Corriere 30.3.15
Donatella Di Cesare si dimette
È ancora polemica sulla Società Heidegger: «Siete provinciali»
di Antonio Carioti
Non c’è pace per la Martin Heidegger Gesellschaft («Società»), intitolata al filosofo tedesco. Dopo le dimissioni del presidente Günter Figal, due mesi fa, ora lascia anche la vicepresidente Donatella Di Cesare. Ma, ci tiene a precisarlo, per ragioni assai diverse, anche se comunque legate all’uscita dei Quaderni neri, i taccuini filosofici, a lungo inediti, in cui Heidegger esprime un forte antisemitismo. «Figal — precisa Donatella Di Cesare — considera quei brani rivoltanti e non vuole più essere collegato a Heidegger. Io al contrario ritengo che proprio i Quaderni neri impongano di approfondire e ampliare il dibattito su quello che rimane il più importante pensatore del Novecento, per capire le origini filosofiche del suo antisemitismo». La Heidegger Gesellschaft, a suo parere, si muove in senso opposto, in quanto «per un verso è rimasta in questi mesi chiusa, per l’altro ha deciso di far ritorno a Messkirch, paese natale del filosofo. È un gesto non solo metaforico, una chiusura provinciale opposta all’apertura internazionale che ritengo necessaria. Per loro è come se i Quaderni neri fossero irrilevanti: un tentativo di negare l’evidenza non meno sbagliato dell’atteggiamento di chi invoca il totale ripudio di Heidegger».
il Fatto 30.3.15
Sergio Cofferati:
“Io aiuto Landini Ora la Cgil lavori tutta al fianco”
Lasciato il Pd l’ex segretario entra nella Coalizione sociale: “Fondo un’associazione”
di Giampiero Calapà
Un Mutuo soccorso dell’associazionismo più bello e sano del Paese per recuperare un’azione politica fondamentale. È un’idea ottocentesca, l’unica possibile ora, ma bisogna dare delle risposte precise alla piazza di sabato a Roma”. Sergio Cofferati, dopo il trionfo della manifestazione della Fiom, ritrova l’entusiasmo perduto a causa della sconfitta alle primarie per la scelta del candidato del Pd alle regionali della Liguria; avvenuta per mezzo, ha sempre sostenuto, “di evidenti brogli”.
Cofferati, era dai tempi del suo Circo Massimo (23 marzo 2002, un milione di persone per dire “no” all’abolizione dell’articolo 18) che non era così contento?
Ci sono state tante altre manifestazioni da quel dì... Quelle del sindacato riescono sempre bene. Ma non è giusto fare paragoni, men che meno per chi è stato coinvolto. L’idea di mettere insieme le associazioni è una bella idea.
Adesso la domanda è la più classica: che fare?
Intanto troverei davvero molto utile una partecipazione alla realizzazione di questa idea da parte della Cgil in toto. Positiva la presenza sabato in piazza del segretario generale Susanna Camusso.
Ma come si concretizza quest’idea in atto pratico?
Il segretario della Fiom Maurizio Landini ha già spiegato più volte come tutto questo non c’entri nulla con la creazione di un nuovo partito. Si tratta di far lavorare insieme associazioni che hanno carattere volontario di varia natura.
Quindi cambieranno la loro natura?
Assolutamente no, continueranno ad occuparsi e intervenire nel loro campo. Come il sindacato continuerà ad occuparsi dei lavoratori, Emergency si occuperà degli ospedali nelle aree di crisi del mondo e Libera della lotta alle mafie, per citarne solo alcune. Soltanto, rispetto a prima, esisterà un coordinamento per raggruppare questi impegni in una base programmatica. Rimane l’identità e il lavoro tradizionale delle singole associazioni, ma insieme affronteranno temi specifici, costruiranno un’agenda. Ci sarà un coordinamento promosso da Landini. Può trasformarsi in una eccezionale esperienza di partecipazione politica.
Sembra un problema che vogliamo sollevare noi giornalisti, ma tutto questo diventa offerta politica o cosa?
L’offerta politica non è un problema che riguarda questa coalizione sociale. Saranno i vari partiti a decidere cosa vorranno condividere e come interagire con questa nuova rete di associazioni.
La cerniera col mondo politico non potrebbe essere proprio lei? Adesso che ha detto addio al Pd e ha le mani libere...
Sono ben contento di partecipare alla realizzazione di questa coalizione sociale, ma se andate cercando un leader vi rispondo che non è questa la logica e che non è neppure mia intenzione quella di creare un partito.
Capito, non volete fare un partito nuovo. Cofferati come militerà in questa coalizione sociale?
Sto definendo la realizzazione di un’associazione di carattere politico-culturale.
Il nucleo di un nuovo partito da mettere a disposizione della coalizione sociale in caso di elezioni, quindi?
No, solo un’associazione politico-culturale che della coalizione farà parte.
Il nome dell’associazione c’è già?
Abbiamo allo studio diverse ipotesi.
Recupererete la parola “sinistra”?
Non posso svelarglielo, altrimenti i compagni mi mangiano vivo.
A proposito, in quest’associazione oltre lei chi ci sarà?
Compagni con cui in questi anni ho condiviso mille battaglie politiche.
In arrivo amici della sinistra Pd?
Ognuno è libero di decidere cosa fare, io ho preso le mie decisioni e quello non è più il mio partito. Le porte sono aperte a tutti.
Oggi c’è la Direzione del suo ormai ex partito. Pare che il segretario Matteo Renzi spazzerà di nuovo via la minoranza. Vuole dare qualche consiglio a Stefano Fassina o Gianni Cuperlo?
In tanti anni di attività sindacale o politica non ho mai dato consigli a nessuno. Staremo a vedere cosa succederà nel Pd e cosa deciderà eventualmente di fare la sinistra interna. Per me non c’erano più le condizioni di stare dentro quel partito, quindi affari loro.
Corriere 30.3.15
Cofferati e il duo Landini-Camusso «Un brutto bacio, lei si è ritratta»
«Il segretario Cgil immobile sulla scaletta. Avrebbe dovuto parlare»
intervista con Sergio Cofferati di Fabrizio Roncone
Sergio Cofferati, parliamo di quel bacio tra Susanna Camusso e Maurizio Landini?
«Guardi... io, per natura, preferisco sempre parlare di cose belle: mentre quello è stato un gesto brutto, un brutto bacio...».
Continui.
«Senza voler aumentare le probabili sofferenze dei due protagonisti, diciamo che... Beh, sì, insomma: non è sembrato, almeno a giudicare dalle foto pubblicate dai giornali, un bacio molto partecipato. Si ha la sgradevole sensazione che lui stia lì, con la voglia di baciare: mentre lei, ecco, lei si ritrae e...».
Certi baci spiegano molto non solo in amore, ma anche in politica.
«Che poi dopo lei è anche rimasta lì, ferma, immobile sulla scaletta...».
Due ore e dieci minuti immobile sul penultimo gradino della scaletta, pur di non mettere piede sul palco.
«Ecco, appunto: la cosa che davvero non ho capito è per quale motivo, pur essendo presente tutta la segreteria della Cgil, che di per sé è già un bel segnale, il segretario generale non abbia parlato, non abbia salutato la piazza...».
Non era mai accaduto.
«Vede, ci sono delle regole non scritte... ma che sempre, sì, sempre sono state rispettate. E se il segretario generale è presente a una grande manifestazione dei metalmeccanici, è previsto, anzi è certo che il segretario, ad un certo punto, prenda la parola».
Quella di sabato, a Roma, in piazza del Popolo, è stata una grande manifestazione: ma istintivamente è venuta voglia di fare il paragone con quella che lei convocò nel marzo del 2002 al Circo Massimo, alla quale parteciparono 3 milioni di persone...
«Potremmo liquidare la questione dicendo che siamo davanti a due epoche storiche diverse...».
E aggiungendo che la nuova grande piazza è quella virtuale del web.
«Esatto. Però diremmo due sciocchezze. Vede, io credo che anche oggi una piazza potrebbe essere riempita da milioni di manifestanti... L’interrogativo di fondo, però, oggi come tredici anni fa, è sempre lo stesso: perché convochi una manifestazione? La sostanziale differenza tra quella del 2002 e quella che è stata organizzata sabato è questa: all’epoca c’era un governo di centrodestra che cercava di modificare lo Statuto dei lavoratori ed è proprio per fermare quel piano che protestammo. I manifestanti di sabato devono invece fare i conti con un governo di centrosinistra che ha già mutilato pesantemente lo statuto, e quindi ciò che possono fare è cercare di ripristinare...».
La differenza è in due verbi: fermare e ripristinare.
«E certo! Un conto è convocare una manifestazione dicendo che stai cercando di “fermare” un piano. E infatti noi ci ritrovammo la piazza con 3 milioni di persone e riuscimmo nel nostro intento. Un conto è convocarla spiegando che l’obiettivo è quello di “ripristinare” qualcosa. L’impatto emotivo è profondamente diverso; l’entusiasmo, inevitabilmente, ne risente».
Restando alla manifestazione di piazza del Popolo: numerosi osservatori ritengono che possa aver segnato l’inizio della scalata di Landini alla poltrona di segretario generale della Cgil.
«Ma no... La Cgil ha le sue regole... non è come il Pd, che è stato scalabile. La Cgil procede per congressi. Poi, certo: è immaginabile che assisteremo a un congresso importante, specie se ci dovessero arrivare, come sembra probabile, con idee politiche un poco diverse».
Molto diverse. La frattura tra Camusso e Landini appare ormai profonda.
«Landini ha lanciato un’ipotesi di iniziativa politica fortemente innovativa. Landini prefigura un sindacato che ovviamente, inevitabilmente continui a fare il suo mestiere: e cioè difendere le persone che lavorano, garantendogli salari giusti, giuste protezioni, negoziando contratti... Poi, però, Landini fa anche un passo avanti e, rivolgendosi alle varie organizzazioni sociali, tipo Libera, tipo Emergency, o a tutte le sigle che operano nel volontariato e nell’ambiente, dice: lavoriamo insieme. E su questo... beh, temo che la Camusso non sia d’accordo».
(All’inizio dell’intervista Cofferati scherzava su come lo hanno chiamato negli ultimi vent’anni: prima segretario, poi sindaco, poi ancora onorevole. Nessuno, però, ha mai osato cambiargli il soprannome. In ogni biografia c’è scritto: Cofferati detto il «cinese» ).
Corriere 30.3.15
La Camusso gela Landini: «La citazione del Papa potevi risparmiarcela»
il video qui
il Fatto 30.3.15
Il segretario Fiom
“Sul Jobs Act governo non ha consenso”
Il giorno dopo la manifestazione di piazza del Popolo, Maurizio Landini è ancora in pista a Bologna. "Se si facesse un referendum sulle modifiche del lavoro" introdotte dal jobs act, "il consenso il governo non lo ha" dice il segretario Fiom intervenendo ad un incontro con il segretario generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone. Con questo “modello tra 10-15 anni non ci sarà più lo statuto dei lavoratori perché” in caso di perdita di lavoro per ristrutturazioni aziendali o cambi di lavoro “saranno tutte nuove assunzioni” senza le tutele. Su Renzi picchia: “Lui non parla non solo con il sindacato ma anche con il Parlamento, mette fiducia su fiducia, è una concezione un po’ padronale”.
il Fatto 30.3.15
L‘intervento
“Le nostre debolezze assieme diventano la nostra forza”
di Gustavo Zagrebelsky
Molto ci aspetta dal risveglio della nostra società che è stata messa ai margini e oscurata in questi anni di destrutturazione del nostro sistema di relazioni economiche e sociali. Avrete modo di discutere come e perchè è avvenuto questo distacco di tanta parte del nostro Paese, la parte più debole e vulnerabile. Quella che soprattutto avrebbe bisogno di presenza, visibilità e rappresentanza nelle istituzioni politiche. Tutti noi, di fronte a politiche industriali che esibiscono innovazione e crescita, mentre producono disoccupazione e sottoccupazione, di fronte al dilagare di sistemi di corruzione che svuotano dall’interno la legalità e la democrazia, di fronte alla totale assenza di parole politiche su un futuro di giustizia per la nostra società, di fronte a mutamenti della Costituzione che mirano alla concentrazione del potere in poche mani, tutti noi quante volte ci siamo chiesti e ci siamo sentiti chiedere “che fare? ” e ci siamo sentiti impotenti.
Questa manifestazione deve dare una prima grande risposta (alla quale altre seguiranno) in un percorso organizzato di partecipazione politica e di risveglio democratico. Moltissimi si aspettano molto. Non fermiamoci e non lasciamo che altri ci fermino. Non dividiamoci sulla questione “coalizione sociale” o “partito politico”. Questa è una mobilitazione delle debolezze che insieme vogliono e possono diventare forza. E così fare breccia nelle oligarchie che dominano il mondo della politica e dell’economia. Chi potrebbe sostenere che un risveglio democratico non sia urgente anche nel nostro Paese? Chi potrebbe sostenere che non c’è necessità di riprendere in mano la nostra politica espropriata da tecnocrazie irresponsabili, nazionali e sovranazionali? Il nostro compito è riempire un vuoto di democrazia. In un mondo normale i partiti politici si porrebbero in ascolto, accoglierebbero con favore le voci che chiedono d'essere rappresentate, ne trarrebbero alimento per la loro stessa azione. Non devono servire, secondo la Costituzione, come strumento di partecipazione alla politica nazionale? Non rischiano di essere invece strumento di esclusione? La diffidenza, talora l'ostilità, con la quale molta parte dell'establishment politico guarda a questa mobilitazione sono la prova più evidente della sua necessità. Tanto più la contrastate, si potrebbe dire, tanto più dimostrate che è necessaria. Buon lavoro. Unità, studio ed entusiasmo.
*testo inviato alla manifestazione Unions della Fiom e letto in piazza del Popolo sabato da Sandra Bonsanti
La Stampa 30.3.15
Landini lancia “l’Opa” sulla Cgil e cerca l’alleanza con i pensionati
Due fronti per il leader dei metalmeccanici dopo la manifestazione di Roma
Più consenso all’esterno per fare le primarie nel sindacato e vincerle
di Roberto Giovannini
La domenica dopo la manifestazione di Piazza del Popolo il segretario della Fiom Maurizio Landini l’ha trascorsa a Medicina, in provincia di Bologna. Era a un dibattito dei pensionati delle Leghe dello Spi di Malalbergo, Molinella, Castenaso, Granarolo, Budrio e Medicina. Potrebbe sembrare un modo bizzarro di passare la domenica, per uno che ostenta le non piccole ambizioni di diventare segretario generale della Cgil e far cambiare politica a Matteo Renzi. Ma a discutere con gli anziani, accanto a lui, c’era anche Carla Cantone, il numero uno del Sindacato Pensionati della Cgil, un «mostro» con 2,5 milioni di iscritti. Se Landini vuole portare a termine la sua «Opa» sulla Cgil, è costretto a conquistare alleati potenti. Gente come Cantone, o come Vincenzo Colla, il segretario della Cgil dell’Emilia-Romagna.
Sono due i fronti di azione del numero uno della Fiom. Il primo è quello della «Coalizione sociale»: nella seconda decade di aprile ci sarà una riunione in cui i soggetti promotori dell’iniziativa fisseranno i punti programmatici. Se tutto va bene, a maggio poi si terrà l’assemblea fondativa vera e propria. Il secondo fronte è quello della Cgil: ormai non è un segreto che Landini abbia programmato per il 2018 la scalata al vertice della Cgil, quando Susanna Camusso dovrà passare la mano dopo 8 anni da segretario generale. Uno dei passaggi decisivi è la Conferenza di organizzazione della Cgil prevista per questo ottobre, dove si potrebbero (tra l’altro) definire nuove regole per l’elezione dei segretari generali. Giovedì prossimo si riunirà la Commissione che ha il compito di definire i documenti per questa Conferenza. Potrebbe essere un passaggio importante nella battaglia per la guida della Cgil.
Landini - che spara sempre a zero sull’attuale metodo di funzionamento del sindacato confederale, e conta ben pochi sostenitori nel gruppo dirigente - a suo tempo propose di adottare il metodo delle primarie, un sistema che naturalmente ben si adatta a leader «ad alta visibilità» come lui. Camusso ancora non ha sciolto i dubbi su chi indicare come suo successore. Vorrebbe evitare di essere per tre anni un segretario generale «dimezzato», e non vede certo di buon occhio una riforma «presidenzialista» della Cgil. Tuttavia, la proposta con cui Camusso si presenta alla riunione di giovedì è molto barocca e ha un sapore antico: il Congresso dovrebbe eleggere oltre al direttivo (che oggi nomina il leader come pura formalità) una Assemblea di «grandi elettori», incaricati di eleggere il segretario generale dopo una lunga e contorta consultazione dei 5000 sindacalisti che di fatto compongono il gruppo dirigente. Un meccanismo di cooptazione che sembra disegnato su misura per silurare Landini, che a sua volta ha proposto di far partecipare al voto gli iscritti o almeno i delegati delle Rsu. In questi giorni però il leader Fiom sta cercando di trovare un’intesa con altri dirigenti della Cgil, tra cui Carla Cantone dei Pensionati, per varare una soluzione comune più «aperta» e che coinvolga di più gli iscritti. Con Landini per ora c’è solo il leader del Sindacato della scuola Domenico Pantaleo. Ma nei prossimi mesi il sindacalista emiliano sarà costretto a mediazioni e accordi, se vuole vincere. Peraltro, in un momento decisivo per la Cgil: di qui alla fine del 2016 verranno indicati nuovi leader per gli edili della Fillea, gli alimentaristi della Flai, gli insegnanti della Flc, i pensionati dello Spi, tre segretari confederali e i capi di Regioni importanti come Lazio, Toscana e Puglia.
Repubblica 30.3.15
Associazioni, lavoro autonomo e tute blu così Landini organizza la sua Coalizione
Il leader della Fiom si muove su un doppio binario: l’attenzione al disagio sociale, aggregare intorno a un progetto politico l’opposizione al governo e al tempo stesso riformare il sindacato per scalarne la leadership
di Roberto Mania
ROMA Prenderà forma entro la fine di maggio la Coalizione sociale. Prima verrà stilata quella che Maurizio Landini chiama la Carta d’identità del movimento, con i valori di riferimento e gli obiettivi da perseguire; poi sarà creato una sorta di Coordinamento dell’alleanza con gli esponenti delle associazioni promotrici. E nel Coordinamento non sarà comunque Landini a rappresentare la Fiom, per evitare le polemiche sul suo doppio ruolo. Questa struttura di governo sarà poi replicata nei vari territori. Un’organizzazione leggera, ma pur sempre un’organizzazione.
«La vera novità — dice il leader dei metalmeccanici della Cgil — è proprio questa: noi partiremo dai territori dove c’è una maggiore domanda di coalizione». Spiega: «Può non esserci il sindacato nelle lotte per la casa? Può non essere accanto ai medici di Emergency che in Italia, non in Africa, hanno messo in piedi strutture per l’assistenza sanitaria gratuita a favore delle persone più bisognose? Se non pensiamo di rappresentare questa socialità cosa pensiamo di rappresentare? ». È questo il nuovo sindacato (o il vecchio, perché è quasi un ritorno alle origini) che ha in mente Landini.
Dunque è su un doppio binario che si muove il leader di fatto della Coalizione sociale: aggregare le associazioni intorno a un progetto politico, attento soprattutto alle aree di maggiore disagio sociale, alternativo oggi al programma del governo Renzi; riformare il sindacato fino a puntare alla scalata della stessa Cgil. Progetto «ambiguo», secondo Cesare Damiano, ex metalmeccanico, esponente delle minoranze del Pd che anche su Landini si sono divise. Perché, per esempio, Stefano Fassina in piazza sabato ci è andato e che ieri è tornato a sostenere «che molti iscritti e militanti hanno mollato il Pd e hanno manifestato con la Fiom». Resta il fatto che Landini continua a ripetere che non ha mai pensato alla formazione di un altro partito o partitino della sinistra. Sembra un progetto più complesso il suo, e forse anche più complicato. In attesa che si cominci a concretizzare nei prossimi due mesi, Landini, non a caso, continua ad alzare il tono dello scontro con Renzi. Ieri, a margine di un convegno a Medicina nel bolognese, ha spiegato perché sulle politiche del lavoro considera Renzi peggiore di Berlusconi. «Berlusconi — ha detto — si è confrontato, ha avuto scontri e anche accordi: qui siamo di fronte ad un governo che sta rifiutando di confrontarsi con i sindacati e che ha addirittura cancellato l’articolo 18 e rende possibili i licenziamenti. Quello che sta facendo il governo Renzi non era mai successo nella storia del nostro Paese: si mettono in discussione principi della Costituzione, con una regressione pericolosa e grave». In questa interpretazione dell’azione di un governo definita «padronale» ci sarebbe proprio la spinta ulteriore all’aggregazione sociale.
Dopo Pasqua ci sarà il secondo appuntamento delle associazioni che porterà a definire appunto la Carta d’identità. Accanto ai movimenti sociali, Landini dice che c’è un forte interesse da parte delle organizzazioni del lavoro autonomo: giovani avvocati, i farmacisti delle para-farmacie, addirittura i notai. Si mescolerebbero così i lavori senza più le barriere, anche culturali e ideologiche, tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Anche questa è una novità per la Fiom, sindacato degli impiegati e degli operai metalmeccanici. Scrive significativamente sul sito della Fiom Gabriele Polo, oggi spin doctor di Landini dopo essere stato per anni il direttore del Manifesto: «I metalmeccanici della Fiom di manifestazioni ne hanno fatte tante, ma non ne avevano mai fatta una confederale, così intenzionata a rappresentare e contrattare tutte le forme del lavoro e, persino, tutti gli aspetti della vita sociale; coalizzando ciò che è frammentato, cercando gli elementi e i punti di vista comuni per costruire “un mondo”». È l’ammissione di una Fiom che ha deciso di scavalcare la Cgil, di farsi confederazione, di diventare Unions, come recitava lo slogan della manifestazione di sabato. Un altro sindacato, appunto. Una sfida per Landini. Però «se la sua coalizione sociale — sostiene Giuseppe Berta, bocconiano, storico dell’industria — non produrrà risultati in un certo periodo di tempo, il tentativo di prendere la guida dalla Cgil minaccia di andare a vuoto». E questo è il doppio rischio di Landini.
Repubblica 30.3.15
Luigi Di Maio, M5s
“È soltanto un nostalgico della falce e martello il suo movimento è inutile”
“A noi servono i numeri per approvare il reddito di cittadinanza, e non li ha. Meglio collaborare con il Pd e Sel”
intervista di Annalisa Cuzzocrea
ROMA . «Noi collaboriamo con chi può essere utile. Non vedo come possa esserlo Maurizio Landini, che non ha voti in Parlamento e rappresenta un mondo da cui siamo totalmente distanti». Il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio gela ogni ipotesi di dialogo dei 5 stelle con il leader della Fiom.
Su reddito di cittadinanza e jobs act, farete fronte comune con la coalizione sociale di Landini?
«Per fare approvare il reddito di cittadinanza ci servono i numeri. Sono tutti i benvenuti, ma Landini non ne ha. In più, non si è capito nulla di quello che vuol fare. È un nostalgico, ha come punto di riferimento vecchie ideologie: la falce e il martello, l’esaltazione del sindacato come mediazione necessaria tra Stato e cittadini. Piuttosto, sulla nostra proposta di legge, spero che le opposizioni in Parlamento si muovano. Io ho firmato ieri la petizione di Libera che chiede una legge in cento giorni. Ne rimangono 84».
Sembra che su Landini la pensi come Matteo Renzi. È così?
«La differenza tra noi e Renzi la vediamo nella riforma della Rai. Il premier vuole togliere di mezzo tutto quel che non è se stesso, vuole solo comandare. Noi invece avviciniamo le istituzioni ai cittadini attraverso strumenti di democrazia diretta. E prendiamo atto del fallimento di una struttura - il sindacato - che non ha più senso di esistere. Come le ideologie».
Non potreste collaborare neanche su un referendum per abrogare il jobs act?
«Il jobs act va cancellato, quello che vuole fare Landini al riguardo, però, non l’ho capito. È un metodo, avvolgere di mistero le proprie intenzioni per attirare i media. Quella legge pensiamo ad abrogarla in Parlamento. E se sarà necessario un referendum, non è detto che a promuoverlo sia la coalizione sociale della Fiom».
Sapeva dell’incontro di Landini con i vostri capigruppo? Ci è rimasto male?
«Non ne sapevo niente, ma non ci sono rimasto male perché rientra nelle consultazioni che facciamo con le parti sociali. Ascoltiamo tutti, anche Confindustria ».
Sul reddito di cittadinanza, crede che riuscirete comunque a creare un fronte in Parlamento, magari con Sel e minoranza Pd?
«Sono molto fiducioso. L’unico modo per aiutare questo Paese è dichiarare illegali povertà e miseria. Faremo una grande mobilitazione nazionale sul reddito di cittadinanza, e spero che anche un partito di coccio come il Pd ne capisca l’importanza. Vogliamo presentare ai cittadini gli italiani che ne stanno usufruendo in altri Paesi per far capire come funziona. Un amico con cui facevo il cameriere...».
Faceva il cameriere?
«Sì, fino a un anno prima di entrare in Parlamento. Questo mio amico è andato a farlo in Gran Bretagna perché guadagnava di più. Ha perso il lavoro, ma lo Stato lo ha chiamato, gli ha dato un reddito, lo ha formato come saldatore e lo ha aiutato a trovare un nuovo impiego. La legge che proponiamo creerà 10 milioni di nuovi consumatori presso l’impresa e l’edilizia, farà ripartire il mercato degli affitti ».
Cosa pensa di quel che ha scritto Grillo sul blog, che Renzi è come il pilota tedesco della Germanwings?
«Come al solito c’è stata una grande strumentalizzazione mediatica. Quando i partiti dicono sciocchezze non succede nulla, qualsiasi cosa dica Beppe - che ha sempre usato questo tipo di provocazioni e che io ho sempre sostenuto - tutti a giudicare. Stanno strumentalizzando anche Alessandro (Di Battista , ndr), perché un boss della mafia romana ha condiviso un suo post. È assurdo: il Pd che è coinvolto in Mafia capitale - si permette di dare lezioni. Quando l’unica verità è che per combattere la mafia a Roma bisogna smettere di votare Pd».
Corriere 30.3.15
Castellina torna alla politica: dentro Sel con Casarini e Maltese
MILANO (c.zap.) Torna alla politica Luciana Castellina. Lei che è stata nel Pci (radiata nel 1970), in Democrazia proletaria e con Rifondazione, ora sta per entrare negli organismi dirigenti di Sel con Luca Casarini e Curzio Maltese, ha detto il coordinatore nazionale Nicola Fratoianni, per «costruire un pezzo di strada con altri punti di vista».
Repubblica 30.3.15
Sel, arriva la Castellina
Vendola: “Al premier riesce ciò che a Berlusconi fallì”
ROMA «Renzi, garantista a giorni alterni, vedi il caso De Luca in Campania, porta a compimento il disegno di privatizzazione della scuola iniziato con il ministro Gelmini.
Il Jobs act è l’altra faccia della stessa medaglia: dimmi che scuola hai e ti dirò che società sei». Il leader di Sel Nichi Vendola sferra un duro attacco al governo Renzi e alla maggioranza, bocciandoli su tutti i fronti. «Ci siamo scaldati nelle aule parlamentari e nelle piazze contro l’articolo 18, perché quello che non erano riusciti a fare Berlusconi e Sacconi lo ha fatto Renzi: nella riforma si immagina che la stabilizzazione dei lavoratori precari non debba coprire l’intera platea e questa scelta va di pari passo con la defiscalizzazione della scuole private». Per Vendola comunque è «la riforma Rai quella che fa più rabbia». Sulla manifestazione di Landini sottolinea: «Le piazze vuote piacciono a dittature e mafia». Intanto Sel decide d’inserire negli organismi dirigenti anche chi non è iscritto al partito: da Luciana Castellina a Luca Casarini e Curzio Maltese.
il Fatto 30.3.15
Direzione democratica
Matteo contro Bersani, ultimo round
L’appuntamento è per le 16 di oggi nella sede del partito democratico di via Sant'Andrea della Fratte a Roma. Ci sarà lo streaming per riprendere il segretario del partito e primo ministro Matteo Renzi che striglia le sue minoranza con l’obiettivo di convincerla a votare l’Italicum (messo in calendario a Montecitorio per il 27 aprile), così com’è. Una sola modifica, infatti, rimanderebbe il testo al Senato, dove i numeri della maggioranza sul provvedimento sono assai a rischio (vista l’ampia area del dissenso interno a Palazzo Madama). Per adesso ognuno resta della sua idea. La partita, però, non si chiuderà in questa Direzione.
Corriere 30.3.15
Italicum, Renzi alla conta: i giovani con me
Oggi metterà ai voti la linea sulla legge elettorale, ma aprirà sulla modifica del Senato Secondo il premier l’ultima generazione «non ha voglia di seguire i Bersani e i D’Alema»
di Marco Galluzzo
ROMA Nella direzione del Partito democratico oggi Matteo Renzi metterà ai voti la sua relazione: dirà alla minoranza che si deve andare avanti, che nessuno capirebbe una discussione ulteriore sul testo della legge elettorale, che dunque quello dell’Italicum è un capitolo chiuso. Ci si conta, ci si chiarisce, si chiude e si va avanti.
Dopo Pasqua si voterà nei gruppi parlamentari, ma entro la fine di aprile si andrà in Aula per avere un testo approvato e vigente già prima della fine di maggio. Dunque in corrispondenza, subito prima, o subito dopo, le elezioni amministrative, un appuntamento che potrebbe diventare una sorta di spartiacque della legislatura e degli equilibri interni al Partito democratico.
Insomma quello di oggi sarà per molti motivi un passaggio cruciale. La legge elettorale sarà l’argomento principe, verranno difesi i suoi punti principali (la governabilità, la semplificazione del sistema, la chiarezza del vincitore) con la possibile mediazione di fare le primarie anche per i capilista. Ma il vero argomento della discussione sarà l’equilibrio del futuro dentro il partito. In qualche modo, dunque, le modalità del prosieguo della maggioranza.
Renzi è convinto che la minoranza interna «sia molto più divisa di quanto non appaia, con molti giovani che non hanno voglia di seguire le sirene» dei vari D’Alema o Bersani, una generazione che oggi in qualche modo si troverà davanti ad un bivio: seguire un’opposizione che a giudizio del premier è sterile e persino conservatrice, oppure esercitare una scelta di responsabilità staccandosi una volta per tutte da alcuni simboli di riferimento, una scelta che il presidente del Consiglio cercherà in qualche modo di provocare, anche a costo di strappi dolorosi.
Il discorso di Renzi, che sarà proiettato sul futuro, su tutto il lavoro che attende sia il partito che il governo, conterrà anche una sorta di offerta sulla riforma della Costituzione, che deve tornare al Senato: in questo caso, se ci sono punti da discutere ulteriormente, eventualmente da migliorare, l’atteggiamento del premier è di apertura, si è ancora in tempo per non considerare blindata la riforma istituzionale.
Sulla scelta di andare in qualche modo ad una conta ha anche inciso l’accelerazione politica di Maurizio Landini, che a giudizio del premier spiazza molti giovani quarantenni della minoranza del Pd: se l’accostamento del sindacato è quello di questo governo a Silvio Berlusconi e se quella di Landini e di Susanna Camusso è l’opposizione di sinistra più visibile e accreditata nei confronti dell’esecutivo e dunque della maggioranza del Pd, allora forse vuol dire che l’occasione per uscire da alcuni equivoci, una volta per tutte, agli occhi del premier, è in qualche modo ghiotta.
Del resto Renzi è convinto che molti giovani della minoranza vorrebbero evitare il voto e verranno spiazzati dalla scelta di votare. Consapevoli che uno strappo avrà comunque delle conseguenze. Per qualcuno anche nei posti di governo, se il seguito di alcuni ministri Pd dovesse scegliere di arroccarsi.
Sulla direzione è intervenuta anche il ministro Maria Elena Boschi, convinta che il Pd «andrà avanti sulla strada del cambiamento, il partito ha una grande responsabilità perché rappresenta il 41% degli italiani ed è l’unico partito in grado di cambiare il Paese e lo stiamo dimostrando con l’azione del governo».
Corriere 30.3.15
D’Attorre: in caso di urne anticipate ci si confronti prima su leader e linea
«Matteo rischia nel voto segreto Pronti a sfidarlo in un congresso»
intervista di Monica Guerzoni
ROMA Voterete l’Italicum in cambio delle primarie per i capilista bloccati, onorevole Alfredo D’Attorre?
«Non stiamo discutendo né dello Statuto del Partito democratico, né di accordi tra maggioranza e minoranza interna, ma dell’equilibrio democratico della Repubblica italiana».
Non avete ottenuto già molte modifiche al testo?
«Sulla rappresentanza di genere si è trovata una soluzione adeguata. È un passo avanti».
E non vi basta?
«No, sulle altre due questioni di fondo non ci siamo. La maggioranza dei parlamentari resta di nomina diretta delle segreterie, col paradosso che gli eletti con le preferenze saranno concentrati solo nel partito che vince. E il ballottaggio col premio alla lista, senza possibilità di apparentamenti, determina la possibilità che una singola forza possa ottenere, da sola, il 55 per cento dei seggi, anche se al primo turno non ha ottenuto neppure il 20 per cento dei voti».
Meglio del Porcellum, non crede?
«Dal punto di vista dello stravolgimento del principio di rappresentanza rischia di essere perfino peggio».
La vostra strategia?
«Se Matteo Renzi spera di chiudere tutto col voto di oggi, sbaglia. La legge elettorale la approva il Parlamento, non la direzione del Partito democratico. Renzi a volte ci regala delle sorprese, spero apra a un confronto».
Se vi offre 30 posti?
«Se quest’offerta c’è stata, indica una totale incomprensione della natura degli interlocutori. Sulla necessità di modificare l‘Italicum la condivisione nella minoranza è larghissima. Ma non vogliamo spaccature e continueremo a lavorare per un accordo serio. Sul merito, non certo sui posti».
La sua mediazione?
«Dare il via libera a quella proposta frettolosamente bollata col termine di conclave. Nessuno vuole un conclave segreto, ma un confronto aperto per definire poche modifiche, che mettano in equilibrio il sistema. Se c’è quest’intesa, con le modifiche introdotte alla Camera la legge potrà essere votata senza alcun cambiamento al Senato»
Il premier non si fida.
«Renzi sbaglia a fidarsi di Denis Verdini e dei suoi voti più che di un pezzo fondamentale del suo partito. In vari passaggi cruciali gli abbiamo dimostrato che siamo persone serie».
Se invece non c’è l’accordo?
«Rischiamo di aprire una divisione molto seria nel Pd e di avviarci verso esiti imprevedibili in aula».
Ci sarà la scissione?
«No. E su questo credo che Renzi in direzione debba assumere un impegno. Il voto non è un tabù. Ma poiché storicamente dopo l’approvazione della legge elettorale si è sempre andati a elezioni, a Renzi chiedo di garantire che il percorso sia costruito, quando sarà, senza sotterfugi».
Chiedete il congresso?
«Se si vota nel 2018 il congresso avrà la sua scadenza naturale nel 2017, ma Renzi deve garantire che in caso di anticipo delle elezioni al 2016 ci sia la possibilità di una verifica democratica interna, per decidere linea politica e leader prima del voto. Se vuole andare alle urne, lo dica per tempo e anticipiamo il congresso».
Chi sarà lo sfidante?
«Il congresso ancora non c’è... Ma è la via migliore per ridurre gli spazi a tentazioni scissioniste. E per consentire di restare nel partito, esprimendo la propria voce, anche a quel mondo largo di sinistra convinto che il Pd stia facendo cose estranee alla sua natura».
Come finirà la direzione?
«Spero in un’intesa. Se si va in aula senza accordo, al nostro dissenso a viso aperto rischiano di sommarsi, nel segreto dell’urna, maldipancia e diffidenze che vedo agitarsi anche nella maggioranza renziana»
Lei non la vota, vero?
«Senza modifiche no. Sarò coerente con l’impegno assunto in Aula. Ora che siamo arrivati al dunque, tutte le ironie sui nostri penultimatum si dissolveranno».
Corriere 30.3.15
Roberto D’Alimonte
«Le primarie per i capilista? Non mi pare una buona idea»
intervista di Daria Gorodisky
ROMA «Scegliere i capilista con le primarie? No, non mi sembra una buona idea». Roberto D’Alimonte, politologo della Luiss, ha collaborato fin dall’inizio alla stesura dell’Italicum. Ne ha richiamato più volte i difetti, le incongruenze, però adesso è piuttosto soddisfatto delle modifiche ottenute: «Garantisce in modo netto governabilità e rappresentatività. E la selezione dei candidati avviene in parte con voto bloccato e in parte con le preferenze».
Certo, D’Alimonte riconosce che nel sistema elettorale ora passato all’esame della Camera permane una «asimmetria»: il partito vincente avrà oltre metà dei parlamentari eletti con voto di preferenza, mentre i deputati delle opposizioni saranno prevalentemente quelli indicati dai partiti.
Ma non sarebbero le primarie a risolvere questo squilibrio: «Se non fossero imposte per legge, magari il Pd le farebbe, mentre gli altri partiti no; quindi l’asimmetria resterebbe. Ma, per renderle obbligatorie, servirebbe una riforma costituzionale. Quindi è meglio evitare. Il sistema non è cattivo. Anzi: con i capilista bloccati i partiti potrebbero presentare personalità qualificate, donne, giovani, tecnici, che altrimenti, con le preferenze, non entrerebbero in Parlamento. Con le primarie, questo vantaggio sparirebbe».
Si tratterebbe, insomma, di una possibilità di compiere «scelte virtuose». Già, ma invece i partiti potrebbero agire in modo opposto, e imporre nomi che non otterrebbero scranni perché, per diversi motivi, non presentabili all’elettorato.
«Per come vedo utilizzate oggi le preferenze in Italia, non mi sembrano strumento di democrazia — dice il professore — Alle ultime Regionali, in Lombardia soltanto il 14% degli elettori ha espresso preferenze. Il che significa che i consiglieri sono stati scelti da quel numero esiguo di cittadini. Una quantità così piccola che la scelta degli eletti potrebbe essere influenzata anche da organizzazioni criminali». Allora, tanto varrebbe avere liste completamente bloccate? «Sarebbe addirittura meglio».
Infine, D’Alimonte esprime un giudizio generale sulla validità delle primarie che fin qui si sono svolte in Italia: «Sono uno strumento al quale i partiti, oggi deboli, devono ricorrere. Possono essere usate bene e male, ci possono essere abusi. Dovrebbero essere regolate con misure più efficaci, per esempio attraverso l’albo degli elettori, come avviene negli Usa. Ora, non c’è nessun controllo».
Repubblica 30.3.15
Nico Stumpo, minoranza Pd
“Aperture insufficienti, quella legge non la votiamo”
intervista di Antonio Fraschilla
ROMA «Così com’è l’Italicum non lo voteremo. Va modificato e faremo delle proposte concrete di lavoro sulle preferenze e gli apparentamenti al ballottaggio. L’apertura alle primarie per scegliere i capolista? Bene, ma non basta. Il segretario ha il compito di tenere unito il partito». Nico Stumpo, responsabile dell’Area riformista nella minoranza Pd, lancia un messaggio chiaro al presidente del Consiglio e segretario dem, Matteo Renzi, in vista di una direzione che oggi si annuncia infuocata.
Onorevole Stumpo, cosa non va nella legge elettorale in votazione alla Camera? «Questa norma non fissa criteri precisi sul numero degli eletti con e senza le preferenze. Si rischia un Parlamento di nominati, soprattutto sul fronte dei partiti più piccoli e dell’opposizione. Occorre riequilibrare questo aspetto».
Ma voi chiedete che venga dato più peso ai nominati o alle preferenze?
«Guardi, per noi può andare bene anche un sistema che premia i nominati rispetto alle preferenze, anche se auspichiamo il contrario. Ma il tema è quello della chiarezza e della garanzia che anche tra chi non avrà il premio di maggioranza ci siano degli eletti con le preferenze».
Altro elemento di tensione sull’Italicum riguarda l’apparentamento ai ballottaggi, al momento non previsti.
«Quello sulla concezione di una politica maggioritaria o di coalizione è un tema che divide trasversalmente tutto il Pd. Personalmente sono per una politica di coalizione».
In concreto, quindi, cosa proporrete in direzione ?
«Di costituire un comitato di lavoro sulla legge elettorale insieme ai capigruppo, alla segreteria e al governo, per trovare una sintesi e fare una nuova proposta».
Ma questo significa che la legge dovrà tornare in Senato. Non c’è il rischio di bloccarla del tutto?
«Renzi non può considerare il Senato un Vietnam e dire che non si possono fare modifiche al testo perché non passerebbe nuovamente a Palazzo Madama. Se così fosse, a rischio sarebbero allora tutte le altre riforme in cantiere. Penso, anzi, che dare un ruolo maggiore ai senatori sulla legge elettorale ridarebbe slancio anche alle altre riforme».
Se in direzione non troverete alcuna apertura, cosa farete?
«Delle due l’una: votiamo contro oppure ci alziamo e andiamo via. L’astensione non è contemplata. Ma sono certo che non si arriverà a questo punto. In ogni caso quello che decide la direzione poi può essere modificato: sui licenziamenti collettivi nel Jobs act abbiamo votato no in direzione e poi il governo li ha messi lo stesso».
Ha ragione Landini nel dire che «Renzi è peggio di Berlusconi»?
«Assolutamente no. Ma al mio partito dico che quella piazza va ascoltata. Qui non c’entrano le “mutazioni genetiche” di cui parla Matteo Orfini».
Repubblica 30.3.15
Renzi e Berlusconi
di Piero Ignazi
RENZI peggio di Berlusconi? La provocazione lanciata da Maurizio Landini riflette bene la foga polemica del segretario della Fiom. Trascinato e un po’ travolto dall’euforia per il successo della manifestazione di sabato, Landini ha abbandonato ogni freno inibitore. In effetti, i rapporti tra il presidente del Consiglio e il leader dei metalmeccanici si sono guastati da tempo. Dopo un iniziale feeling tra quarantenni rottamatori e affamati di leadership, tra i due è guerra aperta. E quindi giù critiche e invettive da entrambe le parti.
Però il “Renzi peggio di Berlusconi” è una frase ad effetto per amor di polemica senza appigli alla realtà. Peraltro riflette un certo spirito tipicamente italiano di dimenticare in fretta il passato, e di assolverlo. Tra Renzi e l’ex Cavaliere, al di là di qualche elemento superficiale come un utilizzo massiccio e suadente dei media, un certo piacionerismo da salotto, una declinazione fiorentina del “ghe pensi mi”, non c’è quasi nulla di comune. Semmai, bisogna tornare a Bettino Craxi ad Amintore Fanfani (quello degli anni Cinquanta) per riferimenti calzanti. Silvio Berlusconi, invece, rappresenta tutta un’altra storia che evidentemente è già stata archiviata con grande souplesse. Una storia intessuta di elementi oscuri e inquietanti, alimentata da interessi personali, aziendali e di clan, foriera di corruttela e estranea al senso dello Stato e alla dimensione dell’etica pubblica.
Se partiamo dall’inizio, personaggi poi associati alle patrie galere come Cesare Previti e Marcello Dell’Utri sono stati centrali nella costruzione del successo economico delle aziende di Berlusconi e della gestione politico-organizzativa della nascente Forza Italia: Previti avvocato fidato delle molteplici attività fin dall’acquisizione della Villa Casati- Stampa (quella di Arcore) e primo coordinatore nazionale del nuovo partito nel 1994-95; Dell’Utri perno e moltiplicatore di rapporti opachi nei primi passi imprenditoriali, ed ascoltato consigliori politico. Quelli non furono errori “giovanili”. La propensione a circondarsi di personaggi impresentabili non è cambiata, come dimostra l’arrivo a corte dei Lavitola e dei Tarantini. Anche sorvolando su amicizie pericolose ed affari altrettanto pericolosi, è l’azione politico- culturale di Silvio Berlusconi ad aver procurato danni al Paese. La modernizzazione mancata, il vellicare pulsioni particolaristiche, anti-istituzionali e anti-sistemiche (si pensi soltanto alla polemica sui brogli della sinistra alle elezioni del 2006), la concezione proprietaria e personalistica del governo connessa inscindibilmente con il conflitto di interessi, sono tutte prove a carico del fallimento nella gestione della cosa pubblica e dell’inquinamento valoriale dello spirito civico prodotti dal berlusconismo.
Tra il segretario del Pd e il leader di Forza Italia le connessioni sono epidermiche, di facciata, come l’atteggiamento solare e compagnone, l’ottimismo sbandierato fino ad essere stucchevole, un egocentrismo sconfinato. Tutto questo attiene più ad aspetti di personalità che alle scelte politiche. Che magari sono sbagliate e censurabili, e sulle quali va esercitato il dovere della critica, tanto più necessaria ora che si vedono falangi di plaudenti precipitarsi sul carro renziano. Ma se, ad esempio, l’Italicum è un orrore (altro che imitato dagli altri paesi), non per questo la scelta di farlo approvare in tempi stretti costituisce una forzatura alle regole democratiche. Semplicemente, il governo ha scelto una via breve e tranchant strozzando in culla un dibattito disteso e approfondito. Peccato per la cattiva legge che ne verrà, così come per altri provvedimenti affrettati, approvati a passo di carica più per una questione di immagine che altro; ma da qui a denunciare una torsione autoritaria del governo, ce ne corre.
Certo, Berlusconi non era un decisionista proprio perché la politica non era — e non era stata — al centro della sua vita, mentre Renzi, invece, ci è nato e cresciuto dentro. E per carattere e formazione adora decidere, e in fretta. Inoltre detesta essere contraddetto tanto da ricorrere anche allo scherno quando tratta con gli avversari. In tal modo è facile confondere le posture sfrontate e molto “toscane” del presidente del Consiglio con i riferimenti politicoculturali della sua azione di governo. Il decisionismo un po’ sbrigativo può irritare, e a volte produce danni, ma non è alimentato da una cultura politica anti-istituzionale e anti- liberale come quella del Cavaliere. Le scelte politiche dei due leader discendono infatti da visioni politiche alternative: da un confuso neoconservatorismo in salsa populista e particolarista (Berlusconi), da un pastiche, ancora informe per la verità, di solidarismo e di blairismo (Renzi). Il capo del governo segue un percorso inedito e per certi aspetti indecifrabile, senza tuttavia mettere in tensione il sistema democratico; a meno che il fragore delle adulazioni e la pulsione narcisistica non rompano gli argini imponendo un neo-centralismo democratico al Pd e una democrazia direttiva e cesaristica al sistema. È ancora presto per gridare al lupo.
Corriere 30.3.15
Fondazioni dei politici, Cantone: una legge è ora indispensabile
di D. Mart.
ROMA «Non c’è nessun bavaglio per i giornalisti e non credo ci sarà...». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando — che ha dedicato la sua domenica al tour «Passi della memoria» organizzato dal Pd a Milano — torna a parlare della riforma delle intercettazioni. E rassicura chi teme il colpo di spugna: «Qualunque sarà la legge non inciderà prima di anni sulla gestione delle intercettazioni... Pensare che con un intervento si possa in qualche modo alterare l’evoluzione di indagini in corso mi sembra non solo fantasioso ma anche infantile».
Una delle bozze sulle intercettazioni in circolazione (criteri molto più rigidi per la pubblicazione dei brogliacci sui giornali, mentre i presupposti investigativi per intercettare gli indagati non cambierebbero) prevederebbe anche il carcere per chi renderà pubbliche conversazioni ritenute estranee all’oggetto dell’inchiesta. Per questo, dopo molte indiscrezioni, Orlando esclude «un bavaglio per i giornalisti» e preferisce mettere a fuoco l’azione di governo sulla velocizzazione del processo penale: «Alla Camera stiamo discutendo un testo (il cui articolo 25 è comunque dedicato alle intercettazioni, ndr ) che tratterà le modalità delle impugnazioni e il funzionamento dell’udienza preliminare».
Ma prima di tutto questo c’è il disegno di legge anticorruzione (prevede, tra l’altro, il ripristino del reato per il falso in bilancio e pene più dure per la corruzione) che domani torna in aula al Senato per essere approvato in prima lettura nella giornata di mercoledì. Secondo il magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, il testo è «utilissimo, e non vedo l’ora che venga approvato, ma non dobbiamo pensare che una volta approvato basti da solo a risolvere il problema». Ha dunque insistito Cantone: «È indispensabile una legge sulle fondazioni politiche: perché, per esempio, non devono avere nessun tipo di bilancio?».
Repubblica 30.3.15
Il dem Esposito: un boss fan di Di Battista
Ma Cantone: il partito romano è da brividi
ROMA «Nel Pd romano ci sono state vicende che fanno rabbrividire». Lo ha detto il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone durante la trasmissione In mezz’ora di Lucia Annunziata. La politica sta facendo tutto il possibile contro la corruzione? «Assolutamente no - ha risposto il magistrato facendo riferimento al rapporto dell’ex ministro Fabrizio Barca - perché bisogna capire che nelle scelte degli uomini ci sono le colpe di chi ha sbagliato, ma anche di chi non ha saputo vigilare». Sulla mafia a Roma, ieri c’è stato anche uno scontro tra Partito democratico e Movimento 5 stelle. Sul suo profilo Facebook, il senatore pd Stefano Esposito - commissario per il partito a Ostia ha scritto: «Il reggente del clan Spada, Roberto, è un fan di Alessandro Di Battista, come dimostra la foto che pubblico qui di seguito. Sapete chi sono gli unici a non aver espresso solidarietà, non a me e Orfini, ma alla giornalista di Repubblica Federica Angeli? Gli esponenti del M5S. Anzi, i grillini si sono molto arrabbiati perché gli abbiamo fatto, sommessamente, notare che la loro linea per cacciare Marino è la stessa della mafia». «Vorrei invitare Di Battista e compagni - continua - a riflettere sul perché personaggi come Roberto Spada a noi del Pd ci minacciano e a voi grillini vi condividono i post sulle bacheche».
Repubblica 30.3.15
Perché il popolo tradisce la sinistra
di Thomas Piketty
PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo?
E PERCHÉ VOLTANO LE SPALLE in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica. Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione. Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica. L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università. Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi. Traduzione di Fabio Galimberti
Corriere 30.3.15
Expo e Padiglione Italia
Un ritardo che non è scusabile
di Sergio Rizzo
I vertici di Expo 2015 giurano che siamo al rush finale. Ma è chiaro che per completare in tempo Padiglione Italia servirebbe qualche cosa di più. Un miracolo, dice qualcuno.
Dobbiamo dunque sperare nell’intervento divino, che comunque non abbiamo meritato. Domani, 31 marzo, sono sette anni precisi dal fatidico giorno in cui l’allora sindaco Letizia Moratti annunciò trionfante che la città di Milano aveva vinto la sfida con Smirne. Era ancora in carica il governo Prodi e il presidente della Provincia Filippo Penati rimarcava orgoglioso come gli ispettori del Bureau International des Expositions fossero rimasti impressionati dalla «coesione istituzionale».
Non c’è che dire: nelle apparenze i nostri politici sono sempre stati bravissimi. Peccato che quando si deve passare dalle parole ai fatti la «coesione istituzionale» vada regolarmente a farsi friggere. Come nel caso dell’Expo. Dove le cose sarebbero andate ancora peggio se dopo gli scandali non fosse intervenuta tempestivamente l’Autorità anticorruzione, con modalità tali da meritare il riconoscimento dell’Ocse. Pur fra mille difficoltà forse anche sorprendenti. Si duole il presidente dell’Anac Raffaele Cantone nel libro Il Male italiano scritto con Gianluca
Di Feo di «aver incontrato i problemi maggiori proprio in due cantieri simbolo dell’Expo, i due progetti che più di ogni altro dovrebbero rappresentare il nostro Paese agli occhi del mondo: il Padiglione Italia e il cosiddetto Albero della Vita. In entrambi i casi i lavori erano in ritardo sulla tabella di marcia e pian piano sono emersi non pochi problemi». C antone parla di insofferenze verso i controlli, superficialità nell’affidamento dei contratti, anomalie nelle procedure. Il tutto giustificato evidentemente con la necessità di fare in fretta per recuperare il troppo tempo perduto, anche se ormai irrecuperabile.
Dei sette anni passati dal 31 marzo 2008 più di metà se ne sono evaporati in contrasti fra i partiti, lotte di potere interne, guerre di poltrone. Prima lo scontro sull’amministratore delegato della società. Poi la battaglia per i terreni, in vista delle future appetitose speculazioni immobiliari. Quindi commissari generali che si sovrapponevano ai commissari straordinari e gli inevitabili conflitti. Per non citare le deroghe infinite (e sospette) al codice degli appalti, con i lavori dell’Expo esentati da ben 78 articoli di quel monumentale regolamento. Una corsia preferenziale tanto larga da provocare le proteste dell’Associazione dei costruttori proprio a proposito dell’appalto da 25 milioni per il solito Padiglione Italia: subito rintuzzate da uno stizzito Antonio Acerbo, il direttore di quell’opera che avrebbe poi patteggiato una condanna a tre anni. E intanto i giorni passavano. Mentre la corruzione dilagava, come fosse il capitolo conclusivo, e naturale, di questo incredibile copione.
Adesso che manca un mese al 1° maggio, la memoria non può che andare all’altra Esposizione universale milanese, quella di oltre un secolo fa. Fu un successo senza smagliature, preceduto dalla costruzione del traforo del Sempione: realizzato in poco più di sei anni, era il più lungo del mondo e permetteva il collegamento ferroviario diretto con Parigi. L’Expo del 1906 viene ricordato come l’evento che certificò l’ingresso della giovane Italia unita nel novero delle nazioni industrializzate e l’investitura di Milano come città simbolo di quella svolta. Non vorremmo che l’Expo del 2015 passasse invece alla storia quale prova della italica incapacità a rispettare gli impegni. Anche i più banali, per esempio finire in tempo di arredare casa nostra.
Corriere 30.3.15
Banlieue d’Italia
Livorno, Cremona e La Spezia: qui l’integrazione è più difficile
Male anche l’Emilia Romagna «Di fronte ai migranti è chiusa»
di Goffredo Buccini
Cioma l’ha scritto sulla sua pagina Facebook: «Fiera di essere una livornese nera». Alla faccia dei razzisti. Uno e ottantacinque, gambe mozzafiato, sorriso tenero da sedicenne. Molti non hanno digerito l’anno scorso l’elezione a Miss cittadina d’una figlia di immigrati nigeriani (papà disoccupato, mamma dipendente di una casa di riposo). E hanno infiammato il web col solito mantra truffaldino, «l’Italia agli italiani», sparso come veleno da mille manine solerti. Il sindaco Filippo Nogarin s’è schierato con Cioma, ammonendo: «Questo episodio gravissimo non rappresenta Livorno». Certo. Città di mare a misura d’uomo, difficile immaginare nelle sue strade cappucci del KKK. Ma su 116 capoluoghi di provincia, Livorno è anche in testa alla classifica della «precarietà sociale», quella dei comuni italiani dove l’integrazione è più in pericolo. Seguita da Cremona (teatro a gennaio di pesanti tafferugli tra antagonisti e fascisti) e da La Spezia. Ecco dunque l’ultima graduatoria elaborata dalla Fondazione Leone Moressa, che già nel 2014 aveva preso in considerazione i capoluoghi di regione, rivelando il paradosso secondo cui il «rischio banlieue» è più elevato nella ricca Bologna che nella povera Reggio Calabria (in realtà il capoluogo calabrese sarebbe Catanzaro), a testimoniare un modello di sviluppo metropolitano miope ed egoista.
Adesso, per il Corriere , la Fondazione mette sotto esame l’intera Penisola con un’indagine molto più capillare e un campione molto più vasto. Incrociando indicatori come il tasso d’acquisizione della cittadinanza, quello della disoccupazione straniera, il differenziale Irpef tra autoctoni e non, le percentuali straniere sui delitti e sui detenuti, i livelli di servizi e interventi dedicati, si delineano quattro aree: inclusione sociale, integrazione economica, criminalità, spesa pubblica per l’immigrazione. Elaborandone i valori ne deriva un numero-spia: il tasso di precarietà sociale, appunto. Fatta 100 la media d’Italia, Livorno è a 130,9. Bologna a 124 e Reggio Emilia a 122. Trieste e Trento a 123. Napoli a 76,7. Reggio Calabria, ancora in coda, a 65,3. La classifica delinea picchi di mancata integrazione al centro-nord e nelle cittadine medio piccole. Il modello emiliano e la retorica dei mille campanili sono da rivedere, forse, ammoniscono i sociologi cui chiediamo di commentare la ricerca.
«Il dato strutturale dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria», premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane: «Ma c’è un secondo dato di rilievo. Fino a tutti gli anni Ottanta venivano dall’estero a studiare l’Emilia Romagna, rossa e aperta. Ora scopriamo che lì c’è il conflitto. L’abitudine all’integrazione sociale è tutta interna. Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione, questo mondo diventa chiuso e conservatore. Il terzo dato è che le città più “smart”, come Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale».
Città «smart», intelligenti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque. «Queste città sono molto “densificate” — spiega Abis — molto legate alla cultura d’appartenenza. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolitane il fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolitismo di necessità e, spesso, un’immigrazione già di seconda o terza generazione, già in parte assorbita: questo spiega perché Milano, con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica».
«Significativo, e confortante, è che c’è più integrazione dove più alta è la percentuale delle donne», dice il sociologo Domenico De Masi: «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud si integra non perché sta meglio ma perché i meridionali stanno peggio, è povero fra i poveri. In un’economia marginale lo sfruttamento diventa poi la sua integrazione, come a Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagioni razziste». Al centro colpisce Rieti, «l’ombelico d’Italia», cinquantamila anime nel cuore della paciosa Sabina, eppure al quarto posto nella classifica di precarietà sociale a causa degli alti tassi di disoccupazione degli stranieri (16 per cento contro il 13,9 nazionale) e della loro forte incidenza sul numero dei detenuti (67,2 contro il 32,6 di media nazionale). «La ricerca è fatta bene e prende anche le “isole” — sostiene De Masi — nessuna microarea può dirsi immune. Il paradosso è che le zone più rischiose sono spesso quelle più civiche. L’egoismo nazionale taglia le spese sui migranti, decurtate anche dai vari Buzzi, perché abbiamo visto a Roma che quei pochi soldi spesso vengono rubati. Già si sapeva che i ricchi sono più escludenti dei poveri. Ci illudevamo che, essendoci formati su matrici cristiane e marxiste, fossimo più accoglienti: ma spesso è l’opposto».
Abis ci sta lavorando su. Collabora col governo a una delibera-cornice per i piani strategici delle nostre dodici città metropolitane (a Londra esiste da tempo un piano che guarda fino al 2065, noi fatichiamo a immaginare il futuro): «Se questa precarietà sociale non la inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già. Noi dobbiamo prevedere, prevenire». Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta De Masi. «Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione», dice Abis. Spesa pubblica di questi tempi è una parolaccia. Ma in ballo ci sono fondi europei, a saperseli guadagnare. E c’è l’onore d’Italia. Perché italiani come Cioma non debbano vergognarsi della loro patria.
La Stampa 30.3.15
La grande marcia della Tunisia, un “no” degli arabi al terrorismo
È la prima volta che un Paese musulmano scende in piazza così unito e compatto. “Noi più vittime degli occidentali”. Hollande e Renzi accanto al presidente Essebsi
di Antonella Rampino
qui
La Stampa 30.3.15
Hanno scelto la libertà
La vera primavera è appena cominciata
Un Paese povero e infiltrato dagli jihadisti ma capace di ritrovare il senso di comunità
di Domenico Quirico
Non so se questo sia il momento per una dichiarazione d’amore, per una dichiarazione di fede. Nella Grande Guerra del nuovo millennio farsi illusioni è colpevole. A Ovest a Est a Sud il califfato trionfa, le coalizioni per svellerlo si decompongono nel caos, il suo miglior alleato, Abu Bakr trionfa. Eppure…
Manco da qualche mese dalla Tunisia, ma non immaginavo una simile moltitudine. È stata in un certo senso una rivelazione. Si muovevano come uccelli in migrazione, come un popolo unito, marciavano. In cammino di nuovo come quattro anni fa in un’altra primavera. Come lo hanno deciso? Come si sono organizzati? Come sono arrivati? Tunisi si è riempita di gente convocata misteriosamente e rapidamente come uccelli, a solo undici giorni dalla strage del museo del Bardo, ventun turisti e un poliziotto uccisi da un commando islamista.
Senza retorica
Una calda domenica di primavera con i fiori che delimitano i prati dei palazzi del potere e l’erba di un verde accecante. D’un tratto, dalla retorica scoperchiata a impazienza di popolo, i tunisini hanno calato giù, senza eruditi preamboli, la cosa più urgente e concreta che ci sia: uomini che soffrono ma stanno insieme, ragionano, sanno scegliere. Quel fardello penzolante rovescia la stomachevole inutilità delle parole in un’altra eloquenza, quella di gente povera e sfortunata, di occhi pieni di Storia senza pietà. Poche centinaia di metri, ma bastano: l’unico comunismo autentico, senza accenti o declinazioni, quello della condivisa sofferenza, quello che solo i poveri e gli afflitti, in qualsiasi parte del mondo, sanno parlare.
Nel loro comportamento c’era una forte consapevolezza della propria serietà, del proprio dovere ad esser lì. Quella presenza in strada offendeva gli estremisti, gli «odiatori» senza speranza e senza la minima volontà di riscatto. Ed è giusto che fosse così perché era la conferma che i tunisini hanno scelto la libertà, che non intendono farsi fuorviare dalla follia totalitaria. Quello che chiedono è semplice: basta ammazzare, chiunque, dovunque.
«Tunisia libera, terroristi fuori!», scandivano con voci calme. Domani il sole non sorgerà su un mondo nuovo, purtroppo, ma quello di ieri non è stato un giorno sprecato. Uno dei caratteri salienti del totalitarismo, islamista e non, è la perdita del senso di responsabilità. Si punta ad esimere l’uomo dalla responsabilità delle sue azioni. Il vero potere delle tirannidi impersonali, l’istante in cui l’uomo dice: sono i più forti… che posso farci? Questo è il momento dell’angoscia del nostro tempo costretto a misurarsi con il Califfato. I tunisini, invece, hanno affermato: «Ecco cosa farei perché è necessario, e cosa mai possono ancora farci?».
Condizioni difficili
Alcuni ingenui vorrebbero farci credere che la Tunisia, in fondo, gode ottima salute. Ma come potrebbe mai? Fiaccata da regimi parassitari, anche dopo la primavera dei gelsomini, all’oscuro di molte cose fondamentali, menomata da perversa benevolenza verso l’estremismo, (come hanno ricordato i partiti del Fronte popolare, accusando gli islamisti governativi di Ennahda di essere ipocriti), afflitta dalla povertà: come potrebbe mai godere di ottima salute? Impossibile! Eppure, nonostante questo, il cuore di questo piccolo Paese possiede davvero una integrità naturale, un caparbio senso della comunità. Si sentono lì, anche ieri, voci e canti con un senso tenero di una vita popolare perenne, quale è da secoli, e quale sarà forse per sempre; una vita protetta dalle memorie, confortante nell’affanno di oggi. Siamo noi ad averne bisogno, non loro della nostra taccagna elemosina. Allora come possiamo attingere a questa sorgente di stabilità e di significati? Non fingendo di essere stati sempre al loro fianco. È falso. Dopo l’accensione della Primavera, la curiosità che suscitava, la speranza della scoperta di forze ignote in quella parte del mondo che dicevamo immobile e arretrata, la Tunisia è tornata nella sua condizione di prima agli occhi dell’occidente, attraente come paese, ma con una sorta di diffidente fastidio verso la sua umanità. Siamo stati amici dei loro tiranni, abbiamo cacciato brutalmente i loro ragazzi migranti, ragazzi che ieri sfilavano nella capitale (quelli che per la delusione non sono diventati islamisti e assassini). Sì, in fondo l’unica nota stonata erano i notabili stranieri, fuori tema, sciupacchiati, preoccupati di se stessi, della loro esteriorità, spiravano una frigida vitalità esteriore, per la facciata, per far colpo.
Dell’orrore abbiamo fatto il nostro compagno quotidiano, quasi che non dipendesse da noi allontanarlo. Quasi fossimo impotenti di fronte ad esso. Il tempo in cui cominciano i fatti indescrivibili e difficili da capire per una mente d’uomo: è già accaduto e sono quelli di oggi. La realtà terrificante di questa strage senza confini è talmente nuova da non riuscire a raccontarla al punto che vi si rinuncia. Per viltà. Mancano i termini di paragone. Si aspetta la fine della cattiva stagione. Come una speranza. Mai credo si aspettò così. Ci si contenta che il tempo diventi più mite, che torni la primavera, il sole. Le speranze dell’occidente sono ridotte a questo. I tunisini di ieri ci hanno insegnato qualcosa.
Corriere 30.3.15
«Adesso tocca ai ragazzi salvare la democrazia»
di G. Sar.
TUNISI «È vero, c’erano tanti ragazzi in piazza, ma il nostro lavoro non è finito. Abbiamo ancora tante cose da insegnare, da trasmettere ai nuovi tunisini». Frida Dahmani, 57 anni, si è formata (laurea in biologia) negli anni tetri di Ben Alì, con la mente rivolta alla Francia, ai suoi scrittori e ai suoi polemisti. Giornalista, corrispondente per J eune Afrique , «gauchiste», ma critica proprio con la sua sinistra, autrice di un libro titolato «La Tunisia oggi», scritto dopo la Rivoluzione dei Gelsomini, e infine vicepresidente dell’«Associazione sviluppo e solidarietà» che promuove progetti di formazione per i giovani e per le piccole imprese nelle zone più disagiate del Paese.
Si aspettava tanti ragazzi in piazza?
«C’erano tanti studenti e tante donne. Anche tanti liceali, ragazzini. Non so se siano stati spinti da qualcuno a partecipare. Comunque il messaggio è chiaro: noi tunisini siamo tutti contro il terrorismo».
La sua generazione è nata con il mito di Bourghiba, poi si è trovata con Ben Alì. E’ il momento di passare la mano?
«Niente affatto. Dobbiamo finire il nostro lavoro. Dobbiamo insegnare alle giovani generazioni che cosa significa essere cittadini di uno Stato democratico, che cosa sono le istituzioni. Tanti giovani tunisini si sono prima buttati verso Lampedusa. Poi, quando l’Europa ha chiuso le porte, si sono diretti verso il Medio Oriente. Sono in cerca di valori forti, inseguono un ideale. Tocca a noi darglielo».
La Tunisia resta un’eccezione nel mondo arabo?
«Si è visto ieri. I nostri vicini hanno tutti mandato una delegazione, per carità. Ma mi è sembrata più una partecipazione diplomatica. Il cuore ce l’hanno messo la Francia, l’Italia».
Solo cuore?
«Chiaro, per voi siamo anche un mercato interessante. Ma per Paesi come il Bahrein, il Marocco, l’Algeria, l’Egitto continuiamo solo a essere l’unico, inquietante successo della Primavera araba».
Ma adesso sarà più facile tracciare il confine tra islam moderato e jihadismo?
«Abbiamo Ennahda che ha mantenuto un rapporto a dir poco ambiguo con gli estremisti. Dopo quello che è successo in Egitto nel 2013, con la repressione dei Fratelli musulmani, hanno cominciato a cambiare atteggiamento. Ora con il Bardo si può aprire una nuova fase, non solo in Tunisia. Mi ha colpito che il Qatar ieri abbia inviato una delegazione, anche se non di livello altissimo. Un po’ strano visto che è un Paese sospettato di aver finanziato movimenti di islamisti radicali. Vedremo».
Repubblica 30.3.15
Diario da Tunisi
Nessun alibi a chi ha invitato i predicatori dell’odio
di Lina Ben Mhenni
NON ero con le migliaia di tunisini e stranieri che ieri hanno marciato contro il terrorismo. Qualcuno potrebbe dire che non sono patriottica, ma non è così. Ho scelto di non partecipare, perché penso che la marcia sia stata pura ipocrisia. Alla marcia c’erano molti dei leader di Ennahda (il partito islamico tunisino, ndr ). Sono le stesse persone che, secondo me, sono dietro alla crescita del terrorismo nel mio paese, per diversi motivi: perché hanno mostrato lassismo verso i terroristi quando erano al potere, lasciandoli diventare sempre più forti. È stato Ghannouchi a dire che i terroristi gli ricordavano se stesso da giovane e che stavano solo provando a promuovere un altro tipo di cultura. Perché molti di loro hanno preso parte al congresso di Ansaar al Sharia, una formazione poi classificata come terrorista e messa fuori legge. Perché hanno permesso ai terroristi di infiltrarsi nella società tunisina, in modo da manipolare molti giovani e spingerli ad andare a combattere in Siria e in Iraq. Perché hanno usato le moschee per fini religiosi: dobbiamo ricordare che l’ex ministro per gli Affari religiosi era solito incitare alla jihad durante le sue prediche. Alcune persone arrestate in relazione ai delitti politici che hanno insanguinato la Tunisia negli ultimi anni erano legate a Ennahda. Perché quando era al potere Ennahda ha dato il benvenuto a predicatori estremisti che venivano dall’estero in Tunisia, dando loro un pulpito da cui diffondere idee velenose.
La lista è troppo lunga per andare avanti e così mi fermo qui. Ma ci tengo a dire che noi tunisini, in strada, a dire “no al terrorismo” eravamo già andati, in modo spontaneo: il giorno dell’attacco e poi all’apertura del World Social Forum, qualche giorno fa. Quelle sono state le vere marce contro il terrorismo secondo me. È una cosa positiva parlare di unità nazionale ma prima ogni partito dovrebbe rendere chiara la sua posizione nei confronti del terrorismo e tutti quelli coinvolti nei crimini commessi in questi anni contro la gente della Tunisia dovrebbero pagare. Non possiamo dimenticare che almeno 68 fra poliziotti e militari sono stati assassinati quando era al potere Ennahda. Non dobbiamo dimenticare gli omicidi di Mohamed al Brahmi, Chokri Belaïd e Lotfi Naguedh: chi è responsabile? Sabato ho partecipato a diversi seminari e poi lavori conclusivi del World Social Forum e infine alla marcia conclusiva, dedicata alla Palestina, una questione aperta di cui non si vede soluzione e di cui oggi nessuno parla più. Ieri sono rimasta chiusa a casa e ho seguito la manifestazione ufficiale dal mio divano, in tv: ho scritto e ho rilanciato sui social network le foto di sabato. Se vogliamo eliminare il terrorismo non possiamo marciare al fianco di gente coinvolta con i terroristi.
Repubblica 30.3.15
La magistrata Rawda Labidi
“Qui accanto a me c’è anche chi la pensa diversamente Ecco la nostra forza”
intervista di Paolo Griseri
I terroristi scelgono i loro assassini tra la gente povera. Ma noi dobbiamo trovare chi paga le armi
Qui nessuno crede al movente religioso. La realtà è che bisogna combattere chi ci vuole portare indietro
TUNISI La lotta al terrorismo come «collante della nuova democrazia in Tunisia». Rawda Labidi arriva in piazza vestita con l’abito da lavoro: la toga del magistrato. Giudice di Cassazione, criminologa, è la donna che guida il sindacato dei magistrati tunisini.
Signora Labidi, perché è qui a protestare?
«Manifestiamo contro il terrorismo perché è un attacco al nostro futuro. E perché dobbiamo rompere la spirale che lega dittatura e jihadismo».
Eppure sembra che non sia facile. Dopo la stagione delle primavere arabe, partite proprio in Tunisia, in altri paesi tornano gli uomini forti...
«Questo credo che sia l’errore. Il terrorismo si combatte con la democrazia perché solo il sistema democratico dimostra ai fanatici quanto sono sbagliate le loro ideologie. Le dittature, al contrario, rinforzano le teorie di chi predica il terrore».
Come magistrato avrà processato persone accusate di terrorismo. Chi sono? Come giustificano la loro scelta?
«Spesso raccontano storie inverosimili. Dicono di aver agito perché qualcuno ha dato loro molti soldi per fare un attentato o compiere un assassinio. Sostengono di aver agito per necessità economica ».
E lei non ci crede?
«Certamente la povertà può spingere qualcuno a compiere quel passo. Ma noi dobbiamo capire chi paga le loro armi, chi li manovra».
Lei non crede al movente religioso?
«Qui nessuno crede al movente religioso. È una mistificazione. La realtà è che bisogna combattere contro tutti i tentativi di riportare indietro la Tunisia».
Lei pensa che dietro il terrorismo ci siano i nostalgici della dittatura?
«Penso che una Tunisia in crisi economica, colpita nel turismo, una delle nostre principali entrate, faccia molto comodo a chi pensa che si stava meglio prima».
Lei parla di grandi risorse per pagare i killer e comperare le armi. C’è un collegamento con chi vende viaggi della morte verso l’Italia?
«Non abbiamo mai trovato un legame diretto. È però molto probabile che questo legame ci sia. Noi dobbiamo rendere più forte la nostra giovane democrazia anche per mettere un freno a chi organizza l’emigrazione clandestina, che alimenta il riciclaggio di denaro, i fondi neri, il traffico di armi».
La democrazia tunisina ha portato in posizioni chiave molte donne. Se il Paese finisse in mano ai fondamentalisti quali conseguenze ci sarebbero sul piano sociale?
«La Tunisia non finirà in mano ai fondamentalisti perché è un paese tollerante per tradizione e cultura. Potranno provare a colpire la nostra democrazia ma sanno che non vinceranno. Vede quanta gente è venuta in piazza oggi? Ci sono persone di tutte le età e le condizioni sociali, questo è l’aspetto più importante. Non stiamo facendo una manifestazione di partito, non è una parte che scende in piazza. Siamo tutti noi, indipendentemente dalle convinzioni politiche, a combattere in difesa della nostra Costituzione e dei diritti dell’uomo».
Insomma, in questo corteo sembrano esserci proprio tutti....
«Certo, perché questo pensa la gente. Le dirò che per paradosso potrebbe esserci anche qualche simpatizzante dei terroristi. La nostra forza è talmente grande che saranno stati costretti a venire anche loro. Almeno per non dare nell’occhio se fossero rimasti a casa».
Repubblica 30.3.15
Il blogger Walid Soliman
“Non ho voluto sfilare ma è un gran giorno così il mio paese impara a essere pluralista”
“Anche dopo il dramma del Bardo resto ottimista, l'unica strada non può essere la fuga”
intervista di P. G.
TUNISI . Walid Soliman, quarant’anni tra pochi giorni, è tra i più noti scrittori e blogger tunisini.
Walid, come giudica la manifestazione contro il terrorismo?
«È stata una giornata importante per questo Paese. Una dimostrazione di partecipazione democratica».
Lei dove ha sfilato?
«Io non ho sfilato. Non ho proprio partecipato».
Come mai?
«Mi dava fastidio sfilare con gli uomini di Ennahda, il partito islamico. Hanno commesso delle cose orribili e hanno messo al potere gente che non lo merita».
Lei non pensa che di fronte al terrorismo sia meglio partecipare a manifestazioni come questa?
«Io penso che la nostra democrazia sia giovane e che si debba piano piano imparare che cosa vuol dire vivere in un Paese democratico. Sogno una Tunisia plurale, dove si possa decidere se partecipare o no a una manifestazione mantenendo il rispetto reciproco tra persone che compiono scelte diverse. Ho scelto di non partecipare per mettere in evidenza un problema, tutto qui».
Lei pensa che non sia possibile per un partito islamico accettare la democrazia?
«Non dico che sia impossibile. Io non sono contro l’Islam o chi pensa di fare un partito islamico. Ma credo che tutti debbano essere sottoposti al giudizio di responsabilità. Se un politico o un partito commettono crimini gravi, devono poter essere giudicati e condannati ».
Lei conosce ragazzi che hanno scelto la jihad. Che cosa li spinge?
«Si racconta di padri di famiglia, professori universitari, che improvvisamente lasciano tutto e vanno a combattere in Siria. Che cosa li spinge? Non capisco. Qualcuno ha fatto loro il lavaggio del cervello. Non me lo spiego altrimenti».
Quante possibilità dà alla democrazia tunisina di salvarsi dal fondamentalismo?
«Molte possibilità. Ma la democrazia è un processo lungo, non è un regalo che arriva dall’oggi al domani. È una possibilità che va difesa tutti i giorni. Perché tutto cambia continuamente. Dopo la nostra rivoluzione del 2011 volevo scrivere un dizionario delle primavere arabe. Poi mi sono fermato. Ho scritto qualche voce ma il lavoro è a metà. Perché il contesto è cambiato, la Libia, la Siria, l’Egitto, tutto è tornato in movimento».
Delle primavere arabe è rimasta in pratica solo la vostra. Come riuscirete a rafforzarla con vicini tanto diversi?
«Dobbiamo lavorare su più fronti. Su quello economico perché dobbiamo sradicare la disperazione dal nostro Paese. E per farlo abbiamo bisogno di ridurre la disoccupazione e le differenze sociali. E poi dobbiamo lavorare sul piano culturale».
Gli intellettuali tunisini sentono la responsabilità del loro ruolo?
«Più di quanto accada oggi. La Tunisia ha bisogno anche di istruzione, di educazione alla bellezza. Non servono quando si tratta di fronteggiare un pericolo come il terrorismo in pochi giorni. Ma sono strumenti che nel tempo diventano indispensabili. Anche in questi giorni, dopo il dramma del museo del Bardo, io continuo ad essere ottimista. Non voglio che passi l’idea che non c’è più nulla da fare e che l’unica strada sia la fuga: su una barca a rischiare la vita o nel jihadismo a perderla. Vorrei che si capisse che, al contrario, in Tunisia c’è una possibilità»
Repubblica 30.3.15
Voto locale, il Fn resta a mani vuote Sconfitta pesante per i socialisti
La Le Pen non conquista nessun dipartimento. Una settantina su 101 al centrodestra
di A. G.
PARIGI . Niente exploit per il Front National. Marine Le Pen non riesce a conquistare il suo primo dipartimento e da oggi deve fare i conti con un ritorno in forza dell’odiato rivale Nicolas Sarkozy. Il partito neogollista è infatti il grande vincitore del secondo turno delle elezioni dipartimentali, conquistando dai 64 ai 74 dipartimenti sui 101 in palio, secondo le ultime proiezioni. Sconfitta pesante, anche se con un sussulto che ha evitato il disastro, per il partito socialista, che perde metà dei dipartimenti, l’equivalente delle nostre province, che aveva sul territorio. La destra aveva finora 41 dipartimenti: ne dovrebbe ottenere quasi trenta in più. Al contrario, la gauche, partita da 60 dipartimenti dovrebbe scendere vicino a 30.
«Ascolteremo il messaggio e la collera degli elettori» ha commentato Manuel Valls prendendo atto della sconfitta e della vittoria della “destra repubblicana”. Il risultato del Fn, ha sottolineato ancora il premier, è «troppo alto». Valls si è molto impegnato in campagna elettorale, proprio per cercare di mobilitare gli elettori contro l’estrema destra, riuscendoci solo in parte. La nuova batosta delle dipartimentali non facilita il lavoro dell’esecutivo Valls che compie un anno domani. Il premier era stato chiamato all’indomani di un’altra disfatta della gauche, quella delle municipali. Questa volta, invece, nessun cambiamento ha pro- messo François Hollande.
«Abbiamo uno straordinario radicamento a livello locale» esulta Marine Le Pen che non vuole ammettere un flop nel voto di ieri. Il Front National sperava di ottenere almeno un dipartimento tra i tre nei quali era dato per favorito, nell’Aisne, Gard e Vaucluse. E invece niente. Il partito di Le Pen avrebbe perso qualche punto rispetto al primo turno, attestandosi intorno al 22-23%. Il Fn era comunque presente in 1107 su 1905 ballottaggi, e alcuni candidati hanno raggiunto e superato il 40%. «Una cosa senza precedenti nella storia del Fn». Il partito lepenista avrà un numero sostanziale di consiglieri eletti, soprattutto nel nord e nei bastioni del Sudest. «È un tassello per le vittorie di domani», ha commentato Le Pen. Eppure c’era delusione tra i militanti dei bastioni del Sudest, nel Vaucluse e nel Gard, dove nel 2012 furono eletti i primi due deputati Fn della Quinta Repubblica, Marion Marechal Le Pen e Gilbert Collard. Nella Vaucluse, il dipartimento di Avignone, il Fn si ferma a 5 cantoni, contro i 9 necessari per conquistare la maggioranza in consiglio e la presidenza, mentre socialisti e coalizione di centrodestra ne conquistano 6 ciascuno. Nel Gard, i primi dati danno il Front National fermo a due cantoni, ovvero quattro consiglieri dipartimentali, ben lontano dalla maggioranza, che rimane alla sinistra, anche se per pochissimi voti. (a. g.)
La Stampa 30.3.15
“Adesso Hollande non ha più scelta. Sostituisca Valls e guardi a sinistra”
Il politologo Thomas Guénolé: “Ha fatto capire che non lo farà Rimpasto inutile, serve una svolta per fermare l’emorragia”
intervista di L. Mart.
Professore, Thomas Guénolé, 33 anni, insegna a SciencesPo, Istituto di studi politici di Parigi
E adesso? «Dopo la batosta che ha subito il suo partito, il presidente François Hollande procederà a un rimpasto governativo. Cercherà di ricostruire una maggioranza più ampia. Tenterà di convincere esponenti dell’ala di sinistra del Partito socialista o di formazioni a sinistra rispetto al suo, come i verdi, a entrare nell’esecutivo, per frenare l’emorragia di voti in quella direzione. Ma ha già fatto capire che non sostituirà Manuel Valls come premier. E in quel modo non andrà da nessuna parte». A parlare è Thomas Guénolé, 33 anni, politologo, docente a Parigi a SciencesPo.
Perché sostituire Valls?
«La politica economica attuale del governo è sbilanciata a destra rispetto al baricentro dell’elettorato che ha portato Hollande alla vittoria nel 2012. Se i socialisti vogliono avere una speranza di accedere al secondo turno delle presidenziali nel 2017, devono ricostituire un’alleanza tra le diverse forze interne al partito ed esterne, nella sinistra. Meglio sarebbe recuperare anche il Front de gauche, l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Tutto questo con Valls primo ministro è impossibile».
Chi, allora, dovrebbe prendere il suo posto?
«Martine Aubry, sindaco di Lilla. Ma Hollande non lo farà. E non cambierà la sua politica economica. Per il suo interesse, credo sia un errore».
Sul versante della destra, l’Ump gestirà la maggioranza delle dipartimenti. È il vero vincitore di queste consultazioni. L’effetto Sarkozy ha funzionato ?
«È quello che dicono tutti. Ma io non ci credo. Alle europee del 2014, l’Ump aveva preso circa il 20% dei voti. E le forze del centro, Udi e Modem, ancora il 10%. Oggi, alle provinciali i tre partiti assieme hanno ottenuto quasi il 30%. Se si fanno due calcoli, non mi sembra che si sia registrata una crescita dei loro consensi. Se sono riusciti a conquistare un numero così elevato di dipartimenti è perché l’Ump si è alleato già al primo turno con il centro. E questa non è stata un’idea di Sarkozy ma di Alain Juppé, il suo rivale all’interno del partito».
Qual è il bilancio di queste elezioni per Marine Le Pen ? Deludente?
«Anche in questo caso è quello che dicono tutti. E mi permetto di dissentire ancora una volta. Il Front National è passato da un solo consigliere provinciale in tutta la Francia a una trentina. Non mi sembra una sconfitta. E poi, dai calcoli che ho fatto sulla base dei risultati di quest’ultima elezione, ritengo che, se ci fossero oggi le presidenziali, la Le Pen prenderebbe il 23% dei voti al primo turno, che sono cinque punti percentuali in più rispetto al 2012. Accederebbe con molta probabilità al ballottaggio. Questo non vuol dire che poi vincerebbe».
È proprio la domanda che si fanno tutti oggi in Francia. Alle presidenziali del 2017 la Le Pen, se sarà presente al secondo turno, vincerà o no ?
«Credo che contro di lei ce la farebbe anche una capra con un cartello al collo e una scritta : “Non sono Marine Le Pen”. No, non vincerà».
Repubblica 30.3.15
Il politologo Yves Meny
“Le incertezze di Hollande hanno stufato gli elettori Ecco perché ha perso”
“Il sistema francese funziona come una ghigliottina: penalizza le divisioni e l’assenza di alleanze”
intervista di A. G.
PARIGI . «François Hollande aveva vinto nel 2012 grazie al forte rigetto di Nicolas Sarkozy: questa volta è successo il contrario », spiega il politologo francese Yves Meny, autore di diversi saggi sul populismo e presidente del Consiglio di amministrazione della Scuola Sant’Anna di Pisa.
Una clamorosa vittoria per l’Ump?
«È certamente un risultato netto in favore della destra. Dietro però ci vedo soprattutto un rigetto della politica del governo. Attenzione, non di Manuel Valls, ma proprio del Presidente, delle sue esitazioni, della sua assenza di visione, di spiegazioni. Nel sistema della Quinta Repubblica, è il Presidente al centro del gioco».
Sarkozy ora è in posizione di forza?
«Ha tenuto conto delle critiche che aveva ricevuto in passato. Sembra meno agitato e più attento al suo entourage. Non so se durerà. È un uomo mutevole, come sappiamo. Ma sin qui ha giocato bene la sua partita. Si è accreditato come unico leader, anche se le primarie per le presidenziali riapriranno le divisioni interne. E per Sarkozy non è tutto in discesa: ha con sé la maggioranza dei militanti Ump, ma l’elettorato di destra, nel suo insieme, è tiepido per Sarkozy. Se saranno primarie aperte, corre un rischio».
La sinistra ha perso anche perché si è presentata divisa?
«Certo, è un effetto meccanico dell’attuale sistema elettorale francese che funziona come una ghigliottina: penalizza le divisioni al primo turno, e l’assenza di alleanze ai ballottaggi. Il Ps ha alla sua sinistra il Front de Gauche che lo combatte. Mentre il Front National non ha potenziali alleati e infatti non ha ottenuto ai ballottaggi nessun dipartimento, pur avendo fatto un risultato importante, soprattutto nella traiettoria di crescita degli ultimi tre anni».
Il terzo uomo, anzi la terza donna, Marine Le Pen, può arrivare lontano?
«La Francia è sociologicamente a destra, con una percentuale che è sempre stata intorno al 55%. In questo caso vediamo che, sommando la destra repubblicana a quella estrema, arriviamo addirittura al 65/70%. Questo dato, unito alla debolezza di Hollande, lascia supporre che nel 2017 la sinistra potrebbe non avere un candidato al secondo turno. E Le Pen potrebbe arrivare al ballottaggio, come suo padre, ma con conseguenze e rischi molto più elevati per il paese».
Come potrà continuare a governare la sinistra, sempre più sfiduciata?
«La situazione del governo è disastrosa. Valls ha una maggioranza sulla carta. Nei fatti, però, è molto debole. A poche ore dal voto, i deputati frondisti hanno già pubblicato un comunicato per criticarlo. Per i prossimi due anni sarà impossibile far approvare qualsiasi riforma, a meno di forzature. Penso che Valls dovrebbe continuare lo stesso con la sua politica non per preparare l’elezione del 2017 ma quella del 2022, nella quale sarà probabilmente candidato».
La Stampa 30.3.15
Iran, mai così vicino l’accordo sul nucleare
Scade domani il termine dei negoziati, Kerry si ferma a Ginevra e prova a chiudere. È il momento dell’ottimismo, mentre Netanyahu avverte di nuovo: un rischio. Ma che prevede la possibile intesa? E che conseguenze avrà a Teheran e in Occidente?
di Maurizio Molinari
qui
Repubblica 30.3.15
Un nuovo ordine e più petrolio ecco il terremoto che piace a Obama
Washington è convinta di poter trasformare il regime, ma le minacce degli ayatollah sono ancora un ostacolo
di Thomas L. Friedman
PERSONALMENTE riesco a individuare molti validi motivi per arrivare a un accordo sul nucleare con l’Iran e altrettanti per rinunciarvi. Se non avete le idee chiare a questo proposito vediamo un po’ se riesco a confondervele ulteriormente. La proposta di sospendere le sanzioni contro l’Iran — purché quest’ultimo riduca le sue capacità nucleari tanto che la produzione di armi richieda almeno un anno di tempo — deve essere valutata in sé e per sé. Vanno esaminate in dettaglio le caratteristiche del sistema di verifica, in particolare le conseguenze in caso di imbrogli da parte iraniana. Bisogna però tener conto del quadro dei più ampi obiettivi strategici americani nella regione, perché un accordo tra Usa e Iran equivarrebbe a un terremoto in grado di scuotere ogni angolo del Medio Oriente. Non si presta adeguata attenzione alle implicazioni regionali dell’accordo, in particolare a ciò che accadrebbe se andassimo a rafforzare l’Iran in un momento in cui gran parte del mondo arabo sunnita vive una grave crisi. La tesi del team di Obama è che l’accordo con l’Iran abbia carattere “trasformativo”, la rimozione delle sanzioni cioè, sarebbe una ventata d’aria nuova e potrebbe spingere l’Iran ad aprirsi, uscendo dall’isolamento imposto dal 1979 dagli ayatollah e dalle guardie della rivoluzione, trasformandolo gradualmente da stato rivoluzionario a paese normale, meno incline a minacciare Israele. Se si parte dal presupposto che l’Iran possieda già la tecnologia e gli strumenti per costruire armi nucleari l’unico modo per ridurne la pericolosità è cambiare le caratteristiche del suo regime.
Secondo Karim Sadjadpour, espearto di Medio Oriente del Carnegie Endowment, per quanto Obama e i suoi si sforzino di credere che l’accordo possa essere “trasformativo” il leader supremo iraniano Ali Khamenei, «lo considera transattivo» - l’Iran si tura il naso, conclude l’accordo, riguadagna forza, e resta aderente ai suoi vecchi principi rivoluzionari. Però non si può mai dire, magari da transattivo l’accordo può avere inesorabili e imprevedibili effetti trasformativi.
Un’altra tesi è che l’Iran sia un paese normale e civile, che vanta elezioni vere (seppur limitate), una popolazione femminile istruita e un grande potere militare. Recuperare i rapporti con l’Iran consentirebbe agli Usa di gestire meglio i Taliban sunniti in Afghanistan, e neutralizzare i jihadisti sunniti come quelli dell’Is. Fin dalla rivoluzione iraniana del 1979 l’America ha puntato molto sull’Arabia Saudita, ma mentre la famiglia reale e le élite saudite sono allineate con gli Usa, esiste uno zoccolo duro di sauditi wahabiti che ha finanziato la diffusione di un Islam estremamente puritano, anti pluralista, misogino che ha cambiato lo spirito dell’Islam arabo contribuendo a mutazioni come l’Is. Nessun iraniano fu coinvolto nell’undici settembre.
Furono agenti iraniani a costruire gli esplosivi più letali che uccisero una gran numero di militari americani in Iraq. Fu l’Iran a incoraggiare i suoi alleati sciiti iracheni a rifiutare il prolungamento della presenza militare americana in Iraq. «Nella lotta contro l’Is, l’Iran è sia l’incendiario che il pompiere», dice Sadjadpour e aggiunge che per l’Arabia Saudita l’ascesa dell’Is è attribuibile alla repressione dei sunniti in Siria e in Iraq da parte dell’Iran e dei suoi accoliti sciiti. Per Tehran, l’ascesa dell’Is è attribuibile al supporto finanziario e ideologico dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati del Golfo. Hanno ragione entrambi, ecco perché gli americani non hanno interesse tanto alla vittoria degli ideologi dell’una o dell’altra parte, quanto a un equilibrio.
Se si concluderà l’accordo sul nucleare sul mercato globale arriverà molto più petrolio iraniano, i prezzi caleranno a beneficio dei consumatori globali. L’Iran avrà però così miliardi di dollari in più da spendere per la guerra cibernetica, missili a lunga gittata e per imporre il proprio potere in tutto il mondo arabo. Già quattro capitali, Beirut, Baghdad, Damasco e Sana’a sono in mano a suoi fedelissimi. Ma considerando il caos che regna in Yemen, Iraq e Siria, davvero ci importa qualcosa se l’Iran vuol fare il poliziotto in quei territori? Per dieci anni è stata l’America a impegnarsi in Iraq e in Afghanistan, anche oltre misura. Ora tocca all’Iran. Sono desolato per le persone che devono vivere in quei paesi e senza dubbio dovremo utilizzare le forze aeree americane per evitare che il caos si estenda. Ma gestire il declino del sistema degli Stati arabi non dovrebbe essere problema nostro. Non siamo in grado di farlo.
Quindi prima di prendere una posizione sull’accordo con l’Iran chiedetevi che effetti avrà su Israele, il paese più minacciato dall’Iran. Chiedetevi però anche come l’accordo si inserisca nella più ampia strategia americana mirata a placare le tensioni in Medio Oriente con il minimo coinvolgimento necessario da parte Usa e il minor prezzo possibile del petrolio.
(© 2015 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi)
La Stampa 30.3.15
Netanyahu: “Pessimo l’imminente accordo sul nucleare iraniano”
La preoccupazione israeliana si concentra sul “break-out time” ovvero il periodo entro il quale Teheran potrebbe raggiungere l’atomica
di Maurizio Molinari
qui
il Fatto 30.3.15
La primavera di Obama
Usa-Iran, il patto sul nucleare non piace a Bibi
I colloqui a Losanna preoccupano il premier Netanyahu: “Pericolo per l’umanità: va impedito”
di Valerio Cattano
L’accordo sul nucleare con l’Iran è “pura follia” ed il presidente americano Obama “ha perso il contatto con la realtà”. Il premier israeliano Bibi Netanyahu anticipa i risultati dei colloqui che si stanno svolgendo a Losanna, in Svizzera, ed hanno come ultimo termine il 31 marzo: per lui sono i dialoghi di un film dell’orrore. Non è casuale che per intralciarli Netanyahu abbia fatto di tutto, compreso cercare la sponda favorevole con i repubblicani “nemici” dell’amministrazione Obama. “Un accordo che supera i nostri timori e va anche oltre”, ha detto Netanyahu ieri e ricordando la crisi dello Yemen - in mano agli sciiti Houti con la copertura iraniana - ha provato a dare un quadro più ampio: “L'asse Iran-Losanna-Yemen è molto pericoloso per l’umanità e va impedito”. In realtà un accordo definitivo non c’è e i negoziati tra il ‘5+1’ (i cinque paesi con diritto di veto all’Onu, Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, Regno Unito) più la Germania, proseguono nel tentativo di trovare un punto fermo prima di martedì. Le parti sono ancora distanti e i ministri degli Esteri francese e tedesco, Laurent Fabius e Frank-Walter Steinmeier, hanno cancellato il loro viaggio in Kazakistan così come ha rimandato i suoi impegni il segretario di Stato americano John Kerry. Lo stesso vice ministro degli Esteri iraniano Abbas Arachi ha detto che “i risultati sono incerti e c'è ancora molta strada da fare”. Di cosa si discute a Losanna? Sul tavolo ci sono cinque punti fondamentali.
La questione temporale. Gli americani sostengono che è loro intenzione imporre il blocco di un anno all'Iran sulla lavorazione di materiale nucleare, in modo da avere il tempo di reagire in caso di preparazione di ordigni. Israele ritiene che il break giusto sia di almeno 18 mesi. Altro aspetto, è quanto deve durare l'eventuale accordo. Gli Usa speravano di imporre un blocco di 20 anni, i francesi sono per 15 anni, gli israeliani ritengono che l'Iran, se firma l'accordo, lo deve fare per sempre.
Le centrifughe. Attualmente l'Iran ha 20mila centrifughe utili per far girare l'uranio a velocità elevata così da aumentarne la purezza fino a realizzare una bomba nucleare. Solo 10mila sono però attive. Gli americani chiedono all'Iran di farne operare non più di 6500. Per gli israeliani il numero giusto da lasciare all'Iran è zero. Dai colloqui di Losanna emergerebbe che Teheran si è detta disponibile ad accettare meno di 6000 centrifughe nucleari in attività.
Il materiale nucleare. L'intento occidentale è permettere all'Iran di avere uranio arricchito per alimentare una centrale nucleare, ma non per costruire una bomba: Teheran si è detta disponibile a depositare in Russia la gran parte delle sue scorte di uranio già arricchito. Qualsiasi scorta di uranio che sarà mantenuta non dovrà superare il 5% di purezza (per una bomba serve il 90%).
Il solito sospetto. L'Iran per le potenze occidentali è come un pregiudicato che nella stanza degli interrogatori non risponde del tutto alle domande dei poliziotti e lo fa in modo intenzionale. In questo caso, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica sostiene di non aver avuto risposte adeguate sulla ricerca e la fabbricazione delle armi nucleari, anche in passato, da parte di Teheran. Questo è un punto su cui il Congresso americano è compatto e non fa litigare repubblicani e democratici: se l'Iran vuole l'accordo deve rispondere a tutte le domande senza reticenze. E poiché è sempre facile barare dopo, Teheran dovrà anche accettare ispezioni a 360 gradi.
Le sanzioni. Nel 2013 l'Iran accettò di sedersi al tavolo delle trattative dopo che gli Usa e l’Onu avevano deliberato forti sanzioni per pregiudicarne l'economia. Ora Teheran chiede che siano eliminate immediatamente e “voci di corridoio” ammettono che quelle delle Nazioni Unite potrebbero essere cancellate in un colpo solo. Il congresso americano su questo punto è spaccato e i repubblicani puntano il dito contro il presidente Obama e la sua politica estera troppo morbida verso i nemici. Il senatore ultraconservatore Ted Cruz, da qualche settimana candidato alla Casa Bianca, ha fatto intravedere scenari foschi in una intervista alla Cnn: “Nel 2017 chi sarà presidente degli Stati Uniti non avrà altra scelta che attaccare militarmente l'Iran e impedirgli così di avere l'atomica”.
nonostante la Bibbia... 5000 anni fa in “Israele” ci stavano gli egiziani...
La Stampa 30.3.15
Per gli antichi Egizi una birra in spiaggia a Tel Aviv
Scoperto nei pressi della città un birrificio di 5000 anni fa: rivela che i faraoni si spinsero oltre il Negev
di Maurizio Molinari
Nell’Età del bronzo gli antichi Egizi producevano e consumavano birra sulle spiagge dell’odierna Tel Aviv. A svelarlo sono gli artefatti archeologici, relativi a un’intera comunità di produttori di birra egiziani, che sono stati ritrovati a Sud della metropoli israeliana, sulla Hamasger Street. La scoperta è avvenuta casualmente, durante i lavori di scavo di un nuovo progetto edilizio nei pressi delle Torri Azrieli. Il personale dell’azienda di costruzioni si è trovato davanti all’insolito panorama di una moltitudine di oggetti di ceramica ben conservati sottoterra, in profondità, e quando ha chiamato l’Autorità delle Antichità si è compreso di che cosa si trattava.
Quella venuta alla luce è un’antica distilleria dove veniva prodotta birra alcolica a base di grano fra 5000 e 5500 anni fa. «Abbiamo trovato 17 contenitori di birra, che erano adoperati nell’Età del bronzo per accumulare e conservare prodotti agricoli» spiega Diego Barkan, direttore degli scavi, ricordando che «la birra veniva distribuita anche agli operai delle piramidi». Su una delle ceramiche ritrovate appare, ben leggibile, la scritta: «La bocca di un uomo perfettamente contento è piena di birra».
Per gli Egizi dell’epoca si trattava di una bevanda molto comune, spesso accomunata al pane, molto diffusa tra anziani e giovani, ricchi e poveri. In particolare, le ceramiche ritrovate sono simili a quelle rimerse in passato da altri siti archeologi risalenti all’Antico Egitto, ma la scoperta contiene comunque un dato sorprendente perché si tratta dell’insediamento più a Nord finora attribuito agli Egizi. Gli archeologi erano convinti che all’epoca dei faraoni gli Egizi non si fossero mai spinti oltre il Negev, ma adesso la realtà smentisce questa idea e Tel Aviv svela di avere origini antichissime. «Possiamo affermare con ragionevole certezza che gli antichi Egizi apprezzavano la regione dell’odierna Tel Aviv e venivano a godersi qualche bicchiere di birra sulla spiaggia, proprio come fanno oggi molti israeliani», commenta Barkan.
Repubblica 30.3.15
Rischio bancarotta e allarme sicurezza ora Lufthansa lotta per sopravvivere
La discesa al 18esimo posto nella classifica delle compagnie E un buco di 700 milioni su cui peseranno i rimborsi alle vittime Ecco perché il caso Germanwings potrebbe essere fatale
di Andrea Tarquini
BERLINO “THERE is no better way to fly”, non c’è miglior modo di volare, è il loro motto, da quando la Lufthansa nacque 89 anni fa, il 6 gennaio 1926. Dalla vivace democrazia di Weimar al dopoguerra della libertà rinata a Bonn, si sentono l’aristocrazia mondiale del volo civile. “Lufthanseater”, tradotto “i Lufthansisti”, li chiama da sempre la Germania con orgoglio. Ma la catastrofe sulle Alpi francesi, con risarcimenti alle famiglie delle vittime che potrebbero costare alla compagnia 320 milioni, sta solo accelerando un amaro risveglio: da qualche anno Lufthansa affronta una crisi durissima. Adesso la sua immagine è a rischio, come fu per Air France dopo la sciagura del ‘330’ Rio-Parigi inabissatosi nell’Atlantico, o per Alitalia prima della svolta.
«Nessuno invidia oggi Carsten Spohr, ad di Lufthansa», senti dire alla Borsa di Francoforte. Il giovane manager, ex pilota, sperava di rilanciare la compagnia della gru con tagli e mantenendo però l’eccellenza, ma le cifre sono pesanti: 720 milioni di perdite nell’ultimo bilancio, senza contare gli scioperi; quote di mercato sottrattele dai nuovi giganti del Golfo (Etihad, Emirates, Qatar Airways), dai vettori cinesi, da Turkish Airlines. E ora, la paura di volare dal volto tedesco.
Non se lo aspettavano, quando nel 1926 cominciarono servizi sicurissimi e di lusso con gli Junkers F-13, i primi aerei civili in metallo nel mondo, poi coi trimotori Ju-52. Rotte per Parigi e Londra, Roma e Stoccolma, Mosca, Il Cairo e le Americhe. Anche coll’elegante quadrimotore Condor. Ci pensò Hitler ad assestare il primo colpo al cuore: asservimento al nazismo, aerei requisiti per la guerra di Spagna e l’attacco alla Polonia, o come velivoli personali suoi e dei gerarchi. Nel 1945, la flotta era all’anno zero, come tutto il Paese.
Già nel gennaio 1953 i poderosi Super Constellation americani di Lufthansa introdussero nuovi standard di lusso nel lungo raggio. La riunificazione rese la gru ancor più grande. Flotta di 330 aerei e passa, preferita dagli uomini d’affari del nuovo mondo globale. Pochi incidenti: un Jumbo a Nairobi nel ’74, un 320 a Varsavia nel ’93. Ma lento iniziò il declino: privatizzazione, fame di guadagni in Borsa, servizio a bordo sempre più frugale, poi tagli peggiori: i medici aziendali sono troppo pochi per controllare quell’armata di 5400 piloti. E arabi, turchi e cinesi col cuoco a bordo e aerei più nuovi si prendono la clientela migliore, mentre nel low cost Germanwings è un nano rispetto a Easyjet o Ryanair. Quo vadis, Lufthansa? Sullo sfondo non c’è solo Andreas Lubitz. Anche Berlino senza nuovo aeroporto, capitale giovanile troppo mal collegata, e quanto a sicurezza un crollo dall’11mo al 18mo posto. Non Lufthansa ma Air New Zealand con i suoi nuovissimi Boeing, l’addestramento in Raf e aviazione australiana e spot e livree spiritose ispirate ai film sugli hobbit, è la linea più sicura del mondo. La lotta della gru per sopravvivere è partita aperta.
Repubblica 30.3.15
Così lo zar risolse il teorema di Eulero
Si deve a Pietro il Grande e a sua moglie Caterina la fondazione nel Settecento dell’Accademia delle Scienze in Russia
di Piergiorgio Odifreddi
PIETRO I di Russia viene chiamato “il Grande” per molti motivi. Il più elevato e duraturo dei quali è la fondazione dell’Accademia delle Scienze, che nel Settecento costituì il centro organizzativo di una letterale rivoluzione culturale che traghettò il paese dal medioevo alla modernità. Alla fine del Seicento, quando l’Europa era ormai stata scossa dalla nuova scienza di Galileo, Cartesio, Newton e Huygens, la Russia languiva infatti ancora nell’ignoranza e nell’analfabetismo: non solo ai piani “bassi” dei contadini, ma anche a quelli “alti” dell’aristocrazia.
Nel suo Grand tour europeo, durato più di un anno a cavallo tra il 1697 e il 1698, il giovane monarca si era reso conto dell’arretratezza del proprio paese. Tornato in patria, aveva iniziato a modernizzarlo: dalle piccole cose, come l’imposizione della rasatura ai boiardi, a quelle grandi, come la costruzione di San Pietroburgo. Venuto a sapere che nella sua visita europea lo zar russo si era interessato più alla tecnologia che all’arte, Leibniz si attivò per far conoscere anche a lui i suoi grandiosi piani culturali, un risultato dei quali fu la fondazione dell’Accademia di Berlino nel 1700.
Dopo una fitta corrispondenza con i funzionari di corte, il filosofo riuscì a incontrare lo zar in tre diverse occasioni: nel 1711 a Torguau, nel 1712 a Karlsbad, e nel 1716 a BadPyrmont. E gli presentò una serie di progetti, uno dei quali portò nel 1719 a una riforma amministrativa della Russia. La creazione di un’Accademia richiese più tempo, anche perché Leibniz era morto poco dopo l’ultimo incontro, e Pietro aveva inviato il proprio bibliotecario in un lungo giro di esplorazione delle analoghe istituzioni già esistenti in Francia, Germania, Olanda e Inghilterra, alcune delle quali aveva visitato egli stesso.
Il Senato russo approvò infine la creazione dell’Accademia delle Scienze nel 1724, ma prima che essa fosse inaugurata anche Pietro morì. Il progetto fu portato a termine da sua moglie Caterina I, e nell’estate del 1725 giunsero i primi membri: tutti stranieri, visto appunto lo stato disastroso in cui versava la cultura locale. L’Accademia si dedicò dunque non solo alla ricerca scientifica, ma anche agli insegnamenti universitario e superiore.
Tra i primi arrivi ci furono Christian Goldbach, il cui nome è oggi legato alla congettura (tuttora irrisolta) sulla scomposizione di ogni numero intero nella somma di due numeri primi, e i due fratelli Nicolaus e Daniel Bernoulli, figli di Johann e membri della prolifica famiglia di matematici di Basilea. Nicolaus morì l’anno dopo di febbre, e fu sostituito nel 1727 dal ventenne enfant prodige Leonhard Eulero, arrivato nell’insalubre città la settimana dopo la morte della zarina.
Suo padre era un ministro protestante, e avrebbe voluto che il figlio studiasse teologia. Ma da giovane aveva lui stesso studiato matematica, condividendo la camera con Johann Bernoulli, e fece l’errore di insegnarla al figlio. Il quale dimostrò immediatamente di avere un eccezionale talento, che gli permise di studiare da solo sui libri, limitandosi ad andare la domenica pomeriggio dal famoso matematico a chiarirsi gli eventuali dubbi della settimana.
Eulero e Daniel Bernoulli costituirono una coppia formidabile fino al 1733, quando il secondo decise di tornare in Svizzera. Non prima di aver completato, però, uno studio quadriennale culminato in un manoscritto di quattrocento pagine, poi pubblicato con il titolo di Idrodinamica e divenuto il monumen- to di riferimento di questa nuova scienza.
Dal canto suo, nel 1734 Eulero risolse il famoso problema di Basilea , che non si era piegato agli attacchi degli altrettanto famosi matematici di quella città. Si trattava di calcolare la somma degli inversi dei numeri quadrati: cioè, uno più un quarto più un nono più un sedicesimo, eccetera. Con un gioco di prestigio che passò alla storia Eulero trovò che la soluzione è “pi greco al quadrato diviso sei”, e scoprì che il rapporto geometrico fra la circonferenza e il diametro di un cerchio aveva legami misteriosi con i numeri interi e i loro quadrati.
Nel frattempo in Russia si succedevano velocemente gli zar e le zarine (Pietro II, Anna, Ivan VI, Elisabetta), e la situazione dell’Accademia deteriorava. Nel 1741 anche Eulero decise di lasciare il paese, dopo quattordici anni, per accettare l’invito di Federico il Grande all’Accademia di Berlino. Ci rimase per venticinque anni, ma il suo cuore e il suo portafogli rimasero in parte in Russia: continuava infatti a ricevere lo stipendio da San Pietroburgo, a mandarvi una buona parte dei suoi lavori, ad accogliere studenti russi in visita, e a fungere da ambasciatore informale dell’Accademia.
Dal canto suo, Federico non lo amava e preferiva la compagnia di intellettuali più brillanti e meno bigotti, come Voltaire. Alla regina madre, che gli domandò un giorno perché parlasse così poco, Eulero confidò: «Perché arrivo da un paese in cui chi parla viene impiccato». E, avendo imparato a tacere, trangugiò anche le molte scortesie del sovrano del paese in cui era arrivato: dall’epiteto di “matematico ciclope”, per un occhio perduto a trentun anni, alla mancata nomina a presidente dell’Accademia, in favore di un matematico meno bravo ma più di mondo.
Le turbolenze russe finirono nel 1762, quando sul trono degli zar salì l’illuminata Caterina la Grande. Eulero fu da lei blandito in vari modi, con offerte di denaro e potere, e nel 1766 tornò definitivamente a San Pietroburgo. Appena arrivato perse anche l’uso dell’altro occhio per una cataratta, ma la prese con filosofia dicendo: «Ora avrò meno distrazioni ».
Certo la cecità non gli impedì di continuare a produrre risultati a ritmo incessante, fino a riem- pire in diciassette anni metà dell’ottantina di volumi delle sue Opere complete , la cui stampa richiese quasi un secolo. In parte lo aiutò una memoria leggendaria, che fin da bambino gli permetteva non solo di recitare tutta l’-Eneide, ma anche di dire a che pagina del testo si trovava. E, da adulto, di fare a mente calcoli complicatissimi.
Eulero non lasciò più la Russia: morì nel 1766, e fu sepolto a San Pietroburgo. Caterina regnò per altri trent’anni, fino al 1796, e al termine del suo regno e del Settecento la scienza aveva ormai attecchito nel paese, grala zie ai semi piantati dall’Accademia delle Scienze in generale, e da Eulero in particolare.
Pochi decenni dopo, negli anni ‘20 dell’Ottocento, un matematico russo di nome Nikolaij Lobachevskij divenne “il Copernico della geometria”, quando scoprì per primo la geometria non euclidea. E mezzo secolo dopo la matematica entrò addirittura nella letteratura russa, attraverso le citazioni che ne fecero Lev Tolstoj in Guerra e pace, e Fëdor Dostoevskij nei Fratelli Karamazov . Da allora la Russia è diventata una delle superpotenze matematiche del mondo e ha conquistato nel dopoguerra il 20% delle medaglie Fields, che costituiscono l’analogo del premio Nobel per la matematica.
L’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo ha cambiato di nome varie volte, passando nei secoli da imperiale a sovietica a russa. Ha traslocato sede una volta, trasferendosi nel 1934 a Mosca. Ed è esistita ininterrottamente dal 1725 al 2013, quando è stata inaspettatamente sciolta, sollevando le proteste di molte medaglie Fields di tutto il mondo (Aityah, Deligne, Hironaka, Kontsevich, Mori, Mumford, Serre, Witten): cioè, degli analoghi moderni dei Leibniz, dei Bernoulli e degli Eulero che avevano contribuito a fondarla.
Repubblica 30.3.15
Persone e robot uniti per salvare il fattore umano
di Maurizio Ferraris
NELLA maggior parte della nostra vita non ci comportiamo diversamente da un automa. Lo suggeriva Villiers de l’Isle-Adam in L’Eva futura ( 1886), in cui Edison, in un sotterraneo a Menlo Park, progetta una donna automatica e capace di parlare. Dopotutto, ogni parola che pronunciamo è già stata detta, per cui basta incorporare un grammofono nell’automa, e il gioco è fatto. Il che è vero solo fino a un certo punto. Circa vent’anni dopo William James propose l’esperimento mentale della “fidanzata automatica”, un automa con le fattezze di “una fanciulla che ride, parla, arrossisce, ci cura”.
L’ovvia conclusione di James era che non saremmo felici di una simile fidanzata. Cent’anni dopo, potremmo aggiungere, tutta questa sottomissione e tutti questi rossori potrebbero essere considerati l’indizio del fatto che non abbiamo a che fare con un essere umano, bensì con un automa. La certezza di avere a che fare con un umano la abbiamo quando sbotta, si ribella, si deprime. O quando sbaglia, compie una pazzia o, semplicemente, una fesseria. L’umano è l’unico vivente capace di sopportare un molestissimo segnale sonoro pur di non allacciarsi la cintura di sicurezza (caso che mi è accaduto di vedere, e di sentire, in un taxi a Roma pochi giorni fa).
Non l’originalità (il più delle volte siamo più monotoni e ripetitivi di un tostapane o di un girarrosto) né la razionalità (su questo punto, l’esperienza comune e gli studi di psicologia del pensiero non lasciano dubbi), ma l’insensatezza o l’errore sono l’emblema dell’umano. È difficile immaginare un pilota automatico che “fa l’inchino” davanti all’Isola del Giglio, è difficile concepire un computer che schianta deliberatamente un aereo contro una montagna. Anzi, nel caso dell’incidente di Germanwings, il computer si comportava in maniera razionale, cercando di riportare in quota l’aereo, mentre l’umano si comportava in maniera irrazionale, cercando di farlo precipitare.
La vera differenza tra umano e automa non sta sul piano della mente, ma su quello del corpo, che stabilisce un contatto sensibile con il mondo, e che insieme prescrive un tempo di vita (un orologio è praticamente immortale, noi no), un destino di decadenza (possiamo perdere la vista, ed era questa, pare, la massima preoccupazione di Andreas Lubitz), e la capacità di annoiarci, spaventarci e intristirci. Sono queste circostanze — la relativa brevità della vita, la sua frequente insensatezza, la fragilità del corpo, l’esposizione all’errore e all’illusione — che definiscono la specificità dell’umano (non a caso, la dottrina del peccato originale è stata elaborata in riferimento agli umani e non agli automi).
Nessuna di queste caratteristiche raccomanda in particolare un umano per compiti di responsabilità come pilotare un aereo. Forse i vertici della Lufthansa, che pochi giorni fa hanno dovuto affrontare un lungo sciopero dei piloti, sarebbero felici di sottoscrivere quello che ho appena detto, ma si sbaglierebbero. Perché il fattore umano è ovviamente indispensabile di fronte all’imprevisto. I casi in cui un pilota ha salvato l’aereo sono ben più numerosi di quelli in cui lo ha perduto. Piuttosto che sostituire i piloti con i computer, conviene continuare la cooperazione virtuosa tra uomo e automa (quella che, per esempio, sta rendendo sempre più efficaci i sistemi di traduzione automatica), non dimenticando che se l’umano può sbagliare o morire l’automa può rompersi. E, soprattutto, tenere presente che, diversamente da un automa, un umano può cadere in depressione, e non sottovalutare i segnali di questa circostanza (segnali che, a quanto pare, Lubitz non ha mancato di dare).
Repubblica 30.3.15
Perché Dio è tornato sulla scena
Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito internazionale iniziato in America
La religione diventa un antidoto al dominio dell’economia
L’identificazione tra modernità e laicizzazione non è scontata
di Roberto Esposito
DOPO una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e laicizzazione è tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre. Senza voler assimilare fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti. Da Habermas a Taylor, da Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione contribuisce a generare o a moderare la violenza? È fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro che scontata. Come risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod, che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è stato causato da motivi religiosi. Se le Crociate, le guerre tra cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente le attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore. Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filo-occidentali e secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti.
Una risposta di carattere dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo psicologo sociale Ara Norenzayan in un saggio importante, intitolato Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo , tradotto da Cortina, con un’introduzione di Telmo Pievani. La sua tesi è che inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio divino sul comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze innate volte all’autoconservazione, le religioni inizialmente hanno giocato una funzione di aggregazione sociale. Successivamente, però, esse si sono differenziate tra loro entrando in competizione. In questa lotta per la sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse specie, hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a divinità onnipotenti ed interventiste. Da qui un rovesciamento della originaria funzione socializzante in una tendenza conflittuale, attivata soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro.
Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed ambivalenti in base a fattori di carattere storico e contestuale sui quali non è possibile pronunciare valutazioni univoche. Dal seno della religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden. Certo le società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di creare meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio divino. E dunque, problema risolto? Da quanto accade nel mondo si direbbe di no. Per quanto riguarda l’area islamica la ripresa delle tendenze più radicali è sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle società occidentali tale distinzione, da tutti ammessa in linea di principio, sembra resistere ad una serie di dinamiche correlate. Da un lato la globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà diverse, immettendo quantità crescenti di culture difficilmente integrabili all’interno dei Paesi occidentali. Dall’altro il regime biopolitico in cui da tempo viviamo, in particolare con lo sviluppo delle biotecnologie, rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che riguardano non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la sicurezza, l’ecologia – tutte contemporaneamente pubbliche e private, individuali e collettive. Da questo lato sembra profilarsi una nuova alleanza tra politica e teologia. Non tanto, perché nella crisi di legittimazione dell’autorità, il nucleo di senso custodito dalle religioni può svolgere una funzione di supplenza. Ma perché in un mondo orientato sempre più a un dominio assoluto dell’economia, la teologia sembra rappresentare, per masse sempre più grandi di uomini, l’unica alternativa, l’unica potenza capace di resistere, alla logica anonima del mercato globale. Nel momento in cui si afferma una nuova forma di “teologia economica” del debito – si veda, a questo proposito, il recente volume collettaneo curato da Thomas Macho col titolo Bonds (Fink) – la filosofia contemporanea guarda ad un nuova forma, non più di teologia politica, ma di politica della teologia.
La Stampa 30.3.15
Traduttori, nobil razza dannata
Come in unmemoir, Massimo Bocchiola racconta gioie e dolori del suo lavoro: tradurre, come scrivere, significa sconfiggere la morte attraverso la parola
di Giuseppe Culicchia
Che cosa hanno in comune, a parte naturalmente la professione, Stephen King e Samuel Beckett, Martin Amis e Irvine Welsh, Thomas Pynchon e Paul Auster? Semplice: in molti li abbiamo letti nelle traduzioni di Massimo Bocchiola, che dopo il romanzo Il treno dell’assedio (Il Saggiatore 2014) e le raccolte di poesie pubblicate per Marcos y Marcos e Guanda, ha scritto per Einaudi Stile Libero Mai più come ti ho visto, saggio sotto forma di scorribanda, o volendo di memoir, nel quale ripercorre passo passo le tappe del suo percorso di traduttore, raccontando il dietro le quinte di un mestiere bellissimo, difficilissimo e per certi versi impossibile - trattandosi ogni volta di inseguire per decine, centinaia, migliaia di pagine le parole altrui senza raggiungerle davvero mai -, eppure piacevole.
Un mestiere sfibrante
«Tradurre testi letterari è molto bello», scrive Bocchiola. «Consente di impossessarsene a proprio uso, e nel contempo - se lo vogliamo, se ne siamo capaci - di farne dono ad altri». Già: in Italia com’è noto si traduce tantissimo, eppure è piuttosto raro che il lavoro del traduttore venga menzionato se non di sfuggita in una recensione; quanto al compenso, che di norma viene stabilito «a cartella», da noi si attesta sui dieci o dodici euro, mentre in Paesi come la Germania - dove i traduttori hanno un loro sindacato in grado di trattare con gli editori - arriva anche a trenta e oltre; per tacere del resto del lavoro editoriale, ovvero delle revisioni e delle eventuali correzioni che almeno in teoria dovrebbero competere alla redazione della casa editrice: non da oggi, ma oggi più che mai, queste mansioni sono spesso appaltate all’esterno per ragione di costi, e sempre per ragione di costi si dà addirittura il caso che una traduzione non venga né rivista né corretta, ma pubblicata in fretta e furia così com’è, di modo che a farne le spese sono naturalmente innanzitutto l’autore e il lettore, ma anche il traduttore, che vede mortificato in questo modo il lavoro di mesi.
Un lavoro duro, a tratti perfino sfibrante, che richiede una grande concentrazione e che talvolta non conosce orari. «Tradurre è un po’ come spalare carbone», scrive non a caso Paul Auster, citato da Bocchiola e ripreso nella quarta di copertina. «Lo sollevi con il badile e lo rovesci nella fornace. Ogni pezzo è una parola, ogni palata è una nuova frase, e se hai la schiena abbastanza forte, e la resistenza che serve a continuare per otto o dieci ore al giorno, riuscirai a tenere acceso il fuoco». Tutto vero, posso confermare: da parte mia, malgrado i dieci anni trascorsi in libreria ad aprire scatoloni e fare rese, non ho mai faticato tanto come quando ho tradotto i Racconti dell’età del jazz di Francis Scott Fitzgerald.
Dare nuova vita
Ma Bocchiola non si limita a mostrare più che generosamente l’officina del traduttore, con tutta una serie di esempi pratici ed escursioni in territori quali il cinema, il calcio o la guerra, nonché ammissioni di richieste di consulenza a esperti delle varie discipline, tra cui suo padre, medico, per una scena di Stella del mare di Joseph O’Connor in cui viene diagnosticato un caso di sifilide, e un ex compagno di scuola diventato agronomo per venire a capo di una parola usata in una poesia da Blake Morrison. In questo saggio densissimo, assai divertente e sempre interessante, prova anche a ragionare sul legame tra la traduzione e il tempo, a partire dal fatto che la traduzione di un testo letterario contribuisce a dare nuova vita, oltre che alle parole, anche a quella che è a tutti gli effetti un’esperienza passata, trasformandola e perciò stesso dandole una seconda occasione, restituendone l’eco infinita. Per arrivare alla conclusione che tradurre, come scrivere, corrisponde in un certo senso a sconfiggere la morte attraverso la parola.
I due Moby Dick
Può darsi che le cose stiano davvero così, se non altro quando le parole sono destinate a rimanere: vedi l’Infinito di Leopardi, che a un certo punto Bocchiola decide di ritradurre dalla traduzione in inglese di Tim Parks anche per il gusto di sfidare se stesso. Sta di fatto che almeno su una cosa non posso dirmi d’accordo con lui, quando scrive che «ogni scrittore può ricevere critiche, attacchi, insulti ben peggiori di chi traduce, e su un terreno oggettivamente più personale. Ma al traduttore è statutariamente negato il diritto primario di ogni artista, cioè quello di produrre un’opera che piaccia prima di tutto a lui stesso. Forse è proprio per questa ragione, come per nessun’altra, che non si può definire un artista». Beh: senza tirare in ballo qui il caso del Moby Dick tradotto da Pavese, che bene o male da generazioni fa sì che ci siano due Moby Dick, quello di Melville e quello appunto di Pavese, ci sono al contrario traduttori che meritano senza dubbio tale definizione. E credo di poter dire che l’autore di Mai più come ti ho visto - un testo che certo sarà adottato in ogni corso di traduzione che si rispetti e che comunque andrebbe letto da chiunque ami leggere - possa essere annoverato tra questi.
Corriere 30.3.15
Le lettere tra Mussolini e Churchill? False
Un saggio ricostruisce la contraffazione del carteggio che ingannò i grandi editori
di Paolo Mieli
Nasce da un trafiletto pubblicato nel ’45 da Il Tempo uno dei casi più clamorosi di storiografia complottista: l’ipotesi secondo cui Churchill e Mussolini si sarebbero scritti in segreto lettere compromettenti durante la guerra. Venne poi prodotto un falso carteggio e all’amo abboccarono addirittura gli editori Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli. Ora un saggio di Mimmo Franzinelli ricostruisce la vicenda della contraffazione.
Il carteggio falsificato
tra Mussolini e Churchill non vi fu mai un preteso scambio di lettere segrete
La prima insinuazione fu lasciata cadere in un trafiletto pubblicato il 7 ottobre 1945 dal quotidiano romano «Il Tempo»: «Si apprende che durante la sua permanenza a Como, Churchill sarebbe venuto in possesso delle lettere da lui scritte a Mussolini». Nasce di qui uno dei casi più clamorosi di storiografia complottista d’Italia. Winston Churchill, secondo l’autore di questa insinuazione, in quello e successivi viaggi sarebbe stato intenzionato a recuperare lettere che avrebbero potuto dimostrare una sua complicità con Mussolini mai venuta meno, neanche ai tempi della feroce guerra mondiale che avrebbe visto i capi del governo inglese e italiano battersi su fronti opposti.
Churchill lasciò correre e quella «notizia» divenne nel tempo un clamoroso caso giornalistico e non solo. All’amo dei falsari abboccarono addirittura i due più importanti editori italiani del Novecento: Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli. Mondadori il 19 ottobre del 1953 si precipitò a Milano da Sankt Moritz e versò un milione e mezzo di lire (cifra per l’epoca sbalorditiva) pur di assicurarsi «una parte» della «corrispondenza segreta» tra Winston Churchill e Benito Mussolini. Stessa cosa farà Rizzoli, il quale, a fine aprile 1954, darà alle stampe su «Oggi» una prima serie di lettere (false), facendo impennare le vendite del settimanale. Tutto ciò nonostante fosse evidente che le missive di Churchill erano del tutto poco plausibili, per di più scritte in un inglese maccheronico. Lo rilevò Arrigo Levi in quegli stessi giorni: «Le formule di commiato, “Your sincerely devoted” e “Believe me sincerely yours” sono tipici casi di traduzione letterale di una formula italiana in un pessimo inglese» scrisse sulla «Settimana Incom Illustrata» il 22 maggio 1954. Stessa impressione da parte dell’ambasciata del Regno Unito a Roma: «L’inglese attribuito a Sir Winston Churchill è così scorretto da rivelare come ovvio che i “documenti” sono assolutamente delle grossolane contraffazioni».
Ma, a dispetto di tale evidenza, la leggenda di questo scambio epistolare tra due dei principali antagonisti della Seconda guerra mondiale ha messo radici e ancora oggi viene presa per buona. Come dal libro di Ubaldo Giuliani-Balestrino Il carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi (Edizioni Settimo Sigillo), da Uccidete il «Grande Diavolo» di Filippo Giannini (Greco & Greco), da Dear Benito, caro Winston (Mondadori) di Arrigo Petacco. Perfino il più grande studioso italiano del fascismo, Renzo De Felice, non se l’è sentita di scartare l’ipotesi che quelle lettere siano realmente esistite. E invece si è trattato di un falso, un clamoroso falso che non ha neanche un aggancio con ciò che è realmente avvenuto. Neanche uno. Come dimostra in termini inconfutabili Mimmo Franzinelli in L’arma segreta del Duce. La vera storia del Carteggio Churchill-Mussolini («Carteggio» è scritto con la maiuscola proprio per distinguerlo dal vero, scarno scambio di lettere ufficiali che vi fu tra i due), che la Rizzoli si accinge a mandare in libreria.
Di lettere a Mussolini, Churchill ne scrisse una, il 16 maggio del 1940, sei giorni dopo essere diventato il capo del governo. «È troppo tardi» chiedeva lo statista inglese «per impedire che scorra un fiume di sangue fra i popoli britannico e italiano?». E non era certo la domanda di un uomo sull’orlo della disperazione. «Sono sicuro» proseguiva Churchill « che qualunque cosa possa accadere sul continente (la Francia stava crollando, ndr ), l’Inghilterra proseguirà fino alla fine, anche se completamente sola, come abbiamo già fatto altre volte, e io ritengo con qualche buon motivo che saremo aiutati in maniera crescente dagli Stati Uniti d’America e anzi da tutte le Americhe». Una lettera del tutto in linea con quello che era stato l’atteggiamento di Churchill nei confronti del Duce per tutto il ventennio, in particolare negli anni più recenti, quando aveva provato a dividerlo da Hitler.
Il 21 gennaio del 1927, Churchill aveva dichiarato al «Times», rivolto a Mussolini: «Fossi italiano, mi sarei certamente schierato con tutto il cuore al vostro fianco sin dall’inizio della vostra lotta trionfale contro gli appetiti e le passioni bestiali del leninismo». Poi, il 18 febbraio del 1933, al rientro da una vacanza in Italia, Churchill definiva Mussolini un «genio incarnato». E negli anni che seguirono la presa del potere di Hitler, lo statista inglese tenne sempre a distinguere la sua avversione al dittatore tedesco dall’ammirazione per quello italiano. Come del resto facevano David Lloyd George, Lord Edward Wood, sir Austen Chamberlain e il commediografo George Bernard Shaw. Almeno fino al 1937, quando — in una conversazione con Frank Owen, politico liberale e direttore dell’«Evening Standard» — definì Hitler e Mussolini «These men of microphone and crime», «uomini della propaganda e dell’assassinio». E la lettera del 16 maggio 1940 conteneva traccia di questi mutamenti d’umore. Risultano così stravaganti le tesi che emergerebbero dalle «lettere segrete», secondo cui «Churchill avrebbe proposto a Mussolini di entrare in guerra con gli angloamericani» o di «combattere a fianco dei tedeschi per poi condizionarli nelle trattative di pace». In ogni caso Mussolini il 18 maggio rispose alla «vera» missiva di Churchill con una lettera altrettanto «autentica» (e pubblica) in cui affermava che per «senso dell’onore» avrebbe schierato l’Italia al fianco della Germania nazista. «In entrambi i messaggi», fa notare Franzinelli, «non un cenno a contatti pregressi né a patti in elaborazione».
Bizzarri sono i protagonisti di questa «operazione Carteggio»: il sedicente comandante dei servizi segreti della Rsi Tommaso David («in realtà», puntualizza Franzinelli, «capo di un servizio di spionaggio repubblichino collegato all’Abwehr, lo spionaggio tedesco»), il «custode degli epistolari» Enrico De Toma (colui che riuscì a vendere le «carte» ad Angelo Rizzoli) e l’aristocratico falsario Ubaldo Camnasio de Vargas. Sul fronte dei creduloni moltissime personalità di primo piano dell’Italia repubblicana. Scettici furono invece Alcide De Gasperi, preso di mira (come Giovanbattista Montini e Benedetto Croce) da un’altra opera di falsificazione di lettere, Giulio Andreotti e il repubblichino Giorgio Pisanò, il quale, in contrasto con la sua parte politica, per primo denunciò le contraffazioni.
Tommaso David entrò in azione nell’estate del 1944, al servizio della Repubblica di Salò, fabbricando un biglietto che avrebbe dovuto coinvolgere Pietro Badoglio nell’uccisione, l’estate precedente, dell’ex segretario del Partito nazionale fascista Ettore Muti. Il governo Bonomi inserì il nome di David nel «Bollettino delle ricerche», qualificandolo come «delinquente» e descrivendone minuziosamente i connotati: «Altezza m. 1,83, corporatura grossa, capelli e occhi grigi, denti falsi». Si occupò di lui anche il controspionaggio statunitense, mettendo in evidenza che aveva preteso «prestazioni sessuali dalla ventunenne Marianna Sgabelloni» e aveva «soggiornato» nel settembre 1944 con la diciassettenne Carla Costa in un albergo di Maderno «in gita di piacere». La «divisione» di David, peraltro, era piena di «personale femminile». Il suo vice, Renato Pericone, lasciò scritto che Tommaso David reclutava «le donne unicamente per motivi sessuali». L’Office of Strategic Services lo definì «un vecchio mandrillo». Nessuno, insomma, fino a quando tirò fuori il Carteggio, lo aveva preso sul serio. Un personaggio di secondo piano, David, dedito alla disinformazione, fino a un giorno di inizio aprile 1945, quando il Duce lo ricevette nel suo ufficio a Gargnano, sulla sponda bresciana del lago di Garda, e gli affidò due borse in pelle, una gialla e l’altra bruna, salvo poi richiamarlo a farsi restituire la valigia scura.
Di qui inizia la storia che verrà alla luce il 13 maggio 1951, allorché un giornale, «Asso di Bastoni», pubblicherà con grande evidenza in prima pagina la notizia dell’esistenza del Carteggio in mano a David. Piovono interrogazioni parlamentari da parte dei socialdemocratici Bruno Castellarin e Luigi Preti, si entusiasma l’ispettore generale degli Archivi di Stato, Emilio Re. Re affida il caso a un suo emissario di Bolzano, il quale fa appena in tempo a conoscere l’uomo e già esprime i primi dubbi: «Il David, già agente segreto della polizia dell’ex Repubblica di Salò, è un esaltato e uno squilibrato e la sua affermazione di possedere le lettere predette può essere del tutto falsa, pur non escludendo che egli ne possa essere veramente in possesso», afferma in un rapporto del 16 giugno 1951. Chi invece prende la cosa molto sul serio è il ministro delle Finanze Ezio Vanoni, sensibilizzato da un amico di Merano, Pietro Richard. Più che scettico, come si è detto, è invece Andreotti, il quale sostiene trattarsi di «una pura e semplice falsificazione». Ma è isolato e la credibilità del falsario non è scalfita, tant’è che David può diventare un «eroe» della guerra fredda e il 29 marzo del 1957 (due anni prima di morire) sarà addirittura decorato con una medaglia d’oro quale «comandante del Corpo volontario anticomunista della Dalmazia».
Nel Carteggio, Dino Grandi sarebbe il mediatore tra Mussolini e Churchill, «intermediario infido», rileva Franzinelli, «poiché tradirebbe la patria ancora prima dell’entrata in guerra». In realtà Churchill scrisse a Grandi una sola lettera, peraltro assai cordiale, in risposta al messaggio dell’11 ottobre 1939 con il quale il conte gli comunicava la conclusione della propria missione londinese. Il resto delle lettere di Grandi e Churchill, che coinvolgerebbero Vittorio Emanuele III, sono ad ogni evidenza false. Churchill avrebbe scritto a Grandi nei panni di primo ministro un mese prima di essere nominato alla guida del governo inglese per proporre uno strano patto tra Italia e Gran Bretagna. Se davvero «esistesse un Patto italo-britannico e Grandi e Vittorio Emanuele ne fossero a conoscenza», si domanda Franzinelli, «perché non ricorrervi mentre l’Italia va in rovina» nel 1943? Nella Rsi, inoltre, Mussolini fa di tutto per screditare Grandi: «Se disponesse del Carteggio, non esiterebbe a servirsene, invece di chiuderlo in una borsa ad ammaestramento dei posteri». Quando nel 1953 vedrà questi documenti, Grandi li definirà «assolutamente falsi e per giunta grottescamente inverosimili, il che si rileva immediatamente da chi abbia conoscenza della lingua inglese, degli usi diplomatici, dei rapporti protocollari». Ma i falsari reagiranno sostenendo che Grandi parlava in difesa di se stesso.
E a questo punto Franzinelli solleva la «questione Bastianini». Giuseppe Bastianini, sottosegretario agli Esteri nel 1936-39 e poi successore di Grandi all’ambasciata di Londra sino all’entrata in guerra dell’Italia (giugno 1940), è uno dei pochissimi «cui non sfugge l’inadeguatezza bellica nazionale» e infatti «cerca invano di convincere il Duce a protrarre la neutralità». «L’incarico londinese e l’orientamento antigermanico», fa notare Franzinelli, farebbero di Bastianini «il personaggio chiave per trattative segrete con Churchill, di cui però non vi è cenno nelle sue memorie». E, se si ritiene che questo mancato cenno possa essere motivato dall’imbarazzo, stupisce che mai il nome di Bastianini sia fatto nel Carteggio.
Secondo Franzinelli, Bastianini «è assolutamente ignorato dal Carteggio, onde evitare che smentisca eventuali apocrifi a lui attribuiti, guastando l’opera dei falsari». «Il blackout su Bastianini (come su Ciano) è eloquente, specie se raffrontato all’ipertrofica produzione sull’ex ambasciatore Grandi (preso di mira con evidente intento polemico)». Tanto più che dal 5 febbraio 1943, dopo che Mussolini ha liquidato Ciano e ha assunto personalmente la guida del ministero, Bastianini ridiventa sottosegretario agli Esteri. Quando, nella prima metà di luglio del 1943, «in preda alla disperazione Mussolini accondiscende al desiderio di Bastianini di allacciare trattative segrete, è troppo tardi». Se «Mussolini disponesse di carte segrete, saprebbe di doverle giocare mentre è ancora in tempo». Bastianini, che da tempo avrebbe voluto riaprire quel canale con gli inglesi, sarebbe stato l’uomo giusto per questa iniziativa, se solo Mussolini lo avesse messo al corrente dell’esistenza di quelle carte. Ma così non fu.
Eppure ancora oggi, «qualsiasi panzana viene presentata come possibile dai sacerdoti del Carteggio». Tra «i creativi inventori di astrusi teoremi vi sono pure ex partigiani ultraottuagenari quali Luigi Carissimi Priori di Gonzaga (nome di battaglia «Cappuccetto rosso») che in tarda età ha divulgato storie assurde sul Carteggio, passato naturalmente anche dalle sue mani». La «logica del complotto creata ad arte sui fatidici documenti rovescia ogni evidenza d’inesistenza in prove di autenticità». I mitici carteggi, scrive Franzinelli, sono «bugie con la velleità di diventare storia». Coloro che hanno partecipato all’impresa di inventarli erano «quasi tutte persone prive di scrupoli, imbroglioni matricolati premiati da distrazioni e lentezze della magistratura». Fossero ancora vivi «constaterebbero sbalorditi come quelle loro lontane falsificazioni si siano radicate nonostante le evidenti falle… Una costruzione dalle facciate vivaci, dietro le quali c’è il vuoto». Miracoli della storiografia complottista.
Corriere 30.3.15
Dall’oblio al fascismo, la scoperta di Vivaldi è un’avventura
di Marco Del Corona
Vivaldi è qui, qui con noi. Come se lo fosse da sempre. Per quanto offesa dall’abitudine o dall’uso improprio, la sua musica (che va molto oltre le Stagioni) resta magnifica e il suo nome gode di una certa qual familiarità anche tra i non appassionati.
Non è stato sempre così. La fama di Antonio Vivaldi — virtuoso di violino, compositore, persino impresario — declinò rapidamente fino alla sua morte in miseria nel 1741, ricordata oggi da una targa sulla Karlsplatz di Vienna: era un astro della musica e sparì per due secoli, tutt’al più riapparendo di rimbalzo attraverso le trascrizioni di Johann Sebastian Bach.
La riscoperta del suo vastissimo repertorio è invece storia recente. Un capitale corpus di manoscritti riapparve nel Monferrato nel 1926, lascito del marchese Marcello Durazzo ai salesiani che tuttavia contavano di venderli, ignorando il valore artistico immenso delle carte. Il patrimonio venne intercettato fortunosamente, e fortunatamente, dal musicologo Alberto Gentili e da Luigi Torri, direttore della Biblioteca nazionale di Torino, che riuscirono ad acquisirlo grazie alla generosità dell’agente di cambio Roberto Foà. Ma quei 97 volumi manoscritti non erano tutto. Non meno fortunoso, e fortunato, fu il recupero dell’altra metà del fondo, frutto di uno sciagurato smembramento. Giaceva a Genova, nel palazzo di un altro Durazzo, e alla fine venne acquisita grazie all’intervento di un altro mecenate, Filippo Giordano. Da qui la musica di Vivaldi riprese, poco a poco, ad abitare il mondo, mentre ancora ai nostri giorni le biblioteche d’Europa restituiscono pagine finora sconosciute del veneziano.
Raccontare quest’odissea è un atto di devozione e gratitudine, del quale si è fatto carico Federico Maria Sardelli, direttore d’orchestra, interprete delle pagine del «prete rosso» ingiustamente meno ascoltate (il repertorio sacro, le cantate, l’opera...). Sardelli ha trattato L’affare Vivaldi (Sellerio, pp. 304, e 14) come una partitura e le ha imposto un perentorio da capo . In forma di romanzo, è partito dalla fuga da Venezia di un Vivaldi indebitato, è risalito attraverso il passaggio di mano dei suoi manoscritti approdando al fascismo, col Duce che strazia il presunto violino del musicista.
E qui Sardelli carica di uno slancio civile l’omaggio a Vivaldi, che non compare mai, e a Gentili e Torri (ma anche a Foà e Giordano). Una prosa efficace e nitida rende onore agli scopritori e irride la volontà fascista di appropriarsi dell’italianissimo genio di Vivaldi, quasi subordinandone il valore musicale all’esaltazione nazionalistica. Sardelli dispensa sarcasmo contro le venali grettezze clericali, l’arroganza di un Ezra Pound che si erge a cultore vivaldiano e invece ignora l’abc del Barocco, non nasconde il modo in cui l’ebreo Gentili venne esautorato e costretto alla fuga (come Foà e Giordano) dalle leggi razziali. Sardelli ha attinto minuziosamente a fonti documentarie: «I fatti narrati sono, per la grandissima parte, realmente accaduti», chiosa.
Ma oltre la filologia c’è l’amore, del quale sono rivelatrici le partiture evocate: un Beatus vir , uno dei tre fenomenali concerti per flautino , quello col violino per eco in lontano ... Storia vera, verissima la commozione.
Corriere 30.3.15
L’altro Heimat
Alle origini dello spirito tedesco con il sogno del Nuovo Mondo
Reitz ambienta nell’800 l’ultimo capitolo della saga sulla famiglia Simon
di Paolo Mereghetti
Narratore nel senso pieno del termine, uno dei pochi capaci di usare il cinema come autentica materia romanzesca (penso al Kobayashi di La condizione umana o al Satyajit Ray del Mondo di Apu più che al Truffaut di Antoine Doinel), Edgar Reitz non si è accontentato di raccontare magistralmente le tante facce dell’anima tedesca del Novecento con le tre serie di Heimat (più di cinquanta ore di cinema, che vanno dal primo dopoguerra alla caduta del Muro e alla fine del secolo) ma ha sentito il bisogno di scavare più indietro nel tempo, nella metà dell’Ottocento, per ritrovare le radici della famiglia Simon e dell’idea di Heimat , terra d’origine, patria politica, ma anche luogo dove ci si sente a casa.
Sono nate così le quattro ore di L’altra Heimat – Cronaca di un sogno , presentate fuori concorso a Venezia nel 2013 e adesso arrivate anche nei nostri cinema: inizialmente per due giorni — domani e dopo — grazie allo sforzo di Ripley’s Film, Viggo e Nexo Digital, con la speranza che il successo che merita ne allunghi il periodo di proiezione nelle sale.
Lontanissimo dal ripetitivo meccanicismo della serialità televisiva, nei primi tre Heimat Reitz era partito dall’«esperienza vissuta» della gente comune per rielaborarla attraverso quel che si era depositato nella memoria collettiva e poi incrociarla con i punti di vista dei nuovi arrivati sulla scena della Storia. Senza preoccuparsi di seguire una qualche linearità narrativa ma alternando salti a dilatazioni temporali, inseguendo piste secondarie che poi abbandonava per seguirne altre.
Con L’altra Heimat - Cronaca di un sogno il regista, che firma la sceneggiatura con Gert Heidenreich, mantiene la stessa libertà inventiva ma costruisce un’opera più unitaria — e molto più breve — tutta «concentrata» sul sogno del giovane Jakob Simon (Jan Dieter Schneider), il figlio del povero fabbro (Rüdiger Kriese) di Schabbach che vorrebbe emigrare in Brasile.
Letterato in un paese di analfabeti (nella prima scena vediamo il padre furioso che gli strappa i libri e li butta per strada), sognatore in un mondo arido e poverissimo, Jakob sembra già avere le qualità e i difetti che faranno la caratteristica del suo futuro discendente Herman, il protagonista di Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza . Lo vedremo appassionarsi alle lingue degli indios dell’Amazzonia (vuole essere preparato nel caso li incontrasse), innamorarsi goffamente della più intraprendente Jettchen — cioè Antonietta — Niem (Antonia Bill), farsi contagiare dalle idee libertarie diffuse da Napoleone (il film inizia nel 1842, quando covano le prime spinte rivoluzionarie), allontanarsi dalla famiglia e dal più concreto fratello Gustav (Maximilian Scheidt) per tornarci ad accudire l’amata madre tubercolosa (Marita Breuer). Sempre col sogno del Nuovo Mondo in testa.
Ma la centralità del personaggio non impedisce al film di aprirsi sulla Storia di quegli anni, su una vita quotidiana fatta di povertà e fatica (i Quaranta furono anni di fame e carestie), raccontando le rigidità della religione (il fabbro ripudia la figlia Lena perché ha sposato un cattolico mentre loro sono tutti protestanti) o i diktat delle leggi (chi emigrava non poteva più tornare in patria) o ancora i flagelli delle malattie (commovente la scena in cui la vecchia madre ricorda i sei figli che gli sono morti; straziante il funerale collettivo dei sette bambini morti in una notte per l’epidemia di difterite) ma anche i primi segnali del progresso, con la complicata costruzione di una specie di trebbiatrice a vapore o la divertente partecipazione di Werner Herzog nei panni dello scienziato ed esploratore Alexandr von Humbolt.
Tutto questo Reitz (con il suo direttore della fotografia Gernot Roll) lo filma con una macchina digitale che sembra moltiplicare all’infinito le sfumature del bianco e nero, lasciando al colore solo rarissimi e mirati interventi. Unite al formato panoramico che ingigantisce il ruolo della natura (dove l’uomo rischia a volte di sparire), queste immagini restituiscono allo spettatore la forza di un affresco che va al di là della «semplice» ricostruzione storica per accentuare l’empatia con un mondo e un’esperienza che, pur lontani negli anni, si rivelano vicinissimi e affascinanti.
Corriere 30.3.15
Se la Storia diventa racconto tra guerra, dittatori e segreti
di Aldo Grasso
Finalmente un bel programma di storia! A 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Tommaso Cerno ha preparato una serie di quattro appuntamenti su quegli eventi, «D-Day. Giorni decisivi» (Rai3, venerdì, 21.10). La prima puntata, «Hitler e Mussolini. Appuntamento con la morte», è stata un circostanziato conto alla rovescia degli ultimi giorni dei due dittatori. Si volevano salvare? La fine a cui sono andati incontro era l’unica possibile?
Gli argomenti non sono nuovi, «La grande storia» di Luigi Bizzarri (alla cui scuderia il programma appartiene) li ha già affrontati, ma è il racconto che in tv fa la Storia: i rapporti fra i due dittatori, gli amori incestuosi di Hitler, il bunker di Berlino, l’arresto di Mussolini, l’oro di Dongo (che è come il tesoro della Quarta Armata: dove sono finiti? Chi se n’è giovato?).
Tommaso Cerno ha il piglio del conduttore moderno: disinvolto (salvo qualche sguardo in macchina di troppo per cercare indicazioni), preparato, dinamico. Come un metronomo (lo strumento per misurare il tempo è il simbolo stesso della trasmissione) ha saputo alternare con ritmo immagini e studio. Per narrare i retroscena di quei tragici avvenimenti ha poi scelto il migliore dei tutor possibili, Paolo Mieli, presente in tutti e quattro gli incontri.
Le domande più inquietanti le ha poste Gian Enrico Rusconi: se Hitler è considerato un paranoico dobbiamo pensare che l’intera Germania, nella sua esaltazione totale nei suoi confronti, sia stata anch’essa paranoica? A proposito di ospiti, un conto è invitare uno storico esperto, un altro è invitare Franca Leosini a disquisire sulle mutandine della Petacci. Mah!
Bella infine l’idea finale di «Fake», un tg tra storia controfattuale (un tempo si diceva ucronia) e mockumentary firmata da Gregorio Paolini.
Come sarebbe stata la tv se avessero vinto Hitler e Mussolini? Molto diversa da quella attuale? Difficile dirlo.
Corriere 30.3.15
Mura Aureliane, tornano alla luce
80 metri di cinta mai vista
Riemersi a San Giovanni, durante i lavori per la metro C, con torri, arcate e tracce di pitture medievali
di Edoardo Sassi
qui