mercoledì 1 aprile 2015

Repubblica 1.4.15
Omaggio del Parlamento ai 100 anni di Ingrao

ROMA «Una vita spesa per la democrazia, per la sinistra, per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e anche per la pace». Con queste parole, la presidente della Camera Laura Boldrini ha aperto ieri il convegno “Perché la politica” dedicato ai 100 anni di Pietro Ingrao (dirigente del Pci, per 42 anni deputato, dal 1976 al 1979 presidente della Camera). All’iniziativa ha voluto essere presente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Accanto a lui il suo predecessore Giorgio Napolitano. In sala molti esponenti politici e del mondo della cultura: tra gli altri Pier Luigi Bersani, Fausto Bertinotti, Nichi Vendola, Massimo D’Alema, Nicola Mancino, Rosa Russo Jervolino, Luciano Violante, Gustavo Zagrebelsky, il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari.

La Stampa 1.4.15
Opg ancora aperti. I direttori al ministro: impossibile chiudere
“Non sappiamo dove mandare gli internati”
di Paolo Russo

qui

La Stampa 1.4.15
L’eredità di Basaglia
di Marco Neirotti


Se una vecchia auto diffonde fumo nero non serve scriverci sopra «ecologica». In politica sì. Tre anni dopo il voto unanime in Commissione e due rinvii, ieri era il giorno della chiusura per gli Ospedali psichiatrici giudiziari, cui sostituire le Rems, Residenze per l’esecuzione di misure per la sicurezza, massimo venti posti. Ma le Rems, salvo in Emilia Romagna, nessuno le ha create. La Regione Lombardia ha risolto come con l’auto: togliere a Castiglione delle Stiviere (Mantova) la targhetta Opg e metterci quella di Rems. Che fosse la filosofia e non il nome a dover cambiare è dettaglio per pedanti.
Altre regioni hanno trovato o rincorrono – adesso? – strutture da riadattare. Forse perché stiamo parlando di circa 800 persone in tutt’Italia, che costano e non fanno business, stanno a cuore ai parenti e per gli altri sono spettri e minacce. Fossero 10.000 avremmo visto rivedere l’assistenza, nascere cooperative e fremere appalti.
I manicomi criminali sono stati luoghi di degrado, reclusori per assassini da brivido e discariche per malati solitari nel delirio e nel reato, sono stati scappatoie da condanne e detenzioni (Raffaele Cutolo evase da Aversa con l’esplosivo) ma pure «ergastoli bianchi», ricoveri senza scadenza, a volte per reati ridicoli. E si sono al contrario incontrati operatori colti e ricchi d’abnegazione, tesi in sforzi di cura e recupero, laboratori artistici al posto delle fasce di contenzione.
Quando il «libro bianco» del senatore Ignazio Marino ha illuminato antiche e tetre realtà, forse è esplosa l’urgenza di cancellare, più che la realtà, l’orrore e la vergogna. Siamo il paese del lampo d’emozione e della politica che la cavalca. Dopo l’omicidio stradale, se aumentassero i morti per cibi guasti nascerebbe l’omicidio alimentare.
Placata l’indignazione i più dei ricoverati aspetteranno dove sono, qualcuno andrà in comunità, qualcuno uscirà per meccanismi di conteggio della pena, qualcuno si perderà chissà dove e – speriamo di no – agiterà cronache e ondate emotive di ritorno. Tutto questo perché per ora si è dato un colpo di spugna al vento. Li terremo buoni riempiendoli di neurolettici? In un libro uscito in questi giorni, «Il manicomio chimico» (elèuthera) lo «psichiatra riluttante» Piero Cipriano spiega come alle mura di pietra e mattone si siano spesso sostituite mura di pastiglie e gocce prescritte fino a cronicizzare la malattia come faceva l’istituzione secondo Franco Basaglia.
Basaglia – che si sia o no d’accordo con lui – non combatteva i manicomi perché puzzavano o ci facevano fare brutta figura, li combatteva perché rinchiudevano uomini nella malattia. E per questo disegnava una rete, dava al concetto di «territorio» un senso di vita non espulsa. L’applicazione frettolosa e sommaria della legge ha azzoppato il cammino, ha lasciato vittime. E adesso il vuoto si dilata di nuovo. Si cancella per legge l’ultimo e più triste residuo dell’istituzione, ma si fa cambiandogli nome o cercando all’ultimo edifici che la fretta rischia di far manicomietti. Basaglia il giorno del finto addio totale ai manicomi vedrebbe dolenti pacchi in un deposito in attesa di un indirizzo dove si respiri dignità. Un indirizzo magari con le porte chiuse, ma orientate verso un futuro.

Corriere 1.4.15
I 700 malati psichici in attesa di destinazione
I ritardi nella chiusura dei sei ospedali giudiziari
Commissariato il Veneto e polemiche sulla sicurezza
di Antonio Castaldo e Andrea Pasqualetto

con un video qui

Corriere 1.4.15
Opg dopo il 31 marzo, a Bologna diventa un “resort a 5 stelle”
di Michela Trigari

qui

Corriere 1.4.15
I dati Istat per contrastare la narrativa del premier
di Massimo Franco


La compattezza con la quale la Cgil e le sinistre, ma anche il centrodestra attaccano Matteo Renzi sui dati della disoccupazione lascia capire quale sarà il fronte dello scontro con il governo: quello sociale. I numeri dell’Istituto di statistica, che danno una ripresa ancora in bilico, diventano il modo per contrastare la narrativa di Palazzo Chigi su una crisi ormai quasi alle spalle. Rispetto a gennaio, a febbraio la situazione in effetti è peggiorata di nuovo; e l’Italia è in deflazione. E il tentativo degli avversari è quello di accreditare «il bluff» renziano; di negare che le misure del governo stiano facendo ripartire il mercato del lavoro.
Si tratta di una scommessa sul fallimento della politica economica dell’esecutivo. E risente delle tensioni accumulate nelle ultime settimane su altri temi, come le riforme istituzionali e il ruolo del sindacato. Per questo la leader sindacale Susanna Camusso si ritrova a condividere gli attacchi con compagni di strada come il Movimento 5 Stelle ma anche Forza Italia. La tesi della segretaria della Cgil è che sia stato «smentito il nauseante balletto dei dati sull’occupazione». L’offensiva mira a contrastare il piglio col quale Renzi dice al New York Times di non «potere aspettare per i vecchi problemi del passato». La sua marcia continua senza incontrare veri avversari. E sembra puntare alla conquista di una centralità che lo sgretolamento progressivo di FI e la deriva estremista della Lega favoriscono. C’è un passato, però, che lo insegue suo malgrado. E si impone all’attenzione non solo di capo del governo ma soprattutto di segretario del Pd. Le inchieste della magistratura che toccano esponenti locali del partito sono un richiamo alla distanza tuttora vistosa tra il cambiamento che Renzi invoca e dice di praticare, e la realtà prosaica delle nomenklature locali.
A due mesi dalle elezioni regionali, il tema è destinato a lievitare ed a chiedergli scelte più nette di quelle compiute finora. Da Roma alla Campania, e oltre, il Pd offre un volto controverso; né bastano i commissariamenti per cancellare la sensazione di una situazione lasciata marcire per anni. È indicativo che ieri, riferendosi alle indagini in corso, il presidente del Senato, Pietro Grasso, abbia parlato di «reti opache di relazioni che uniscono mafiosi e criminali a politici, imprenditori, professionisti, funzionari pubblici».
Di certo, per Palazzo Chigi è una sfida doppia. Deve rassicurare il Pd ed evitare di assecondare processi sommari; ma in parallelo deve dare risposte convincenti all’opinione pubblica e alla magistratura. Saranno anche queste considerazioni a determinare la scelta del prossimo ministro delle Infrastrutture al posto di Maurizio Lupi, l’esponente del Ncd costretto alle dimissioni due settimane fa. Rimane da capire se il premier affiderà ad un esponente del Pd un incarico ormai anche simbolicamente strategico.

il Sole 1.4.15
A febbraio 44mila posti in meno
Sono quasi tutte donne
La disoccupazione sale a quota 12,7%, tra gli under 25 si arriva al 42,6%Solo trasformazioni da tempo determinato a indeterminato
di Claudio Tucci

Nei primi due mesi dell’anno, secondo un’anticipazione delle comunicazioni obbligatorie di qualche giorno fa, il governo Renzi ha annunciato, con commenti e tweet positivi, 79mila contratti a tempo indeterminato in più (nel confronto con gennaio e febbraio del 2014). Il dato teneva conto delle sole “attivazioni”, ed era limitato a un bimestre (normalmente i rapporti sulle comunicazioni obbligatorie vengono pubblicati trimestralmente). Su pressing del Sole 24 Ore l’Esecutivo ha fornito anche i dati sulle “cessazioni” dei contratti stabili, che sempre nei primi due mesi dell’anno sono risultate anch’esse aumentate, facendo così scendere il saldo dei contratti a tempo indeterminato a quota 45.703. Un risultato, certamente, positivo. Ma ieri l’Istat ci ha detto che a febbraio il numero di occupati è calato di 44mila unità (rispetto a gennaio) e pubblicando anche le “medie mobili mensili” su tre mesi - riferite cioè a dicembre 2014-febbraio 2015 - ha aggiunto che l’occupazione è praticamente rimasta stabile.
Cosa sta accadendo, quindi, al mercato del lavoro? Che probabilmente le segnalazioni di maggiori assunzioni da parte delle imprese hanno riguardato soprattutto trasformazioni di contratti a tempo determinato, con un effetto, quindi, praticamente nullo sul numero degli occupati netti.
Una spia di questo fenomeno la si può avere guardando i dati sui contratti attivati, forniti dal ministero del Lavoro. Vero è che qui si confrontano gennaio e febbraio 2015 con gennaio e febbraio 2014 (mentre i dati Istat confrontano febbraio con il mese precedente). Ma una prima tendenza sembra comunque delinearsi: a gennaio-febbraio 2015 le cessazioni di contratti a termine sono state 491.090. Nello stesso periodo del 2014 ci si fermava a 436.773. Si registra quindi un incremento consistente di mancati “rinnovi” di rapporti a tempo pari a 54.317 contratti, che quindi potrebbero essere stati trasformati in contratti a tempo indeterminato, che dal 1° gennaio, godono di un forte incentivo economico previsto dalla legge di Stabilità 2015 (una decontribuzione fino a 8.060 euro l’anno per tre anni). Ciò tuttavia sembra non aver compromesso le attivazioni di contratti a termine: nel primo bimestre 2015 sono stati 847.487 contro le 773.585 dell’analogo periodo 2014, e questo non sorprende visto che il decreto Poletti di marzo 2014, convertito in legge a maggio 2014, ha, di fatto, liberalizzato questo contratto eliminando la causale (la specificazione del motivo per cui si appone un termine al rapporto) per tutti e 36 i mesi di durata, rendendolo pertanto più sicuro e appetibile per le aziende.
Quello che emerge, pertanto, e con tutte le cautele del caso, sembra essere un effetto “stabilizzazione” (più che nuova creazione di occupazione); e rispecchia peraltro quello che era legittimo attendersi (annunci troppo enfatici del Governo, a parte). Per questo serve prudenza nei commenti, ed è necessario attendere che i dati si consolidino. Certo, sarebbe forse opportuno, anche, che ministero del Lavoro, Inps, Istat - e ogni altro soggetto istituzionale che fornisce numeri - si coordinino per analizzare congiuntamente i dati amministrativi e di indagine e fornire così un quadro integrato (e più chiaro) sull’andamento del mercato del lavoro. Per esempio, diversi esperti hanno evidenziato un andamento poco comprensibile dell’occupazione negli ultimi tre mesi del 2014, che è data in aumento secondo l’Istat, mentre il Pil è rimasto in terreno negativo. Ciò può voler dire che la produttività è calante.
Il punto «è che non possiamo aspettarci miracoli con il Pil fermo al palo - osserva l’economista del lavoro, Carlo Dell’Aringa -. Bisogna avere pazienza e rilanciare gli investimenti, rimettendo in moto l’economia».
Il dato di febbraio dell’Istat sull’occupazione (in diminuzione) peraltro sconta pure il fatto che non è ancora entrato in vigore il contratto a tutele crescenti, che riscrive l’articolo 18 per i neo-assunti (è operativo dal 7 marzo). È probabile che il mix tra incentivi e regole più semplici sul licenziamento spingano su i contratti stabili. I dati del ministero del Lavoro indicano poi una nuova contrazione dell’apprendistato, che patisce gli effetti di una forte spinta al tempo indeterminato. Ecco perché serve rendere più appetibile l’apprendistato che rimane l’unico contratto “formativo” di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Discorso a parte merita il dato sulla contrazione dei contratti di collaborazione. Qui a pesare è l’incertezza normativa, visto che il Dlgs di riordino dei contratti, attuativo del Jobs act, è ancora nel cassetto (anche qui dopo ripetute dichiarazioni, e conferenze stampa, sull’imminente arrivo di una stretta su cococo e cocopro).

il Fatto 1.4.15
La bufala dei nuovi posti di lavoro
L’Istat, implacabile, smonta gli ottimismi del premier, del ministro Poletti e dei giornali amici
A gennaio - 44 mila occupati e + 23mila licenziati
Poletti costretto a smentirsi. Si era scordato i contratti cancellati...
di Carlo Di Foggia


È la nemesi dei numeri. Cavalcare dati singoli e incompleti sul lavoro si sta rivelando un gioco al massacro per il governo, costretto in poche ore a una pesante retromarcia, aggravata di nuovo dall'Istat.
ANDIAMO con ordine. Ieri l'Istituto di statistica ha diffuso i dati mensili sull'occupazione: nel solo mese di febbraio si registrano 44 mila occupati in meno (quasi tutte donne) e 23 mila disoccupati in più (+0,7 per cento), con il tasso di disoccupazione che sale al 12,7 per cento, tornando ai liveli del dicembre scorso. Rispetto a febbraio 2014 – primo mese dell'era di Matteo Renzi a Palazzo Chigi – l’occupazione è cresciuta dello 0,4 per cento (+93 mila), mentre la disoccupazione ha fatto un forte balzo in avanti del 2,1 per cento: significa 67 mila posti di lavoro persi. Solo poche ore prima, il Sole 24 Ore riportava anche la retromarcia del ministro del Lavoro Giuliano Poletti: dopo aver sbandierato pochi giorni fa i “79 mila contratti stabili in più siglati tra gennaio e febbraio”, Poletti si è deciso a comunicare al quotidiano della Confindustria anche quelli “cessati”, ridimensionando così il loro numero a 45.703, buona parte dei quali, come si temeva, sono stabilizzazioni di contratti precari e non nuovi posti di lavoro. È la certificazione di una corsa ad accaparrarsi l'incentivi stanziati dal governo con la legge di Stabilità: la decontribuzione fino a un massimo di 8.060 euro, che ha provocato una valanga di richieste all'Inps e potrebbe portare nel giro di pochi mesi a esaurire le risorse stanziate (1,9 miliardi di euro nel 2015).
Un doppio colpo pesante, che raffredda non poco gli entusiasmi del governo che nelle ultime settimane ha provato a magnificare gli effetti del jobs act limitandosi sempre al bicchiere mezzo pieno e diffondendo dati positivi per mascherare quelli negativi. Venerdì scorso, per dire, Poletti aveva comunicato le anticipazioni sui contratti siglati (“nei primi due mesi del 2015 si registrano 155 mila contratti in più rispetto al 2014”) per coprire il tonfo del fatturato dell'industria registrato a gennaio (-1,6 per cento rispetto a dicembre). Sarà un caso, ma da ieri l'Istat ha deciso di comunicare anche la media mensile rispetto ai tre mesi precedenti “per offrire ai lettori andamenti che risentono meno della variabilità che si osserva a breve termine”. Tradotto: cerchiamo di fare un po' di chiarezza vista la confusione regnante. Risultato? “Nel trimestre, l'occupazione è rimasta sostanzialmente stabile”, cioè non è cresciuta, a dispetto gli annunci. Se non è una risposta al governo, poco ci manca. Tanto più che pochi minuti dopo, l'Istituto di statistica ha diramato alle agenzie una curiosa precisazione, quasi a compensare lo sgarbo: “A calare è solo l'occupazione femminile”. Che peraltro langue da oltre due anni.
AL DI LÀ dell'Istat, però, sono proprio i numeri resi noti ieri da Poletti a fare chiarezza. Dai dati, infatti, emerge che l'aumento dei contratti a tempo indeterminato di gennaio e febbraio è dovuto essenzialmente alle stabilizzazioni di rapporti di lavoro già in essere, e a un “effetto rimbalzo”, visto che negli ultimi tre mesi del 2014 le attivazioni avevano subito un brusco calo (passando da circa 117 mila a poco più di 88 mila). In pratica, le aziende hanno aspettato il nuovo anno per assumere, proprio per accaparrarsi i generosi incentivi previsti a partire da gennaio. Non solo. Nei primi due mesi del 2015 insieme alle “attivazioni”, sono cresciute anche le “cessazioni” di contratti stabili: dai 243 mila licenziamenti del 2014, ai 257 mila di gennaio-febbraio di quest'anno. Era già successo nel dicembre scorso, quando Poletti venne smentito a stretto giro dal suo dicastero: aveva anticipato i dati delle comunicazioni obbligatorie del terzo trimestre 2014, da cui si evinceva “un incremento di 400 mila unità”, guardandosi bene dallo specificare che quelli “cancellati” erano però 483 mila. Ieri, seppure in misura minore, è avvenuta la stessa cosa. Il ministero, poi, non ha voluto diffondere anche i dati di marzo 2014. Non è un dettaglio da poco: stando ai numeri, in quel mese le attivazioni “stabili” dovrebbero essere state almeno 200 mila, e questo ridimensiona non poco le uscite di Poletti. Se venisse considerato l'intero trimestre, infatti, probabilmente i “79 mila contratti a tempo indeterminato in più rispetto al 2014” rivendicati dal ministro del Lavoro sarebbero molti meno. Tanto più che l'altra faccia della medaglia è rappresentata dall'aumento dei contratti precari (circa 54 mila unità), dal calo di quelli di apprendistato (da 34 mila del 2014 ai 33 mila di gennaio-febbraio 2015, mentre quelli “cancellati” sono più di tremila), su cui il governo aveva puntato molto: dovevano essere il cuore della “Garanzia giovani” (il cui flop è ormai conclamato) e invece vengono divorati dalla corsa agli incentivi.
IERI, POLETTI ha spiegato che questi numeri “non smentiscono il consolidamento della ripresa”. Secondo la leader della Cgil Susanna Camusso invece, “in queste settimane abbiamo assistito a una nauseante propaganda su dati parziali e inconsistenti, ma il lavoro non c’è”. Con fatturato e produzione industriale fermi, non potrebbe essere altrimenti.

La Stampa 1.4.15
Ma i giovani rischiano di restare fuori dal nuovo contratto a tutele crescenti
Le imprese preferiscono lavoratori già esperti. E molti ragazzi scelgono la partita Iva
di Walter Passerini


I messaggi sono contrastanti, da elettrocardiogramma impazzito. Oggi i punti fermi Istat sono: il 12,7% di disoccupazione generale, il 42,6% di disoccupazione giovanile. Dovremo rassegnarci: leggere ogni mese i dati ci rende prigionieri delle montagne russe, costringendoci a emozioni e colpi di scena a ritmo serrato.
Solo lunedì il governo celebrava 79mila assunzioni a gennaio e febbraio 2015, ma ieri l’Istat ha precisato che sono dati non confrontabili perché «sono di diversa natura e non necessariamente significano nuovi occupati; possono anche essere transizioni dal tempo determinato e altri tipi di contratti». La lotteria dei numeri crea sconcerto e offusca le tendenze. A febbraio sono calati di 44 mila unità gli occupati, quasi tutte donne, rispetto a gennaio, ma a preoccupare è la disoccupazione giovanile salita di 1,3 punti su gennaio, proprio nel bimestre in cui trionfano gli incentivi della legge di Stabilità (sconto di 8060 euro l’anno per assunto, 24 mila euro nel triennio). Evidentemente il doping da solo non basta, dobbiamo attendere il boom dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti partito il 7 marzo.
La spia delle difficoltà
È la questione giovanile la spia e la metafora delle difficoltà, anche perché il mitico e miracoloso contratto per neo-assunti non è detto che darà lavoro soprattutto ai più giovani. Intanto a febbraio i giovani occupati sono sempre pochi (868 mila tra 15-24 anni), 40 mila in meno rispetto all’anno precedente e 34 mila in meno su gennaio. Il tasso di disoccupazione è al 43%, mentre l’occupazione scende al 14,6% (solo un giovane su sette lavora). E nel contempo salgono gli inattivi a 4,4 milioni, aumentando di 35 mila unità in un anno e di 20 mila in un mese (dentro ci sono 2 milioni di Neet). Ma le fotografie non servono, ci vuole la macchina da presa che colga il movimento e la nascita di un nuovo dualismo tra tutelati e non. Ora le attese sono sul contratto a tutele crescenti e senza l’articolo 18, che metterà il turbo anche grazie agli sconti contributivi. Un anno fa aveva fatto terra bruciata il contratto a tempo determinato, reso più facile e passepartout di tutte le assunzioni: tre anni di flessibilità senza causale.
Non a caso il contratto a termine ha cannibalizzato gli altri contratti (sette su dieci). Ora il nuovo contratto lo sostituirà? Diventerà la formula regina? Forse, ma i giovani potrebbero venire emarginati. L’ipotesi viene ventilata dal mondo delle imprese che, cercando di trarre il massimo vantaggio dalle novità, faranno sì assunzioni con il nuovo contratto superscontato, ma sceglieranno bene le persone da assumere con grande selettività.
Problema di competitività
Il problema delle aziende è oggi la concorrenza e la competitività: otterranno più produttività facendo rientrare in parte i cassintegrati e assumendo risorse esterne più esperte che giovani, più competenti che da formare. La fretta giocherà il resto, nella rincorsa al massimo di produttività. La selezione segmenterà e riposizionerà il mercato: a farne le spese potrebbero essere i giovani, per i quali si profila un futuro di precarietà, viste le troppe formule che non sono state disboscate. Si ripropone così, nonostante il nuovo contratto, quel dualismo del mercato del lavoro che è fonte di ambiguità. Le evidenze sono la spinosa stabilizzazione dei cocopro, ma anche la ripresa dei contratti in somministrazione (ex interinali, crescono al 9% e registrano 300mila occupati al mese, in gran parte giovani), la stabilità dell’apprendistato (fortemente incentivato), l’aumento di stage e tirocini (spesso fuorilegge), job on call e voucher. Ma anche l’aumento delle partite Iva giovanili dovuta a ragioni fiscali (regime dei minimi), che fa sì che a oggi 700mila under 35enni abbiano scelto la via dell’auto-impresa.
Tra le strategie giovanili alternative c’è così il passaggio dal lavoro dipendente al lavoro autonomo. Insieme al trasferimento all’estero (l’anno scorso ha coinvolto 100mila italiani di cui la metà sotto i 40 anni): scelta più matura e consapevole, sempre meno fuga da emarginati. Mentre grida vendetta il flop della Garanzia giovani (1,5 miliardi di finanziamento), icona d’impotenza e dagherrotipo dell’immobilismo dell’Italia che fu.

il Fatto 1.4.15
Chi controlla il telefono di Renzi
Il cellulare del premier è intestato alla Fondazione Open, creata con Marco Carrai (quello della casa di Firenze), associazione di cui si conoscono solo in parte i finanziatori e che nel 2013 spese 78 mila euro in telefonia
di Davide Vecchi


Il telefono cellulare in uso a Matteo Renzi è intestato alla Fondazione Open. L’ente che ha finanziato la sua ascesa politica dal 2012 ed è oggi guidato dall’avvocato e consigliere di Enel Alberto Bianchi, assieme al fidato fundraiser Marco Carrai, al ministro Maria Elena Boschi e al sottosegretario Luca Lotti. Renzi usa ancora oggi quel telefono, nonostante da più di un anno sia presidente del Consiglio e abbia a disposizione anche un altro cellulare fornitogli dall’Aisi (Agenzia per le informazioni e sicurezza interna, l’ex Sisde) e potrebbe utilizzare un telefonino di Palazzo Chigi. Invece, come conferma lui stesso al Fatto Quotidiano, il suo principale numero è rimasto quello della Open. Numero che è finito intercettato mentre il premier conversava con il generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi. I due si conoscono da tempo. Adinolfi ha guidato il comando interregionale del centro Italia con sede a Firenze fino al 18 marzo scorso, negli anni in cui Renzi era sindaco del capoluogo toscano.
COSÌ, PROPRIO mentre Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, invoca una legge che imponga la massima trasparenza alle fondazioni riconducibili a politici, emerge che il cellulare del premier è pagato da una fondazione della quale solo in parte si conoscono i finanziatori. Dopo la casa fiorentina pagata per tre anni da Carrai all’allora sindaco, chi copre oggi le spese telefoniche di Renzi? E soprattutto: è corretto che il presidente del Consiglio ricorra a un telefono che sfugge alla anche più minima trasparenza di Palazzo Chigi? Uno dei temi più battuti durante le campagne elettorali negli ultimi anni da Renzi è proprio la necessità di rendere i costi dell’attività politica controllabile da parte dei cittadini. E con estrema frequenza l’esempio portato dal premier è quello degli Stati Uniti. Ma i fatti non aiutano Renzi. Nelle ultime settimane proprio oltreoceano è diventato un caso l’uso della posta elettronica privata da parte di Hillary Clinton quando era segretario di Stato. Il New York Times l’ha battezzato “email-gate” e l’ex first lady è stata costretta a un pubblico mea culpa: “Avrei fatto meglio a non usare il mio account personale”, ha dichiarato. Motivo di tanto scandalo? Per la legge statunitense i rappresentanti governativi non possono nascondere nulla al dipartimento di Stato. Clinton ha consegnato 55 mila email che ora saranno selezionate e tutte quelle ritenute di interesse pubblico saranno pubblicate on line. Leggibili a tutti. Di interesse pubblico: non serve un’indagine della magistratura. Un altro mondo. L’abisso tra il sistema Renzi e il suo modello americano era già emerso quando pochi mesi fa si scoprì per puro caso che il premier era solito usare l'elicottero di Stato senza darne comunicazione. Ebbene: nel sito della Casa Bianca l’agenda di Obama è pubblica e viene aggiornata in tempo reale sugli spostamenti, i mezzi usati e i costi sostenuti dall'amministrazione per Mr President.
IN ITALIA è diverso. Le uniche informazioni che si hanno sul telefonino che usa il premier si trovano nel bilancio della fondazione Open. Solo un dato, in realtà, è rintracciabile: l’ammontare del costo sostenuto nel corso del 2013 per la telefonia, fissa e mobile. Il totale è 78 mila euro, più che quadruplicato rispetto all’anno precedente quando si fermò a 19 mila euro. Non è dato sapere altro. Solamente la magistratura potrebbe, nel caso di una indagine sulle fondazioni riconducibili all’ex rottamatore (che sono quattro, dal 2007: Link, Festina Lente, Big Bang e Open), acquisire informazioni sulla contabilità dettagliata della cassaforte renziana. Dati a disposizione anche di Bianchi e Carrai, uomini di fiducia di Renzi, per carità, ma le informazioni che riguardano il presidente del Consiglio possono essere in mani esclusive di due uomini estranei allo Stato e non invece allo Stato stesso?

il Fatto 1.4.15
Matteo e la ditta
di Antonio Padellaro


Trasecolava divertito Andrea Scanzi (e noi con lui), l’altra sera a Piazza Pulita, quando il giovane direttore del Foglio esprimeva sincero dolore e arrossiva di vergogna per i giornali costretti a pubblicare quelle intercettazioni brutte brutte dove si spettegola, signora mia, di Rolex d’oro, abiti sartoriali, libri un tanto al chilo e vini un tanto al litro. Eh sì, il giornalismo è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo, se non fosse che ogni tanto quelle conversazioni possono assumere un valore per così dire pedagogico e socialmente utile. Pensiamo, per esempio, che adesso Lupi senior ci penserà bene prima di consentire a Lupi junior di scartare qualsiasi prezioso pacchetto che non sia stato prima pagato alla cassa. E forse anche D’Alema ora si chiederà se fosse proprio necessario intrattenere rapporti mercantili con personaggi che avrebbero potuto fraintendere (come hanno frainteso) l’acquisto di duemila bottiglie di Pinot come un favore reso a un potente, e a buon rendere. Ma anche Matteo Renzi dovrebbe darsi una regolata.
Visto che non è bellissimo, come ci racconta Marco Lillo, che si faccia pagare telefonino e relative utenze dalla fondazione alla quale fa riferimento anche quel Marco Carrai che saldava anche l’affitto della casa fiorentina dell’allora sindaco. D’accordo, parliamo di comportamenti non penalmente rilevanti, ma se quelle telefonate fossero state bruciate o se i cattivi giornali avessero chiuso occhi e orecchie, il giovane direttore del Foglio non avrebbe avuto motivo di arrossire e Lupi sarebbe ancora ministro. Ora, c’è chi obietta che, di fronte alle magnifiche sorti e progressive del renzismo, impegnato nella scomposizione del vecchio e fatiscente sistema di potere e nella ricomposizione nel nuovo e fiammante partito della nazione, qualche detrito resta sempre. E, del resto, quando si pialla cadono trucioli. Ma proverbio per proverbio il rischio che il morto afferri il vivo e lo trascini giù con sé non è profezia da gufi, ma minaccioso punto interrogativo. Poiché alla prova dei fatti nella sua impetuosa corsa verso il sol dell’avvenire, Renzi non ha rottamato un bel niente. Se si eccettua qualche anziano ex leader che si è liquidato con le proprie mani, per non parlare della guerriglia ingaggiata con la sinistra interna che così raccogliticcia e imbelle ricorda lo spot “Ti piace vincere facile”. Il problema è se il nuovo partito della nazione viene edificato sulle stesse fondamenta che per mezzo secolo almeno hanno garantito vita e prosperità all’antico partito della sinistra con le sue varie sigle e articolazioni. Lo stesso esigente apparato delle coop rosse che tengono insieme dodici milioni di soci, un milione di occupati e 148 miliardi di fatturato. Le stesse fameliche lobby, centrifughe che ingoiano appalti e sputano tangenti e favori. La stessa rete di potentati locali, soprattutto al Sud (dall’inamovibile campano De Luca all’imbarazzante siciliano Crisafulli) che non fanno nulla per nulla. Macchine di voti che perfino il Corriere della Sera definisce “verminai in cui è impossibile mettere le mani senza sporcarsi: e Renzi non ama sporcarsi”. Ma che il premier ha comunque arruolato e inglobato senza tante storie. Come il profetico sindaco di Ischia Ferrandino, che diceva “qui finiamo tutti in galera”, e che una notte si addormentò berlusconiano per poi svegliarsi renziano. Ed è sempre lo stesso malcostume trasversale che 20 anni fa nascondeva le banconote nel water e oggi nel passeggino del pupo, “tanto chi cazzo lo controlla”. Ma questa volta, Renzi non potrà come Craxi parlare di poche mele marce visto che dall’Expo al Mose, da Mafia Capitale a Ischia, è l’intero cesto Pd a essere inquinabile. E se poi i vermi Renzi se li trova in anticamera, che fa: chiama Cantone?

Corriere 1.4.15
Partiti e correnti
La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è
di Sergio Rizzo

qui

La Stampa 1.4.15
Tangenti a Ischia
il giudice pronto a sentire D’Alema
E l’Anticorruzione di Cantone chiede le carte
di Guido Ruotolo

E adesso l’Anticorruzione di Raffaele Cantone aspetta le carte della Procura di Napoli, per capire se ci sono appalti che devono essere commissariati. Sotto osservazione, gli atti delle indagini sulla coop Cpl Concordia e le opere di metanizzazione di Ischia, che hanno portato l’altro giorno all’arresto del sindaco, Giosi Ferrandino, e dei vertici della cooperativa modenese. Ma c’è un filone dell’inchiesta dei pm napoletani che riguarda le fondazioni. La tesi, fatta propria dal gip Amelia Primavera, è questa: «I rapporti della cooperativa con gli esponenti politici sovente sono schermati attraverso triangolazioni con fondazioni varie e di varia natura». E, dunque, bisogna approfondire queste triangolazioni.
Il ruolo di Italiani-Europei
Intanto, sulla graticola è finito Massimo D’Alema con la sua Fondazione Italiani-Europei. La Procura potrebbe decidere di sentirlo come «testimone d’interesse», «per verificare la natura dei rapporti della coop Cpl e la politica». Come testimone, non come indagato. E non perchè la cooperativa modenese ha versato tre contributi annuali di 20 mila euro alla fondazione di D’Alema. E neppure perché, sempre la cooperativa, su richiesta esplicita dello stesso D’Alema (secondo Francesco Simone, della coop) ha comprato mille bottiglie di spumante prodotto dalla azienda della moglie dell’ex presidente del Consiglio nel 2013, regolarmente fatturate per 14.600 euro. E l’anno seguente, mille bottiglie di vino rosso per 7.900. E neppure perché la stessa cooperativa ha comprato a prezzo intero e non scontato cinquecento copie del libro dell’ex premier «Non solo euro», denaro regolarmente registrato in uscita (l’8 luglio) per 4.800 euro. Nulla di illecito, né le quote versate alla Fondazione nè l’acquisto di libri e vino. Il problema, per la Procura di Napoli, è approfondire una frase pronunciata da Francesco Simone, responsabile relazioni esterne della cooperativa - tra gli arrestati dell’altro giorno - mentre discute con Nicola Verrino, responsabile commerciale della stessa impresa modenese: «D’Alema mette le mani nella m.. come ha già fatto con noi. Ci ha dato delle cose».ù
La frase sospetta
Cosa intendeva dire, Simone, con quella frase? Cosa avrebbe garantito D’Alema alla cooperativa? E se l’ha fatto, era pubblico ufficiale o semplice cittadino? Insomma: cosa avrebbe fatto? Domande che oggi non riescono a trovare risposta. ITra domani e dopodomani il gip chiederà senz’altro ai due indagati finiti in carcere, Simone e Verrini, negli interrogatori di garanzia, di chiarire il significato dell’affermazione.
Si può solo immaginare che i pm abbiano delle carte coperte, ritenendo di poter rendere pubblica l’intercettazione nella quale si parla di D’Alema e i riscontri sulle quote associative versate dalla coop alla Fondazione e sull’acquisto di vino e libri. Perché la procura non ha stralciato eventualmente la posizione di D’Alema sentendolo come persona informata dei fatti ed inviando poi gli atti a Roma? A maggior ragione gli inquirenti avrebbero dovuto seguire questa strada perchè nella misura di custodia cautelare si fa riferimento a un’altra fondazione, (il nome è coperto da omissis) e i politici ad essa legata. «Investire in Italiani-Europei», dice Simone a Verrini. Scrive il gip: «Il termine investire utilizzato dal Simone rende, più che mai, l’idea del l’approccio del Simone della Cpl-Concordia rispetto a tale mondo. In un passaggio successivo Simone proferisce, in riferimento sempre alla quota associativa da pagare a un’altra fondazione (della quale, per ragioni investigative, si omette la denominazione), “dobbiamo pagarlo perchè ci porta questo e chiediamo questo, no venti ma anche duecento”».
L’ufficio da bonificare
In attesa che gli scenari ipotizzati prendano forma, negli atti dell’inchiesta sulla coop e il sindaco di Ischia per corruzione, turbativa d’asta e riciclaggio c’è anche una fuga di notizie riservate: gli indagati si scoprono intercettati. Francesco Simone dice a Nicola Verrini di temere orecchie indiscrete e di aver chiesto a un generale della Finanza amico di far bonificare gli uffici della coop: «Il mio iPhone 5 ha delle reazioni strane, come se mi scansionassero tutto, email e compagnia bella».
E adesso l’Anticorruzione di Raffaele Cantone aspetta le carte della Procura di Napoli, per capire se ci sono appalti che devono essere commissariati. Sotto osservazione, gli atti delle indagini sulla coop Cpl Concordia e le opere di metanizzazione di Ischia, che hanno portato l’altro giorno all’arresto del sindaco, Giosi Ferrandino, e dei vertici della cooperativa modenese. Ma c’è un filone dell’inchiesta dei pm napoletani che riguarda le fondazioni. La tesi, fatta propria dal gip Amelia Primavera, è questa: «I rapporti della cooperativa con gli esponenti politici sovente sono schermati attraverso triangolazioni con fondazioni varie e di varia natura». E, dunque, bisogna approfondire queste triangolazioni.
Il ruolo di Italiani-Europei
Intanto, sulla graticola è finito Massimo D’Alema con la sua Fondazione Italiani-Europei. La Procura potrebbe decidere di sentirlo come «testimone d’interesse», «per verificare la natura dei rapporti della coop Cpl e la politica». Come testimone, non come indagato. E non perchè la cooperativa modenese ha versato tre contributi annuali di 20 mila euro alla fondazione di D’Alema. E neppure perché, sempre la cooperativa, su richiesta esplicita dello stesso D’Alema (secondo Francesco Simone, della coop) ha comprato mille bottiglie di spumante prodotto dalla azienda della moglie dell’ex presidente del Consiglio nel 2013, regolarmente fatturate per 14.600 euro. E l’anno seguente, mille bottiglie di vino rosso per 7.900. E neppure perché la stessa cooperativa ha comprato a prezzo intero e non scontato cinquecento copie del libro dell’ex premier «Non solo euro», denaro regolarmente registrato in uscita (l’8 luglio) per 4.800 euro. Nulla di illecito, né le quote versate alla Fondazione nè l’acquisto di libri e vino. Il problema, per la Procura di Napoli, è approfondire una frase pronunciata da Francesco Simone, responsabile relazioni esterne della cooperativa - tra gli arrestati dell’altro giorno - mentre discute con Nicola Verrino, responsabile commerciale della stessa impresa modenese: «D’Alema mette le mani nella m.. come ha già fatto con noi. Ci ha dato delle cose».ù
La frase sospetta
Cosa intendeva dire, Simone, con quella frase? Cosa avrebbe garantito D’Alema alla cooperativa? E se l’ha fatto, era pubblico ufficiale o semplice cittadino? Insomma: cosa avrebbe fatto? Domande che oggi non riescono a trovare risposta. ITra domani e dopodomani il gip chiederà senz’altro ai due indagati finiti in carcere, Simone e Verrini, negli interrogatori di garanzia, di chiarire il significato dell’affermazione.

il Fatto 1.4.15
Pd, indagine su un partito al di sotto di ogni sospetto
Altro che questione morale. Non solo Ischia
Da Nord a Sud è record di inquisiti
Mafia Capitale, Corruzione, disastri ambientali e spese pazze
di Giampiero Calapà, Andrea Giambartolomei, Vincenzo Iurillo, Giuseppe Lo Bianco, Davide Milosa e Ferruccio Sansa


Il Partito democratico di epoca renziana è come non mai al centro di vicende giudiziarie da nord a sud, isole minori comprese (dopo il caso Ischia). Lo scandalo più grosso è sicuramente quello di Mafia Capitale, per cui in Campidoglio risultano indagati nell’inchiesta “Mondo di mezzo” Mirko Coratti e Daniele Ozzimo (il primo dimessosi da presidente dell’Assemblea capitolina a inizio dicembre, entrambi autosospesi dal partito). Il vicesegretario nazionale, Lorenzo Guerini, pochi giorni prima della retata del 2 dicembre, cercò di convincere, senza riuscirci, Ignazio Marino a nominare proprio Coratti vicesindaco. Si è autosospeso anche il consigliere regionale Eugenio Patanè. In Regione Maurizio Venafro, coinvolto nell’inchiesta, ha lasciato l’incarico di capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti. Vicecapo di gabinetto della giunta Veltroni, in seguito capo della polizia provinciale, era Luca Odevaine, agli arresti, accusato di corruzione, sempre nell’inchiesta “Mondo di mezzo”.
Liguria. La centrale a carbone di Vado, Burlando e gli scontrini salati
Le spese pazze e il disastro ambientale della centrale a carbone di Vado. Sono le due prime preoccupazioni del Pd ligure, in una regione che ultimamente è stata flagellata dagli scandali. L’indagato più noto è senz’altro il governatore Claudio Burlando, finito nel registro della Procura di Savona con l’accusa di concorso in disastro ambientale doloso. Sono indagati anche gli assessori alla Sanità Claudio Montaldo, alle Attività produttive Renzo Guccinelli e Renata Briano (ex assessore all’Ambiente, oggi eurodeputata). Al centro dell’inchiesta l’inquinamento provocato dalla centrale Tirreno Power che secondo i periti dell’accusa con i suoi fumi avrebbe causato almeno 400 morti. E sono indagati anche i sindaci di Vado, Attilio Caviglia e Monica Giuliano, e di Quiliano, Alberto Ferrando. C’è poi l’inchiesta sulle spese pazze, che in Liguria ha toccato quasi metà del Consiglio regionale: in carcere due vicepresidenti della giunta di centrosinistra. Tra gli indagati del Pd risultano il capogruppo in Regione, Nino Miceli e il tesoriere del gruppo Mario Amelotti.
Ma la lista si allarga, se si considerano anche i partiti che fanno parte della coalizione trasversale che ha governato la Regione negli ultimi anni. Non fa “tecnicamente” parte del centrosinistra, ma Alessio Sa-so è un sostenitore dichiarato di Raffaella Paita (candidata Pd a governatore). Saso è indagato per voto di scambio in un’inchiesta sulla criminalità organizzata nel Ponente Ligure.
Campania. Il re di Salerno De Luca e il caso di Orta d’Atella
L’inchiesta che forse meglio di ogni altra in Campania avvolge gli interessi della politica e dell’imprenditoria “rossa” in un giro di (presunte) tangenti è la vicenda Sea Park: tra gli imputati per associazione a delinquere finalizzata a reati contro la Pubblica amministrazione c’è anche l’ex sindaco e candidato Pd a governatore della Campania, legge Severino permettendo, Vincenzo De Luca.
È la fallita riconversione dell’Ideal Standard in parco acquatico con l’apporto dei capitali di un consorzio di imprese emiliane, la Cecam. All’indirizzo Cecam c’era solo una cassetta postale e il suo rappresentante si presentava alle riunioni con le scarpe risuolate. Eppure erano i tramiti di un giro di miliardi delle vecchie lire per far svendere i suoli dell’Ideal Standard agli emiliani e far realizzare il Sea Park in un terreno di proprietà dell’imprenditore Vincenzo Maria Greco. C’erano le intercettazioni, furono distrutte perché De Luca godeva delle guarentigie parlamentari. I reati ormai sono prescritti, ma De Luca ha rinunciato alla prescrizione e il 14 aprile farà dichiarazioni spontanee. Fresca fresca invece è l’accusa di corruzione aggravata dal metodo camorristico con cui è finito in carcere il sindaco sospeso di Orta d’Atella (Caserta) ed ex consigliere regionale Ds Angelo Brancaccio. La Dda di Napoli e la polizia hanno trovato le tracce di 330 mila euro versati su un conto svizzero di Brancaccio da Sergio Orsi, imprenditore dei rifiuti e riferimento del clan dei Casalesi (il fratello Michele fu ucciso nel 2006 su ordine di Giuseppe Setola). Secondo la Dda, quei soldi sono il corrispettivo dell’ingresso dell’azienda degli Orsi in un consorzio pubblico-privato coi Comuni di Orta d’Atella e Gricignano D’Aversa, col quale accaparrarsi una serie di appalti. I bonifici avvengono nel 2006: Brancaccio è consigliere regionale, sostiene Antonio Bassolino, incontra il politico dei Ds simbolo della lotta anticamorra Lorenzo Diana. Anni in cui gli Orsi, ritenuti vicini a Forza Italia, si iscrivono alla Quercia. Non a Casal di Principe, dove abitano. Ma alla sezione di Orta d’Atella. La Dda ha inoltre aperto un fascicolo sulla metanizzazione dei Comuni dell’agro-aversano. È indagato per concorso esterno in associazione camorristica Roberto Casari, per quasi 40 anni presidente della Gpl-Concordia, colosso delle cooperative rosse di Modena.
Piemonte. Gettonopoli e le eterne firme false
Che coppia. Lui, ex consigliere regionale, a processo per peculato e finanziamento illecito ai partiti, lei indagata per concorso in truffa aggravata. Sono Andrea Stara del Pd, già eletto con la lista “Insieme per Bresso”, e la deputata Paola Bragantini, ex presidente della Circoscrizione 5 del Comune di Torino ed ex segretaria provinciale del partito. Sono due dei democratici illustri del Piemonte incappati nelle maglie della giustizia. Lui avrebbe ottenuto rimborsi non dovuti, tra cui quello per un tosaerba. Non è tutto: venerdì scorso, durante il processo, la contabile del gruppo ha detto ai giudici che Stara ha chiesto anche di rimborsare una multa della sua compagna. Lei, invece, è finita in mezzo a un altro scandalo di rimborsi, quello delle mini-giunte fantasma: riunioni fatte solo sulla carta per ottenere i gettoni di presenza. Insieme a lei ci sono altri nove indagati per truffa aggravata, tra cui l’attuale presidente della Circoscrizione Paolo Florio, il suo vice Giuseppe Agostino e altri tre componenti della mini-giunta. Florio e Agostino inoltre sono indagati per le firme false delle liste a sostegno di Sergio Chiamparino per le ultime Regionali: in questo caso che sta scuotendo il Pd torinese lui non è il solo indagato, ci sono il consigliere regionale Nadia Conticelli, tre ex consiglieri provinciali (Umberto Perna, Pasquale Valente e Davide Fazzone), più quattro componenti della segreteria provinciale (Gianni Ardissone, Carola Casagrande, Mara Milanesio e Cristina Rolando). Le elezioni hanno provocato molti problemi pure a Vercelli: per le Provinciali del 2009 saranno processati molti politici locali accusati di falso ideologico in atto pubblico, tra cui i democratici Maura Forte, sindaco di Vercelli, e il consigliere regionale Giovanni Corganti. Chi in questi mesi sta affrontando un processo, infine, è Alessandro Altamura, ex assessore al commercio ed ex segretario provinciale del Pd, accusato di abuso d’ufficio nello scandalo “Murazzi”.
Emilia Romagna. La monorotaia e i sex toys
A Bologna il 9 aprile si aprirà il dibattimento sull’appalto del People mover, la monorotaia che dovrebbe unire stazione e aeroporto. I lavori non sono ancora iniziati, ma fra poche settimane davanti al giudice andranno anche l’ex sindaco Pd Flavio Delbono e il suo assessore Villiam Rossi, accusati di abuso d’ufficio. Poi ci sono le “spese pazze” dei consiglieri regionali. Diciotto sono del Pd. Per molti potrebbe arrivare presto la richiesta di rinvio a giudizio: oltre a cene da centinaia di euro, anche scontrini per wc pubblici e persino per un sex toy. E intanto Carlo Lusenti, assessore regionale alla sanità con Vasco Errani, è imputato per falso in una vicenda legata ai fondi regionali destinati alle cliniche private. E non c’è solo Bologna. A Ravenna incombe il processo per truffa per la senatrice Josefa Idem. La vicenda è quella dei contributi Inps pagati dal Comune, che due anni fa la portò alle dimissioni da ministro. Sempre in Romagna, a Rimini, il sindaco Andrea Gnassi è indagato per il fallimento della società dell’aeroporto Fellini. Assieme a lui altri otto sono sotto inchiesta per il reato di associazione a delinquere. Infine l’inchiesta di Firenze che ha visto protagonista Ercole Incalza, vede tra gli indagati anche l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Alfredo Peri e l’ex consigliere Miro Fiammenghi. L’accusa è tentata induzione a dare o a promettere indebitamente denaro o altra utilità nell’ambito della costruzione dell’Autostrada Cispadana.
Bolzano. Il sindaco tira dritto L’abuso d’ufficio non basta
All’orizzonte il probabile rinvio a giudizio con l’accusa non da poco di abuso d’ufficio. E nonostante questo a Bolzano il sindaco Luigi Spagnolli tira dritto e punta alla ricandidatura. Alle urne si va il 10 maggio. Mentre i suoi legali hanno chiesto al tribunale una proroga di due mesi e mezzo per leggere le carte dell’inchiesta. Il tempo, dunque, non manca anche per superare un eventuale ballottaggio. Spagnolli tira dritto con il via libera della segreteria regionale e di quella nazionale. Sul tavolo della procura l’affare del raddoppio del centro commerciale Twenty. Sotto accusa, oltre a Spagnolli, anche un noto imprenditore trentino. Per lui il reato è quello di abuso edilizio. Secondo quanto ricostruito dai pubblici ministeri il sindaco Spagnolli si è attivato per il via libera al raddoppio del centro commerciale dopo l’ok già dato dalla Provincia. Di più: il gruppo dell’imprenditore Giovanni Podini (indagato) s’interfaccia direttamente con il sindaco senza seguire l’iter tradizionale dell’ufficio tecnico. Non solo. Secondo la ricostruzione dell’accusa, sottopone a Spagnolli il parere legale di un docente universitario. L’impresa, poi, inizierà i lavori ancora prima del via libera. E lo farà realizzando i piloni portanti del centro commerciale in maniera differente dalla concessione, poiché già rinforzati abusivamente per l’aumento di cubatura prima del rilascio della concessione inerente al raddoppio. Fin dall’inizio dell’inchiesta Spagnolli si è sempre difeso. “Sono state dette una serie di cose non vere da parte di tante persone. Sono state fatte affermazioni pesanti. Non c’è alcun tipo di volontà di favorire chicchessia”. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio.
Lombardia. Il “Sistema Sesto” non finisce mai
Giovanissimo vestì la casacca di assessore di Rozzano, hinterland a sud di Milano. Da quel momento in poi la carriera politica di Massimo D’Avolio tracimò in successi continui. Alle spalle la tutela potente di Filippo Penati che da lì a poco, è il 2004, incassa la poltrona di presidente della Provincia. Nello stesso anno D’Avolio diventa sindaco di Rozzano, mandato rinnovato fino al 2013. Dai Ds al Pd. In quell’anno, D’Avolio, perso per strada il suo nume a causa di inchiesta giudiziaria (vedi il cosiddetto Sistema Sesto), fa il grande salto ed entra in Regione. Consigliere del Pd eletto con oltre 7 mila preferenze. Poco meno di due anni con un incarico nella commissione regionale antimafia, e anche l’ex sindaco inciampa in qualche guaio. Attualmente, infatti, risulta indagato dalla Procura di Milano per abuso d’ufficio. I fatti, contestati risalgono al periodo in cui D’Avolio era sindaco di Rozzano. Secondo l’accusa, coordinata dal dipartimento del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, D’Avolio attraverso alcune delibere, avrebbe autorizzato il pagamento della partecipata Ama ad alcune società della moglie. Con l’ex primo cittadino è indagato anche l’attuale capogruppo Pd nel Consiglio comunale di Segrate, l’ingegnere Vito Ancora. Anche per lui l’accusa è abuso d’ufficio. Infine, risulta coinvolto un dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Rozzano per un presunto danno erariale legato alla compravendita di un’area industriale. L’inchiesta, ancora in fase embrionale, ha già gettato nel panico buona parte del Pd milanese che intravede il rischio di un nuovo sistema Sesto.
Sicilia. Il sottosegretario Faraone deve giustificare 3.300 euro
C’è il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone a guidare la pattuglia di deputati regionali in Sicilia indagati per le spese pazze dell’Assemblea regionale. Gli viene contestata la cifra di 3300 euro e con lui hanno ricevuto un avviso di garanzia per peculato dalla Guardia di finanza altri 18 deputati regionali del Pd: Giovanni Barbagallo (11.569,44 euro), Mario Bonomo (4.918 euro), Roberto De Benedictis (per 4.653 euro), Giacomo Di Benedetto (per 27.425 euro), Giuseppe Digiacomo (per 6.727 euro), Michele Donato Donegani (10mila euro), Michele Galvagno (5.681 euro di cui 1.248), Baldassare Guacciardi (1.365 euro), Giuseppe Laccoto (3.492 euro), Giuseppe Lupo (39.337 euro), Vincenzo Marinello (3.900 euro), Bruno Marziano (12.813 euro), Bernardo Mattarella (6.224 euro), Camillo Oddo (2.500 euro), Filippo Panarello (16.026 euro), Giovanni Panepinto (2.600 euro), Antonello Cracolici e Francesco Rinaldi (45.300 euro). Quest’ultimo è stato rinviato a giudizio quattro mesi fa insieme al cognato Fracantonio Genovese (deputato Pd arrestato dopo l’autorizzazione della Camera) per lo scandalo messinese della formazione professionale ed entrambi devono rispondere di associazione per delinquere finalizzata al peculato: sono accusati di avere costituito una rete di gestione familiare della Formazione, trasformandola in un lucroso business. Infine ad Alcamo il deputato nazionale Nino Papania è accusato di avere imposto assunzioni alla società di smaltimento rifiuti Aimeri procurandole “il benestare degli organi di governo ambientale sugli appalti e sull’irregolare svolgimento del servizio”. Contro Papania, accusato in un’altra inchiesta di voto di scambio, si sono costituiti parte civile un centinaio di cittadini di Alcamo.

il Fatto 1.4.15
Ieri, oggi e domani
Il miliardo di Gardini, le banche e il vino: c’è odor di D’Alema
Già nel 1989 si favoleggiava di una valigia portata al Pci dal fu imprenditore, poi l’affaire Consorte e ora Ischia
di Gianni Barbacetto


Milano Ci si può dimettere da vignaioli? “Io non sono un ministro, che ha vincoli di comportamento, sono un cittadino qualsiasi”, dice infuriato Massimo D’Alema, “e non sono deputato: sono in pensione. Io non assegno appalti”. Così per lui non costituiscono un problema le 2 mila bottiglie di vino e le 500 copie del suo libro comprate dalla coop Cpl Concordia. E neppure i 60 mila euro versati alla sua fondazione, Italianieuropei. Ora però, benché non indagato, dovrà andare dai magistrati napoletani a testimoniare come persona informata sui fatti. Certo gli elementi emersi dalla storia che arriva dall’isola delle tangenti è per D’Alema un segno di declino: di lui si favoleggiava come il destinatario della valigia da 1 miliardo di lire portata al Bottegone da Raul Gardini nel 1989 e oggi, 26 anni dopo, siamo alle bottiglie di vino. Lo raccontò l’autista di Gardini: “A Botteghe Oscure ci ha ricevuti D’Alema. Lui e Gardini sono entrati in una porta... ”. La valigia del miliardo portata alla sede del Pci viene evocata anche da Carlo Sama, successore di Gardini, e da Sergio Cusani, finanziere di fiducia. Ma nessuno la racconta fino in fondo e così, senza prove, nel processo evapora in appello e nella storia politico-giudiziaria rimane sospesa nel mondo di mezzo tra verità non confermate e veleni sparsi per intossicare.
ERA UN MOMENTO delicato per il Pci, che si preparava a cambiare nome, pelle e metodi. Fino alla caduta del Muro, la partecipazione del partito in Tangentopoli era limitata a portare a casa una quota degli appalti pubblici, affidati alle coop rosse che poi finanziavano la “ditta”. Qualcosa cambia con l’Alta velocità, e proprio D’Alema – allora vice di Achille Occhetto – parrebbe al centro del cambiamento. Almeno a dar retta a un certo Bartolomeo De Toma, già braccio operativo di Bettino Craxi in molti appalti, che in un verbale di Mani Pulite raccolto dal pm Paolo Ielo racconta: “Vincenzo Balzamo”, segretario amministrativo del Psi, “mi riferì di una riunione sull’Alta velocità dove si discuteva di ripartizione di lavori tra le varie imprese, che poi avrebbero dovuto erogare finanziamenti illeciti. In quest’occasione il tesoriere del Psi mi disse che pur essendo Marcello Stefanini il segretario amministrativo del partito, tutte le questioni riguardanti il finanziamento erano coordinate dall’allora vicesegretario Massimo D’Alema”. Ma al momento della deposizione sia Stefanini, sia Balzamo erano già morti, nessuna conferma fu trovata e così anche la storia dell’Alta velocità s’indirizzò su un binario morto. Più produttiva sembrò l’indagine di Bari per un finanziamento illecito di una ventina di milioni di lire ricevuto da Francesco Cavallari, il re delle cliniche pugliesi. Ma quella volta D’Alema si salvò grazie alla prescrizione. Per il resto, il leader fu chiamato in causa sempre e solo indirettamente, in rapporto a uomini della sua corrente. Come Cesare De Piccoli, eurodeputato veneziano del Pds. Era il 1994 quando Antonio Di Pietro contestò al manager Fiat Antonio Mosconi una mazzetta di 200 milioni: denaro “finalizzato alla campagna elettorale della corrente politica veneta facente capo all’on. Massimo D’Alema”. È nel 2005 che il leader Maximo veste i panni del banchiere d’affari. È in corso la tripla scalata dei “furbetti del quartierino” a due banche, Antonveneta e Bnl, e al CorrieredellaSera. Chi legge la storia come una “bicamerale degli affari”, versione finanziaria della Bicamerale, è favorito dal fatto che non solo D’Alema si spende in difesa degli scalatori, ma che media anche un passaggio di azioni Bnl dall’Udc Vito Bonsignore a Consorte. È lo stesso D’Alema a raccontarglielo in una telefonata (intercettata): “È venuto a trovarmi Bonsignore... Voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no (ridacchia)... Che voleva altre cose, diciamo... a latere su un tavolo politico... Ti volevo informare che io ho... ho regolato da parte mia”.
DUE IMPRENDITORI di fede dalemiana entrano anche nella vicenda dell’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati: sono Enrico Intini (già indagato a Bari per turbativa d’asta nella sanità pugliese e legato a Gianpaolo Tarantini, l’uomo che procacciava escort per Silvio Berlusconi) e Roberto De Santis (che condivideva con Massimo D’Alema la proprietà della barca Ikarus). Il primo versa all’associazione di Penati “Fare Metropoli” 30 mila euro. Il secondo 20 mila attraverso Milano Pace spa, che sta realizzando a Sesto il complesso “Le torri del parco”. Ma, ormai tramontata la grande stagione delle banche, inizia quella piccola del vino. L’ex presidente del Consiglio si concentra nella conduzione dell’azienda vinicola La Madeleine, 15 ettari in provincia di Terni, di proprietà dei figli Giulia e Francesco. Quest’ultimo acquisisce l’azienda da un prestanome dell’avvocato Sergio Melpignano, commercialista romano con una lunga storia, arrestato nel 1996 insieme all’avvocato Giovanni Acampora e al giudice di Roma Antonio Pelaggi per tangenti pagate per aggiustare un processo a carico del costruttore Renato Armellini. Socio di D’Alema in Ikarus e finanziatore di Italianieuropei era Vincenzo Morichini, coinvolto nel 2011 in una storia di appalti e mazzette Enac, l’ente dell’aviazione civile. Socio a sua volta di Morichini era Adolfo Orsini, diventato amministratore dell’“Agenzia regionale umbra per lo sviluppo in agricoltura”: un amico che sa capire il gran lavoro fatto dalla famiglia D’Alema per ripulire e riqualificare la Madeleine, impiantarci i vigneti e ottenere anche qualche finanziamento regionale.

il Fatto 1.4.15
Responsabilità
I panni sporchi della politica
di Antonio Esposito

Presidente della II Sezione Penale della Cassazione

La recente, ennesima inchiesta giudiziaria sulla corruzione – che, dopo l’Expo, il Mose e Mafia Capitale, ha investito il ministero della Infrastrutture – ripropone, l’annosa questione dei rapporti politica-magistratura e della necessità di una distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale.
Da un lato si è osservato che, anche in questo caso, la magistratura – in applicazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale – ha svolto le doverose indagini, di sua competenza, senza doversi preoccupare delle conseguenze politiche che sarebbero potute scaturire dalla sua azione; dall’altro lato si è affermato che non si può stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni in un Paese in cui la presunzione di innocenza è un principio costituzionale, altrimenti i pm decidono sul potere esecutivo. La questione necessita di alcune precisazioni. Innanzitutto, deve osservarsi che l’etica pubblica non può ridursi al diritto penale – con esclusione della responsabilità politica – sia perché la verifica penale tende essenzialmente a ottenere l’applicazione di una sanzione e non ha certo la pretesa di operare una selezione politica, sia perché, comunque, tale verifica, causa il macchinoso sistema processuale, è sempre tardiva in quanto la sentenza definitiva arriva a distanza di anni, spesso con una declaratoria di prescrizione, quasi sempre “spacciata” per una sentenza di assoluzione. In secondo luogo, bisogna partire dalla considerazione che è la politica, in prima persona, che deve ribaltare metodi, uomini, abitudini e regole partendo dalla selezione dei candidati a ogni livello.
ORBENE, nessuno ha ricordato che il principio della distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale era stato già approvato – ma è rimasto, purtroppo, inapplicato – dalla Commissione Parlamentare Antimafia nel 1993 che, con una larga e inedita maggioranza, (De, Pds, Lega, Rc, Pri, Psi, Psdi, Verdi, Rete), stabiliva che il Parlamento ed i partiti, sulla base di fatti accertati che non necessariamente costituiscono reato, potessero comminare delle precise sanzioni politiche, “consistenti nella stigmatizzazione dell’operato e, nei casi più gravi, nell’allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate”. L’applicazione rigorosa e imparziale di questo principio, che rappresenta l'esatto opposto del cosiddetto “giustizialismo”, potrebbe risolvere il conflittuale rapporto tra politica e magistratura, giacché eviterebbe di rimandare e subordinare ogni valutazione politica all'esito delle decisioni penali. Se l’autorità politica procedesse autonomamente a valutare il comportamento dell’uomo pubblico nei sensi indicati dalla Commissione non vi sarebbe alcuna delega di fatto ai giudici, che potrebbero così lavorare con maggiore serenità e indipendenza.
In sostanza, le eventuali dimissioni di coloro che ricoprono incarichi politici, non dovrebbero dipendere dalla circostanza che abbiano ricevuto un avviso di garanzia, ma dalla valutazione sulla inaffidabilità di quell'uomo politico che, quantomeno, ha dimostrato ripetutamente di non saper scegliere i propri collaboratori, ovvero di aver stretto amicizie rivelatesi pericolose. Come chiarisce la Commissione, “se la persona di fiducia di un uomo politico compie atti di grave scorrettezza o di rilevanza penale, l’uomo politico non risponde dei fatti commessi dalla persona di fiducia, ma risponde per aver dato prova di non saper scegliere o di non aver accertato o di aver tollerato comportamenti scorretti”. Così come, per fare altri esempi, se un ministro, un sindaco o un presidente di Regione o di Provincia partecipa a cene elettorali, battesimi e matrimoni organizzati da personaggi mafiosi, o se nella sua casa di campagna si riuniscono “boss” latitanti o si nascondono armi delle cosche, le ipotesi possibili sono solo due: o ne è consapevole e quindi complice, oppure è inconsapevole ma inaffidabile.
In ogni caso, spetta esclusivamente alla magistratura stabilire se il suo comportamento abbia o meno una rilevanza penale, ma è compito della politica valutare, senza strumentalizzazioni di parte e nell'interesse generale, se il personaggio in questione sia adeguato o meno a svolgere le funzioni politiche cui è preposto. È evidente che questa fondamentale distinzione, presuppone la massima libertà di cronaca e di critica, poiché, come ha affermato la Commissione “il presupposto per muovere una contestazione di responsabilità politica è la conoscibilità di fatti o di vicende che a quella contestazione possono dar luogo; se non si conosce, non si è in grado di esercitare alcun controllo”.
LA PIENA libertà di informazione e di opinione è, quindi, indispensabile per individuare, censurare e sottoporre a controllo democratico tutti quei comportamenti che configurino delle responsabilità politiche e morali, indipendentemente dall’accertamento di eventuali responsabilità penale che spetta esclusivamente alla magistratura.

il Fatto 1.4.15
La vera domanda: giustizialista o garantista?
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, la lunga altalena e poi le dimissioni del ministro Lupi (che, sembra impossibile, è ancora notizia) ha portato di nuovo alla ribalta l’eterna questione del Paese diviso in “giustizialisti” e “garantisti”, una contrapposizione che occupa il vuoto della famosa frase “destra e sinistra non ci sono più”. Possiamo provare a spiegarla ancora una volta?
Morris

AVENDO VISSUTO per oltre vent’anni (stiamo entrando nel terzo decennio) questa astuta divisione con cui si copre qualunque politico che sia o sembri colpevole di un reato, e si gettano dubbi e sospetti su chiunque, pur avendo le prerogative costituzionali e professionali per farlo, apra un’inchiesta su un politico, proverò a ripetere alcuni punti, ovvi ma tuttora in grado di ispirare notevoli quantità di articoli, premettendo una avvertenza per i colleghi della stampa estera: i due termini “giustizialismo” e “garantismo” non sono traducibili nelle principali lingue straniere, se non con giri di parole che ne svelano subito un senso convenzionale. Ovvero sono parole-codice che rappresentano e riassumono la storia recente del Paese Italia. Giustizialisti, in questo linguaggio, sono coloro che credono con fermezza che la democrazia sia fondata su tre pilastri, l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, e che nessuno dei tre poteri può essere svilito o invaso dall’altro, senza mettere in pericolo le fondamenta democratiche di un Paese. Il caso è stato aperto da una certa quantità di reati quasi tutti contro il patrimonio, compiuti da una certa quantità di leader e protagonisti politici, prima e durante e dopo la loro vita politica. L’intervento della magistratura non è mai stato “potere contro potere”, dato che la responsabilità penale è individuale, ma solo contro persone. Benché queste persone occupassero alti posti di governo o in Parlamento, tutte le incriminazioni si sono riferite ad atti individualmente compiuti come la corruzione di giudici, la compravendita di parlamentari, l’organizzazione della prostituzione minorile, il falso in bilancio, l’abuso di atti d’ufficio, l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Giustizialismo è impedire che i giudici siano attaccati e sviliti dagli imputati – specialmente se potenti – e insistere affinché il processo abbia regolarmente luogo secondo le regole e le garanzie valide per tutti i cittadini. Come si vede, si tratta di una posizione politica doverosa a difesa dello Stato democratico. Garantisti, invece, sono coloro che intendono garantire l’impossibilità dei giudici a intervenire in caso di reati compiuti da politici. Al punto da definire i giudici “un cancro da estirpare”, “impiegati senza potere, senza il diritto di giudicare i politici” e dichiarare che la propria sequenza di reati è “una persecuzione giudiziaria”. Per rendere chiari all’opinione pubblica alcuni segnali simbolici di disprezzo verso la categoria, la nuova legge detta “Riforma della Giustizia” ha incluso due cambiamenti fondamentali. Il primo è il taglio delle ferie, un modo per indicare a tutti che i magistrati sono “fannulloni”. Il secondo è stata la cosiddetta legge sulla “responsabilità civile” con il proposito di far pagare il giudice personalmente in caso di “errore”. E comunque lasciando aperta la possibilità di rivalersi sulla metà del suo stipendio. Ma il fatto più disorientante per chi vive o frequenta l’Italia è che non esiste un partito dei giudici, nel senso che nessun gruppo o partito, che si sappia, osa mostrare solidarietà, rispetto o simpatia per quella parte dello Stato che non si è piegata e continua a indagare sulla corruzione, in un Paese in cui la corruzione riappare nei luoghi e nei modi (e tra i personaggi) più impensati.

il Fatto 1.4.15
Documenti rivelati
La dichiarazione di resa di Cottarelli
“Un mistero i soldi per la politica”
di Carlo Di Foggia

Il “blitz” è scattato ieri alle 20 in punto: con un anno di ritardo il governo ha fatto cadere il velo sulla spendig review targata Carlo Cottarelli. Sul sito dell’ex commissario alla revisione della spesa, nominato da Enrico Letta e indotto alle dimissioni da Matteo Renzi nell’ottobre scorso, sono stati pubblicati i 19 rapporti stilati dai gruppi di lavoro. Dentro c’è di tutto. Quello sui costi della politica è di 107 pagine e parte da una presa d’atto surreale: “Restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica nel nostro Paese”. Non solo le vie attraverso cui la politica succhia risorse pubbliche sono così numerose da rendere impossibile un calcolo preciso, ma ai gruppi coordinati da Cottarelli non è stato possibile accedere a tutti i dati, in primis quelli dei finanziamenti privati: “Avere dati dettagliati in proposito sarebbe stato interessante. Sfortunatamente, questi dati sono risultati i non recuperabili”.
MISTERI A PARTE, secondo il rapporto ai costi della politica si potrebbero tagliare 700 milioni di euro. Come? Partendo dai fondi ai gruppi parlamentari – 73 milioni di euro nel 2012 – o alzando l’Iva al 10 per cento sulle spese elettorali (che una legge vecchissima fissa al 4 per cento). Possibile, e in parte già fatto, tagliare del 20 per cento i fondi all’editoria. Ma in Rai “a ogni cambio di governo si nominano nuovi direttori, che a loro volta nominano e promuovono 3-4 vicedirettori e capiredattori. I vecchi capi tornano a disposizione, mantenendo però titolo, stipendio e ruolo di prima”. Buona parte dei tagli (630 milioni), però, dovrebbe arrivare da Comuni e Regioni: metà (300 milioni) in particolare dai Comuni, accorpando quelli sotto i 5mila abitanti, tagliando del 20 per cento consiglieri e assessori (quasi 139 mila persone), eliminando il Tfr ai sindaci e riducendo del 10-20 per cento le retribuzioni del personale politica.
ALTRI 300 MILIONI arriverebbero dai tagli alle amministrazioni regionali, imponendo la stessa retribuzione agli 11 mila consiglieri, riducendo di 266 mila unità gli assessori ed eletti, con un risparmio di 35 milioni, più 25 allineando lo stipendio dei consiglieri ai sindaci dei Comuni capoluogo.
Le analisi dei tecnici, però, riguardano ogni settore e rivolo di spesa pubblica, formulando possibili tagli da attuare nel breve, nel medio e nel lungo periodo. Alcune proposte sono “estreme”, quindi subito accantonate, come gli 89 mila esuberi di statali entro il 2016 (3 miliardi di risparmi). Altre sono state invece utilizzate come base per l’azione legislativa: è il caso delle centrali di acquisto, che andranno razionalizzate (ma i Comuni hanno ottenuto un ulteriore rinvio), della riforma dell’utilizzo degli immobili pubblici, della mobilità o della razionalizzazione dei corpi di polizia, di cui si sta discutendo e che ha già scatenato le proteste. L’altro capitolo attuale riguarda la riduzione della spesa per beni e servizi – ora allo studio del governo – su cui i tecnici di Cottarelli prevedevano un risparmio possibile di 3,2 miliardi. Difficile, però, che questi documenti ormai datati (e con numeri ancora più vecchi) possano portare a 32 miliardi di tagli entro il 2016.

rispedito negli States
+
Repubblica 1.4.15
Spending review
Cottarelli voleva tagliare 700 milioni ai partiti


ROMA Pubblicato l’intero lavoro preparatorio del precedente commissario alla spesa Carlo Cottarelli. Le relazioni dei 19 gruppi di lavoro contengono proposte molto diverse alcune non considerate dello stesso commissario ora tornato all’Fmi sostituito da Yoram Gutgeld e Roberto Perotti. Spiccano gli oltre 700 milioni di risparmi dai costi della politica realizzabili colpendo «I misteriosi e non accessibili flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema». Gran parte potrebbe arrivare dal taglio di piccoli comuni (255 milioni), province (100), consigli regionali (360) e fondi ai partiti (fino a 65 milioni). Tra le grandi e piccole misure dove scovare i risparmi ci sono le forze di polizia (1 miliardo), gli acquisti nella Pa (3,2 miliardi), gli stipendi e pensioni d’oro di funzionari, diplomatici e politici

Corriere 1.4.15
Italicum
Pd, dalla Argentin a Fassina chi sono i (pochi) kamikaze
La minoranza resta incerta. D’Attorre: meglio andare al voto col Consultellum
di Monica Guerzoni

ROMA La tensione ha lasciato il posto agli interrogativi e a Montecitorio i «dem» della minoranza hanno facce frastornate. Che accadrà, dopo che Matteo Renzi ha blindato la legge elettorale? Davvero il premier vuole mettere la fiducia? E quanti saranno i «kamikaze» pronti a impallinare l’Italicum, se il premier deciderà di affrontare l’aula (e i voti segreti) senza legare le sue sorti alla legge?
«I kamikaze non saranno più di trenta» li ha contati il leader del Pd, dando per scontato il no di Bersani, Boccia, Fassina, Civati, D’Attorre e Rosy Bindi, la quale ritiene «incostituzionale porre la fiducia sulla legge elettorale» e non parteciperebbe al voto. Gli anti-renziani irriducibili si sono convinti che il premier li abbia messi nel mirino per addossargli la colpa di un voto di fiducia. Cuperlo lavora per un accordo, ben sapendo che tra i suoi c’è chi si prepara ad affossare l’Italicum. «Io? Kamikaze dichiarata — si autodenuncia Ileana Argentin —. Noi 29 di SinistraDem usciremo dall’aula ed è un peccato, perché bastava poco a migliorarlo. L’ottusità del non ascolto rischia di compromettere l’unità del Pd». Toni duri, che non tutti i cuperliani condividono. Alla vista dei giornalisti Andrea De Maria allunga il passo verso l’aula: «Vedremo, c’è tempo...». La Pollastrini invita a «riflettere ancora».
L’Italicum approderà l’8 aprile in commissione Affari costituzionali, dove la minoranza è maggioranza. Ma la battaglia sarà in aula. «Non ho niente da dire» alza le mani Bersani, al quale i fedelissimi rimproverano i toni di rottura dei giorni scorsi. Fassina conferma che non voterà l’Italicum nella versione attuale e prevede che «altri del Pd» sono pronti a farsi metaforicamente esplodere: « Quanti? Lo vedremo dopo la riunione del gruppo». Fassina si appella alla libertà di coscienza, eppure non prevede conseguenze sull’esecutivo: «Il governo non è in discussione». Giachetti la pensa all’opposto, «se l’Italicum salta è in gioco il governo». E se tutto dovesse precipitare, D’Attorre ritiene che sarebbe meglio andare al voto col proporzionale: «Piuttosto che consentire una cattiva riforma elettorale e una cattiva riforma costituzionale, meglio il Consultellum». Accenti di rottura, che Nico Stumpo non condivide: «La strada della mediazione è stretta, ma dobbiamo percorrerla. Bersani? Dividere le minoranze sarebbe un errore».
Il giorno dopo lo strappo dell’ala sinistra, che in direzione non ha votato la relazione del segretario, a Montecitorio l’incertezza è regina e gli aut aut lasciano il posto agli appelli. «Facciamo depositare la polvere per un po’ — prende tempo il presidente dei deputati, Speranza —. Dopo Pasqua riuniremo il gruppo e torneremo a parlare di legge elettorale». Sulla linea del capogruppo si attesta a sorpresa Davide Zoggia, già pasdaran bersaniano. «Fare il kamikaze non è difficile, ma io non intendo farlo. Voglio stare nel Pd e riconosco la leadership di Renzi. Spero non si arrivi alla necessità di mettere la fiducia e condivido gli appelli a evitare lo show down. Il premier si fidi di noi, diminuisca il numero dei nominati e la legge passerà anche al Senato, senza trappole». Detto da un bersaniano che ritiene l’Italicum «non votabile senza correzioni», è un chiaro segnale di apertura.
Solo il tempo scriverà il finale di partita. «Io tra i kamikaze? Vedremo — allarga le braccia il giovane Enzo Lattuca —. Intanto può scrivere che l’Italicum fa schifo». Il lettiano Guglielmo Vaccaro annuncerà oggi la sua uscita dal Pd e ieri si è fatto vedere alla conferenza stampa di Corrado Passera contro le «storture» della Costituzione. A presentare l’appello anti—Italicum c’era anche Pippo Civati: «I gufi kamikaze fanno anche un po’ sorridere, ma ci sono, certo. Chi sono? Gli esponenti della minoranza che hanno parlato in direzione». E lei, Civati? «Se Renzi mette la fiducia spacca il partito, una lacerazione che potrebbe coincidere con delle uscite dal Pd».

Repubblica 1.4.15
Pierluigi Bersani
“Se il premier continua così anche io chiederò di essere sostituito in commissione La fiducia? Una sola volta è stata posta su questi argomenti: nel 1953, sulla legge truffa”
“Ma Renzi non ha più i numeri Scissione? Assuma lui il problema”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA La risposta di Bersani a Renzi è una sfida. «Non sono così convinto che abbia i numeri per approvare l’Italicum. A partire dalla commissione Affari costituzionali. Ne dovrà sostituire tanti di noi per arrivare al traguardo. E se continuerà a fare delle forzature, io stesso chiederò di essere sostituito ». Sarebbe il primo vero strappo dell’ex segretario nella storia del conflitto con Matteo Renzi. La prima plastica trasgressione alla filosofia della Ditta, che va difesa a prescindere. Dopo la direzione di lunedì, Pier Luigi Bersani non ha cambiato idea: se la legge rimane così com’è, non la vota. Lo ripete a un gruppo di deputati che lo accompagna verso il suo ufficio al quinto piano di Montecitorio. Due stanzette prese in prestito dal gruppo di Sinistra e libertà, in un labirinto di scale e ascensori, strategicamente piazzate molto lontano dal Pd e questo è un altro brutto segno.
Bersani non parla di scissione. Quando il fantasma si affaccia, nel corso della conversazione, divaga, non risponde, guarda da un’altra parte. «Vediamo se si fa carico del problema — spiega riferendosi al segretario —. Noi abbiamo detto: concordiamo alcune modifiche e poi votiamo l’Italicum tutti insieme sia alla Camera sia al Senato. E lui che dice? Non mi fido. Ho trovato questa risposta offensiva, molto più di tante battutine personali che riserva a chi dissente. Non mi fido di Berlusconi, lo puoi dire. Ma se non ti fidi del tuo partito, è la fine».
Nell’appassionato ragionamento di Bersani, la battaglia è molto più profonda di un bilanciamento tra preferenze e nominati. «Le preferenze sono un falso problema. Fanno schifo anche a me, io sono per i collegi. Ma tra nominati e preferenze, scelgo le seconde. Se non piacciono a Renzi mi chiedo perché non aboliscono le primarie dove le preferenze raggiungono l’apice. Dicono: ma diventano uno strumento del malaffare. Allora io dovrei pensare che tanti parlamentari del Pd li ha portati qui la mafia?». Non sta in piedi neanche la ricostruzione di Roberto Giachetti. Bersani sorride: «Il Mattarellum è un sistema imperfetto, ma se me lo danno lo firmo subito. Giachetti purtroppo ha la memoria corta. Non avevamo i numeri per far passare la sua mozione, forse non si ricorda com’era diviso il Parlamento in quella fase. Io comunque andai dai grillini e chiesi: voi lo votate il Mattarellum? Mi risposero: sosteniamo la mozione Giachetti. Insistetti: ma la votate sì o no? Facevano i vaghi, dovevano sentire Grillo e Casaleggio. Ci avrebbero mandato sotto, ecco cosa sarebbe successo».
Il punto però non sono le polemiche interne. «I giornali — dice Bersani — sono pieni di veline. Le facevo anch’io quando ero segretario, ma un po’ mi vergognavo e dicevo ai miei: andiamoci piano. L’Italia adesso si prende questa legge elettorale e nessun commentatore sottolinea il pericolo cui andiamo incontro. Vedo un’ignavia diffusa. L’establishment italiano è una vergogna. Sono 4-5 poteri che dicono: andiamo avanti, corriamo. E non si chiedono se andiamo avanti per la strada giusta o verso il precipizio. Potrei fare nomi e cognomi di questi poteri e scrivere accanto le rispettive convenienze che hanno nel tacere, nel sostenere questa deriva».
Ecco il cuore del ragionamento bersaniano: la descrizione di questa deriva. «Renzi vuole l’abolizione della rappresentanza. Punta a una sistema che non esiste da nessun’altra parte al mondo e che non ci copierà proprio nessuno perché l’Europa ma anche gli Stati uniti non sono governati da baluba. Lì si rispetta il voto popolare e si cerca di comporre le forze e i programmi per rappresentare società complesse in un momento molto difficile. Qui da noi no». Il ballottaggio, che nella narrazione di Renzi è una grande vittoria della sinistra, per Bersani è «un vero pericolo. Non ha niente a che vedere con il doppio turno francese dove ci sono i collegi. Qui lo facciamo su base nazionale e serve solo a incoronare un leader, a creare un presidenzialismo di fatto, una democrazia plebiscitaria. Può capitare che un partito del 27 per cento prenda tutto il potere in un Parlamento di nominati al servizio del capo. E l’altra metà del Paese la consegniamo ai populisti con un esito simile a quello francese. In quel sistema presidenziale, che pure è molto bilanciato, non dai sfogo alla rappresentanza e carichi una molla che alla fine scatta, esplode. Così ti ritrovi Marine Le Pen. In Italia può succedere la stessa cosa. Si ammucchiano i populisti, Grillo e Salvini, e non sai come finisce». La risposta a questa obiezione manda ai matti Bersani. «Dicono: tanto Renzi dura 20 anni. Ne siamo proprio sicuri? Secondo me no. La situazione è ancora fluida, la crisi non è finita. Avete visto i dati sulla disoccupazione? Ci siamo ancora dentro e non è detto che gli elettori vorranno uscirne con Renzi e con il Pd. Non dimentichiamo l’esempio di Parma. Disaffezione per la politica, crisi economica e al ballottaggio vincono i 5 stelle. E’ il modello che vogliamo per l’Italia? Se l’onda è questa, io non la seguirò».
L’alternativa andrebbe trovata insieme. «Una correzione che permetta l’apparentamento al ballottaggio sarebbe già un passo avanti». Se Renzi mette la fiducia? «E’ stata messa una sola volta sulla legge elettorale e dopo un ostruzionismo feroce. Era il ‘53, la legge truffa. Sono cambiati i regolamenti, non so se Renzi si spingerà fino a quel punto». Ma se lo fa, che succede alla Ditta? «Stavolta prima viene il Paese, poi la Ditta».

La Stampa 1.4.15
Giuseppe Civati
«Contro certe riforme faremo fronte comune con Passera»
intervista di F. M.


Non che alla sopravvivenza della legislatura creda un granché, ma ieri Pippo Civati si è materializzato tra il pubblico della conferenza stampa di Corrado Passera con in tasca un’idea su come ridurre i tempi parlamentari per l’approvazione della riforma del Senato. «No, infatti non ci credo molto che non si vada al voto anticipato dopo l’approvazione definitiva dell’Italicum. Ma se va avanti il cammino noi una proposta ce l’avremmo. Anzi, un lodo».
Il lodo Civati?
«No, il lodo Pertici, dal nome del costituzionalista col quale ho scritto “Appartiene al popolo”. Il ragionamento è semplice: prima c’erano le grandi intese e ci è stato spiegato che le riforme si facevano con gli altri. Ora che gli altri non ci sono più si mette la fiducia. Perché invece non apriamo alle proposte altrui?».
Quali?
«In fondo per mantenere l’impianto di Renzi basta che il Senato non esprima la fiducia al Governo. Allora perché non aprire agli “altri” sulla composizione dell’assemblea, sul numero dei parlamentari o sulla competenza esclusiva di palazzo Madama su alcune materie?».
Non si rischia di complicare ancora di più la riforma?
«Io credo che sia vero il contrario: un Senato non elettivo è più difficile da portare a casa in termini di articoli della Costituzione da modificare. Non è difficile capirlo, basta farsi i conti».
Chi dovrebbe sostenere questo lodo?
«Ne ho parlato con Passera, il loro appello come il nostro. È una cosa talmente trasversale che arriviamo a condividere le cose persino con lui col quale non c’è certo convergenza in termini politici. Desumo dalle dichiarazioni in aula che dentro FI e M5S ci siano argomenti che a loro stanno a cuore e sui quali è possibile trovare del terreno comune. Ecco, esploriamolo».
Sta forse costruendo la coalizione dei frenatori?
«L’accusa di frenare non esiste. Non c’è nessuna trappola per il Governo, anzi, nella trappola Renzi ci si è infilato da solo. La riforma così è parecchio pasticciata, il contenuto dell’Italicum la esalta in negati
vo e poi non mi pare che abbia incontrato favore popolare per la nomina a senatore dei vari amministratori locali. Il Senato con l’attuale impianto sarebbe nient’altro che un’ap
pendice della Camera. Ma allora tanto valeva abolirlo».

il Fatto 1.4.15
Ustica, silenzio di governo sul no ai risarcimenti
Matteo Renzi e i ministri Pinotti e Orlando restano zitti sul ricorso dell’Avvocatura dello Stato contro i soldi ai parenti delle vittime
di Enrico Fierro


Silenzio. Tacciono tutti, governo e ministri. I morti di Ustica e i loro familiari non meritano neppure una risposta. Tace la Presidenza del Consiglio, sta zitto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, è silente la ministra della Difesa Roberta Pinotti. Inutile insistere e farsi il fegato marcio al telefono, i portavoce sono efficienti portasilenzi. Nessuno ha da dire mezza parola sulla scandalosa iniziativa dell’avvocatura dello Stato che chiede alla Corte di Appello di Palermo di respingere la richiesta di risarcimento danni avanzata da alcuni familiari ed eredi delle vittime di quella strage e anzi, per sovrappeso, gli presenta il conto salatissimo delle “spese di lite”. Perché quella notte del 27 giugno 1980 nei cieli di Ustica non si combatté alcuna guerra aerea, come pure sentenze e relazioni di Commissioni parlamentari di inchiesta hanno affermato in questi 35 anni. Tutte suggestioni frutto di campagne mediatiche. Inchieste giornalistiche, libri, reportage televisivi, film che hanno denunciato, scrive l’avvocato dello Stato Maurilio Mango, “spesso senza alcun riscontro, trame e complotti internazionali”. È questa la verità che si vuole affermare 35 anni dopo? A questo serve il silenzio di Palazzo Chigi e dei ministeri della Difesa e delle Infrastrutture?
IL DUBBIO è più che lecito e lievita se si presta ascolto alle indiscrezioni che filtrano dagli ambienti del governo. Che si spingono a riassumere tutto l’affaire così: nessuno, né dalle parti dell’ufficio di Renzi, né da quello della ministra Pinotti, ha dato l’input all’Avvocatura per agire con i ricorsi, si tratta di una iniziativa “spontanea” della sede palermitana. Trovato il responsabile risolto il problema, placate polemiche dei giornali (poche, per la verità) e proteste dei familiari. Ma le cose non stanno esattamente così, e solo un bambino, ma a patto che non sia ancora svezzato a digerire le ambiguità della politica italiana, può credere alla favoletta dell’iniziativa spontanea. Perché già due anni fa si tentò di stoppare le richieste dei familiari delle vittime del DC9-Itavia, ma allora il governo non fu muto e inerte. Parlò Enrico Letta, il pacato presidente del Consiglio, e fu determinato, chiaro, netto, in modo che tutti intendessero. “Il governo non ha intenzione di impugnare per revocazione la sentenza definitiva con cui la Cassazione ha condannato lo Stato a risarcire i familiari delle vittime di Ustica”. Ventotto parole.
Certo, l’Avvocatura è autonoma, anche se dipende dalla Presidenza del Consiglio, ma anche due anni fa lo era. Cosa è cambiato da allora ad oggi è un mistero spiegabile solo leggendo alcune soddisfatte dichiarazioni di ex vertici dell’Aeronautica militare.
ENRICO LETTA MOTIVÒ, con parole altrettanto chiare, il perché dell’atteggiamento del suo governo. “Questa determinazione è motivata da ragioni giuridiche e da ragioni di ordine etico, per il dovuto rispetto alle vittime e ai suoi familiari”.
Pochi giorni prima, anche Giorgio Napolitano aveva preso posizione facendo appello “al dovere di tutte le istituzioni di sostenere le indagini tuttora in corso per accertare responsabilità, nazionali e internazionali, rimaste coperte da inquietanti opacità e ombre”. Per l’allora capo dello Stato e per il governo il punto di partenza era la sentenza della Cassazione che parlava di un missile e condannava lo Stato a risarcire i familiari. “Abbiamo presentato un’interpellanza parlamentare urgente, aspettiamo che il governo dia risposte chiare, e forse capiremo se questa inaccettabile iniziativa è frutto dello spontaneismo dell’Avvocatura”, dice Walter Verini, capogruppo del Pd nella Commissione giustizia della Camera.
Per Carlo Giovanardi, ora senatore di Area Popolare, la polemica è inutile, l’Avvocatura ha fatto bene, i parenti delle vittime sono stati già indennizzati e “questa è una lotta tra fantascienza e verità tecnica sulle cause dell’esplosione”. I familiari dei morti di Ustica aspettano. Quattro uomini dell’equipaggio e 77 passeggeri, nove bambini. Il più piccolo si chiamava Giuseppe e aveva un anno.

Repubblica 1.4.15
Anti-corruzione oggi il voto finale ma è sempre rissa sul falso in bilancio
L’Ncd chiede una legge meno severa Cantone: non aspettatevi miracoli
di Liana Milella


ROMA La legge Grasso contro la corruzione oggi passa al Senato. Ma dopo la “cura dimagrante” del governo al ddl originario — presentato ben 747 giorni fa — la rissa all’interno del Pd, tra Pd e Ncd, e di M5S contro tutti, proseguirà fino all’ultimo minuto. Si litigherà sul falso in bilancio, tra chi, come i Pd Casson e Lumia, Sel e M5S, vogliono una norma più rigida e intercettabile, e chi, come il vice ministro della Giustizia Costa di Ncd, difende la formula più blanda. Ma si litigherà pure sul Daspo contro i corrotti. Lo rilancia M5S, ma Ncd lo stoppa. Dopo vari capannelli al banco del governo tra Costa e il capogruppo del Pd Zanda, alla fine è prevalso il rinvio a oggi. Si preannuncia una giornata di fuoco. Anche perché il referendum sulla legge lanciato in rete da Grillo dà un esito scontato, su 27.124 click ben l’80,3% chiede al gruppo di votare contro. Lo annuncia trionfante, da Montecitorio, il deputato grillino Bonafede, al Senato lo subiscono perché il gruppo, con Buccarella, Cappelletti, Giarrusso, ha lavorato per migliorare il testo. Tant’è che le modifiche su falso in bilancio e Daspo vedono una convergenza tra M5S, sinistra Pd e Sel. Diceva Grasso, ancora ieri: «Le più recenti indagini svelano trame nell’ombra, reti opache di relazioni che uniscono mafiosi e criminali a politici, imprenditori, professionisti, funzionari pubblici». Ragione più che buona per rafforzare l’impianto anti-corruzione. Raffaele Cantone, lo zar anticorruzione, sul punto è prudente: «Il pacchetto è utile, ma è solo un pezzo, non avrà effetti salvifici». Nel ddl Grasso ci sono anche più poteri per l’Anac, votati giusto ieri, per cui i pm, appena chiedono un rinvio a giudizio, devono avvisare l’ufficio di Cantone. Non solo: il ddl aumenta le pene per la corruzione, concede uno sconto al corrotto pentito, nel patteggiamento obbliga l’imputato alla restituzione del malloppo. Prevede, in caso di condanna per peculato, corruzione e concussione la restituzione della mazzetta. E ancora, schizza in alto la pena per il 416-bis, con il Pd Manconi pronto a pigliare le distanze da chi pensa di combattere il crimine con più galera.
Fin qui l’intesa. Poi c’è la rissa. Sarà lite sul falso in bilancio che, nell’ultima proposta del Guardasigilli Andrea Orlando, assesta la pena per le società non quotate da 1 a 5 anni, quindi niente intercettazioni. All’opposto ecco gli emendamenti identici di un nutrito gruppo di Pd, Casson e Lumia in testa, ma anche di Sel e M5S. Propongono 2-6 anni, l’Orlando originario. Casson la definisce una modifica garantista «perché se il reato è intercettabile in sé, visto che può nascondere la corruzione, non ci sarà bisogno di contestare all’imputato altri reati per ottenere le intercettazioni ». Gli stessi gruppi chiedono di eliminare dal testo alcuni avverbi, come «consapevolmente » e «concretamente», che indeboliscono il reato. Su tutto è d’accordo la Lega. Ncd è contrarissimo, e lo stesso una parte del Pd. Scontro assicurato. Come sul Daspo, l’emendamento dei grillini Cappelletti, Buccarella, Giarrusso che, dopo le condanne per abuso d’ufficio, peculato, corruzione, concussione e induzione propone «l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità perpetua di contrattare con la pubblica amministrazione ». Era il Daspo proposto da Renzi, ma che adesso Ncd rifiuta e la parte più garantista del Pd ritiene troppo estremo.

Corriere 1.4.15
L’appello
«La scuola non è un’azienda», i prof infuriati scrivono a Mattarella
Secondo diversi gruppi di docenti riuniti online, il ddl è incostituzionale e non rispetta i principi di oggettività e merito del pubblico impiego
di Valentina Santarpia

qui

il Fatto 1.4.15
Onda su onda
Renzi riforma la Rai: tanto rumore per nulla
di Loris Mazzetti


Credo che a Renzi la riforma della Rai interessi poco, non porta voti. Quello che è uscito dal Consiglio dei ministri è poca roba, frutto di profonda superficialità (nonostante Renzi abbia interpellato 30 esperti, i cui suggerimenti sono stati per lo più ignorati). Nella forma è peggio della legge Gasparri che, nonostante l’obiettivo ad personam, aveva nel Parlamento il suo riferimento. La proposta Renzi, invece, prevede la nomina da parte dell’esecutivo dell’amministratore delegato, a cui vanno pieni poteri, indipendente dal cda nella gestione, con un tetto di spesa che passerebbe dagli attuali 2,5 milioni del direttore generale a 10 milioni. Renzi rischia di far fare alla Rai un salto indietro nel tempo, a prima della riforma del 1975, quando l’azienda era in mano al governo.
NELLA CONFERENZA stampa di presentazione della riforma era evidente la scarsa sintonia tra il premier e Giacomelli, titolare della delega alle Comunicazioni, ma il sottosegretario non è uomo di fiducia dell’ex sindaco di Firenze, è compare del ministro dei Beni culturali Franceschini. Giacomelli si è subito dissociato dall’idea di Renzi di abolire il canone, vero interesse di quest’ultimo, in quanto l’abolizione o il dimezzamento sarebbe portatori di voti. Anche qui le idee sono poche e allora si guarda ai vicini, ma in Francia e in Germania l’imposta sulla tv viene calcolata in base ai metri quadrati delle abitazioni e degli uffici (una sorta di tassa sull’immondizia), impopolare in un paese come l’Italia in cui la casa è super tassata. Lo sguardo va verso la Spagna: la riforma Zapatero del 2006 ha abolito il canone e la tv pubblica è finanziata per il 50% dallo Stato, per il 40% dalla pubblicità, per il rimanente 10% da fonti diverse. Il governo determina il 50% di volta in volta, a seconda della stabilità economica del paese. Una grande azienda pubblica come la Rai sopravvive sul mercato in assenza di stabilità: infatti anche il servizio pubblico spagnolo è in profonda crisi. La minoranza del Pd reagisce: in risposta a Renzi ha depositato al Senato un disegno di legge a firma di 11 senatori, che prevede per la Rai un modello “duale” che garantirebbe una gestione “snella”: Consiglio di Sorveglianza di 11 membri, nominati dal Parlamento d’intesa tra i presidenti di Camera e Senato, che a sua volta nomina il Consiglio di Gestione composto da 3 membri il cui presidente ha i poteri dell’ad. Questo significa, per evitare scontri interni al Pd, che fino alle prossime regionali sulla Rai nulla accadrà.

Corriere 1.4.15
La strage dell’airbus
Com’è difficile (anche a Berlino) ammettere una colpa
di Paolo Lepri

qui

Corriere 1.4.15
Nel 2009 Lubitz avvertì Lufthansa: «Ho sofferto di depressione grave»
L’ammissione della compagnia. Terminato sulle Alpi francesi il recupero dei 150 corpi
di Elena Tebano


DALLA NOSTRA INVIATA La prima ammissione di Lufthansa arriva a una settimana dal disastro dell’Airbus A320 con uno stringato comunicato stampa sul suo sito. E apre una crepa profonda nel muro di «non ci aveva mai detto niente» dietro a cui si era finora trinceratati i suoi vertici: Andreas Lubitz, il copilota 27enne che martedì scorso ha fatto precipitare sulle Alpi francesi l’aereo diretto a Düsseldorf, uccidendo se stesso e le altre 149 persone a bordo, nel 2009 aveva avvertito la scuola di volo della compagnia aerea della sua depressione. Intanto nuovi particolari delle registrazioni della scatola nera fanno emergere ancora di più l’ostinazione di Lubitz nel far cadere l’Airbus A320: chiuso nella cabina di pilotaggio dopo aver modificato la rotta, il copilota ha indossato la maschera dell’ossigeno, forse per non rischiare di perdere lucidità.
Lufthansa scrive che dopo «un’interruzione di più mesi della sua formazione nella scuola di guida», Lubitz aveva ottenuto «la necessaria idoneità medica al volo» ma che dalla «corrispondenza email del copilota con la scuola di volo» emerge che questi «da studente, nel 2009, in occasione della ripresa dell’addestramento aveva informato, allegando documenti medici, di “un grave episodio di depressione ormai risolto”». L’espressione, tra virgolette, fa ritenere che Lufthansa riporti le parole usate da Lubitz nella sue mail (la compagnia non ha dato ulteriori informazioni e anche una portavoce di Germanwings, al telefono, ha rifiutato di commentare). Solo giovedì scorso l’amministratore delegato di Lufthansa, Carsten Spohr, 48 anni, aveva dato una versione edulcorata di quanto accaduto, sottolineando che Lubitz era «idoneo al volo al 100%».
«Sei anni fa c’era stata un’interruzione nella sua formazione — aveva detto allora Spohr senza specificare il perché —. Abbiamo verificato le sue abilità e ha ripreso nella scuola di volo. Dopo ha avuto sempre ottimi risultati».
La compagnia aerea non era l’unica a sapere del passato travagliato di Lubitz: fonti governative europee hanno rivelato alla Cnn che anche la fidanzata del copilota, Kathrin Goldbach, 27 anni, sapeva della sua storia di depressione, ma «non la gravità dei suoi problemi», anzi era «ottimista» sul fatto che li stava superando. La ragazza avrebbe anche detto agli inquirenti di Düsseldorf che Lubitz si era fatto visitare da un oculista e un neurologo ed entrambi lo avevano dichiarato non idoneo a lavorare e avevano riscontrato problemi psicologici. Il procuratore di Düsseldorf ha invece smentito al Corriere che i familiari sapessero della depressione: «Nessuno di loro di recente aveva avuto segnali che potesse essere pericoloso per se stesso o per gli altri», ha detto Christoph Kumpa.
Ma sempre più elementi confermano che Lubitz ha causato volontariamente la morte di 150 persone: ieri il settimanale Paris Match ha dato notizia del ritrovamento di un video girato con un cellulare a bordo dell’aereo in cui si mostra il caos e le grida prima dello schianto. Notizia poi smentita dal procuratore di Marsiglia. Ieri intanto i soccorritori hanno recuperato tutti i corpi delle vittime.
Altri dettagli, scrive il settimanale, emergono dalla scatola nera. Si sente il capitano Patrick Sonderheimer, 34 anni, che dopo essere stato chiuso fuori da Lubitz dice: «Sono io» rivolto alla telecamera collegata alla cabina. Lubitz non risponde e allora Sonderheimer colpisce la porta con un estintore, urla «Per l’amor di Dio apri la porta». Poi chiede di andargli a prendere l’ascia di bordo e riprova a sfondarla. Ma non ci riesce e grida di nuovo: «Apri questa fottuta porta!».
Dalle registrazioni si sente chiaramente Lubitz respirare attraverso la maschera d’ossigeno, quella che si usa per non svenire in caso di depressurizzazione. Il suo respiro muto è l’unico rumore nella cabina di pilotaggio fino alla fine. Fuori le urla dei passeggeri: negli ultimi interminabili minuti hanno avuto modo di capire tutto.

il Fatto 1.4.15
Se Varoufakis perde l’euro andrà superato
Già nel 2013 il ministro greco aveva idee per affrontare la crisi senza aggravare la sofferenza sociale
L’Europa lo ha ignorato e ora si rischia il disastro definitivo
di Stefano Fassina


Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione del deputato Pd Stefano Fassina a “Una modesta proposta per risolvere la crisi dell’euro” (Asterios), di Yanis Varoufakis, James K. Galbraith e Stuard Holland.

La Modest proposal for resolving the eurozone crisis uscì per la prima volta nel novembre 2010 a sola firma di Yanis Varoufakis e Stuart Holland. Il primo, allora era un semisconosciuto brillante economista eterodosso greco, professore ad Atene e all’Università del Texas. Ora è il ministro delle Finanze del governo Tsipras, dopo essere stato il più votato tra gli eletti al Parlamento di Atene nelle elezioni di gennaio come indipendente nelle liste di Syriza. Il secondo è stato una figura di primo piano del Partito laburista del Regno Unito, consulente tra l'altro di Jacques Delors nell'elaborazione della proposta di eurobond. La versione 4.0 della modest proposal al luglio 2013, oltre ai primi due autori, ha il contributo anche di James K. Galbraith, economista keynesiano dell’Università del Texas. Le quattro articolazioni della modest proposal rispondono a quattro dimensioni della crisi dell’eurozona: la crisi bancaria; la crisi del debito; la crisi degli investimenti; la crisi sociale. Il denominatore comune alle quattro risposte è la loro portata – apparentemente – limitata, ossia la loro fattibilità a trattati europei vigenti e a statuto della Banca centrale europea dato.
La Bce può ancora fare molto per il debito
Per spezzare il cortocircuito tra crisi bancaria e crisi del debito sovrano, la prima proposta prevede il trasferimento allo European Stability Mechanism (Esm) e alla Bce del controllo e della gestione delle istituzioni finanziarie in difficoltà. E questo fa venir meno, per la risoluzione dei problemi delle banche in dissesto, la condizione necessaria, prevista a regolazione vigente, dell’avvio da parte dello Stato interessato di un complessivo Programma con la Troika. La seconda proposta riguarda il debito pubblico: la Bce, in linea con la premessa di evitare soluzioni politicamente impraticabili, rispetta il divieto statutario di acquisto diretto o di garanzia di titoli di debito sovrano, ma per conto di ogni Stato dell’eurozona emette titoli sostitutivi della quota di debito pubblico sotto la soglia di Maastricht. Poi accende un prestito bancario a tassi leggermente superiori a quelli da essa spuntati sul mercato. Così riduce la spesa per interessi gravante sui bilanci pubblici.
La caduta brutale degli investimenti pubblici e privati, causa decisiva della carenza di domanda aggregata nell’eurozona, è oggetto della terza proposta. Viene definito l’Investment-led Recovery and Convergence Programme finanziato da titoli emessi congiuntamente dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) e dal Fondo europeo di investimento. La prima istituzione alimenta investimenti nella sanità, nell'istruzione e formazione, nella rigenerazione urbana e nelle green technology. Il secondo, oltre a co-finanziare gli investimenti della Bei, interviene attraverso un venture fund nel capitale delle piccole e medie imprese e punta a sopperire le difficoltà di accesso al credito bancario. La proposta rimane valida nonostante l’avvio del Piano Junker, piano virtuale in quanto limitato dall’enorme leva finanziaria costruita per far fronte all’assenza di risorse effettive. Infine, la quarta proposta affronta la crisi sociale. Lo strumento per intervenire sulle emergenze nutrizionali e sulla necessità minimali di consumi elettrici è l’Emergency Social Solidarity Programme. Originale la soluzione per il reperimento delle risorse: in una prima fase, gli interessi maturati sugli attivi di Target2 (il sistema di pagamenti tra le Banche centrali dell’eurozona) e i profitti raccolti dalla Bce attraverso le transazioni sui titoli di debito pubblico.
Atene e sinistra, la stessa parabola
Riflettere oggi sulle proposte di Varoufakis e dei suoi due colleghi è, ovviamente, altra cosa rispetto a una riflessione a ridosso della loro ultima pubblicazione o comunque in una fase precedente alla vittoria di Syriza nelle elezioni del 25 gennaio scorso. Come risulta chiaro nel negoziato nell'eurogruppo con il governo Tsipras, a Bruxelles domina imperturbabile la narrazione della ricetta giusta e del malato riottoso. Ma la via alla crescita dell'economia e dell'occupazione attraverso la svalutazione interna, mediante austerità e taglio dei redditi da lavoro, è impossibile in quanto generalizzata. Può portare al pareggio o al surplus della bilancia commerciale, ma soltanto al costo di drammatiche contrazioni del prodotto interno e dell'impennata, fino al rischio default, del debito pubblico.
Yanis Varoufakis vive sulla sua pelle di neoministro delle Finanze greco l'irrealismo delle limitate proposte disegnate da accademico attento ai dati di realtà. A Bruxelles e in tante capitali dell’eurozona si insiste sui problemi strutturali della Grecia che pre-esistevano gli interventi della Troika. Si chiudono, invece, gli occhi di fronte al fatto che la cura, ingoiata in sospensione di democrazia, ha aggravato la malattia.
La parabola greca e della sinistra prospetta un destino comune alle democrazie e alle sinistre dell'eurozona. La democrazia, la politica e la sinistra non hanno fiato nella camicia di forza liberista dell'euro. La gabbia mercantilista dell’eurozona aggrava gli squilibri nelle democrazie nazionali e lo schiacciamento della soggettività del lavoro determinati dai mercati globali. Gli effetti negativi, sebbene generali, sono asimmetrici: maggiori per i Paesi meno competitivi; e, dentro ciascun Paese, maggiori per il lavoro subordinato e debole, dipendente, precario, a Partita Iva o per le piccole imprese. Insomma, nell’eurozona non c’è alternativa alla svalutazione del lavoro, al rattrappimento delle classi medie, al collasso della partecipazione democratica. Allora, è ineludibile la discussione sul superamento cooperativo della moneta unica, ossia su un accordo per arrestare un meccanismo che porta alla rottura caotica.
Le debolezze a difesa della moneta unica
È possibile che nessun governo esprima “eroi della ritirata”, come Hans Magnus Enzesberger definisce Gorbaciov e i boss del socialismo reale che guidarono la fine dell’impero sovietico senza spargimenti di sangue. È probabile che le condizioni politiche, strutturate da opinioni pubbliche diventate, a causa delle imposte sofferenze e delle nutrite paure, reciprocamente ostili, oltre a impedire le correzioni di rotta necessarie alla sua sopravvivenza, impediscano anche la cooperazione per il superamento della moneta unica. È possibile quindi che prevalga l’arroccamento delle classi dirigenti dei Paesi in difficoltà intorno alla linea del Paese leader. E che governi miopi e media al seguito degli interessi più forti continuino a raccontare che, grazie all’ulteriore colpo alle condizioni del lavoro, al disperato Quantitative easing della Bce e alla connessa svalutazione dell’euro, la luce in fondo al tunnel incominci a intravvedersi. È possibile che, in uno scenario di rassegnata stagnazione, si sopravviva per un po’.
Ma l’iceberg è sempre più vicino per l’euro, per la democrazia e per la sinistra.
*deputato del Partito democratico
UNA MODESTA PROPOSTA PER RISOLVERE LA CRISI DELL’EURO di Yanis Varoufakis, James K. Galbraith e Stuard Holland Aterios, 56 pagg., 5 euro

il Fatto 1.4.15
Grecia, crisi infinita
Tsipras bacchettato dalla Ue si butta tra le braccia di Putin
di Roberta Zunini


Atene. I pensionati e i lavoratori greci del settore pubblico ieri hanno tirato un sospiro di sollievo: sui loro conti correnti sono stati depositati i soldi delle pensioni e degli stipendi. Ma non è detto che ciò avverrà anche il mese prossimo. Non c'è stata ancora alcuna svolta sugli aiuti alla Grecia e non ci sarà prima di Pasqua. Lo ha affermato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. La lista di riforme non ha soddisfatto i tecnici europei che l'hanno bollata come “null'altro che un puzzle di intenti senza indicazioni circa la loro applicazione”. I punti sarebbero 18 in cui è incluso l'aumento dell’Iva, ma solo nelle isole greche a vocazione prettamente turistica; la tassa sugli immobili, che in campagna elettorale Alexis Tsipras aveva invece promesso di abolire per i piccoli proprietari; lotta all’evasione fiscale e privatizzazioni. Il mantenimento della tassa sulla proprietà, l’Enfia (equivalente all’Imu in Italia), che Syriza aveva promesso di sostituire con una tassa solo sui grandi patrimoni immobiliari, non farà piacere a coloro che l’hanno votata alle elezioni del 25 gennaio. Il governo ha annunciato di essere pronto a valutare eventuali offerte per la ricerca di idrocarburi onshore nell’ovest del Paese. E a proposito di petrolio e gas, ieri il ministro dell'Energia Lafasanis era a Mosca per discutere con il suo omologo circa l'acquisto a basso costo del gas russo. Syriza non ha mai nascosto le sue simpatie per Mosca e la politica dello zar Putin anche in materia di politica estera. Atteggiamento che condivide sia con il partito entrato nella coalizione di governo - l'ultranazionalista euroscettico Anel di Kammenos, insignito della croce di San Giorgio che vorrebbe uscire dalla Nato - sia con il partito neonazista Alba Dorata, altrettanto euroscettico e filorusso. Secondo molti analisti Putin sarebbe disponibile a dare alla Grecia gas a buon mercato per ottenere in cambio il veto della Grecia qualora l'Unione europea decidesse di alzare le sanzioni economiche nei confronti della Russia, se la tregua stabilita dagli accordi di Minsk 2 a proposito della guerra del Donbass (Ucraina) dovesse interrompersi. Per impedire alla Grecia di avvicinarsi troppo alla Russia, la cancelliera tedesca Merkel avrebbe, secondo varie fonti, deciso di sfidare i falchi della sua coalizione. “La Grecia ha diritto a una certa flessibilità nella scelta di come le riforme vadano implementate, ma le misure devono incontrare la soddisfazione dei partner internazionali”.

La Stampa 1.4.15
Nucleare iraniano, ripresi i negoziati a Losanna. Lavrov: “C’è l’accordo su tutti i punti chiave”
Prolungate le trattative (che scadevano ieri). In giornata è atteso l’annuncio dell’intesa. No di Israele
di Maurizio Molinari

qui

il Fatto 1.4.15
Il nucleare iraniano non scade tutti vogliono l’intesa
Colloqui a oltranza a Losanna
La rabbia di Israele e dell’Arabia Saudita
di Giampiero Gramaglia


Ore convulse e forse decisive a Losanna nel negoziato sul nucleare tra i Grandi e l’Iran: le plenarie si sono succedute ai bilaterali e ai ‘confessionali’. Il conto alla rovescia della trattativa è stato bloccato prima dello scadere, la mezzanotte, e le trattative sono andate ai supplementari. C’è la certezza che nessuno vuole ‘rompere’. I 5+1 e l'Iran cercano un’intesa che sdogani il programma per l’energia nucleare e ne disinneschi l’incubo atomico. La presenza a Losanna dei ministri degli Esteri delle 5 potenze nucleari storiche e legittime, con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza Onu, più il tedesco (il +1) e, naturalmente, l’iraniano, autorizzavano un certo ottimismo. Per l’Ue, c’è Federica Mogherini.
Di che si parla 1. I negoziati vanno avanti da anni: l’Iran mira a sviluppare un programma d’energia nucleare civile; i 5+1 vogliono evitare che il regime degli ayatollah si doti di un arsenale atomico. Ironia della sorte, negli Anni Sessanta furono gli americani a indirizzare l’Iran verso il nucleare, in funzione anti-sovietica – allora, c’era lo Scià. Poi, tra il 1985 e il 2002, la Repubblica islamica sviluppò attività atomiche in maniera clandestina, finché nel 2003 accettò le ispezioni dell'Agenzia dell’Onu per l'Energia atomica. L’arrivo al potere di Ahmadinejad nel 2005 apre, però, una fase di contrapposizione: scattano le sanzioni, prima dell’Aiea, poi di Usa e Ue. Nel 2013, l’elezione di Rouhani migliora il clima del confronto: quello stesso novembre, un’intesa a interim fa ripartire la trattativa. Bisognava però definire la portata del programma di arricchimento dell'uranio iraniano, che gli Usa vogliono limitare in modo significativo, le modalità dei controlli dell’Aiea e il ritmo d’alleviamento delle sanzioni.
2. La posta in gioco
La formula cui si lavora è un accordo di massima da confermare e perfezionare entro il 30 giugno. Una dichiarazione congiunta sarà integrata da documenti che dettagliano i punti fermi già raggiunti. I mercati fiutano l’accordo e il petrolio, i cui prezzi si gonfiano con le tensioni, calano.
Tra le questioni principali aperte, la ricerca sul nucleare e le procedure di revoca delle sanzioni. Teheran chiede di potere riprendere senza restrizioni ricerca e sviluppo di centrifughe avanzate, dopo dieci anni dall'accordo, mentre i suoi interlocutori vorrebbero una periodo d’attesa più lungo. Quanto alle sanzioni, ci sono contrasti su quando e come revocarle: gli Stati Uniti e gli europei vorrebbero meccanismi di re-imposizione automatica, se Teheran dovesse violare l'intesa; Mosca e Pechino vogliono un passaggio al Consiglio di Sicurezza Onu.
3. Chi sta con chi
Se a Losanna nessuno cerca di mandare all’aria la trattativa, i nemici dell’accordo non siedono al tavolo, sono altrove. Qui, l’Iran vuole sdoganare la sua credibilità internazionale e sottrarre l’economia al giogo delle sanzioni; Russia e Cina, più vicini a Teheran degli Occidentali, sono i mallevadori dell’intesa; Usa ed europei indulgono all’ottimismo d’un Iran più aperto e moderato e, soprattutto, alleato nella guerra al terrorismo e al Califfato.
4. Chi rema contro
Contro rema Israele, specie il premier Netanyahu, che non si fida dell’Iran e che giudica l’accordo una minaccia per la sicurezza del suo Paese. Ma il partito del no all’intesa è forte pure a Washington, dove i repubblicani in maggioranza al Congresso sfidano il presidente Obama e si preparano a farne un tema della campagna elettorale Usa 2016. E a Teheran i ‘falchi’ considerano qualsiasi cedimento una sconfitta.
5. Arabi divisi
La distensione tra Iran e Usa non piace neppure all’Arabia Saudita e alle monarchie del Golfo, tutte sunnite. Ryad teme che la ritrovata credibilità internazionale dell’Iran comprometta il suo rapporto con gli Stati Uniti; e i sunniti paventano il rafforzamento degli sciiti nella Regione – la lotta all’integralismo potrebbe uscirne indebolita. C’è chi teme che l’accordo scateni una corsa al nucleare nella Regione e chi ripropone l’idea difficilmente attuabile d’un Medio Oriente denuclearizzato.

Repubblica 1.4.15
L’amaca
di Michele Serra


NEPPURE un genio dell’arte oratoria, in tandem con un genio delle scienze diplomatiche, saprebbe spiegare a un iraniano, o a qualunque altro abitante del pianeta Terra che vive in un Paese sprovvisto di energia nucleare, perché solo un ristretto gruppo di nazioni è autorizzato a farne uso, anche militare, senza che questa prerogativa possa essere considerata “minacciosa” per altri popoli e altre Nazioni. In punta di diritto e di buon senso è un ragionamento così iniquo e così illogico da non essere spendibile. Tanto varrebbe costituire un “club atomico” che si autoproclama unico garante dell’ordine mondiale, dichiara che le Nazioni Unite sono solo un baraccone pletorico, assume esplicitamente il governo del pianeta e fa espressamente veto a qualunque altro Paese di trafficare con gli atomi, pena il suo immediato incenerimento. Una prepotenza conclamata avrebbe almeno il pregio dell’onestà. Nessun altro ragionamento discriminatorio regge alla prova della presunta parità di diritti e di doveri tra le Nazioni; e dunque se davvero l’amministrazione Obama riuscisse a contribuire positivamente allo scioglimento dell’intricato nodo del nucleare iraniano, sarebbe un clamoroso passo in avanti lungo la strada, molto impervia, che porta verso la pari dignità tra le Nazioni, o almeno a qualcosa che comincia vagamente ad assomigliarle.

Repubblica 1.4.15
Terrore a Istambul
Il leader della protesta
Burhan Sonmez “Il paese attraversato da un’instabilità sempre più grande”
di M. Ans.

ISTANBUL . «Non possiamo dire che Gezi Park sia tornata, ma è chiaro che a due mesi dalle elezioni c’è un’instabilità generale palpabile. Quello che sta succedendo in queste ore non è altro che la spia di un malessere più grande». Chi parla è uno dei leader della rivolta di Gezi Park del giugno 2013. Burhan Sonmez, scrittore, ha pubblicato in Italia presso l’editore Del Vecchio il libro Gli innocenti, che ruota proprio intorno alla rivolta scatenata in Turchia dalla repressione del partito islamico al potere. Sonmez guarda con preoccupazione all’uccisione del giudice che si occupava del caso di Berkin Elvan, il quattordicenne rimasto ferito nella rivolta e morto dopo nove mesi di coma.
Sonmez, da cosa deriva questa instabilità?
«La gente pretende giustizia. Vuole risolvere tutte le questioni non ancora non chiarite, come la morte di Berkin Elvan. In Turchia la gente sa che il sistema giudiziario deve essere riformato con decisione».
Sì, ma a sequestrare il giudice è stato un gruppo marxista- leninista considerato dagli Usa ed Europa come un’organizzazione terroristica...
«È vero. Quello che conta sono le parole dette da Sami Elvan, il padre del giovane Berkin, che ha detto “mio figlio è morto, ma un’altra persona non dovrebbe morire. Non voglio che nessuno abbia nemmeno una perdita di sangue dal naso. Fino ad oggi, ho chiesto solo un processo giusto”».
Che cosa è accaduto con il caso di Berkin Elvan?
«Quel ragazzo è diventato uno dei simboli della repressione. Uscito di casa per andare a comprare il pane, era stato colpito alla testa da una granata lacrimogena sparata ad altezza d’uomo. Chi ha causato la sua morte non è stato mai trovato. Ecco perché il gruppo che ha in ostaggio il giudice chiede la confessione dei poliziotti accusati della morte di Berkin».
La rivolta di Gezi poi è continuata ancora nel suo nome vero?
«Sì su Twitter subito è stato diffuso l’hashtag #BerkinElvanè immortale, ci sono state diverse manifestazioni in tutto il paese. Nel quartiere di Kizilay, ad Ankara, un uomo si era presentato con una pagnotta di pane per terra e un cartello con su scritto “Io sono Berkin”, in poco tempo molti si sono uniti a lui in un sit-in pacifico e silenzioso».
Erdogan aveva poi definito “vandali” i rivoltosi di Gezi.
«Ma erano solo persone che non erano d’accordo con il suo governo e con il taglio degli alberi dal parco di Gezi. La rivolta ha dato vita a una protesta che rimarrà scolpita per sempre nella storia della Turchia. Di sicuro la nostra battaglia non sarà stata vana». ( m. ans.)

Repubblica 1.4.15
Sangue in nome di Berkin il ragazzino eroe per caso freddato mentre comprava pane
di Adriano Sofri


IL SENSO tragico della cosa sta tutto in due dichiarazioni dei genitori di Berkin Elvan, ucciso da un lacrimogeno sparato ad altezza di ragazzo. La prima dichiarazione risale allo scorso 11 marzo, primo anniversario della morte del figlio. I signori Sami e Gülsüm Elvan avevano commentato l’omertà di polizia, magistratura e autorità politiche sui responsabili dell’uccisione del loro figlio: «Se continuano in questo modo, temiamo che qualcuno finisca per ricorrere alle pistole per chiedere giustizia ». La seconda dichiarazione è venuta ieri, mentre il sequestro armato era in corso: «Nostro figlio è morto: che nessun altro muoia. Non si può lavare il sangue con altro sangue». Fra i due ammonimenti c’è una fessura, sufficiente però a contrapporre lo scongiuro all’auspicio.
Ieri sera, all’epilogo sanguinoso dell’impresa degli aspiranti giustizieri, i genitori di Berkin erano ancora più feriti e angosciati. Erano già stati colpiti da un destino beffardamente terribile: un figlio adolescente uscito di casa a comprare il pane e ferito a morte, ma ferito nel 2013, quando era quattordicenne, e morto nel 2014, a quindici anni, dopo aver trascorso in coma 269 giorni, e notti. Ancora ieri le agenzie da Istanbul non sapevano decidersi a chiamarlo quattordicenne o quindicenne. Di quel ragazzetto, Recep Tayyip Erdogan, già primo ministro poi presidente della Turchia, si era avventurato a dire che fosse «legato a gruppi terroristi». Nella primavera di Gezi Park, Erdogan era sembrato vacillare fino a schiantarsi, per poi trionfare nelle urne, e rincarare la propria oltranza. Con una copertura simile, era prevedibile che la polizia occultasse i nomi degli autori dell’uccisione di Berkin e degli altri omicidi — otto — perpetrati nelle strade, oltre alle migliaia di feriti. Ed era prevedibile che una magistratura già sottoposta a epurazioni e vendette impudenti da parte del governo fosse enormemente riluttante, per usare un eufemismo, a perseguire i responsabili.
Il gruppo clandestino di estrema sinistra pronto ad assicurare lo sviluppo temuto dal signor Elvan c’era: così di estrema sinistra da far pensare a una mascherata fuori tempo, sennonché i tempi sono tanti e diversi, e sarebbe troppo comodo per noi non riconoscere nei drappi e nelle stelle rosse di Istanbul di ieri l’affinità con una storia che era nostra ieri l’altro o poco più. A segnare un trapasso d’epoca c’è tuttavia un dettaglio decisivo: gli autori del sequestro del procuratore Mehmet Selim Kiraz, uccisi dalle forze speciali, appartenevano a una formazione che praticava le azioni suicide, quelle che chiamiamo malamente “kamikaze”. Se la denominazione ha un sapore tipicamente “marxista-leninista”, fin nella pedanteria del “Fronte-Partito” (“Fronte-Partito Rivoluzionario di Liberazione Popolare”), le azioni suicide compiute nel passato, alcune già in nome della vendetta per Berkin, sono altra cosa dalla disposizione al sacrificio di sé e sarebbero state derise dal leninismo ortodosso.
Nel giustizialismo di questi militanti c’è una buona dose di spettacolarità infantile: l’inve- stitura di un tribunale del popolo, o la richiesta di far andare il poliziotto sparatore in televisione a confessare, come se una confessione imposta tenendo un ostaggio con la pistola alla tempia fosse accettabile. Ma c’è soprattutto, molto più profondamente, voluta o no — l’equivoco sul proprio altruismo è fin troppo possibile — la confisca di una giustizia negata dai colpevoli e rivendicata dalle vittime, che ne finiscono espropriate. Vecchia storia, che sempre si rinnova. Della giustizia negata a vittime di violenze poliziesche le nostre cronache sono tuttora fitte. Non solo le nostre. Lo scorso 18 marzo si è aperto in Francia, a Rennes, il processo per la morte di due ragazzi di Clichysous- Bois, Zyed Benna, 17 anni, e Bouna Traoré, 15. Dieci anni prima, 2005, tornano, col loro coetaneo Muhittin, da una partita di calcio. Non hanno fatto niente, non hanno alcun precedente: una pattuglia li prende di mira, loro si rifugiano dentro una centrale elettrica e muoiono folgorati — Muhittin, ferito, sopravvive. Una rivolta senza precedenti incendia centinaia di comuni di banlieue, il governo dichiara lo stato di emergenza e dice che i ragazzi erano criminali.
Dieci anni dopo, in tribunale, due poliziotti hanno un nome: sono imputati di «omessa assistenza a persona in pericolo». Non hanno impedito ai ragazzi di rifugiarsi là — ce li hanno spinti — a rischio della vita. In una registrazione il poliziotto aveva detto: «Se ci entrano, non dò un soldo per la loro pelle». Dopo un’infinita traversia di non luoghi a procedere e insabbiamenti, il processo si apre in un paese scosso dal trauma di Charlie. È la Francia repubblicana, ben altra cosa dalla Turchia neoottomana di Erdogan. Tanto più amaramente si rilegge la testimonianza del sopravvissuto Muhittin: «Appena prima di morire, Zyed mi disse: “Se mi prendono, mio padre mi rimanda in quel buco di paese, in Tunisia”».
«Non vogliamo che altre madri piangano», avevano detto ieri Sami e Gülsüm Elvan. Sono morti tutti, l’ostaggio, i giustizieri. Ieri sera, a Istanbul, altre madri piangevano.

Corriere 1.4.15
I nemici e gli amici dello Stato islamico
risponde Sergio Romano


Ho letto con interesse il libro di Steve Coll La guerra segreta della Cia . L ‘autore argomenta la tesi secondo cui in Afghanistan la Cia finanziò per anni i movimenti islamici estremisti contro l’Unione Sovietica. Accanto ai finanziatori americani però vi erano anche fiumi di denaro dall’Arabia Saudita. Mi pare che con Isis stia succedendo qualcosa di simile. Come mai il nostro giornalismo non parla mai in maniera chiara di queste cose? Dove sono le inchieste? Come mai l’Arabia Saudita non viene mai chiamata sul banco degli imputati? Ci piacciono troppo i loro soldi?
Gianluca Valente

Caro Valente,
Il ruolo di Washington e Ryad nelle vicende afghane è stato già ampiamente descritto da studiosi e cronisti. Sappiamo che la rivolta dei mujaheddin, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, ebbe per effetto la nascita un’alleanza informale tra Paesi (Stati Uniti, Pakistan, Cina, Arabia Saudita), spesso divisi da interessi diversi, ma uniti allora dal desiderio di evitare che l’Urss s’impadronisse dell’intera regione. Gli americani fornirono consulenti, armi, piani operativi e missili Stinger, con cui gli afghani impararono ad abbattere gli elicotteri e gli aerei dell’Armata Rossa (esiste una divertente versione romanzata della vicenda in un film, «La guerra di Charlie Wilson», diretto da Mike Nichols nel 2007 con Tom Hanks e Julia Roberts). Il Pakistan favorì l’islamizzazione del conflitto e assicurò il passaggio in Afghanistan di parecchie migliaia di volontari (35.000, secondo lo studioso e giornalista Ahmed Rashid) che venivano da 43 Paesi musulmani. L’Arabia Saudita fu il tesoriere dell’operazione e mandò in Afghanistan un uomo (Osama bin Laden) che diventerà qualche anno dopo il suo maggiore nemico. Washington non poteva ignorare che la crescente motivazione religiosa del conflitto avrebbe radicalizzato l’intera regione, ma la priorità dell’America, in quel momento, era la sconfitta dell’Urss.
Il caso dell’Isis e della sua rapida ascesa sullo scacchiere medio-orientale è alquanto diverso. I suoi effettivi ammonterebbero a circa 25.000 uomini, un numero rispettabile, ma inferiore a quello dei talebani presenti sul territorio afghano dopo il ritiro delle forze sovietiche dall’Afghanistan nel 1988. È un feroce nemico dell’islamismo istituzionale degli Stati della regione, ma è anche un baluardo contro la presunta minaccia dell’Iran. È possibile quindi che qualche Stato sunnita abbia creduto di potersene servire per contrastare il governo degli ayatollah, eliminare dalla carta geografica il regime alauita (una costola della grande famiglia sciita) del presidente siriano Bashar Al Assad e, infine, tenere a bada gli sciiti iracheni per evitare che il Paese diventi un satellite iraniano. Ma ricordo che uno dei maggiori sospettati (l’Arabia Saudita) è oggi il principale amico e finanziatore dell’Egitto di Abd Al Fattah Al Sisi, il maresciallo che, a sua volta, sta combattendo l’Isis nel Sinai e in Libia. Questo è il Medio Oriente. Se la situazione è imbrogliata, caro Valente, non ne attribuisca la colpa al giornalismo.

La Stampa 1.4.15
Le Corbusier, fascista e antisemita alla francese
Nel cinquantennale della morte del celebre architetto, due libri in Francia fanno luce su uno degli aspetti meno noti al grande pubblico
Si augurava che Hitler riorganizzasse l’Europa e che ebrei e massoni perdessero tutto
«Un uomo dai sogni totalitari, dal cinismo in cemento armato»
di Leonardo Martinelli

qui

Repubblica 1.4.15
La parola sinistra /2
Dopo la sconfitta alle regionali parla il sociologo Alain Touraine
“Senza orizzonti né classi sociali la gauche muore”
intervista di Anais Ginori


PARIGI «LA sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.
«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».
Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».
Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione de- gli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».
La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».
Hollande ha sbagliato a se-
guire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».
Quindi ci troviamo in un’impasse?
«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di ri- lanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al patronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».
Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».

il Fatto 1.4.15
Ci vuole un fisico bestiale per vincere la sfida in libreria
Il libro di Carlo Rovelli ha venduto 160mila copie ed è da settimane in cima alle classifiche
È solo merito dell’autore o abbiamo cominciato a interessarci alla scienza?
di Elisabetta Ambrosi


Anche in casa Adelphi gli animi sono ancora increduli: 160.000 (e il numero è in crescita costante) sono le copie che ha finora venduto il libro di Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, ormai stabilmente in classifica da settimane: ottanta pagine che raccontano in maniera limpida, affascinante e concisa la Teoria della relatività generale di Einstein, la meccanica quantistica, l’architettura dell’universo, le particelle elementari, la gravità quantistica, i buchi neri, infine il modo in cui noi possiamo pensarci nel mondo descritto dalla fisica. “Non nascondo che vedere il libro di Rovelli un po’ sopra Stephen King e un po’ sotto le Cinquanta sfumature fa una certa impressione”, racconta Matteo Codignola di Adelphi, ricordando l’analoga fortuna editoriale del saggio Sei pezzi facili del fisico Richard Feynman.
“QUELLO di Rovelli è un libro emozionante e divertente che comunica a chi legge la sensazione che chiunque può avvicinarsi al mondo della scienza, in genere considerato impervio. Ma il successo di un libro è sempre imprevedibile, anche se va detto che l’Italia è un mercato particolare, dove libri importanti – penso a un autore come Thomas Bernhard – si vendono più che nel paese di origine”. “Una rondine non fa primavera, ma già il fatto che ci poniamo la domanda sul perché questo libro sta avendo tanto successo dovrebbe farci riflettere”, spiega Massimo Bucciantini, storico della scienza all’Università di Siena, autore di libri su Galileo e Keplero e di recente di un saggio sulla storia della statua di Giordano Bruno (Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, Einaudi). Lui un’idea chiara delle ragioni di questo piccolo exploit editoriale se l’è fatta e ci aiuta a capire di più. “In primo luogo si tratta di un’operazione editoriale intelligente, a partire dal titolo e in particolare dall’aggettivo ‘brevi’, che fa capire che si tratta di un libro per chi la scienza non la conosce per nulla o quasi. In questo modo il lettore digiuno di fisica viene messo a proprio agio. Il secondo motivo è che a differenza di tanti intellettuali aristocratici l’autore si mette in gioco con un’operazione intelligente di divulgazione. Ben vengano libri così, che spiegano con chiarezza e intelligenza concetti non così semplici. Vorrei ricordare che sono molti i Nobel che una volta smessa la ricerca si dedicano, appunto, alla diffusione e divulgazione scientifica. Il terzo motivo per cui questo libro è importante, e vende, è che declina la scienza non separandola dalla cultura: da noi ancora vige l’idea che la scienza sia solo calcolo, misurazione”.
Ma non basta: ci sono poi anche ulteriori motivazioni che spiegano i motivi del successo di questo piccolo saggio. “È un libro di segno inverso rispetto alla retorica avvocatesca e tribunalizia di questo paese che pervade anche i programmi scolastici e anzi mi piacerebbe leggere un analogo di economia e politica”, continua Bucciantini. “L’altro aspetto vincente del saggio è che in un momento caotico mette in ordine le idee seguendo la chiave della semplicità, e forse un altro motivo per cui si vende è che c’è un grande bisogno di idee chiare e distinte. Infine, è un libro che non ha nessun finalismo, sostiene che la scienza e la fede debbano restare separate e anzi il finale è all’insegna di Lucrezio”.
MOLTO PIÙ scettico, casi editoriali a parte, sulla fortuna della scienza e della divulgazione scientifica nel nostro paese è il pedagogista Benedetto Vertecchi, che pure ha apprezzato il libro di Rovelli. “Non credo che il fatto che un libro abbia successo consenta di fare inferenze sull’impatto che ha davvero nella cultura della popolazione. 160 mila copie sono tante, ma se facciamo un confronto, ad esempio, con il numero di persone che leggono gli oroscopi è facile capire che la cultura scientifica sta messa proprio male. Insomma, va benissimo che ci siano libri che aprano la prospettiva, ma quella occidentale sta diventando una cultura antiscientifica perché si accontenta di pseudoscienza che non richiede alcun pensiero o dimostrazione.
Pensiamo alle infinite medicine alternative che non dimostrano nulla o alle infinite ricette di migliorismo sociale cui non corrisponde alcuna analisi storica: insomma sembra interessare di più il magico che non la capacità di argomentazione e la conoscenza per cause di aristotelica memoria. Altrimenti non ci chiederemmo perché, se andiamo nelle università, troviamo uno studente di fisica per decine di studenti di facoltà di musica o spettacolo”.
LO SCIENZIATO Carlo Rovelli, 58 anni, è uno dei fondatori della gravità quantistica
SETTE BREVI LEZIONI DI FISICA di Carlo Rovelli. Adelphi, pagg. 88, € 10,00

Corriere 1.4.15
Lo studio
Così il cervello ci salva dalle delusioni amorose
Tradimenti o bugie. La dopamina scaccia la sofferenza e aiuta a ricominciare
di Edoardo Boncinelli

qui


La Stampa 1.4.15
Torino
Il Museo Egizio si rinnova: ecco com’è cambiato

un video qui