitamente al lettore che la tragica cronaca delle persecuzioni subite dagli armeni agli inizi della Grande guerra non sarebbe completa se non ricordasse che il loro destino, in particolare a Mardin, fu condiviso dai cristiani.
Ma l’autore non è soltanto il fondatore della Comunità di Sant’Egidio e, quindi, un cattolico militante. È anche uno studioso a cui preme ricostruire il contesto storico di quelle persecuzioni. Nel luglio del 1914, quando il governo austro-ungarico inviò alla Serbia l’ultimatum che avrebbe scatenato la Grande guerra, la Turchia era appena uscita da una umiliante sconfitta nella Seconda guerra balcanica e dal colpo di Stato che aveva dato il potere ai «Giovani turchi» di Unione e Progresso. I suoi tre Pascià — Djemal, Enver, Talaat — erano ferocemente nazionalisti e profondamente convinti che la sovranità dello Stato ottomano fosse minacciata dalle continue ingerenze delle potenze straniere nella politica dell’Impero. Le sue finanze erano soggette alla vigilanza di banchieri europei, organizzati in una specie di Fondo monetario internazionale. Le comunità religiose non musulmane avevano potenti protettori stranieri: la Russia per gli ortodossi e gli armeni, la Francia e altri Paesi cattolici per i cristiani latini, la Gran Bretagna per i protestanti e gli ebrei. I trattati sulle capitolazioni avevano garantito alle comunità nazionali straniere una sorta di indipendenza giudiziaria, che intaccava profondamente la sovranità dello Stato.
Al nuovo governo di Costantinopoli la guerra europea parve una provvidenziale via d’uscita. Il 9 settembre 1914 fu annunciato al mondo che le capitolazioni sarebbero state abolite, con un documento in cui si affermava tra l’altro che l’abolizione avrebbe permesso di realizzare le riforme ripetutamente sollecitate dalle grandi potenze. Due mesi dopo, mentre la Turchia era da qualche giorno in guerra a fianco della Germania, fu proclamata la Grande Jihad. La guerra santa presentava in quel momento un doppio vantaggio. Forniva alle masse anatoliche, ancora devotamente musulmane, una motivazione spirituale sul campo di battaglia; e dava alle persecuzioni contro i cristiani una giustificazione patriottico-religiosa. Per quanto concerneva gli armeni, in particolare, la guerra contro la Russia avrebbe permesso al governo turco di trattare la loro comunità come una pericolosa quinta colonna. Armate di questi argomenti le autorità turche dettero il via alle deportazioni e ai massacri. Quando gli ambasciatori dei Paesi neutrali, fra cui Henry Morgenthau, rappresentante degli Stati Uniti, deplorarono i metodi utilizzati, Enver replicò con sfacciata franchezza: «L’odio tra turchi e armeni è così grande che dobbiamo farla finita con loro, altrimenti si vendicheranno su di noi».
I metodi usati per i massacri, come scrive Riccardi, furono una disordinata combinazione di violenza pubblica e organizzata, casuale e venale. Vi furono molti casi in cui gli armeni credettero di avere salvato la loro vita con il pagamento di esosi riscatti, ma caddero egualmente nella trappola della deportazione e dell’eccidio. Ve ne furono altri in cui pietosi musulmani cercarono di nasconderli e salvarli. E ve ne furono altri ancora in cui le vittime divennero merce da vendere e comprare. A differenza di ciò che sarebbe accaduto nella Germania di Hitler, l’odio fu molto più religioso e identitario che razziale, e colpì contemporaneamente, come nel caso di Mardin, altri cristiani.
Vi è in questa tragica vicenda un paradosso. Come ricorda Riccardi, gli strateghi dei massacri erano solo formalmente musulmani. I Giovani turchi conoscevano l’Europa, avevano avuto frequentazioni massoniche nelle capitali europee, invidiavano e ammiravano le società laiche, erano soprattutto nazionalisti e spesso atei. Usarono l’Islam per meglio motivare le truppe, i gendarmi, i funzionari dell’amministrazione imperiale a cui sarebbe spettato il compito di eseguire gli ordini del governo. Non fu il primo e non sarebbe stato purtroppo l’ultimo caso. Gli avvenimenti degli ultimi trent’anni, dalla guerra afgana a quella di Bosnia, dai massacri di Boko Haram in Nigeria a quelli dell’Isis in Iraq e in Siria, dimostrano quale uso perverso possa essere fatto della fede per accendere gli animi, alimentare l’odio e scatenare conflitti .
il manifesto 31.3.15
Interregno, lo spazio liquido dell’esistenzaSaggi. «Stato di crisi» di Carlo Bordoni e Zygmunt Bauman, per Einaudi. L’impoverimento e le disuguaglianze sociali hanno evidenziato l’implosione di un modello economico. ’Ue è il laboratorio dove sperimentare, in più occasioni, le varie politiche legate all’austerity
di Benedetto Vecchi
qui
il manifesto 31.3.15
Non più schiavi delle passioni
«Libre comme Spinoza. Une introduction à la lecture de l’Éthique» di Denis Collin, pubblicato da Max Milo Éditions di Parigi. Per una nuova rilettura del «conosci te stesso» e dei propri limiti
di Alberto Giovanni Biuso
qui
L’ archivio di Pietro Ingrao su www.pietroingrao.it
il manifesto 31.3.15
La Storia di Pietro
di Luciana Castellina
qui
il manifesto 31.3.15
La sua lezione pacifista
di Laura Boldrini
presidente della Camera dei Deputati
qui
il manifesto 31.3.15
I suoi operai costituenti
di Maurizio Landini
qui
il manifesto 31.3.15
Dalla forma nuova del sindacato dipende la forza di un paese che lotta insieme, dal nord al sud
di Pietro Ingrao
Reggio Calabria - 21 ottobre 1972
qui
il manifesto 31.3.15
L’indicibile nei versi dalla parte dei vinti
La poesia. È del 1986 il libro che segna l’esordio poetico di Pietro Ingrao, somigliante sia alla sua forma mentis sia alla sua caratura etico-politica. Con uno sguardo al grande esempio di Leopardi prima che ai fratelli maggiori della cosiddetta «poesia nuova»
di Massimo Raffaeli
qui
il manifesto 31.3.15
La passione di Ingrao per il grande schermo
Il cinema. Le discussioni con Visconti e Arnheim, il cinema come strumento di liberazione dell’immaginario, il seme potente della ribellione al fascismo
di Citto Maselli
qui
il manifesto 31.3.15
Quella rottura che ancora ci interroga
di Alfredo Reichlin
qui
il manifesto 31.3.15
La democrazia di base tra masse e potere
La socializzazione della politica e la diffusione della partecipazione popolare come antidoto alla conservazione insita nelle istituzioni, nello stato e nei partiti
La sinistra negli anni Novanta prenderà altre strade ma la «luna» che voleva Ingrao deve tornare a essere la stella polare della politica
di Guido Liguori
qui
il manifesto 31.3.15
Il paesaggio che annuncia l’altrove del comunismo
Nel suoi libri il ritorno nei luoghi dell’infanzia che lo hanno poi visto incamminarsi verso la maturità
Terre aspre, ma anche spazi dove il passato si apre a un desiderato futuro di libertà e uguaglianza
di Alberto Olivetti
qui
il manifesto 31.3.15
A che ora è il comunismo
La sfida di Ingrao quando si arresta il circolo virtuoso fra sviluppo capitalistico, crescita del movimento operaio e democrazia
Dalla forte polemica con Norberto Bobbio emerge la sua statura di politico
In mezzo alle macerie teoriche del postcomunismo, incapace di una visione critica del processo di unificazione europea
di Leonardo Paggi
qui
il manifesto 31.3.15
All’ultimo congresso del Pci: «Sono per una rifondazione comunista, non si può restare in mezzo al guado»
Documenti. Il discorso al XX congresso, l'ultimo, del Partito comunista italiano
di Pietro Ingrao
Rimini - 2 febbraio 1991, 31.3.2015
qui
il manifesto 31.3.15
La tentazione del premier forte e l’eutanasia del parlamento
di Pietro Ingrao
qui
il manifesto 31.3.15
La battaglia disperata contro la legge truffa del ’53 tra teatralità e ostruzionismo
di Pietro Ingrao
qui
il manifesto 31.3.15
La questione del manifesto, comitato centrale del Pci 1969
di Pietro Ingrao
Comitato Centrale del Pci - 15 ottobre 1969,
qui
il Fatto 31.3.15
Openculture: capolavori a portata di mouse
di Valerio Venturi
Chi guarda ancora la tv? La domanda è ovviamente provocatoria, ma è vero che – al netto delle dipendenze dei baby boomers, cresciuti col tubo catodico – sempre meno persone fruiscono passivamente di contenuti sul piccolo schermo. Oggi si preferisce scegliere cosa guardare e quando guardare. Davanti a quale device? Rimane l’ultimo dei problemi: si può utilizzare la televisione solo come terminale di una trasmissione che parte altrove: ovvero su internet. Oppure un tablet, un pc....
Anche per questo il web ha rappresentato una grande novità: on line è possibile rivedere programmi che si sono persi (ad esempio col servizio open “Rivedila” di La7), e sono disponibili librerie di film, serie tv, corti a pagamento oppure free. L’occasione buona per accedere a chicche a volte di difficile reperibilità, soprattutto ora che le videoteche sono praticamente sparite. E senza costi. Per i cultori dei film d’autore perlopiù datati, c’è il sito Openculture, che offre liberamente ai suoi visitatori la visione di ben 700 lungometraggi e altro.
NON C’È “Transformer 2” ma si trovano capolavori e chicche difficili da reperire altrimenti. Del tipo? Charlie Chaplin, il Melies del “Viaggio sulla Luna”, ed ancora l’Eisenstein parodizzato in Fantozzi, Fritz Lang, Hitchcock, Orson Wells, “Il mago di Oz” di Ridolini; direttamente dai ’60 e ’70, ecco “La notte dei morti viventi” di Romero e i masterpiece di Francis Ford Coppola, Tarkovsky, Kubrick; c’è anche “La Ciociara” del “nostro” Vittorio De Sica.
Le ciliegine sulla torta sono gli introvabili: tipo “Castello Cavalcanti” di Wes Anderson, che sembra prova preparatoria e breve per “Budapest Hotel”, oppure “Dona Lupe” di Guillermo del Toro, famoso per “Il Labirinto del Fauno” ed altri, realizzati in veste di attore e regista; si recupera qui anche la serie cult “Twin Peaks”, che creò le prime assuefazioni da serial nei ’90. Non mancano quelle altre ‘prime visioni’ di corti, medio e lungometraggi d’essai anche recenti di registi premiati di Francia, Corea, Messico...
Da dire poi che sul sito, realizzato proprio per la promozione e la diffusione della cultura, ci sono anche oltre 700 ebook disponibili e ben 1100 corsi free (tra cui quelli di lingue) e audiolibri.
Openculture non costituisce un unicum. Ci sono altre fonti di accesso a film free e cult: interessanti sono i progetti popcorntv, legale e libera (ci si trovano lavori recenti, anime e manga) e megatube, un palinsesto fatto di webserie, film, anime e contenuti top dal panorama dei creators: “I migliori youtuber che siamo riusciti ad aggregare sul territorio”, spiegano.
Poi c’è rai.tv, con un archivio di prodotti da sala o ideati per la rete, facilmente consultabili. Segnaliamo anche youtube, che ha una apposita sezione cinema, e infine il portale archive.org , zeppo di documenti. Buona visione.
A sinistra, un frame di “Luci della città” di Chaplin. A destra, la schermata di Openculture
il Fatto 31.3.15
TV2000
L’Archivio Vaticano, 12 secoli in 50 minuti
di Patrizia Simonetti
Uno dei luoghi più misteriosi e affascinanti – recita la voce di Giancarlo Giannini – 12 secoli di storia custoditi da 400 anni, conclavi, eresie, papi e imperatori, crociate e scomuniche, lettere cifrate, manoscritti e codici provenienti da cinque continenti, milioni di documenti”. È l’incipit di Archivio Segreto Vaticano – Un viaggio nella storia, il documentario del Centro Televisivo Vaticano realizzato in collaborazione con Officina della Comunicazione, che dopo l'anteprima internazionale al 18° Tertio Millennio Film Fest e la presentazione al 36° Festival Internacional del Nuevo Cine Latinoamericano de La Habana a Cuba, arriva oggi in anteprima televisiva su TV2000 alle 12.15 e in replica alle 19.00. Diretto da Lucas Duran che l’ha scritto con Maria Letizia Colacchia e Marco Maiorino e con le musiche originali di Stefano Caprioli, ci accompagna per 50 minuti all’interno dei locali inaccessibili di uno dei centri di ricerche storiche più importanti e più imponenti al mondo, l’Archivio segreto Vaticano, appunto, dove segreto sta per “secretum”, ovvero personale e riservato, al Sommo Pontefice, ovvio, e ai suoi incaricati. Ad aprirlo è invece nel 1881 Leone XIII, il primo papa dopo mille anni a non esercitare il potere temporale, quello delle Encicliche, che ne firma ben 86, tra cui, il 15 maggio 1891, la Rerum Novarum, la prima a carattere sociale, convinto com’è che la Chiesa debba fare attività pastorale anche in campo socio-politico, e chiamato per questo il Papa dei Lavoratori. Così lo mette a disposizione di studiosi di qualunque paese e religione per le loro indagini storiche. Ancora oggi per i ricercatori qualificati l'ingresso è libero e ogni anno ne arrivano più di 1.200 da tutto il mondo.
DENTRO, 85 chilometri di scaffali, 650 fondi archivistici, 30 mila pergamene, anche quelle novanta che cucite insieme ne fanno un rotolo di 60 metri dove sono trascritti gli interrogatori di 231 templari di Francia effettuati tra il 1309 e il 1311, e pure quella di un solo metro ma con 83 sottoscrizioni e 81 sigilli, semmai si aprisse nel viaggio, su cui nel 1530 i Pari d’Inghilterra scrissero la lettera a Clemente VII per perorare la causa dell’annullamento di matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona. C’è anche la bolla con cui nove anni prima Leone X scomunicava Martin Lutero, e il Codice del processo che nel 1633 condannò Galileo Galilei per la sua eretica teoria copernicana eliocentrica sul moto dei corpi celesti.