giovedì 19 marzo 2015

Corriere 19.3.15
«La Cgil non ci rispetta Senza nuove alleanze il sindacato scomparirà»
Landini: l’iniziativa del 28 è aperta ma no ai partiti sul palco
di Lorenzo Salvia


ROMA «Il sindacato non si deve occupare solo dei lavoratori ma anche di altri temi: la sanità, l’ambiente, i diritti. Non solo lo penso ma lo rivendico». Susanna Camusso sostiene che la sua scelta indebolisce i lavoratori. «Non arrivo a dire che sia la sua posizione a indebolire i lavoratori perché sono rispettoso del segretario della Cgil, anche se la Cgil non è lo è con noi. Ma guardi che se quel sindacato esiste da 100 anni è proprio perché è sempre stato un soggetto politico. Se avesse fatto solo il sindacato di mestiere...». Il segretario della Fiom Maurizio Landini è in treno fra Roma e Firenze. La linea va e viene. Ma il suo ragionamento fila ad alta velocità.
Se avesse fatto solo il sindacato di mestiere, diceva? «Non esisterebbe più. Contro il governo la Cgil ha fatto uno sciopero generale. E cos’è quello se non uno sciopero politico? Solo che il governo non si è mosso di una virgola e noi dobbiamo prendere atto di una situazione senza precedenti». Quale, segretario? «Il governo non solo sta riducendo i diritti senza consultare nessuno ma sta uccidendo tutti i corpi intermedi, non soltanto il sindacato ma l’intero concetto di rappresentanza. Quindi o noi allarghiamo l’alleanza alle associazioni e ai movimenti oppure veniamo spazzati via. Tutti». Nella coalizione sociale lanciata dalla Fiom ci sono anche associazioni come Emergency e Legambiente. Cosa c’entrano con il lavoro? «C’entrano eccome. Facciamo l’esempio dell’Ilva di Taranto. Lì c’è anche una grande questione ambientale. E se io non coinvolgo le associazioni ambientaliste il problema non lo risolverò mai. Ma questo non vuol dire che non siano i lavoratori a decidere, né che il sindacato rinunci al suo ruolo. Ma agli strumenti tradizionali bisogna aggiungerne altri, altrimenti il sindacato sparirà». Per questo Landini spiega di pensare a «forme di referendum» che riguarderanno non solo il Jobs act . Mentre respinge la richiesta della Camusso di un «documento comune» prima della manifestazione del 28 marzo, che vedrà in piazza sia la Fiom sia la Cgil: «Non c’è bisogno di scrivere nulla. Il documento comune c’è già, è quello approvato all’assemblea della Fiom che parlava proprio della coalizione sociale: approvato con il 93% dei voti, c’era pure un rappresentante della Cgil. Davvero non vedo cosa chiarire». Tuttavia un modo per evitare la rottura immediata è stato trovato: «Quella del 28 sarà la manifestazione della Fiom e chi vuole partecipare potrà farlo, come sempre é stato. Daremo la parola anche a associazioni e personalità». E ai partiti? «Possono venire ma non parlare dal palco. E non sarà la manifestazione della coalizione sociale perché la coalizione non esiste ancora. Per ora è una proposta: ad aprile saranno le associazioni, non Landini, a decidere se andare avanti».
Sulle regole per scegliere il nuovo segretario cgil, Landini dice non pensare alle primarie, «anche visto quello che succede quando le fanno i partiti» ma a «far votare i delegati eletti in ogni azienda». E se la Cgil non sceglierà questo modello «la Fiom deciderà cosa fare». Camusso ha detto che alla fine del suo mandato, nel 2018, non farà più sindacato in prima linea e non entrerà in politica. Anche il suo mandato scade nel 2018. Lei cosa farà? «Tornerò a disposizione della Cgil». E da qui al 2018? «Il segretario della Fiom. Anzi, posso dire un’ultima cosa prima che ricomincino le gallerie?» Prego. «Il 28 venite tutti a Roma».

il Fatto 19.3.15
La contestazione
Dalla Fiom ai movimenti tedeschi, una coalizione sociale all’europea
di Salvatore Cannavò


Una prova di coalizione sociale europea. L’occasione è stata data dall’inaugurazione della nuova Eurotower della Bce, un grattacielo da oltre un miliardo di euro contestato dal movimento Blockupy, costellazione di movimenti sociali, sindacati, forze politiche, che ha letteralmente occupato Francoforte tenendo impegnate le forze di polizia dalle 6 del mattino fino a sera.
TRE I MOMENTI della giornata: i blocchi, veri e propri, che sono sfociati anche in scontri, barricate e falò, con centinaia di arresti, durante tutta la mattinata; un corteo sindacale a mezzogiorno; un grande corteo, pacifico, nel pomeriggio. I blocchi si sono divisi in cinque colori, blu, rosso, verde, rosa, nero, e hanno puntato a bloccare le varie arterie della città con l’obiettivo di isolare la Bce al centro. A un certo punto, però, sono sbucati i passamontagna color arcobaleno per formare un blocco Rainbow, che ha riunito tutti.
Gli organizzatori avevano dichiarato di voler arrivare “il più vicino possibile” all’Eurotower, utilizzando solo “i nostri corpi” senza nessuna “escalation”.
Questo schema, in parte, è sfuggito di mano con la presenza di altre componenti, per lo più anarchici francesi e tedeschi, che hanno dato vita a scontri e barricate. “Hanno causato numerosi incendi e un totale di sette auto della polizia sono state date alle fiamme”, ha detto la portavoce della polizia Claudia Rogalski, aggiungendo, però, che “ci sono dimostranti pacifici e anche criminali”. Da qui, i fermi e poi gli arresti, tra cui molti italiani, una delle delegazioni estere più rappresentative con la presenza del circuito di centri sociali del Global Project, del network dello Sciopero sociale, della Fiom e di delegazioni di Sel e Prc.
Nel pomeriggio, con la partenza del corteo, la tensione si è sciolta. La manifestazione, tra le 10 e le 20 mila persone, a seconda delle fonti, ha visto sfilare anche bambini, in un classico corteo “popolare” che si è concluso in piazza dell’Opera. Prima dell’avvio, tra gli interventi anche quello di Naomi Klein, molto dura contro la Bce accusata di essere “la vera devastatrice”.
Il filo conduttore della giornata è stato comunque la solidarietà alla Grecia e, non a caso, nella manifestazione si sono viste le bandiere di Syriza oltre a quelle della spagnola Podemos. “Non è vero che non sta succedendo niente intorno a noi” racconta al telefono un entusiasta Michele De Palma, che a Francoforte ha capeggiato la delegazione della Fiom. “Quello di oggi (ieri, ndr) è un segnale che ci ha confortati nella nostra idea di costruire una coalizione sociale”.
SODDISFATTA ANCHE Natascia del Social strike, la rete dello sciopero sociale che lo scorso novembre manifestò in decine di piazze italiane. “Il corteo è andato molto bene anche se in serata la polizia ha fermato un po’ di gente. Ma la mobilitazione è cominciata molto presto, alle 6 del mattino”. Natascia ha partecipato a uno dei blocchi, il più vicino alla sede della Bce: “Abbiamo bloccato delle strade, la polizia ci ha spinto in una piazza della zona rossa e da lì ci siamo spostati in giro per la città. A quel punto, all’interno del quartiere si sono unite a noi varie persone, in pochi minuti siamo raddoppiati”. C’è spazio anche per una “nota romantica”: Quando ci hanno bloccato siamo rimasti sotto le case popolari che circondano la Bce – Grossmarkthalle, i vecchi mercati generali della città, dove tra il 1941 e il 1945 oltre 10 mila ebrei furono deportati verso i campi di concentramento nazisti – gli abitanti ci hanno fatto salire e ci hanno tirato viveri dalle finestre. Una solidarietà che non avevo mai visto”.

Il Sole 19.3.15
Draghi difende euro e riforme in una Francoforte assediata dai Black bloc anti-austerity
«Bce non ha colpe, ma ascoltiamo i cittadini»
di Alessandro Merli


Francoforte Guerriglia urbana a Francoforte. Sotto attacco dei “black bloc” la nuova sede della Banca centrale europea. Il presidente della Bce, Mario Draghi, difende euro e riforme: «Bce non ha colpe, ma ascoltiamo i cittadini».
Mattinata di guerriglia urbana a Francoforte contro l’inaugurazione della nuova sede della Banca centrale europea nella zona est della città.
Fin dalle prime ore della mattina, i manifestanti, convocati da Blockupy e altri movimenti anti-sistema, oltre che da alcuni partiti dell’estrema sinistra europea, per protestare contro la Bce e le politiche di austerità, si sono riuniti in diversi punti del centro, hanno incendiato cassonetti delle immondizie, spaccato e imbrattato vetrine e pensiline degli autobus. Poco lontano dalla sede della Bce, circondata da filo spinato, transenne e da un cordone delle forze dell’ordine in assetto anti-sommossa, hanno dato alle fiamme sette vetture della polizia, altre automobili e alcuni pneumatici. Quando i dimostranti più violenti, alcune centinaia, hanno cominciato a lanciare bottiglie d’acqua e sanpietrini contro i poliziotti e cercato di costruire barricate con i materiali di un vicino cantiere, la polizia, che qui è addestrata a non incitare ulteriore violenza ma a cercare di minimizzare l’impatto degli scontri, ha risposto con brevi cariche e facendo entrare in azione gli idranti. Secondo una portavoce della polizia locale, una novantina di agenti ha dovuto ricorrere a cure mediche in seguito al lancio da parte dei manifestanti di liquido irritante. Gli organizzatori della manifestazione lamentano l’uso di gas lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine. Circa 350 persone sono state fermate e quasi tutte rilasciate dopo l’identificazione: la polizia ha compiuto 16 arresti.
Nel distretto finanziario, alcuni manifestanti sono saliti in cima al grattacielo Skyper, srotolando uno striscione «Il capitalismo uccide». Nella tarda mattinata, la situazione era ritornata generalmente alla calma e nel pomeriggio un raduno nella centrale piazza del Roemerberg, davanti al municipio, ha raccolto per un comizio oltre 15mila persone, che sono poi sfilate in corteo, con musica a tutto volume, fino alla Alte Oper. Vetrine di una banca infrante e breve sassaiola contro la polizia.
Le colonne di fumo degli incendi visibili a grande distanza, il rumore degli elicotteri che hanno volteggiato sulla città fin dalla sera prima, l’odore acre della gomma bruciata sono inusuali per una città conservatrice e tranquilla come Francoforte, dove anche le proteste degli anni scorsi contro la Bce, nel suo vecchio edificio, si erano svolte sempre senza particolari violenze, così come lo sgombero di un accampamento installato per mesi nei giardinetti attorno al famoso simbolo dell’euro.
All’interno della Bce, la cerimonia di inaugurazione del nuovo edificio, dove i dipendenti hanno cominciato a lavorare già nel novembre scorso e che è costato 1,2 miliardi di euro con una notevole dilatazione dei costi rispetto al progetto originario, si è svolta regolarmente. Il presidente Mario Draghi, arrivato in elicottero, ha difeso le politiche della banca, pur ammettendo che «la gente sta passando momenti molto difficili». «Dato che la Bce ha giocato un ruolo centrale in tutta la crisi – ha detto – è diventata il bersaglio di coloro che sono frustrati da questa situazione. Può essere un accusa non corretta: la nostra azione ha puntato proprio ad attutire gli shock sofferti dall’economia». Draghi ha riconosciuto che la Bce deve ascoltare attentamente la voce di tutti i cittadini. «Capisco cosa motiva i manifestanti – ha detto Draghi – ma non offrono una soluzione. Vogliono un’Europa più integrata attraverso maggiore solidarietà fra le nazioni. La solidarietà è un elemento centrale dell’integrazione europea ed è giusto che i Paesi si siano sostenuti l’uno con l’altro durante la crisi. Ma l’area dell’euro non è ancora un’unione politica dove alcuni Paesi pagano per gli altri in modo permanente. È sempre stato chiaro che i Paesi devono essere in grado di stare in piedi da soli, che ognuno è responsabile delle proprie politiche. Il fatto che alcuni abbiano attraversato un aggiustamento difficile è una conseguenza delle loro decisioni passate». Draghi ha però anche respinto l’idea dei populisti di «rinazionalizzare le economie». «Nessun Paese del mondo – ha detto – è al tempo stesso prosperoso e isolato dalla globalizzazione».

Il Sole 19.3.15
L’Europa spaccata, da Atene a Francoforte
di Adriana Cerretelli

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Il Sole 19.3.15
Una protesta male indirizzata
di Carlo Bastasin

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Il Sole 19.3.15
Diritto di famiglia. Via libera del Senato al provvedimento che abbatte i tempi per sciogliere il matrimonio
Divorzio breve, rischio ingorgo
Possibile per i «separandi» anticipare la presentazione dell’istanza
di Giorgio Vaccaro


Il Senato ha approvato a larghissima maggioranza, con 228 sì, 11 no e altrettanti astenuti, il Ddl sul divorzio breve. Il provvedimento, che ha subito delle modifiche rispetto al testo originariamente approvato da Montecitorio, torna all’esame della Camera dei deputati.
La principale novità è il superamento del filtro dei tre anni :il termine per la domanda di divorzio sarà un anno dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale. Il Senato, con l’approvazione “con modifiche” del Testo unificato sul cosiddetto divorzio breve, ha dato il suo imprimatur a una modifica della norma del divorzio che, ove definitivamente approvata dalla Camera nella sua terza definitiva lettura, introdurrà il “termine breve” per la proposizione della istanza di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Ancora, vi è da porre in evidenza come la modifica consentirebbe a tutti i coniugi che si trovassero coinvolti nella fase istruttoria di un “separazione giudiziale” di poter – immediatamente - sfruttare il termine breve, posto che l’articolo 1 della legge in approvazione, prevedrebbe con il nuovo testo dell’articolo 3 della legge che regola il divorzio, la possibilità per i coniugi di presentare la domanda di divorzio una volta spirato il termine annuale.
Il termine annuale è stato poi conseguentemente ridotto a “sei mesi” - con una disposizione quanto mai coerente con il principio della “contrazione dei termini” che sembra essere l’unica attenzione dell’attuale legislatore - per quelle domande di separazione che siano state introdotte con la formula della domanda consensuale, per le quali quindi è immaginabile l’inutilità di tempi maggiori per meglio elaborare il lutto separativo.
Infine si deve citare la modifica prevista all’articolo 3 della norma in corso di approvazione che riguarda la “cessazione” degli effetti della comunione legale tra i coniugi: questa con l’entrata in vigore della norma, viene espressamente fatta decorrere, con l'inserimento del II comma all’articolo 191 del codice civile, nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, nel caso di separazione giudiziale e dal momento dell'udienza presidenziale nelle separazioni consensuali omologate.
Quanto all’efficacia della nuova normativa sui tempi “ridotti” per introdurre l’istanza di divorzio il testo prevede come la disciplina si possa applicare per le domande di domande di divorzio proposte «dopo l’entrata in vigore della presente legge» ribadendo poi il concetto già implicitamente regolato all’articolo 1, secondo il quale in pendenza di giudizio per la separazione non osti alla formulazione della domanda di divorzio.
Questo del coordinamento tra i giudizi in corso e l’immediata proponibilità dell’istanza per il divorzio costituisce, come può osservare ogni operatore del sistema della giustizia della famiglia, il punto più debole dell’intero impianto normativo. Ciò che appare esser sfuggito al legislatore è il fatto che l’immediata possibilità, per la numerosissima platea di coniugi “separandi” di presentare al proprio tribunale la domanda per il divorzio, comporterà, viste le attuali enormi difficoltà di smaltimento del lavoro ordinario dei tribunali (che nelle curie più grandi, fissano oggi per l’udienza presidenziale una data a sei mesi dal deposito della domanda) la contestuale, ovvia, paralisi degli uffici.
Ancora non può sottacersi l'aspetto critico più tecnico, quello connesso alla “contemporanea” pendenza di due “domande differenti” avanti al medesimo giudice della separazione, tema che sicuramente provocherà numerose critiche all'impianto normativo, che in merito nulla dispone.

Corriere 19.3.15
Istituzione sociale, sacramento, contratto
La metamorfosi della famiglia (e del divorzio)
di Paolo Conti


ROMA Il divorzio breve tra poco sarà legge. Ieri il via libera del Senato in un clima più disteso, con la cancellazione dello stralcio del divorzio lampo. Pronunciato il sì della Camera, il divorzio potrà essere richiesto dopo sei mesi dalla separazione in caso di accordo consensuale, e passato invece un anno se con un ricorso al giudice.
Continua a cambiare velocemente, nella società italiana e nella nostra cultura diffusa, l’idea di famiglia e di matrimonio, istituzioni citate nell’articolo 29 della nostra Costituzione. Dal Dopoguerra a oggi il mutamento è stato continuo e progressivo, sempre registrato, per esempio, dal grande cinema italiano e dalla fiction. Se Ettore Scola raccontò bellezze e miserie del modello più tradizionale e più praticato in «La famiglia» nel 1987 (ed è davvero un titolo tra i tanti possibili offerti dalla poetica della Commedia all’italiana) bisogna arrivare alla serie tv «Tutti pazzi per amore» a fine 2008 per trovare, in prima serata su Raiuno , la proposta di una famiglia allargata come normalità quotidiana. La frattura di un vero tabù narrativo. Perché la famiglia tradizionale, decantatrice di solidi amori e di violenti contrasti, resta comunque un riferimento incontrastato nelle vite di milioni di italiani.
Il lungo cambiamento è cominciato — spiega Luigi Balestra, docente di Diritto privato a Bologna, firma de «Il Mulino» e autore di molti commentari sul Diritto matrimoniale — nel Dopoguerra a tappe serrate: «Il lavoro femminile extradomestico, l’emancipazione progressiva della donna, la fine della separazione per colpa, il venir meno dell’indissolubilità del legame matrimoniale, per non parlare della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, che ha oggettivamente affidato una posizione di forza alla donna: tutti elementi destinati a corroborare le posizioni individualistiche a scapito della comunità familiare. In più pesano i modelli stranieri, soprattutto quelli legati al matrimonio omosessuale». Siamo vicini alla fine della famiglia come l’abbiamo conosciuta? «No. Penso che in una società frammentata e disarticolata ci saranno varie modalità di intendere il concetto, persino all’interno dei membri della stessa famiglia tradizionale».
Fiamma Lusanna, professore associato di Storia contemporanea e Storia delle donne in età contemporanea presso l’Università di Sassari sostiene che ai tempi dell’approvazione della legge Baslini-Fortuna nel 1970 la società italiana fosse già pronta alla svolta: «Mi pare che l’ Europeo abbia titolato in quell’anno: “Italia è più matura della sua classe politica”. Loris Fortuna portò, nel 1966, ben 32 mila cartoline firmate da uomini e donne di tutta Italia favorevoli al divorzio. Il mutamento epocale c’era già stato, sullo sfondo del boom economico, attraversando, in una contrapposizione modernità-antimodernità, l’intera società italiana. Fu poi la politica a frenare. Perché da sempre ha altri fini….» Fiamma Lusanna è di cultura laica e un suo collega di area cattolica, Andrea Possieri, contemporaneista all’Università di Perugia, individua il punto di svolta nel 1975 con la riforma del Diritto di famiglia: «Fu un mutamento epocale che cambiò per sempre il modo di vivere in quel nucleo. Sparì il paradigma maschilista, si proclamò la parità tra uomo e donna, vista come soggetto attivo». E adesso, dove stiamo andando? «Direi verso un modello liquido di famiglia, di pluralità di forme. Ora però il legislatore deve decidere se la famiglia sia un contratto come gli altri o se vada, invece, valorizzato. Io penso che vada tutelato anche perché la famiglia assicura una stabilità nei rapporti sociali e anche nei consumi, sostenendo l’economia e quindi portando verso il benessere».
Il sociologo Marzio Barbagli da anni studia la famiglia italiana e ne segue i progressivi assestamenti: «L’istituzione matrimoniale era già cambiata ben prima, tra gli italiani, della legge sul divorzio che venne approvata a fatica per la forte influenza della Chiesa cattolica ma anche per la sostanziale debolezza economica delle donne. «E oggi? Naturalmente oggi la situazione è molto diversa e la nuova legge sul divorzio breve interviene su una legislazione unica nei Paesi occidentali. La lunga separazione ha avuto un effetto negativo soprattutto per le donne, sfavorite rispetto agli uomini per l’attesa di una prospettiva di un secondo legame matrimoniale. Infatti l’Italia registra un’altra anomalia, la più alta percentuale di convivenze extramatrimoniali con uno dei partner separato e non divorziato».
Ma è possibile immaginare, nel 2015, un nuovo modello di famiglia? «Non credo proprio che arriverà un nuovo modello. Vedremo la progressiva affermazione e organizzazione di una pluralità di concezioni del mondo, sensibilità, etiche, affettività differenti tra loro».

Repubblica 19.3.15
Il Ddl
Sì del Senato al divorzio breve 500mila coppie in attesa della legge


ROMA Il divorzio breve è stato approvato ieri a larghissima maggioranza in Senato e tornerà alla Camera per la terza lettura. Il provvedimento, secondo l’associazione matrimonialisti, riguarda oltre 500mila coppie in attesa di divorzio in Italia, di uno scioglimento che arrivava per legge dopo tre anni ma sempre più spesso dopo cinque. Ora, se l’addio è consensuale, i tempi di attesa saranno tagliati a sei mesi. Ma non basta, sottolinea Gian Ettore Gassani, presidente dell’associazione avvocati matrimonialisti: «Ci si trova a passare ugualmente due volte dal giudice perché è stata stralciata la norma che prevedeva la possibilità di evitare la separazione e arrivare subito al divorzio per chi non ha figli. Siamo un paese paternalista, unico in Europa che prevede la separazione per poterci ripensare quando a tornare assieme dopo aver presentato domanda sono solo il due per cento delle coppie».

La Stampa 19.3.15
L’ululato
di Massimo Gramellini


Se avessi vent’anni e mi facessi il sangue amaro tra curriculum e concorsi, sarei molto irritato con Lupi, il ministro mannaro. Gli chiederei con quale coraggio possa ancora sostenere che l’Italia è il luogo delle opportunità per tutti, quando lui e suo figlio hanno appena offerto una dimostrazione plateale del contrario. Nella corruzione elevata a sistema, le mazzette in contanti sono diventate il lubrificante dei poveracci. A certi livelli le persone si vendono e si comprano attraverso i favori. Io regalo una casa a te che firmi un documento a me che trovo un lavoro a tuo cognato che ne darà poi uno a mio figlio. Le chiamano «triangolazioni». Ecco, se avessi vent’anni, sarei stufo di vivere in un Paese triangolare. Ne vorrei uno quadrato. Dove chi sta al governo si rende conto di avere responsabilità superiori a quelle degli altri cittadini. Anche come genitore. Lupi ha detto che al posto del figlio non avrebbe mai accettato in regalo un Rolex da diecimila euro (da un signore che lavorava grazie a suo padre, aggiungo io). Anziché ai giornalisti, avrebbe potuto spiegarlo prima all’interessato. 
Parli così perché non hai figli, mi ha redarguito un amico: qualunque cuore di padre si prostituirebbe pur di aiutare la sua creatura. Ma un ministro non è «qualunque padre». I suoi comportamenti vengono illuminati dai media e diventano modelli che incidono sull’umore di milioni di persone. Come sosteneva Platone, e immagino anche don Giussani, i governanti di una nazione evoluta dovrebbero vivere in una condizione di celibato morale. Se non sono in grado di reggerla, possono sempre fare altro. Per esempio dimettersi. 

Repubblica 19.3.15
La questione morale e la zona grigia del premier
Il caso Lupi potrebbe trasformarsi in tempi rapidi nel caso Renzi se il governo non esce dall’ambiguità
di Stefano Folli


IL CASO Lupi rischia di finire in una zona grigia, o meglio opaca, senza apparenti vie d’uscita. Né chiarimenti né dimissioni. Dubbi e sospetti a volontà, nonché il solito discredito che plana sulla politica romana. È questo che vuole il presidente del Consiglio? In tal caso si prepari a pagarne le conseguenze sul terreno che più gli sta a cuore, quello mediatico. Perché il caso Lupi potrebbe trasformarsi in tempi rapidi nel caso Renzi.
È facile capire le ragioni. Ieri il ministro delle Infrastrutture ha detto in Parlamento di sentirsi del tutto tranquillo e di godere della fiducia e dell’appoggio del governo. Se questo è vero, la questione si chiude, almeno fino a quando l’inchiesta giudiziaria dovesse riservare altre sorprese. Nessun ministro che sente la fiducia del suo presidente ha motivo di dimettersi. Ma vale anche il contrario: un ministro a cui è stata ritirato il sostegno di chi guida il governo, non può restare al suo posto. E non si parla delle mozioni di sfiducia presentate alle Camere dai Cinque Stelle e dal Sel per un’ovvia operazione politica. Ci si riferisce a quel patrimonio prezioso e insondabile che è il rapporto fiduciario fra il presidente del Consiglio e il responsabile di uno dei maggiori dicasteri.
Esiste ancora quel rapporto oppure no? Ieri Lupi ha fatto capire che sì, esiste. Lo ha fatto intendere con le parole e anche con gesti inequivocabili, quasi di esultanza, dal banco del governo. Forse aveva ragione, perché nell’arco del pomeriggio Matteo Renzi non lo ha smentito. Da Palazzo Chigi non è venuto alcun segno, alcun distinguo. Eppure il giorno prima il presidente del Consiglio aveva lasciato filtrare tutto il suo disappunto per gli sviluppi dell’inchiesta che ha riempito le pagine dei giornali (anche in questo caso senza smentite di sorta).
L’irritazione del premier era palese, come evidente era la volontà di indurre il ministro alle dimissioni nel più breve tempo possibile. Del resto, il «garantismo» renziano non è mai stato assoluto, bensì legato alle convenienze politiche. Tutti ricordano il caso di Anna Maria Cancellieri, difesa da Enrico Letta, allora premier, e attaccata impetuosamente, con richiesta perentoria di dimissioni, dal sindaco di Firenze che andava in cerca di occasioni per indebolire il rivale. Da presidente del Consiglio l’impeto si è attenuato, ma Renzi ha sempre alzato la bandiera della questione morale, anche per sottrarla a Grillo e Salvini. L’uomo che vuol cambiare verso all’Italia non meno che all’Europa ha sempre curato — lo sappiamo — l’immagine del rinnovatore a tutto campo, capace di rifiutare i compromessi al ribasso. E il rinnovatore non può tollerare le zone opache.
Questo sulla carta. In pratica le contraddizioni del caso Lupi raccontano un’altra storia. Può darsi che il premier si sia convinto che il ministro merita il suo appoggio, ma allora ha il dovere di dirlo con chiarezza uscendo dall’ambiguità. Non possono coesistere due opposte interpretazioni dei fatti a distanza di ventiquattro ore. Anche perché la vicenda Lupi dovrà chiudersi in un modo o nell’altro entro pochi giorni, a meno di non voler creare altro sconcerto in una pubblica opinione a cui il presidente del Consiglio è sempre molto attento. E il recente caso De Luca in Campania dimostra quanto sia grande la distanza fra la retorica e la realtà.
Certo, esiste una spiegazione politica per i tentennamenti e forse è la più autentica. Lupi è stato difeso con vigore dal suo partito, l’Ncd. L’asse con Alfano si è rivelato ancora una volta la struttura portante dei centristi: se si spezza e il ministro viene abbandonato al suo destino, il cortocircuito rischia di diventare incontrollabile. Una crisi distruttiva per il gruppo Ncd-Udc, uscito molto male dalle polemiche sull’elezione di Mattarella. Non stupisce che Renzi si preoccupi della stabilità del suo governo, messa in pericolo dalle convulsioni centriste. Ma senza dubbio egli si rende conto che il renzismo intriso di «realpolitik »è assai meno suggestivo per gli italiani dei sogni che il premier evoca ogni giorno nei suoi «twitter».

Corriere 19.3.15
I voti del prelato
Il monsignore e l’incarico al nipote: alle Europee chiederò voti per il ministro
di Fiorenza Sarzanini

FIRENZE Assunzioni in cambio di voti alle Europee, favori e regali al figlio, ma anche alla moglie. Gli atti dell’inchiesta di Firenze che ha fatto finire in carcere l’alto funzionario delle Infrastrutture Ercole Incalza e il manager Stefano Perotti, raccontano nuovi dettagli sul ruolo del ministro Lupi. Svelando la rete di interessi che si muoveva per pilotare gli appalti e orientare le scelte sulle nomine, in particolare imponendo alle ditte Perotti come direttore dei lavori in cambio dell’assegnazione dei lavori sulle Grandi opere.
I voti del prelato
Sono proprio Perotti e «l’uomo di Lupi» Franco Cavallo — agli arresti domiciliari — ad occuparsi dell’assunzione del nipote di monsignor Francesco Gioia presso le Ferrovie del Sud Est. Scrive il giudice: «Il 19 aprile, monsignor Gioia riconosce a Incalza il merito di avergli risolto con successo il problema del posto di lavoro per il nipote Gianluca, grazie al suo «intervento sull’amico Fiorillo» con cui pure lui ormai ha allacciato un rapporto di amicizia «mi hai risolto un problema grosso grosso... Se non c’era il tuo intervento non si muoveva nessuno. Tu fai paura». In seguito ci sono una serie di conversazioni tra Cavallo, Gioia e Perotti che attengono alle iniziative che lo stesso Gioia intende assumere al fine di reperire «voti» per le «Europee, in favore di Maurizio».
Gioia: mi dovete far sapere chi porta il “capo” per le Europee perché io non so nulla ancora ma è urgente che ce lo diciate anche perché se devo poi avviarmi per alcuni istituti religiosi del mio entourage no? Per segnalare.
Cavallo: Sì ci penso io. Martedì sono giù e ti chiamo, ok.
Nella richiesta di arresto i pubblici ministeri sottolineano che «Perotti si avvale quotidianamente del Cavallo, quale uomo «di fiducia» del ministro Lupi, per fare transitare a quest’ultimo richieste ed informazioni e per far leva su imprenditori e uomini delle istituzioni in relazione a fatti e situazioni di suo interesse».
Il biglietto alla signora
Tra gli sponsor politici di Lupi c’è anche Salvatore Menolascina, della cooperativa «La Cascina» — coinvolta in numerose inchieste, compresa Mafia Capitale — che lo incontra a Bari per la convention del Nuovo centrodestra. Scrivono i pm: «Il ministro Lupi organizza la convention dell’Ncd a Bari avvalendosi di Menolascina e si comprende che, a margine di questo evento, Menolascina organizza una cena ristretta con Lupi alla quale dovrebbe partecipare anche Cavallo e “tre quattro di noi”. Dal tenore dei dialoghi intercettati si comprende che questo incontro ha natura riservata, tanto che Menolascina dice a Forlani Emmanuele (segreteria del Ministro Lupi) che si tratta di una cosa “super riservata”. Da un dialogo intercettato il 10 gennaio 2014 tra Lupi e Menolascina, si comprende che devono vedersi dieci minuti prima della cena: “Tanto alle nostre cose so 10 minuti... noi 10 minuti prima ci vediamo... io te e coso”. Proprio in relazione a questo evento in Bari, Cavallo si attiva per procurare un biglietto aereo (tratta Milano-Bari) alla moglie del ministro Lupi, Dalmiglio Emanuela; a tal fine si rivolge al solito Altieri Gaetano; il prezzo di questo biglietto è di € 447,03; la ricevuta del pagamento risulta intestata al Cavallo, cui viene trasmessa via mail dall’indirizzo di posta elettronica di Pietroletti Gabriella della cooperativa “La Cascina”. Non è dato sapere se tale spesa sia stata rimborsata».
Lo stipendio al figlio
Sono i magistrati coordinati dal procuratore Giuseppe Creazzo a specificare che Perotti, non solo si occupò di trovare un lavoro al figlio del ministro, «ma se ne assunse anche gli oneri». E chiariscono: «Dalle conversazioni intercettate l’8 gennaio 2014 emerge che l’interessamento del Perotti veniva attivato da Incalza (il quale a sua volta aveva incontrato Lupi Luca su richiesta del ministro Lupi) e che lo stesso Perotti informava di ciò Cavallo; quest’ultimo, lo stesso giorno, contattava Luca Lupi per “organizzare un po’ di cose”. Pochi istanti dopo era Perotti a contattare Luca Lupi.
Perotti: ciao Luca
Lupi: ciao Stefano
Perotti: come stai?
Lupi: bene bene bene
Perotti: allora ti volevo dire io adesso sono a Bressanone, ma se ti fai una chiacchierata con Franco ... così lui ti racconta tutto ... e mi dici quello che devo fare
Lupi: va bene, no perché oggi ero lì dal
Perotti: sì ... dall’uomo
Lupi: mi ha detto gli volevo chiedere un p0’ di cose, ho fatto un po’ di domande, allora sono venute fuori un paio di cose anche ad altre. .. “parliamone anche con Stefano” quindi allora ti abbiamo chiamato... però, sì sì va bene, vedo Franco domani
Perotti: bene così evito di...
Lupi: sì sì sì sì, assolutamente, non ti preoccupare
Perotti: perfetto
Lupi: grazie mille, grazie mille
Perotti: un abbraccio, ciao bello
Lupi: ... ciao ciao
Il giovane ottiene il contratto ma in realtà è lo stesso Perotti a «confrontarsi con il cognato sui “rischi” che possono derivare da questo rapporto lavorativo con Luca Lupi».
Sposetti e Nencini
Gli atti rivelano come alle Infrastrutture si concentrino gli interessi di numerosi politici. Scrivono i pm: «Dalle attività di intercettazione emerge che Giulio Burchi — ex presidente Italferr, anche lui indagato — è soggetto molto vicino al senatore Sposetti Ugo, per il quale si attiva in più occasioni al fine di reperire incarichi in favore di persone indicategli dallo stesso Sposetti, tanto che in una conversazione afferma “non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento”. Analoga attività viene svolta dal Burchi su richiesta del viceministro Riccardo Nencini, il quale si interfaccia con il Burchi tramite l’ex parlamentare Del Bue Mauro. In sostanza, Burchi chiede a Del Bue un appuntamento con il Nencini e immediatamente dopo Del Bue chiede al Burchi: “Tu potresti dargli qualche contributo di questo tipo anche a Nencini, ci sono delle nomine da fare in giro, ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente”. Dal tenore delle conversazioni intercettate si comprende, anche, che lo stesso Burchi ha richiesto a più soggetti, compreso Nencini, un intervento in suo favore per una nomina a Terna».

La Stampa 19.3.15
Non c’è solo il figlio di Lupi
“I politici indicavano chi assumere”
Nelle carte dell’inchiesta anche un biglietto aereo offerto alla moglie del ministro
E la procura accusa: “Organizzazione criminale di spessore eccezionale”
di Guido Ruotolo


Maurizio Lupi dice al telefono a Salvatore Menolascina, della cooperativa «La Cascina», finita sotto osservazione oggi per la gestione del centro immigrati di Mineo: «Noi dieci minuti prima ci vediamo...io, te e coso». È il 10 gennaio del 2014 e a Bari il ministro per le Infrastrutture organizza una convention dell’Ncd. È il compagno di merendine di Incalza e Perotti, Francesco detto Frank Cavallo, che procura un biglietto aereo Milano-Bari alla moglie del ministro, Emanuela Dalmiglio. Facendosi finanziare - 447,03 euro - dal solito Gaetano Altieri (quello degli abiti sartoriali). Rolex, un posto di lavoro per il figlio, abiti sartoriali per la famiglia e collaboratori, e adesso anche un biglietto aereo per la moglie. Nulla di cui vergognarsi, nulla per cui dimettersi, dice il ministro.
Il «filtro criminale»
Scrive la Procura di Firenze nella sua richiesta di arresto: «Questa è una storia che dimostra come, nell’ambito degli appalti pubblici, le logiche della corruzione tuttora si impongono con carattere di rilevante gravità come un sistema che ha consentito a un gruppo di soggetti di istituire una sorta di filtro criminale all’ordinario accesso ai grandi appalti pubblici da parte delle imprese private».
Questa è la premessa. Precisa la procura: «Questa organizzazione criminale di spessore eccezionale può essere considerata una delle cause della lievitazione abnorme dei costi, della devastante distorsione delle regole della sana concorrenza economica, di efficienza e trasparenza e non da ultimo dell’aumento esponenziale del debito pubblico».
Numero uno della banda è il Re Mida delle direzioni lavoro, Stefano Perotti, «socio di fatto» di Ercole Incalza, il burocrate potentissimo che ha gestito le grandi opere. Ed è il ministro per le Infrastrutture, Maurizio Lupi, che si rivolge a Ercole Incalza per sistemare il figlio Luca, da poco laureato.
È l’8 gennaio del 2014, Lupi chiama Incalza che a sua volta chiama Perotti e infine questi Cavallo. «Emerge che - scrivono i pm - l’interessamento del Perotti veniva attivato da Incalza (il quale a sua volta aveva incontrato Lupi Luca su richiesta del ministro Lupi) e che lo stesso Perotti informava di ciò Cavallo Francesco. Quest’ultimo, lo stesso 8 gennaio, contattava Luca Lupi per organizzare «un po’ di cose». Pochi istanti dopo era Perotti a contattare Luca Lupi. «Se ti fai una chiacchierata con Franco... così lui ti racconta tutto e mi dici quello che devo fare». Risponde Luca: «Va bene. Vedo Franco (Cavallo, ndr) domani».
Nelle carte della Procura compaiono eserciti di politici, ex potenti, figli, nipoti e nostalgici della Prima Repubblica. Indagato, anche se le sue intercettazioni sono un formidabile atto d’accusa contro Incalza e Perotti, Giulio Burchi, presenza qualificata in diverse partecipate, si lamenta con il senatore Ugo Sposetti (Pd), a cui è molto legato e per il quale «si attiva in più occasioni al fine di reperire incarichi in favore di persone indicategli dallo stesso senatore»: «Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento».
Mica solo con il Pd Ugo Sposetti. «Burchi svolge analoga attività per il viceministro alle infrastrutture, Riccardo Nencini, il quale si interfaccia con il Burchi tramite l’ex parlamentare Mauro Del Bue. In sostanza il Burchi chiede a Del Bue di procurargli un appuntamento con Nencini e questi chiede al Burchi: «Ci sono delle nomine da fare. Ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente».
Nelle carte l’elenco dei politici è lungo. Sono indagati gli ex sottosegretari Bargone, Girlanda e Saglia e l’ex eurodeputato Vito Bonsignore. Poi ci sono i nomi di altri esponenti politici (come abbiamo visto, Sposetti e Nencini). Come quelli di una nutrita pattuglia Ncd, da Alfano a Enrico Costa, da Pagano a Bernardi, a Vignali. E poi altri ancora. In alcuni casi, chiamati in causa solo perché devono sostenere degli emendamenti per finanziare opere pubbliche.
Il nipote del monsignore
Come pure è del tutto normale che il ministro Lupi si occupi delle grandi opere. Meno che intervenga sollecitato dal Perotti di turno. Colpisce che Perotti e Cavallo si riuniscano con monsignore Francesco Gioia, che ha ottenuto dal gruppo l’assunzione di un nipote in una società, «perchè il prelato vuole reperire voti per le Europee in favore di Maurizio Lupi». O che lo stesso ministro, il 6 febbraio scorso, chiami il pensionato Ercole Incalza perchè solleciti il suo successore alla guida della Struttura tecnica di missione del ministero, Paolo Emilio Signorini, per inserire nell’elenco delle opere trasmesse al CIPE anche il progetto per la Statale 106. «Ma c’è. È tutto chiarito». Replica stizzito il ministro: «Non c’è... cazzo...».

il Fatto 19.3.15
Sposetti e il suo centro per l’impiego: Burchi


RIECCOLO. Ugo Sposetti, senatore del Pd e ex tesoriere dei Ds, uomo la cui potenza nei retroscena politici è addirittura leggendaria, viene fuori anche dalle carte dell’inchiesta “Sistema”. Scrivono i pm fiorentini: Giulio Burchi, manager indagato per traffico di influenze, “è molto vicino al senatore Sposetti, per il quale si attiva in più occasioni al fine di reperire incarichi in favore di persone indicategli dallo stesso Sposetti”. In una conversazione è lo stesso Burchi, parlando col senatore del Pd, a dire scherzosamente: “Non faccio altro che l’ufficio di collocamento”. D’altronde Burchi, che compare pure nella lista Falciani, funziona come centro per l’impiego anche per il viceministro Riccardo Nencini, dice la Procura, “il quale si interfaccia con lui tramite l’ex parlamentare Mauro Del Bue”, socialista pure lui. In questo caso è andata così: Burchi - che si occupa, per così dire, di mettere insieme le cose - chiede a Del Bue di procurargli un appuntamento col viceministro e quello allora gli chiede: “Tu potresti dargli qualche contributo di questo tipo anche a Nencini... Ci sono delle nomine da fare in giro... Ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente”. Burchi, dicono i pm, chiede in giro (e pure a Nencini) “un intervento in suo favore per una nomina all’interno della società Terna” e l’entourage del politico toscano in cambio chiede di sistemare un po’ di persone.

La Stampa 19.3.15
“È vero, segnalai due persone. Chi è in difficoltà va aiutato”
Sposetti (Pd): se fossi cattolico la chiamerei opera buona
di Francesca Schianchi


«Se una Procura perde tempo perché qualcuno telefona per cercare un lavoro a chi è in difficoltà, hai voglia a trovare i corrotti…».
Senatore Sposetti, secondo le intercettazioni, Burchi si è attivato per reperire incarichi a persone indicate da lei…
«A chi ha fatto il mio lavoro, di impegno politico da una vita, è capitato, e ancora oggi mi capita, di interessarmi di persone che hanno bisogno di lavoro, o che magari in una particolare contingenza lo hanno perduto».
In che rapporti è con Burchi?
«Uno che ha fatto la mia vita pensa non abbia avuto rapporti con tante persone?».
Ma è un rapporto di amicizia?
«I rapporti in politica non si trasferiscono mai in amicizia».
Burchi con lei avrebbe detto «non faccio altro che l’ufficio di collocamento». Se lo ricorda?
«No, non lo ricordo. Ma Burchi è uno che parla molto».
Ha chiesto aiuto per qualcuno?
«Mi fa ricordare che devo aver segnalato due casi, che lui non ha risolto: un carissimo compagno rimasto senza reddito e un giovanissimo ingegnere finito in cassa integrazione già al primo anno di lavoro. Nessuno dei due casi è stato risolto. E non si tratta di incarichi».
E Burchi avrebbe avuto qualcosa in cambio?
«Io non c’ho tutto ‘sto potere per nominare Burchi chissà dove! A presidente dell’Onu, carica che nemmeno esiste...».
Erano suoi parenti?
«No, ma quali parenti!».
Altri disoccupati penseranno che quei due sono più fortunati a conoscere un politico.
«Se passasse dal mio ufficio, vedrebbe quanti curricula ho, ho fatto tante altre segnalazioni. Mi preoccupa che una Procura così prestigiosa si interessi di chi cerca di trovare sollievo a chi sta in difficoltà».
Qual è la differenza tra segnalazione e raccomandazione?
«Questo non lo so. Possiamo vedere sul Devoto-Oli».
Ha capito bene cosa intendo…
«Ma chi sta in difficoltà va aiutato! Ogni tanto a Viterbo mi capita di incontrare persone che mi ringraziano perché 35 anni fa ho dato risposta positiva a una loro richiesta d’aiuto, e io manco me lo ricordo! L’ultima che ho incontrato è una vedova con quattro figli, a cui ho risolto temporaneamente una situazione problematica... Se fossi cattolico praticante, questa la chiamerei opera buona».
Solo per i «compagni» o per chiunque abbia bisogno?
«Allora non mi conosce. Io sono un buono, anzi eccessivamente buono, e poi mi trovo in questa situazione. Ma questa notizia mi fa stare tranquillo, di una serenità adamantina».
Lupi dovrebbe dimettersi?
«Da quel che emerge non vedo grandi questioni su di lui, poi c’è l’aspetto politico che lascio alla sua sensibilità e all’orientamento del premier e segretario del Pd».

Repubblica 19.3.15
Ugo Sposetti
“Ho raccomandato dei bisognosi davo una mano, come la Caritas”
intervista di Concetto Vecchio


ROMA Senatore Sposetti, lei conosce Giulio Burchi?
«Sì, è un professionista emiliano. Di Modena. Molto affermato. Perché?»
Secondo un’intercettazione dell’inchiesta sui grandi appalti «Burchi avrebbe reperito incarichi in favore di persone indicategli da Sposetti» «Falso. Tutto falso. Non ho reperito incarichi»
E allora come spiega questa intercettazione con l’ex presidente di Italferr?
«Mettiamo che io abbia segnalato un giovane ingegnere che cercava lavoro».
Mettiamo?
«L’ho fatto, ma con persone assolutamente bisognose. Cittadini senza reddito. Disoccupati. Padri di famiglia che avevano necessità di uno stipendio».
Lei procurava lavoro?
«Ho solo provato a dare una mano, a rendermi utile. Un po’ come fa la Caritas».
Ma è giusto che un parlamentare «in più occasioni» faccia delle segnalazioni?
«( Ci pensa). Quale sarebbe il disdoro morale di una simile condotta? ».
Me lo deve dire lei.
«Ho cercato, del tutto disinteressatamente, di fare qualcosa per delle persone che se la passano male. Purtroppo non per tutti il mio sostegno è stato utile: infatti molti di loro sono ancora a spasso».
Ora il suo nome è rimasto in qualche modo impigliato tra le maglie dell’inchiesta. È preoccupato?
«Non proprio. Dovrei? Per avere segnalato un giovane in cerca di occupazione?».
Burchi dice, rivolto a lei: «Non faccio altro che l’ufficio di collocamento! ».
«Non ricordo la frase».
Risulta agli atti.
«Se lo dice la Procura sarà vero».
Era un segno d’insofferenza per le sue insistenze?
«Non saprei. Ma lui è uno che parla, parla, parla. Chissà quante altre cavolate avrà detto».
Burchi è iscritto al Pd?
«Penso di sì».
Il ministro Lupi si deve dimettere?
«Su questo non voglio dire niente. È un problema suo. E di Renzi».

Corriere 19.3.15
«Partito dannoso e clientelare»
L’analisi di Barca sul Pd romano
di Alessandro Capponi


ROMA «Un partito dannoso, cattivo, pericoloso». La relazione della mappatura dei circoli romani del Partito democratico realizzata da Fabrizio Barca su richiesta del commissario Matteo Orfini sarà pure «intermedia» (riguarda la metà delle sezioni della capitale) ma i giudizi che se ne traggono sembrano definitivi. A Roma infatti, secondo Barca, il Pd «non solo è cattivo, ma pericoloso e dannoso». Con «deformazioni clientelari», con «carne da cannone da tesseramento», con le «scorribande dei capibastone», e «senza trasparenza né attività». Un partito al servizio degli eletti, «non dei cittadini».
La relazione segue lo tsunami che, a dicembre, ha travolto Roma: l’inchiesta Mafia Capitale che ha sì riguardato principalmente l’amministrazione precedente guidata da Gianni Alemanno, ma che ha toccato anche quella attuale di Ignazio Marino e il Partito democratico. Da quel momento, Orfini ha chiesto a Barca di indagare e sono cominciate le interviste nei circoli, i questionari, le telefonate a casa degli iscritti (uno su cinque è risultato essere un tesserato falso). E oggi, ecco la prima relazione: i risultati, almeno in parte, sembrano descrivere quasi un mondo criminale. «Si vanno delineando — si legge nella relazione — a un estremo, i tratti di un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso: dove non c’è trasparenza e neppure attività», un partito «che lavora per gli eletti anziché per i cittadini» e nel quale «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”». Vengono citate realtà da «duecento tessere in due ore» fino «a quei circoli talmente schiacciati sull’amministrazione da esser orfani di un pensiero proprio». Certo, scrive Barca, «bisogna essere attenti a distinguerlo» dal partito «buono» che però «subisce inane lo scontro correntizio, le scorribande dei capibastone, e che svolge un’attività territoriale», pur senza «alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere».
Il parlamentare Roberto Morassut, che da anni a Roma denuncia questa situazione, allarga le braccia: «Barca fotografa una situazione che era già chiara. La radiografia finalmente è arrivata, anche se in ritardo. Ora però si deve cominciare a discutere della cura». Barca nella relazione sostiene che ci sono anche «i segni di un partito davvero buono, che esprime progettualità, capacità di raggruppamento e rappresentanza», che «è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione, informando i cittadini e gli iscritti». Così Orfini, per segnalare le due anime del partito, su Twitter ricorda Dottor Jekyll e Mister Hyde: «Dr Partito e Mr Democratico», cinguetta. Ma quale sia la personalità prevalente nel Pd romano, secondo Barca, è fin troppo chiaro.

il Fatto 19.3.15
“Pericoloso e clientelare” Il lato nero del Pd capitale
La relazione di Barca sul partito di Roma dilaniato dal “mondo di mezzo”
di Valeria Pacelli e Tommaso Rodano


L’onda lunga di Mafia Capitale si infrange ancora sul Pd romano. Arriva fino a Ostia, dove il mini sindaco democratico Andrea Tassone si è dimesso e il commissario Matteo Orfini ha decretato un giudizio lapidario sulla città del litorale, governata dal suo partito: “Qui c’è la mafia”. Punto. Via Tassone, quindi, e avanti con l’ennesimo commissariamento: la delega per governare Ostia e il X municipio è stata affidata al magistrato Alfonso Sabella, già assessore alla Legalità.
NEL GIORNO in cui le ombre si allungano fino al mare, arriva – soprattutto – la sentenza durissima di Fabrizio Barca sul Pd capitolino. “Un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso”. Parole testuali, direttamente dalla relazione intermedia scritta dall’ex ministro. Dopo l’esplosione dell’inchiesta sul “mondo di mezzo”, Barca ha ricevuto da Orfini l’incarico di fotografare la condizione del Pd capitolino attraverso la mappatura dei suoi circoli. Il lavoro, portato avanti attraverso incontri e questionari da una squadra di professionisti e volontari, è ancora a metà strada. I dati sulle singole sezioni non sono stati pubblicati e il censimento non sarà completato prima di maggio. Il bilancio però è già chiarissimo. E impietoso: il Pd, scrive Barca, “lavora per gli eletti” invece che per gli elettori, e non “ha alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere”. “Si vanno delineando – si legge nel testo, pubblicato online – i tratti di un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso: dove non c’è trasparenza e neppure attività”. Abbandonato alle clientele, dove al posto dei militanti, c’è “carne da cannone da tesseramento”. C’è anche un Pd buono, scrive Barca, ma “subisce inane lo scontro correntizio e le scorribande dei capibastone”. Matteo Orfini non è sorpreso dalle parole del collega di partito: “Quando abbiamo iniziato questo lavoro sapevamo che tipo di situazione avremmo trovato. Le parole di Barca sono crude ma perfette”.
Ieri per il Pd è stata anche la giornata delle dimissioni del minisindaco di Ostia. Andrea Tassone lascia, precisando di non essere indagato nell’inchiesta che ha travolto il partito romano. I contatti con Salvatore Buzzi, il patron della 29 giugno, ritenuto il braccio destro di Massimo Carminati, li aveva già ammessi. Il 2 febbraio, dopo un incontro col sindaco Marino, Tassone dichiarava: “L’ho chiamato Buzzi, ma l’ho chiamato per aiutare le persone. Non ho nulla di cui vergognarmi”. Alcune telefonate sono finite agli atti dell’inchiesta della Procura di Roma, dove comunque l’ex presidente del X municipio non risulta indagato.
TASSONE viene citato in una proroga alle intercettazioni del 28 maggio 2014. I carabinieri del Ros scrivono: “Venivano acquisite conferme circa il tentativo, da parte di Buzzi, Testa e Carminati con il sostegno di Luca Gramazio, di coinvolgere il presidente del X Municipio, Andrea Tassone, e il capogruppo Pd per Roma Capitale, Francesco D’Ausilio nel progetto di gestione aree verdi e raccolta differenziata presso gli stabilimenti balneari di Ostia; anche il rapporto con Tassone è caratterizzato dal sinallagma corruttivo, avendo il Tassone chiesto al Buzzi l’assunzione di un parente”. Assunzione di cui non vi è però alcun riscontro investigati. Agli atti c’è la telefonata tra Buzzi e Tassone che risale al 27 marzo 2014. Tassone dice: “Senti una cosa Salvato’, io c’ho un piccolo problema... che t’aveva accennato mio cugino”. Buzzi dice: “Chi è tuo cugino? Non lo conosco”. E Tassone: “Non t’avevo accennato di un problema, ma noi ci possiamo vedere un attimo? ”. Buzzi non può: “Oggi no, oggi no proprio (...) ti mando Fabrizio oggi? ”. Tassone: “Se mi mandi Fabrizio gliene parlo a lui”. Dopo questa telefonata il ras delle coop chiama Testa, spiegando – come sintetizza il Ros – “di non aver ben compreso a chi si riferisse parlando di suo cugino, ipotizzando che potesse trattarsi di una richiesta di assunzione”.
Poi Buzzi commenta: “Però lo sai il proverbio della mucca? Se la mucca non mangia non può essere munta”. Il metodo di Mafia Capitale.

Repubblica 19.3.15
“A Roma il Pd è cattivo e pericoloso”
Il dossier-choc di Barca dopo il commissariamento: “Deformazioni clientelari, i circoli lavorano solo per gli eletti”
“Molti militanti subiscono senza reagire le scorribande dei capibastone”
Orfini: purtroppo questa è la verità
di Giovanna Vitale


ROMA Un partito «non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso, che lavora per gli eletti anziché per i cittadini». Un partito che, anche quando funziona, «subisce inane lo scontro correntizio e le scorribande dei capibastone». È impietosa la fotografia che Fabrizio Barca ha scattato al Pd Roma, spedito nei circoli dal commissario Matteo Orfini dopo l’esplosione dell’inchiesta Mafia Capitale.
In fondo a tre mesi trascorsi a battere palmo a palmo le sezioni e a intervistare dirigenti e militanti, il gruppo di lavoro guidato dall’ex ministro ha raccontato la vita di una comunità spappolata che non chiede altro che di essere ricostruita. Secondo Barca, «nel Pd si vanno delineando, a un estremo, i tratti di un partito pericoloso e dannoso: dove non c'è trasparenza e neppure attività» e «dove traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di carne da cannone da tesseramento». Circoli che cioè lavorano solo «per gli eletti », per creare filiere e creare consenso per il singolo candidato. Da distinguere, tuttavia, «dal partito che subisce inane le scorribande dei capibastone, senza alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere». Un gruppo, quest’ultimo, che Dante avrebdormiente, be ben inserito fra gli ignavi.
All’estremo opposto si trovano, invece, «i segni di un partito davvero buono, che esprime progettualità, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione, informando cittadini, iscritti e simpatizzanti». Nel mezzo, in una specie di limbo, giace infine «una sorta di partito dove si intravedono le potenzialità e le risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso nell'autorefenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all'innovazione organizzativa, al ricambio, al resto del territorio». Impermeabile e sordo, attento soprattutto ai propri interessi. Una degenerazione da imputare, anche, a un «uso pletorico degli organi assembleari », spesso individuati come panacea di tutti i mali, unico luogo dove discutere e ottenere risposte. Chiaro il messaggio lanciato da Barca: la Ditta non va difesa a prescindere, ma solo se e laddove funziona. Senza tabù.
Uno sforzo di chiarezza che ha gettato nel panico molti eletti dem. Al quali Orfini non intende offrire alcuna sponda: «Barca dice la verità, se non fosse stato così il Pd Roma non sarebbe stato commissariato».

La Stampa 19.3.15
Civati: diaspora nel Pd, anch’io sono indeciso
“La candidatura anti Paita in Liguria? Renzi ha acuito il disagio”


Non «scissione», ma «diaspora»: così la definisce Pippo Civati. Luca Pastorino, il suo braccio destro, il deputato che con lui ha votato no al Jobs Act, esce dal Pd e si candida alla presidenza della Liguria contro il Pd di Raffaela Paita e Claudio Burlando.
E Civati che fa?
«Rimane nel Pd».
Suona un po’ strano: il politico più vicino a Civati esce dal partito e si candida contro quel partito che è anche di Civati.
«Luca ha posto un problema che rispecchia un disagio che vado segnalando da tempo, ma che è rimasto inascoltato. Comprendo bene il suo gesto e le sue ragioni. In Liguria è successo qualcosa che ha costretto addirittura Sergio Cofferati a lasciare il Pd. E’ un problema locale che si somma a quello nazionale. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso».
Sta dicendo che per ora la considera una scissione locale?
«Sto dicendo che è una diaspora, più che una scissione, un progressivo allontanamento di iscritti, elettori, tra cui molti miei sostenitori, come i centinaia di siciliani che hanno detto addio al Pd, o come il consigliere comunale di Pisa Stefano Landucci. Sta emergendo con forza quel problema che io da tempo rappresento all’interno del Pd. Non è una scissione di gruppi dirigenti: piuttosto è una scissione personale e collettiva che si manifesta in modi diversi. Matteo Renzi non ha mai fatto nulla per ridurre questo divario, anzi ha solo e sempre fatto delle caricature».
Intanto a Venezia le primarie del Pd le ha vinte Felice Casson.
«Casson ha vinto contro gli apparati del Pd. E’ la dimostrazione che io non ho sciolto il centrosinistra, ma vorrei ricostruirlo. Da una parte, però, c’è Casson, dall’altra Pastorino, lo so…»
Cosa sceglie?
«Con Pastorino ho vissuto la vicenda ligure e tante altre con molta sofferenza. Ma mi piacerebbe vedere il centrosinistra rappresentato dal centrosinistra e non da Maurizio Lupi o da un governo che si allea con la destra e imbarca chiunque passi. A Bologna ho detto che non mi ricandiderei di nuovo con il Pd, se si andasse a votare oggi».
Non le pare contraddittorio restare nel Pd a questo punto?
«Vivo queste contraddizioni sulla mia persona. Dicono che sono indeciso ma non è così: mi dispiace vedere la sinistra divisa. E’ l’atteggiamento di chi si concede l’estremo tentativo di credere ancora nel progetto Pd».
Fino a quando ci crederà?
«Non c’è un “quando”, perché non sto costruendo un nuovo soggetto politico: diciamo finché credo di poter riportare alla ragione chi dentro il Pd la pensa come me, ma poi vota sempre sì alle riforme di Renzi. Io rimango a combattere fino all’ultimo, segnalo però che elettori, dirigenti locali e iscritti non sono tenuti a fare lo stesso. Temo che sia un processo inarrestabile che spinge molti dei nostri a essere attratti da soluzioni più radicali tipo Landini».
Maurizio Landini potrebbe essere la sintesi di una sinistra sempre troppo frammentata e litigiosa?
«Io ho sempre collaborato con Sel e con quella che Landini chiama coalizione sociale. Il problema sarà dare una rappresentazione politica a questa coalizione. Ma aspettiamo prima di vedere di che si tratta».

il Fatto 19.3.15
Anticorruzione
I 734 giorni di melina sul Ddl Grasso
di Luca De Carolis


PRESENTATO DA PIETRO GRASSO DUE ANNI FA, IL DISEGNO DI LEGGE APPRODERÀ NELL’AULA DEL SENATO SOLO LA PROSSIMA SETTIMANA. STORIA DI TUTTI I RINVII

Ancora e sempre rinvio. Nonostante gli annunci, gli appelli e gli arresti. Dopo 734 giorni di attesa il disegno di legge anticorruzione slitta ancora. Approderà nell’aula del Senato solo la prossima settimana, causa il combinato disposto tra ingenuità (del governo) e ostruzionismo (di Fi) in commissione Giustizia. Si discuteva degli emendamenti del governo al ddl, quando il forzista Ciro Falanga ha trovato il pretesto: “Un emendamento fa riferimento all’articolo 131 bis sulla tenuità del fatto che non è stato ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale”. Insomma, non si aveva contezza pubblica della norma, contenuta in un decreto legislativo. Il presidente della commissione Nitto Palma (anche lui forzista) ha sospeso i lavori tra proteste incrociate. Il viceministro Enrico Costa (Ap), sorpreso, ha dovuto procurarsi delle copie della Gazzetta ufficiale. Alla fine la commissione ha votato tre dei quattro emendamenti. Ma i lavori sono slittati ad oggi. E per l’approdo in aula del ddl anticorruzione, previsto per stamattina, se ne riparlerà la prossima settimana. L’ennesimo capitolo di una storia di rinvii, qui riassunta.
15 marzo 2013, la mossa dell’ex magistrato
Nel suo primo giorno a Palazzo Madama, il neo presidente del Senato Pietro Grasso deposita un ddl contro la corruzione, il voto di scambio, il falso in bilancio e l’autoriciclaggio. “Il Paese non può più aspettare oltre” dice l’ex magistrato.
Estate 2013, lettere per perdere tempo
Il ddl Grasso arriva nella commissione Giustizia del Senato il 5 giugno, regnante il premier Enrico Letta. Ma si parte subito con rinvio. Il relatore del testo Nino D’Ascola (Pdl, poi Ncd) scrive ai colleghi di Montecitorio, dove si discuteva di un disegno di legge sul voto di scambio, tema incluso nel ddl Grasso. Pone il problema della possibile sovrapposizione tra i due rami del Parlamento. Dalla Camera rispondono che non c’è motivo di fermarsi. In Senato si riparte il 26 giugno, ma con il freno a mano tirato. Da destra criticano il ddl come “ispirato a una logica panpenalistica” (Giacomo Caliendo, Pdl). Mal di pancia anche da Socialisti e qualche dem. Passa l’estate, passa l’autunno. E si arriva al 2014
Primavera 2014, trucchi e promesse
Il 2014 in commissione Giustizia si apre come si era chiuso il 2013: rinvii e tempi biblici. A marzo Nitto Palma fa sapere: “Esprimo disappunto per le reiterate critiche circa la presunta lentezza dei tempi di esame”. Il 22 aprile il M5S chiede di calendarizzare il ddl. E qualcosa si muove, tanto che il 14 maggio D’Ascola scrive il testo unificato, che raccoglie le varie proposte. Il 27 maggio Grasso annuncia per il 10 giugno l’arrivo in aula del ddl. Ma non ha fatto i conti con il Renzi fresco premier, che in piena campagna elettorale per le Europee aveva promesso: “Fanno il daspo ai tifosi, va fatto il daspo ai politici che prendono le tangenti”. Il 3 giugno 2014 il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri (Ndc) si presenta in commissione, e annuncia che il governo “è orientato a presentare un disegno di legge” sulle materie regolate dal testo unificato. Si oppongono solo i 5 Stelle: “Così si ritarderà tutto”. La commissione è costretta ad aspettare 30 giorni. Ma del decreto neppure l’ombra. I Cinque Stelle incontrano più volte il ministro della Giustizia Andrea Orlando, chiedendo che si riparta con il ddl. Rumoreggiano anche i civatiani del Pd, come Felice Casson. Ma sbattono contro un muro. Si arriva all’autunno. E Grasso sbotta: “Mi chiedo quali interessi frenino la legge anticorruzione”.
2015, soglie nascoste, censure evidenti
Si parte con il caso della soglia di non punibilità sotto il 3 per cento per il falso in bilancio, nascosta in quell’emendamento che il governo annuncia a vuoto da mesi. Renzi alla fine deve stracciarla. Mentre il ddl anticorruzione continua ad arrancare, tra sedute di poche minuti e altre che vengono vanificate dal centrodestra con valanghe di cavilli. “L’entità dei fenomeni corruttivi è sovrastimata” ghigha Carlo Giovanardi (Ap). Ma si procede. Il 18 febbraio il Pd con Fi e Ap bocciano l’emendamento del M5S che prevedeva la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, per i reati contro la pubblica amministrazione. Il 4 marzo invece viene respinto l’emendamento sul Daspo ai corrotti, proprio quello promesso da Renzi. Votano a favore solo 5Stelle e Lega Nord, tutti gli altri dicono no. Il 16 viene finalmente presentato in commissione l’emendamento governativo al ddl anticorruzione sul falso in bilancio. Grasso commenta: “Alleluja”. Ieri, pasticcio. Con rinvio.

il Fatto 19.3.15
Crisi editoria, 30 mila edicole e 200 testate a rischio chiusura
Trentamila edicole “superstiti” e sofferenti, in un mercato in crisi nera
Oltre 200 testate su tutto il territorio nazionale che rischiano di chiudere i battenti, cancellando 3.000 posti di lavoro.
di To. Ro.


All’Hotel Nazionale di Roma, sindacalisti e imprenditori del settore hanno scattato una fotografia impietosa dell’editoria italiana. Proponendo, contestualmente, gli interventi necessari per invertire il declino. L’iniziativa, promossa dalle tre principali sigle degli edicolanti (Sinagi, Snag e Usiagi), parte dalla domanda che dà il titolo all'incontro: “Editoria, riforma o rivoluzione? ”.
SECONDO Vincenzo Vita, ex senatore e giornalista, moderatore del dibattito, servirebbe davvero “una piccola rivoluzione copernicana”. In pochi anni, si è passati da 42 mila a 30 mila edicole. Quelle che resistono sono “una rete sociale unica e un patrimonio da conservare a tutti i costi”.
Giuseppe Marchica (segretario generale del Sinagi) ha messo in fila una lunga serie di proposte qualificate per la riforma promessa (da tempo) dal governo Renzi.
Primo: “Bisogna abolire la distinzione, vecchia e superata, tra edicola esclusiva e non esclusiva (ovvero tra gli esercizi che vivono esclusivamente della vendita di carta stampata e i negozi che invece affiancano giornali e periodici ad altre forme di commercio, come negozi e supermercati).
Secondo: “Non possiamo più pensare di uscire dalla crisi con il denaro pubblico. Oggi chiedere soldi a pioggia allo Stato non ha più senso, né possibilità di successo. I fondi residui, piuttosto, siano utilizzati per finanziare un ticket per la cultura a disposizione di giovani e famiglie, per l’acquisto di giornali, libri e riviste al 50 per cento di sconto”.
Secondo Armando Abbiati (segretario dello Snag), il primo presupposto di qualsiasi riforma dovrebbe essere la costituzione di “un unico sistema di informatizzazione condiviso tra le tre categorie” (editori, fornitori e venditori). Abbiati è pessimista: “Probabilmente non sarà mai fatto. Editori e fornitori non vogliono trasparenza e controllo: è come avere la finanza in casa”. Ma il più grave e urgente dei problemi dell’editoria italiana, per il sindacalista, è un altro: “Il sistema distributivo è chiuso, blindato, monopolizzato. Si è obbligati a rivolgersi a uno dei quattro distributori nazionali, due di quali sono di proprietà di grandi gruppi editoriali”. A livello locale la situazione è anche peggiore: “Sul territorio ci sono 90 distributori locali. I contratti di fornitura sono imposti con regole capestro. Si comportano da signori feudali e hanno in mano il rubinetto della carta stampata. Se un’edicola è considerata non profittevole, la chiudono: in Italia 4 distributori locali hanno lasciato interi paesi senza giornali”. La priorità di qualsiasi intervento legislativo, condivisa da tutte le sigle sindacali, è spezzare questa catena.
Tra gli interventi anche quello di Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del Fatto Quotidiano. “La riforma deve essere di sistema e deve coinvolgere tutte le parti della filiera. Imprenditori, editori, distributori: ognuno deve mettersi in discussione e rinunciare a qualcosa. Ma in fretta: questa crisi non lascia più tempo”.
IN PLATEA, accanto agli operatori del settore, siedono i destinatari delle proposte: l’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi, gli onorevoli Roberto Rampi (Pd), Giuseppe Brescia (M5s), Giovanni Paglia (Sel), Stefano Candiani (Lega). In rappresentanza del governo, c’è Antonio Funiciello, collaboratore di Luca Lotti, titolare della delega all’editoria. Funiciello ha garantito “l’apertura di un tavolo per la riforma del settore entro pochissime settimane”. Trentamila edicolanti attendono il governo al banco.

Il Sole 19.3.15
Palazzo Chigi. Il governo punta a una riforma di settore entro l’anno
In arrivo la convocazione del tavolo per l’editoria
di A. Bio.


MILANO Riforma della Rai, ma non solo. È tempo di grandi manovre a Palazzo Chigi sul tema dell’informazione. A giorni - subito prima o subito dopo Pasqua - sarà convocato il tavolo di sistema per l’editoria (si veda anche Il Sole 24 Ore dell’11 marzo). E sempre a giorni è attesa la direttiva del sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega all’editoria, Luca Lotti, contenente la definizione dei nuovi criteri per i fondi relativi alle convenzioni 2016 per le agenzie di stampa. «Siamo vicini alla riorganizzazione e a breve avremo le novità e le determinazioni conclusive su tale materia», ha detto ieri lo stesso Lotti.
Insomma, cantiere informazione in pieno fermento con un tavolo di sistema per l’editoria che sta per partire e che dovrebbe portare a una riforma complessiva del settore programmata, negli auspici del governo, a fine anno. «Il tavolo per l’editoria - ha confermato ieri Antonio Funiciello, portavoce del sottosegretario Lotti - sarà convocato dal governo entro pochissime settimane». Lo ha detto nel corso dell’incontro “Editoria: riforma o rivoluzione? Le edicole motore di sviluppo”, nel corso del quale le tre principali sigle sindacali degli edicolanti, Snag, Sinagi e Usiagi hanno presentato le loro proposte. «La nostra ambizione - ha aggiunto - è riformare il sistema editoriale con strumenti per guardare al futuro in maniera integrata. Vogliamo intervenire sul finanziamento diretto, ma siamo convinti che il mercato lasciato a se stesso produca distorsioni».
Si tratterà di un tavolo di sistema in cui, oltre agli editori, ci saranno anche gli edicolanti oltre a tutti gli attori della filiera. Il presidente della Fieg Maurizio Costa, in un’intervista al Sole 24 Ore dello scorso 11 marzo, lo ha citato come passaggio necessario per affrontare il futuro e per lasciarsi alle spalle situazioni di crisi e anni di flessione di business in cui si è innestata, forte, la ritirata degli investitori pubblicitari. I numeri lo confermano: la raccolta a fine 2014 sui soli quotidiani è scesa a 810,5 milioni di euro a fronte degli 1,1 miliardi del 2012. Insomma, 300 milioni di euro mancanti all’appello.
La volontà del governo di puntare a una riforma complessiva del settore era stata anche indicata come una delle motivazioni di fondo che hanno portato allo stralcio della liberalizzazione delle edicole dai provvedimenti previsti nel Ddl Concorrenza, al contrario di quanto previsto nelle prime bozze.
I nodi da affrontare però non si fermano qui. Il Governo vuole intervenire sui finanziamenti diretti. In aggiunta ci sono vari punti da chiarire. A partire dal rapporto fra editori e giornalisti nella gestione degli stati di crisi, con assunzioni, pensionamenti e prepensionamenti, e con la nuova tornata negoziale del contratto.
Altro punto da affrontare sta nei rapporti che intercorrono fra editori e distribuzione. Qui il tema sta nella necessità di ammodernare e informatizzare la rete delle edicole e della distribuzione come richiesto con grande insistenza dagli editori. Dal loro canto gli edicolanti, stando a quanto dichiarato ieri dal presidente di Snag-Confcommercio, Armando Abbiati, auspicano «un miglior lavoro di filiera con l’obiettivo comune di valorizzare il lavoro degli edicolanti e dei giornalisti e vendere di più e meglio i quotidiani e periodici all’interno della rete dedicata».
Ultimo, ma non ultimo, il tavolo sarà chiamato a dipanare la matassa del rapporto fra editori e altri soggetti in tema di diritto d’autore. Qui il nodo gordiano da sciogliere sarà senz’altro quello delle società che forniscono rassegne stampa. Al contrario di quanto fatto da 16 società di media monitoring, le due maggiori - Eco della Stampa e Data Stampa, che detengono insieme una quota di mercato attorno al 70% - non hanno aderito al Repertorio Repertorio Promopress (la Srl che fa capo alla Fieg e che ha lo scopo di raccogliere i compensi dello sfruttamento dei diritti di riproduzione). La contesa con la Fieg è finita in tribunale. Prossima udienza ad aprile. 

il Fatto 19.3.15
Riforme
La licenza da bullo del preside d’Italia
di Daniela Ranieri


Se gli imperatori del passato riversavano tutto il loro ego nella guerra, i nostri governanti amano gingillarsi con la riforma della scuola, disegnata a loro immagine e somiglianza e ogni volta venduta come una “rivoluzione” del modo di formare i virgulti della Patria, cioè la classe dirigente di domani.
Così dopo la scuola-Media-set voluta da B. e amministrata dalla prestigiosa Gelmini (quella convinta dell’esistenza di un tunnel sotterraneo in cui transitavano neutrini da Ginevra al Gran Sasso), ecco la “Buona Scuola” di Renzi, una Leopolda della formazione ricalcata sulla personalità del suo inventore. Un nome-hashtag fragrante come un tegolino, sul genere di Volta buona, Sblocca Italia, Cambio Verso, al cui centro, tra deleghe al governo e strizzatine d’occhio alle scuole private, emerge la figura del preside talent-scout.
Nella scuola ideale di Renzi, una specie di sintesi tra il Mulino Bianco e la Repubblica di Platone, questo super-dirigente scolastico sceglie di persona – mettendoci la faccia, direbbe egli – i talenti più rinomati assumendoli nella sua “squadra” (sic), a beneficio dei discenti e dei loro genitori non gufi.
Ciò succede perché l’auto-proclamatosi Sindaco d’Italia alle prese col Risiko della scuola si improvvisa Preside d’Italia, capo-scuola nazionale di tanti presidi-renzi in miniatura, figure che ricordano l’Italia degli oratorî e dei boy-scout, un po’ commissari tecnici della Nazionale insegnanti un po’ startupper di grido.
Non è del tutto esatto parlare di un modello di scuola aziendale, più berlusconiano che donmilaniano. A B. della scuola importava relativamente: sapeva che i nuovi italiani li aveva forgiati con la Tv. Al Paese del maestro Manzi, della Dc e della censura aveva dato scandalo, superficie, spensieratezza e una specie di sub-formazione tuttora vigente.
ALLA SCUOLA riservò gli aspetti tecnici di un piano di rinascita democratica tarato sulla sua personale estetica. La sua scuola era il suo ritratto: aziendalista, sgraziata, futile, e con la trovata delle tre “i” (inglese, internet, impresa) della Moratti irradierà il proprio nulla fino alla mai abbastanza vituperata riforma Gelmini, tutta tagli e nefandezze, come quella di cancellare la Storia dell’arte dai piani di studio di istituti tecnici e professionali.
Ora lo stesso disprezzo per gli intellettuali che era di Craxi e di B. si reincarna nei modi sbrigativi di Matteo, per il quale la critica è “chiacchiera”, la riflessione iettatura, i “professoroni” un freno alle riforme. Ma lui, che alla dialettica preferisce i retweet, dopo un anno di annunci, visite-spot a classi di bambini ammaestrati e solenni notifiche di qualche tetto riparato, disegna una scuola informata a tutte le sue fissazioni bullistiche, dalla rottamazione al narcisismo personalistico. I super-poteri concessi al preside che, come un piccolo Renzi, nomina i propri insegnanti come fossero suoi dipendenti, sono tecnicamente licenze di abuso, ma il governo le chiama “leve gestionali indispensabili” per far funzionare la riforma stessa. Così Renzi: “Il preside sceglie dentro l'albo dei docenti e individua la persona più adatta senza automatismi”. Più adatta a cosa? Diciamo che laddove l’automatismo gli imporrebbe di scegliere sulla base del punteggio ovvero di non scegliere affatto, il non-automatismo renzista consiglia al preside, a naso, volta per volta, dove puntare il ditino. Ah che meraviglia la meritocrazia, che generazione di ottimati tireranno su i presidi delle meglio scuole d’Italia. E le peggio? Che ne sarà, degli insegnanti con poche stelle sul Trip Advisor della scuola? Che fine faranno, in questo X Factor dell’Istruzione, gli scarsi, i medi, i non eccellenti, gli onesti professori di provincia, quelli che non conoscono nessuno e che nessuno conosce? Si ridurranno alla fame? Li buttiamo dal palco della Leopolda?
E i ragazzi che, per insipienza del proprio preside a scegliere il meglio, si troveranno professori scadenti, sottomarche di professori, che colpa hanno? E, ammesso che una simile graduatoria tra destrezze sia possibile, ci sarà una competizione spietata tra presidi per fare della propria scuola quella con più appeal? Si verserà del sangue davanti ai provveditorati?
NON SARÀ, invece, che i presidi sceglieranno a simpatia o secondo logiche di prossimità, acquiescenza, favori, raccomandazioni, potere, che col merito non hanno nulla a che fare? Non varranno per i presidi le stesse regole che hanno guidato la mano di Renzi nello scegliere ministri e figure chiave delle partecipate? E chi sarà il preside fortunello che si aggiudicherà l’assunzione della moglie di Renzi, insegnante precaria?
“Perché per fare la Buona Scuola non basta solo un governo. Ci vuole un Paese intero”, recita lo slogan sfornato ad hoc. Per farne una cattiva, invece, un governo basta eccome.

La Stampa 19.3.15
La guerra totale islamista
di Domenico Quirico


Forse l’unico modo per capire, per rendersi conto sarebbe pubblicare bollettini giornalieri: «Oggi un gruppo islamista ha colpito nel cuore di Tunisi, almeno venti morti… sul fronte di Tikrit nel Sud del Califfato solo scambi di artiglieria, le forze sciite anti-Isis hanno continuato ad arretrare dopo il fallimento dell’offensiva per riprendere la città… Sahelistan: gruppi mobili di Al Qaeda Maghreb fanno razzie a Sud di Kidal… in Nigeria gruppi armati dei Boko Haram hanno bruciato un villaggio ai confini con il Camerun…». Episodi staccati? Guerriglie locali? Terrorismo diffuso? No: un giorno «normale» della Grande Guerra Islamista: perché si combatte dalle montagne afghane al deserto della Mauritania, dallo Uebi Shebeli alle rovine di Aleppo, tomba di un popolo sventurato.
Globalità e contemporaneità. Pezzo dopo pezzo, scaglia dopo scaglia il Califfato totalitario disintegra la nostra tattica, vile e furbastra, di tenere gli scenari separati; per non dover ammettere il pericolo e affrontare decisioni scomode. Sì, qualcuno ha dichiarato guerra, e già la combatte, avanza, annette, amministra territori occupati, cancella le nostre frontiere, tiene in scacco fragili e spesso impresentabili alleati dell’Occidente, uccide e destabilizza dove già non maramaldeggia e amministra. Lo Stato che vuole cancellare tutti gli stati con una guerra totale. Non solo per i mezzi che impiega, i carri armati e i commandos suicidi, il petrolio e i video di propaganda. Siria Iraq Libia: creazioni politiche già morte, che non risorgeranno mai più. Il mondo è stato modificato brutalmente. Altri seguiranno, rapidamente.
Non sarebbe un urto insostenibile, in fondo l’Occidente resta, ancora, più forte. Ma questa guerra è totale nel senso che i suoi obbiettivi sono mostruosamente e volontariamente dilatati, oltre la ragione e il calcolo: purificare parti intere del mondo, mezza Africa, il Levante l’Asia centrale, i Balcani, la Spagna… Che follia! Eppure: chiedetelo ai morti e quanti ne seguiranno perché, alla fine forse se ne venga a capo. Interessiamoci non alle sigle ma a questi terribili uomini nuovi del jihad con la morte sotto i piedi e l’odio che sale nel petto, credenti a cui non è servito a niente il mondo moderno, ora che tocca a ciascuno farsi strozzare dalla sua morte. Che solco immenso tra i loro mondi insanguinati e le nostre piccole necessità: mettere i sicurezza il petrolio e il gas libico… controllare la partenza dei migranti… difendere i nostri clienti… trovare qualche dittatore di ricambio.
Guardate la carta geografica: con zampate feroci, larghissime l’Islam che si è autonominato a sciogliere il nodo escatologico del destino umano, a fondare il regno di dio sulla terra ci esclude da parti intere del mondo estirpate col ferro rovente: il Sahara e la Libia proibite, il Sinai letale, la Siria e la terra tra i due fiumi cancellate… E la Tunisia: ecco la Tunisia. Appena riammessa nel branco dei paesi tranquilli, democratici, legalizzati: hanno votato una due tre volte… hanno vinto i nostri, i laici quelli in giacca e cravatta! esultavano i candides per cui le elezioni da sole hanno funzione scaramantica. La Tunisia scompare di nuovo dalle nostre mappe di viaggiatori sicuri, troppo pericolosa per occidentali, miscredenti, nemici, »kufar»... Il mondo si richiude sugli inventori della globalizzazione. Ne avanza un altro, col ferro, il fuoco il sangue, la guerra. Sempre più numerosi, giovani tentati, brancolanti, in cerca di profeti, si chiedono: è di nuovo il momento islamico della storia del mondo? Come fu ai tempi del primo califfato. Il successo genera successo, adesioni sciagurate, arruolamenti. Il loro viaggio dura secoli, si arruolano volontari in questa storia morta, in questi secoli di cenere solo per incontrare questo sogno feroce. La Storia non si vede purtroppo, come non si vede crescere l’erba.
La magia perversa e letale della Parola, sciagurata e perfetta intuizione di Daesh: far risorgere il Califfato, la mitica età dell’oro per ogni musulmano, riavvolgere la Storia al contrario… Perché no? Noi cerchiamo distinguo bizantini tra le sigle dell’Internazionale islamista, e intanto tunisini e europei, siriani e ceceni, nigeriani e afghani fanno evaporare la loro identità precedente entrando nel mondo totale della guerra santa; seguono chi li ha già preceduti nelle vampe dell’odio. Per loro dio è un libro e l’uomo una cosa a cui non pensano più.
Un mese fa ero in Tunisia: gente affranta, giovani senza lavoro che presidiavano interminabili caffè, chiassose beghe di mediocri politicanti, la sguaiata volgarità dei soliti ricchi... Tutti ti raccontavano storie sinistre: ragazzi scomparsi a centinaia, a migliaia. «Sono andati laggiù…», mormoravano come di persone che hanno contratto una terribile malattia e che non si rivedranno più... i martiri dello stato del Levante… I miti tunisini che sognano un dio che li accarezzi per fugare in loro il timore dell’universo, che dia loro una casa ove rifugiarsi e non soffrire.
Le zone che crediamo sicure, l’Islam moderato su cui siamo pronti a giurare, la Tunisia l’Egitto l’Algeria il Marocco la Giordania hanno piedi d’argilla; la Bestia li rode con la voracità di termite e di colpo crollano, davanti ai nostri occhi stupefatti. Di quanta gente non sappiamo più niente? Ancora pochi mesi e non li nomineremo più, il Califfato li ha ingoiati. Avremo dimenticato cosa c’era prima e non cercheremo di spiegare l’inaudito. L’ordine che subentrerà ci circonderà con la stessa normalità di un bosco all’orizzonte o delle nubi sulla testa. Ci circonderà da ogni parte. Non ci sarà nient’altro.
Passano i mesi il cervello e il cuore di tutto questa guerra, Mosul, resta piantato arrogantemente nel centro del vicino oriente. Uno scenario possibile tra dieci anni: lo Stato islamico stabilizzato e saldo nel suo territorio, senza più minoranze religiose, dieci milioni di persone vivono sotto il suo governo, il petrolio estratto da compagnie cinesi lo rende ricco. Il basso Iraq si è salvato grazie a Teheran, l’Arabia Saudita è presa d’assalto… Quegli uomini sono capaci di tutto. Sono una cricca sempre più piena di forza e di sicurezza mentre noi che aspettiamo non abbiamo niente. Viviamo sulla lama del coltello, ci bilanciamo da un minuto di speranza a un altro minuto di speranza. Ci tengono ben stretti al morso, gli uomini del califfato, si tengono uniti in quella dannata cricca che il successo aumenta ogni giorno, amministrano il loro sogno sanguinario, amministrano il paradiso, hanno tutto in pugno, loro.

Repubblica 19.3.15
Quella voglia di cambiamento che la Jihad cerca di spegnere
di Renzo Guolo


NONOSTANTE sia l’unico paese coinvolto nelle primavere arabe che ha realizzato un passaggio dalla dittatura alla democrazia e un ricambio di governo per via elettorale non traumatici come altrove, la Tunisia non è affatto immune dalla deriva jihadista. Come già mostravano, senza risalire al lontano attacco di Al Qaeda alla sinagoga di Djerba nel 2002, l’assalto all’ambasciata americana del 2012; l’assassinio, nel 2013, di personalità politiche come Chokra Belaïd e Mohamed Brahmi; i continui attacchi negli ultimi due anni contro la Guardia nazionale e l’esercito ai confini con l’Algeria; le stesse, recenti, operazioni antiterrorismo nella capitale; l’attacco suicida al resort di Soussa.
Indicatore puntuale della diffusione dello jihadismo è il grande numero di tunisini presenti tra i foreign fighters che combattono, o hanno combattuto, in Siria e Iraq: circa tremila. Combattenti che si sono fatti conoscere dalla popolazione locale per efferatezza e determinazione in battaglia e nel controllo delle città.
Così come un altro significativo indicatore è la presenza nelle aree confinanti con l’Algeria, in particolare nella zona del Monte Chaambi, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico. L’Aqmi è, almeno sin qui, l’organizzazione più attiva e pericolosa del fronte jihadista in Tunisia. Il suo ramo militare, la brigata Okba Ibn Nafaâ, attacca frequentemente i soldati tunisini, ai quali ha inflitto numerose perdite. Nonostante sia stato bersaglio di operazioni di aria e di terra da parte delle forze armate tunisine, il gruppo non è ancora stato debellato.
Altra organizzazione jihadista è Ansar al-Sharia, fondata nel 2011 e guidata da Abu Iyadh, militante legato a Al Qaeda che ha combattuto in Bosnia e Afghanistan. Iyahd è uscito di prigione con l’amnistia varata da Ben Ali nel 2011, dopo aver scontato otto degli oltre sessanta anni di carcere ai quali era stato condannato. Dopo l’attacco all’ambasciata americana è entrato in clandestinità. Il gruppo, coinvolto anche negli assassini politici di Belaïd et Brahmi, si è però indebolito e parte dei suoi effettivi sono passati prima a Ansar al Sharia libica poi, come buona parte dei militanti di quell’organizzazione, sotto il vessillo nerocerchiato del Califfato. Mentre altri suoi membri sono andati direttamente a combattere nelle file dello Stato islamico in Siria e Iraq. Sin qui, dunque, contrariamente a quanto avvenuto nelle vicine Libia e Algeria, lo Stato Islamico non ha reso noto l’adesione di gruppi organizzati tunisini, mediante l’atto di sottomissione, al Califfato. Anche se il suo effetto gravitazionale si fa ormai sentire anche in Tunisia.
Si vedrà, una volta identificati i terroristi uccisi nell’attacco, se questi sono legati all’Aqmi o all’Is. Se l’assalto al Museo è opera o meno di mujahiddin tornati dalla Siria o di militanti mai usciti dal paese. Resta il fatto che la jihad si radica anche in Tunisia e che, come ha affermato il premier Essid, la guerra per sconfiggere il terrorismo sarà lunga.

La Stampa 19.3.15
Il Paese sempre in bilico tra islamismo e democrazia
Tunisi tenta il rilancio puntando su parità tra sessi e cultura laica
Ma sul confine domina il contrabbando. E l’Isis tenta i disoccupati
di Antonella Rampino


Ci eravamo dimenticati la Tunisia, la vittoria dei laici nelle storiche elezioni d’ottobre scorso, l’islamismo radicale che non era riuscito a fermare la transizione democratica, una società civile enormemente più libera che in qualsiasi altro Paese musulmano, comprese le minigonne in strada in mezzo a veli, hejab e niqab, ha fatto sì che non se ne parlasse: in fondo, la Tunisia prova a funzionare e quasi ci riesce. Con una Costituzione fresca di stampa nella quale, se è sempre e comunque la condizione femminile il più sensibile termometro del tasso di democrazia di una nazione, era appena stata iscritta non la legge islamica, la shaaria - come fu in Libia - ma la parità tra uomo e donna. Anche se, come ricorda una delle più importanti intellettuali e militante dei diritti umani, Saida Rached, «l’articolo 21 della Costituzione e il 45 perché le donne siano presenti nelle istituzioni quanto gli uomini sono solo un passo che ci mette in condizione di difendere e affermare la parità». Due passaggi, dice il ministro della Cultura Latifa Lakhadar, «che riconoscono il ruolo che abbiamo avuto nella rivoluzione scoppiata quattro anni fa».
Teatro e cultura
«L’opinione pubblica confonde la Tunisia con la Libia, crede che qui la situazione sia la stessa che a Tripoli, voi giornalisti avete la responsabilità di raccontare come stanno davvero le cose» ci diceva, solo pochi giorni fa, l’ambasciatore italiano a Tunisi Raimondo De Cardona, ricevendo l’équipe di «Ferite a morte» andata per la prima volta in scena in un Paese islamico con Serena Dandini ed Emma Bonino. Anche perché, aggiungeva, «la Tunisia ha bisogno di aiuto, servono investimenti esteri, che tornino i turisti», per non dire della miriade di imprese italo-tunisine negli alberghi, nella pesca, e del lavoro delle ong italiane nelle arretratissime zone rurali. Se così non fosse, sarebbe come aprire un’altra strada ai fondamentalisti e al Califfato anche laddove si fa di tutto per evitarlo, a cominciare dalla costruzione delle istituzioni democratiche.
Perchè a Tunisi, dopo le elezioni dell’ottobre 2014 vinte al 39 per cento dai laici del partito di Nidaa Tounes, e con gli islamici di Ennadha al 32 per cento, un accordo informale ha portato alla nascita di un governo che in Occidente chiameremmo di solidarietà nazionale. I due grandi partiti hanno fatto non pochi passi indietro, gli islamici si sono accontentati del dicastero del Lavoro e poco altro, e tutto per gli esponenti più moderati. I liberisti hanno avuto l’Economia. Ed è nata la commissione per la riconciliazione nazionale, affidata ad una donna, indipendente da ogni partito politico. Parallelamente, una retata di fondamentalisti ha messo al riparo il Paese dal grosso degli attacchi. Tutto il contrario, insomma, di quel che é accaduto in Egitto dove i Fratelli musulmani sono finiti tutti, moderati ed islamisti, nelle carceri dei militari che hanno rovesciato un risultato che aveva consegnato il paese nelle mani dei sunniti di Morsi.
Oggi, nel giorno dell’attacco terroristico al museo del Bardo, dov’è custodito il mosaico del ritratto di Virgilio, può sembrare un paradosso, ma aveva ragione e doppiamente ragione l’ambasciatore De Cardona.
I rischi dalla Libia
Non si sa, nel momento in cui scriviamo, se l’attacco sia stato mosso dallo Stato Islamico incistato in Libia. Si sa che lungo la sterminata zona dei confini con la Libia e del deserto che è il retroterra delle città costiere premono circa un milione di libici e profughi del Corno d’Africa. In un intreccio tra jihadisti e contrabbando è spuntato da quando il premier Essid ha messo al confine con la Libia un dazio di 30 dinari - circa la metà in euro - e controlli serrati sulle merci in transito: lì, in transito, c’é soprattutto il petrolio libico in nero, e le armi per i fondamentalisti. Sono scoppiate immediate proteste. E solo l’altroieri è stato ucciso un responsabile tunisino dell’Is rifugiatosi in Libia.
Si sa che all’interno premono anche quel milione e mezzo di disoccupati, per un tasso ufficiale del 15,4%: in gran parte scolarizzati, e fino alla laurea perchè il sistema impostato dall’autocrate predatore Ben Alì lasciava però relative libertà personali e imponeva l’istruzione: oggi, possono diventare prede della propaganda del Califfato.
Il viaggio di Renzi
Dunque, mentre la «rivoluzione del gelsomini» percorreva il suo arduo cammino, siamo noi che ci siamo dimenticati dalla Tunisia: e ci sorprendiamo a parlarne adesso, per un atto terroristico che sarebbe potuto accadere - e purtroppo è accaduto - anche a Londra, Roma o Parigi. Non se ne sono dimenticate però le istituzioni italiane. Il primo viaggio all’estero del premier Renzi, l’anno scorso, non a caso fu non a Bruxelles o a Berlino, ma a Tunisi. Il primo viaggio non europeo del presidente della Repubblica sarà, il 18 maggio, a Tunisi. Perché la Tunisia non é la Libia. E soprattutto non può e non deve diventarlo.
Ci eravamo dimenticati la Tunisia, la vittoria dei laici nelle storiche elezioni d’ottobre scorso, l’islamismo radicale che non era riuscito a fermare la transizione democratica, una società civile enormemente più libera che in qualsiasi altro Paese musulmano, comprese le minigonne in strada in mezzo a veli, hejab e niqab, ha fatto sì che non se ne parlasse: in fondo, la Tunisia prova a funzionare e quasi ci riesce. Con una Costituzione fresca di stampa nella quale, se è sempre e comunque la condizione femminile il più sensibile termometro del tasso di democrazia di una nazione, era appena stata iscritta non la legge islamica, la shaaria - come fu in Libia - ma la parità tra uomo e donna. Anche se, come ricorda una delle più importanti intellettuali e militante dei diritti umani, Saida Rached, «l’articolo 21 della Costituzione e il 45 perché le donne siano presenti nelle istituzioni quanto gli uomini sono solo un passo che ci mette in condizione di difendere e affermare la parità». Due passaggi, dice il ministro della Cultura Latifa Lakhadar, «che riconoscono il ruolo che abbiamo avuto nella rivoluzione scoppiata quattro anni fa».
Teatro e cultura
«L’opinione pubblica confonde la Tunisia con la Libia, crede che qui la situazione sia la stessa che a Tripoli, voi giornalisti avete la responsabilità di raccontare come stanno davvero le cose» ci diceva, solo pochi giorni fa, l’ambasciatore italiano a Tunisi Raimondo De Cardona, ricevendo l’équipe di «Ferite a morte» andata per la prima volta in scena in un Paese islamico con Serena Dandini ed Emma Bonino. Anche perché, aggiungeva, «la Tunisia ha bisogno di aiuto, servono investimenti esteri, che tornino i turisti», per non dire della miriade di imprese italo-tunisine negli alberghi, nella pesca, e del lavoro delle ong italiane nelle arretratissime zone rurali. Se così non fosse, sarebbe come aprire un’altra strada ai fondamentalisti e al Califfato anche laddove si fa di tutto per evitarlo, a cominciare dalla costruzione delle istituzioni democratiche.
Perchè a Tunisi, dopo le elezioni dell’ottobre 2014 vinte al 39 per cento dai laici del partito di Nidaa Tounes, e con gli islamici di Ennadha al 32 per cento, un accordo informale ha portato alla nascita di un governo che in Occidente chiameremmo di solidarietà nazionale. I due grandi partiti hanno fatto non pochi passi indietro, gli islamici si sono accontentati del dicastero del Lavoro e poco altro, e tutto per gli esponenti più moderati. I liberisti hanno avuto l’Economia. Ed è nata la commissione per la riconciliazione

il manifesto 19.3.15
A Tunisi attacco contro la rivoluzione alla vigilia del Social Forum
Gli islamisti di Ennahdha non sono più al potere, ma sostengono il governo
Via libera per sostenitori del califfato nel Maghreb
di Giuliana Sgrena

qui

Il Sole 19.3.15
Rischiamo la replica del caos libico
di Alberto Negri


L’attentato al Museo del Bardo, con l’ombra del Califfato, è l’urlo lacerante e doloroso di una sirena d’allarme che suona anche per noi. Se insieme alla Libia dovesse saltare o essere gravemente destabilizzata anche la Tunisia, perderemmo mezzo Nordafrica di fronte alle nostre coste e un pezzo di continente.
Questi Paesi e i loro popoli non sono “vicini distanti” perché arabi e musulmani ma dei confinanti a stretto contatto di mare. Non possiamo lasciarli soli contro il terrore, anche noi ci andiamo di mezzo.
La giovane e ammirevole democrazia tunisina ha sviluppato in questi anni gli anticorpi per resistere ai jihadisti ma deve essere sostenuta dall’Europa per evitare un altro caos come quello libico: dopo il precipitoso intervento internazionale contro Gheddafi nel marzo 2011 la Libia fu abbandonata al suo destino e i risultati che abbiamo avuto sono stati un Paese con frontiere fuori controllo, l’immigrazione clandestina dilagante e ora anche il Califfato, con relative minacce alla nostra sicurezza.
Perché la Tunisia è importante e i jihadisti l’hanno puntata? Tutto è cominciato proprio qui, lontano dai riflettori, quando in un’oscura località dell’interno, Sidi Bouzid, il 17 dicembre del 2010 il giovane ambulante Mohammed Bouazizi si diede fuoco per protesta. Fu l’inizio della primavera araba.
Cinque anni dopo la Tunisia è cambiata radicalmente dal punto di vista del regime politico ma la condizione dei giovani rimane drammatica: il 40-50% sono senza un vero lavoro e il turismo, preso di mira ieri nel cuore di Tunisi, è ancora uno dei pochi serbatoi di occupazione. I jihadisti sanno dove colpire e fare maggiore danno.
Con la rivoluzione dei Gelsomini e la caduta del dittatore Ben Alì nel gennaio 2011 i tunisini hanno dato il via a una stagione di rivolte arabe: questa è l’unica sopravvissuta al caos e al sangue che hanno travolto il resto del mondo arabo.
Ma la Tunisia è piccola, non ha petrolio, anche se ci passa un pezzo del gasdotto algerino verso l’Italia, non attira i grandi investimenti ma soprattutto le piccole e medie imprese (tra le straniere 800 sono italiane), non batte i pugni sul tavolo alle conferenze internazionali, collabora con noi sul controllo dell’immigrazione e non ricatta nessuno. Ha inviato persino dei soldati nelle missioni all’estero e un tempo qui la Cia ci mandava i suoi agenti a imparare l’arabo.
La Tunisia è civile, democratica, rispetta l’Islam ma ha una grande tradizione laica e secolarista che iniziò subito dopo l’indipendenza dalla Francia con il presidente Habib Bourghiba che tolse il velo alle donne e concesse il divorzio prima che da noi. Persino gli attuali leader del Partito islamico Ennhada come Rashid Gannouchi hanno capito, dopo un’iniziale tollerenza, che estremisti islamici, salafiti e jihadisti sarebbero stati un pericolo anche per loro.
La Tunisia è il maggiore nemico arabo del terrorismo e dell’estremismo perché è un modello di compromesso e moderazione dove i laici, vincitori delle ultime elezioni, stanno al governo insieme al partito islamico: la Tunisia è tutt’altro che perfetta ma ci prova seriamente a essere democratica.
Per questo vogliono colpirla. Ci hanno provato diverse volte in questi ultimi quattro anni, con gli omicidi di personalità laiche come Choukri Belaid e Mohammed Brahmi, poi i salafiti hanno messo a ferro e fuoco l’Università di Tunisi issando la bandiera nera di
Al Qaeda mentre i predicatori venuti da Kuwait e Arabia Saudita hanno provato in tutti i modi a infiammare le piazze con i loro sermoni radicali. Sono stati tutti respinti dall’arco costituzionale dei partiti e dalla popolazione.
Ma il radicalismo in Tunisia si è insinuato ugualmente sfruttando la precaria situazione sociale della gioventù locale e alcuni eventi epocali che hanno sconvolto
il Medio Oriente. I giovani tunisini si sono arruolati a migliaia (si stima 4mila) per andare a combattere in Iraq contro gli sciiti e in Siria contro il regime di Bashar Assad, poi hanno aderito anche ai gruppi radicali libici in espansione. Molti sono tornati dall’estero e le cellule jihadiste, anche quelle affiliate al Califfato, si sono moltiplicate, come dimostrano gli scontri e i recenti arresti, approfittando della porosità dei confini con la Libia.
Aiutare la Tunisia, come ha promesso di fare nella sua recente visita anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, non significa mandare le forze armate ma collaborare strettamente con l’intelligence, inviare specialisti della sicurezza, mezzi e finanziamenti destinati a risollevare i bilanci dello stato e la condizione economica.
La Tunisia è vulnerabile e l’Europa si deve muovere: o vuole forse replicare il disastro libico?

il Fatto 19.3.15
Il voto in Israele
Obama furioso per la vittoria di Netanyahu
Il presidente Usa non si congratula con il leader Likud
Per “Bibi” ora la battaglia per formare il governo con conservatori e partiti religiosi
Hamas: “Terrorista chi l’ha votato”
di Cosimo Caridi


Gerusalemme Alla fine ha vinto lui, anzi ha stravinto. Il Likud ha conquistato 30 seggi, sui 120 della Knesset. Netanyahu sarà primo ministro per la quarta volta. L’opposizione sarà guidata, di nuovo, da Yitzhak Herzog che con Campo Sionista porta in Parlamento 24 deputati. Terzo partito è la Lista Araba Unita, che arriva a 14 seggi. Oggi il presidente della Repubblica Reuven Rivlin riceverà i dati ufficiali e affiderà, controvoglia, a Netanyahu l’incarico di formare il nuovo governo. Quando tre mesi fa Bibi cacciò dal governo Tzipi Livni e Yair Lapid, i due ministri rappresentanti dei partiti di centro, aveva un obbiettivo: vincere le elezioni e formare un governo di destra che non avesse bisogno di stampelle moderate e progressiste.
I MEDIA ISRAELIANI bollarono il progetto come troppo ambizioso, soprattutto per l’isolamento internazionale in cui Netanyahu ha spinto Israele. Le relazioni con Washington sono al minimo storico e diversi paesi europei lo ritengono un primo ministro estremista. Invece di cercare di recuperare i consensi moderati, Bibi ha alzato ancora più i toni. E mentre gli analisti di tutto il mondo lo consideravano finito, lui raccoglieva elettori tra i partiti nazionalisti e confessionali. A pagare il prezzo più alto è stato Naftali Bennet e il suo Focolare Ebraico, formazione di estrema destra molto apprezzata dai coloni, che passa da 12 a 8 deputati. Perde quattro rappresentanti anche il partito religioso Shas, da 11 a 7. Giudaismo Unificato della Torah, formazione di riferimento degli haredi (ebrei ortodossi) elegge 6 parlamentari, perdendone uno rispetto alla legislatura in corso. Questi tre partiti, a cui si aggiunge Yisrael Beitenu (6 seggi), guidato da Avigdor Liebermann, saranno la base del nuovo governo targato Netanyahu. Con i 30 eletti del Likud e i 27 di questi partiti minori, Bibi non arriverebbe ancora alla maggioranza assoluta, fissata a 61. Da ieri mattina sono in corso le negoziazioni con Kulanu, partito dell’ex ministro Moshe Kahlon. Kulanu è formato da un gruppo di fuoriusciti dal Likud e porterà alla Knesset 10 deputati. Con oltre 65 parlamentari, Netanyahu avrebbe così una maggioranza molto più facile da manovrare.
ALL’OPPOSIZIONE rimarrebbero i laburisti di Campo Sionista e gli 11 eletti dei Yesh Atid, erano 19 fino a martedì. Fuori dai giochi, come in tutte le 20 Knesset che si sono susseguite dal 1949, ci sono i 14 eletti della Lista Araba Unita. Dure le reazioni palestinesi alla vittoria di Bibi, che solo domenica ha negato ogni possibilità di creazione di uno Stato palestinese. Per Yasser Abed Rabbo, segretario generale dell'Olp, Israele “ha scelto la via dell'occupazione e della colonizzazione e non del negoziato e della collaborazione”. Ancora più duro il commento di Hamas: “Terrorista Netanyahu e chi lo ha votato”. Fredda la Casa Bianca che si è detta “profondamente preoccupata dai toni divisivi” usati martedì, a urne aperte, da Netanyahu contro i cittadini arabi israeliani.

La Stampa 19.3.15
Il gelo di Obama: “La soluzione dei due Stati resta l’obiettivo”
La Casa Bianca: il Presidente si congratulerà nei prossimi giorni
di Paolo Mastrolilli

La soluzione dei due stati, israeliano e palestinese, resta la linea americana in Medio Oriente, perché è la migliore per «allentare le tensioni». Alla luce della vittoria di Netanyahu nelle elezioni di martedì, però, gli Usa «riesamineranno» la loro strategia. Il negoziato sul programma nucleare con l’Iran non verrà influenzato, mentre le dichiarazioni del premier sugli arabi che andavano a votare in massa sanno di razzismo, e Washington solleverà il problema alla prima occasione, perché «mina i valori e gli ideali democratici che sono stati importanti per la nostra democrazia, e sono una parte importante di ciò che lega gli Stati Uniti e Israele».
I primi contatti
Le congratulazioni per il successo di Bibi, che il segretario di Stato Kerry ha già fatto di persona mentre il presidente Obama le porgerà nei prossimi giorni, sono state accompagnate dal portavoce della Casa Bianca Earnest con una serie di precisazioni, che dimostrano quanto sarà complicato ricostruire il rapporto. L’appoggio degli Usa allo Stato ebraico non è in discussione, sul piano economico e della difesa, ma il suo significato sì.
La prima dichiarazione della giornata ieri è arrivata dal consigliere di Obama Simas, che si è congratulato con Israele invece che con Netanyahu, e ha invitato ad aspettare «la formazione della coalizione governativa».
La speranza delusa
Alla vigilia la Casa Banca sperava che a guidarla sarebbe stato il laburista Herzog, e dopo che il suo vantaggio si era assottigliato nei sondaggi, aveva puntato quanto meno sul pareggio e sulla creazione di un esecutivo di unità nazionale. L’ex negoziatore Dennis Ross aveva anche teorizzato che Bibi avrebbe potuto approfittare di questa soluzione, per scaricare su Herzog la responsabilità delle scelte che lui aveva escluso in campagna elettorale, tipo bloccare gli insediamenti, riaprire i rubinetti delle entrate fiscali da girare all’Autorità palestinese, e riprendere il processo di pace.
I difficili rapporti
Ora questa ipotesi è sfumata, e l’amministrazione deve decidere come riallacciare i rapporti con un governo israeliano che sarà più spostato a destra e più determinato nell’ostacolare le sue politiche di quello precedente. Martin Indyk, ex ambasciatore Usa in Israele, prevede che non si andrà molto lontano perché per farlo serve l’interesse a lavorare insieme, che manca tanto sul negoziato con l’Iran, quanto sul dialogo con i palestinesi. Sull’Iran il neocon Elliot Abrams, ex membro della Casa Bianca di Bush e oggi studioso al Council on Foreign Relations, ha previsto due possibilità durante una conference call con i giornalisti: «Netanyahu può aspettare che l’amministrazione finisca e ne arrivi un’altra nel 2016, oppure può bombardare». Nel frattempo può lavorare col Congresso repubblicano per bloccare qualunque intesa, scontrandosi con Obama già nel giro di qualche settimana. Altri, come Thomas Friedman del New York Times, dicono che il risultato sarà liberatorio per gli Usa, perché potranno smettere di perdere energie con l’inutile negoziato, mentre sul Washington Post Paul Waldman, ha scritto che il danno è di lungo termine: la maschera di Netanyahu è caduta, e il suo radicalismo ne fa un leader di fazione con cui non si può affrontare il futuro dell’intero paese. Washington dovrebbe anche razionare il veto con cui spesso lo protegge all’Onu. Abrams però la vede al contrario. Secondo lui anche i democratici considerano gli attriti come un problema personale di Obama, che svanirà quando lui non sarà più in carica.

La Stampa 19.3.15
Si complica il piano dei 2 Stati
Il gelo di Obama per la vittoria di Netanyahu
La Casa Bianca avrebbe preferito Herzog alla guida del governo. Con l’America ci sono posizioni opposte sulla soluzione dei due Stati e sull’accordo con l’Iran
di Paolo Mastrolilli

qui

Corriere 19.3.15
Obama non si congratula e sta a guardare
Lo Stato ebraico ora rischia l’isolamento
di Massimo Gaggi


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK «BB King», titola a tutta pagina il New York Post , il quotidiano conservatore di Rupert Murdoch per esprimere il suo apprezzamento per il risultato ottenuto alle urne da Benjamin «Bibi» Netanyahu, mentre i repubblicani americani esultano dopo la vittoria della destra alle elezioni israeliane. Invece la Casa Bianca, che pure dovrà tentare di normalizzare, per quanto possibile, le relazioni con Gerusalemme dopo i ripetuti scontri degli ultimi anni, per adesso tiene la guardia alta.
Nella prima reazione pubblica il portavoce del presidente, Josh Earnest, si è detto preoccupato per la retorica anti-araba che ha contrassegnato le ultime battute della campagna elettorale. Evidente il riferimento alla sortita di Netanyahu che, a urne aperte, è andato in televisione per avvertire che gli arabi cittadini d’Israele stavano votando in massa e che questo avrebbe potuto cambiare il risultato del voto. Un’iniziativa politica, quella del premier israeliano, che il New York Times ha definito senza mezzi termini «razzista».
Earnest non ha citato fatti specifici, ma ha stigmatizzato i tentativi del Likud, il partito del premier, di emarginare la minoranza araba d’Israele. La Casa Bianca continua a sostenere la soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese, ma il portavoce ha dovuto ammettere che, dopo gli impegni in senso opposto presi da Netanyahu davanti ai suoi elettori, «dovremo valutare nuovamente la situazione». La vittoria del premier uscente è certamente un risultato sgradito per Obama che non lo ha ancora chiamato per congratularsi: «Lo ha già fatto il Segretario di Stato, John Kerry, il presidente lo farà nei prossimi giorni», ha spiegato Earnest ai giornalisti, aggiungendo che una simile scelta non è anormale: dopo le ultime elezioni in Israele, la Casa Bianca aspettò l’incarico per la formazione del nuovo governo prima di congratularsi col vincitore.
Nell’Amministrazione Usa nessuno si affanna per mascherare la delusione per il risultato elettorale: i sondaggi davano in testa il laburista Herzog che aveva annunciato la volontà di ricucire con Obama. Invece ha vinto alla grande Netanyahu, reduce da uno scontro durissimo con la Casa Bianca. C’è sempre la speranza che si formi un governo di unità nazionale, certo, ma a questo punto il capo del Likud ha i numeri per governare, e con un buon margine di sicurezza, insieme agli altri partiti della destra. Quindi Netanyahu continuerà a fare di tutto per cercare di sabotare il negoziato di Obama con l’Iran sul nucleare che è ormai in dirittura d’arrivo. Il presidente lo sa e sa anche che si fa più stretto il suo sentiero al Congresso.
C’è un solo dato che potrebbe rivelarsi per lui positivo: con uno scontro così duro tra repubblicani e democratici su Israele, sarà difficile per i conservatori trovare tra i parlamentari di sinistra che sono amici del mondo ebraico i voti necessari per scavalcare con una maggioranza qualificata il veto che Obama porrà su ogni norma del Congresso mirante a bloccare o a depotenziare l’accordo Washington-Teheran. Sempre che quell’intesa vada in porto. Gli analisti del Council on Foreign Relations danno anche per scontato che il risultato del voto in Israele sia, sotto sotto, quello più gradito dalle capitali arabe sunnite, più interessate a evitare un aumento dell’influenza politica degli ayatollah di Teheran in Medio Oriente che ai destini del popolo palestinese.
Certo, la durezza di Netanyahu isola Israele a livello internazionale: con l’Europa contrariata, Gerusalemme dovrebbe almeno cercare di recuperare il rapporto con gli Stati Uniti. Superata la fase calda della campagna elettorale, verranno fatti tentativi di riconciliazione, ma i dissensi maturati tra le due amministrazioni negli ultimi anni sono profondi: difficilmente si arriverà a una riconciliazione, anche perché i repubblicani soffiano sul fuoco dei contrasti. «Penso che frizioni e tensioni continueranno — dice il senior fellow del Council, Robert Danin — anche se assisteremo a uno sforzo di ridurre il volume del conflitto».

Corriere 19.3.15
Netanyahu IV punta all’alleanza di destra
Il Likud primo partito con una sorprendente rimonta. Il premier promette: «Governo subito»
Il presidente Rivlin chiede di aprire ai moderati, ma il vincitore vuole un blocco nazionalista
di D. F.


GERUSALEMME I due leader dell’opposizione sono andati a consolarsi assieme alle famiglie, pranzo in un ristorante sulla spiaggia nei dintorni di Tel Aviv. Benjamin Netanyahu è andato al Muro del pianto per ringraziare della vittoria, un successo in cui — a un certo punto della campagna elettorale — sembrava non credere neppure lui.
Il suo Likud è il primo partito, ha conquistato 30 seggi contro i 24 dell’Unione Sionista (i vecchi laburisti guidati da Isaac Herzog alleati con Tzipi Livni). Il pareggio pronosticato dagli exit poll non c’è stato, Netanyahu può formare quella coalizione di destra che sperava di ottenere quando tre mesi e mezzo fa ha scommesso sulle elezioni anticipate. Di certo ne faranno parte Naftali Bennett, il capo del partito dei coloni, e Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri oltranzista. Tutti e due sono stati in passato capi dello staff nell’ufficio di Netanyahu, tutti e due hanno permesso che il vecchio boss saccheggiasse voti dai loro partiti per ricompattare i conservatori e assicurarsi la rielezione.
A loro dovrebbero unirsi i gruppi ultraortodossi e Kulanu (Tutti noi) di Moshe Kahlon. Che da fuoriuscito del Likud in qualche modo ritornerebbe a casa. Ha spiegato che i dissensi con Netanyahu non sono mai stati personali, solo ideologici, che questo è il momento per restare uniti, è quello che chiedono gli elettori.
Punta a ottenere il ministero delle Finanze e promette di spingere perché il governo affronti le questioni economiche e sociali. Da ministro delle Telecomunicazioni ha riformato il mercato della telefonia mobile e gli israeliani lo ringraziano ancora per le bollette più basse.
L’Unione Sionista e la lista dei partiti arabi uniti (terza forza con 14 seggi) resteranno all’opposizione, dove si dovrebbe posizionare anche Yair Lapid (11 deputati), l’ex giornalista televisivo che è stato la sorpresa delle elezioni di due anni fa.
Herzog ha già annunciato di non voler partecipare con il suo partito a un governo di unità nazionale, anche perché Netanyahu non ne ha più bisogno. Il nuovo Parlamento si insedia il 31 marzo, prima delle vacanze per la Pasqua ebraica.
Il presidente Reuven Rivlin incontra i leader dei partiti domenica. Proverà a premere sulle formazioni moderate, vorrebbe che accettassero di lavorare con Netanyahu, teme che la comunità internazionale isoli il Paese. Il capo del Likud ha scommesso sulla rimonta nelle ultime ore di campagna elettorale: per convincere l’estrema destra a votarlo ha ritrattato quello che aveva proclamato nel 2009 in un discorso alla università Bar-Ilan. «Se verrò eletto — ha detto in un’intervista — non permetterò la nascita di uno Stato palestinese».

La Stampa 19.3.15
Patto di ferro con i nazionalisti
Così Netanyahu resta al potere
L’intesa con il partito di Bennett porta al Likud i voti dei coloni decisivi per la rimonta Governo con i gruppi di destra, linea dura sulla sicurezza. Herzog: faremo opposizione
dib Maurizio Molinari


La vittoria a sorpresa di Benjamin Netanyahu nelle elezioni israeliane nasce da una brusca svolta a destra concordata con l’alleato ora destinato ad avere un ruolo di alto profilo nella nuova coalizione: Naftali Bennett. «Siamo in debito con i nazional-religiosi» dice Gilad Erdan, stretto collaboratore del premier nel primo commento dopo lo spoglio che assegna al Likud 30 seggi sui 120 in palio. E Netanyahu fa a Bennett la prima telefonata dopo la chiusura dei seggi, nonostante il suo «Habaiyt Hayehudì» (Casa Ebraica) sia sceso da 12 a 8 seggi.
Il travaso di voti
Ma è proprio questo arretramento che aiuta a capire dove si è originato il balzo in avanti del Likud che ha smentito sondaggi, previsioni ed analisti. Uri Ariel, parlamentare di «Habaiyt Hayehudì», lo spiega così: «Le destre hanno vinto perché i nostri amici nazional-religiosi hanno votato per il Likud». Guardando il dettaglio della mappa dei risultati elettorali arriva la conferma: negli insediamenti di Ariel e Maalei Adumim, roccaforti dei nazional-religosi Bennett, è il Likud ad aver stravinto. «C’è stato un travaso di voti dai partiti di destra al Likud - commenta Aluf Benn, direttore di Haaretz - che ha fatto la differenza perché il “Campo Sionista” di Isaac Herzog non è stato in grado di fare altrettanto alla propria sinistra nei confronti di Meretz e Yesh Atid».
Intesa con Casa Ebraica
Tutti i riflettori puntati su Bennett dunque, che commenta: «Non sono dispiaciuto per il nostro risultato in calo, al contrario guardo avanti nel lungo termine e sono fiero dei sionisti religiosi, siamo stati chiamati ad agire e lo abbiamo fatto alla grande». Ayelet Shaked, suo numero 3, lo riassume senza perifrasi: «È stato il sionismo religioso a salvare Netanyahu». La coalizione che ora «Bibi» si accinge a formare nasce dunque attorno al patto di ferro con Bennett, includendo anche «Israel Beitenu» di Avigdor Lieberman, «Kulanu» di Moshe Kachlon e i partiti religiosi «Shas» e «Unione per la Torà» per un totale di 67 seggi che garantisce maggiore stabilità rispetto all’esecutivo precedente. Venerdì saranno pubblicati i risultati ufficiali e il capo dello Stato, Reuven Rivlin, inizia domenica le consultazioni con tutti i partiti: vorrebbe un governo di «unità nazionale», con dentro anche il centrosinistra, ma è Herzog ad escluderlo. Chiama Netanyahu per fargli i complimenti e poi preannuncia «guideremo l’opposizione sperando in tempi migliori». Netanyahu può così andare al Muro del Pianto per ringraziare gli israeliani della «fiducia riposta in me» assicurando che «in tempi stretti» il nuovo governo vedrà la luce inaugurando una nuova stagione di politiche «su sicurezza, economia e sociale».
Le nuove strategie
Sulla sicurezza è dove il premier si è spinto più in avanti nel finale di campagna, promettendo «mai lo Stato palestinese» e «migliaia di nuove costruzioni negli insediamenti». Sono due posizioni riprese - letteralmente - da discorsi di Bennett e ciò preannuncia l’intenzione di lasciarsi alle spalle gli accordi di Oslo - firmati nel settembre 1993 fra Rabin, Peres ed Arafat - per concordare con i palestinesi un nuovo status quo. Fonti diplomatiche a Gerusalemme suggeriscono che Netanyahu ne avrebbe già accennato al presidente egiziano Al Sisi e al re giordano Abdallah, preparandosi a discutere tali «nuove idee» con l’amministrazione Obama dove la sua riconferma è stata ricevuta con disappunto. L’altro fronte riguarda invece le riforme economiche per la necessità di disinnescare lo scontento sociale che ha minacciato di far perdere le elezioni al Likud e qui in cattedra ci sarà Kachlun. Per il resto, in Israele è processo ai sondaggi errati: alla radice vi sarebbe un errata valutazione dei campioni perché su 7000 stazioni di rilevamento esistenti ad essere considerate sono sempre e solo 200, posizionate in gran parte in aree urbane laburiste e quasi del tutto assenti negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, da dove è arrivata la «resurrezione di Bibi» come la definiscono le tv locali.

La Stampa 19.3.15
La sicurezza dello Stato affidata al nazionalista religioso
di M. Mo
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Naftali Bennett è l’uomo-chiave per le politiche sulla sicurezza che Benjamin Netanyahu si preapara a realizzare con il nuovo governo, al fine di lasciarsi alle spalle gli accordi di Oslo. Classe 1972, veterano delle truppe speciali, businessman di successo nell’hi-tech e ministro dell’Economia nel governo uscente, Bennett è soprattutto il leader dei nazional-religiosi che rappresentano la maggioranza della popolazione degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria - la Cisgiordania - intenzionata a rimanere stabilmente dentro i confini dello Stato di Israele.
È questa la genesi del suo piano per l’annessione dell’area C della Cisgiordania identificata dagli accordi di Oslo - ovvero li dove rimane ancora il controllo civile e militare israeliano - accompagnata da un rafforzamento dell’autonomia palestinese nelle aree A e B, a cominciare dalla libertà di movimento. Bennett è stato finora l’unico leader politico israeliano a tratteggiare un futuro assetto post-Oslo, sottolineando la volontà di garantire «più benessere ai palestinesi in Cisgiordania» e «maggiore integrazione agli arabi in Israele». «Prima dell’Intifada i palestinesi di Hebron e Betlemme andavano al mare a Tel Aviv - ripete spesso - perché non immaginare di poterlo fare ancora?». È un bagaglio di idee che irritano i palestinesi ma stimolano Netanyahu anche perché gli offrono la possibilità di allargare la base del Likud. E c’è chi scommette che se il tandem con Bibi decollerà potrebbe essere proprio Naftali il suo erede politico.

il Fatto 19.3.15
Attrazione senza fine
Odio magnetico per il padre-padrone
di Alon Altaras


Tel Aviv È la prima volta nella storia di Israele che nessun esperto di politica israeliana, nessun giornalista, nessun sondaggista, nessun leader politico incluso lo stesso Netanyahu sono riusciti a prevedere la vittoria del Likud e del suo leader contro ogni previsione, e magari contro ogni parere dei maggiori esperti militari e di intelligence israeliani che hanno definito Netanyahu un vero pericolo per la sicurezza del paese.
L’ANALISI DELLA TERZA vittoria di Bibi nell'ultimo decennio rivela verità inaspettate. Per esempio, nel Sud del paese, nelle città che nell'ultima estate hanno subito missili di Hamas per 50 giorni, e hanno accusato Netanyahu di non saper difenderli ed eliminare la minaccia dei razzi che volano ha Gaza su Sderot, Asdod, Askelon, il premier uscente e prossimo ha avuto più del 43% dei consensi. Negli ultimi mesi la regione del Negev israeliano attraversa una dura crisi economica: diverse fabbriche molto importanti per l'economia del Sud israeliano hanno chiuso. Gli stessi operai che lo hanno accusato di abbandonarli, hanno votato di nuovo per la persona responsabile della disoccupazione loro e dei loro figli.
Anche il carovita per la maggior parte degli israeliani è colpa di Netanyahu e della sua politica economica. Una delle spiegazioni razionali che ha fatto sì che un politico, snobbato se non detestato dalle cancellerie europee e e mondiali - soprattutto e da Obama e Kerry - abbia avuto questo sostegno popolare è la convinzione degli israeliani che il Medioriente è cambiato negli ultimi due anni e che una pace con la Siria è impossibile e che il pericolo iraniano e la follia del cosiddetto stato islamico rendono una pace con i palestinesi quasi irrilevante per la sicurezza di Israele. Netanyahu ha sconfitto Bennet e Liebermann - i suoi alleati più radicali a destra - proprio nei colonie e nelle città israeliane della Cisgiordania, di cui i due leader sono rappresentanti. La maggior parte dei religiosi nazionalisti che popolano questi territori hanno deciso di votare in massa Netanyahu, abbandonando Bennet e Liebermann, due politici contrari a ogni possibilità della creazione di uno stato palestinese.
NETANYAHU CHE NEL 2009, nel famoso intervento all'università di Bar Ilan - ateneo politicamente molto vicina ai religiosi nazionalisti - ha dichiarato che lui è consapevole che la soluzione di due stati per due popoli è inevitabile. Nel 2015, dopo 6 anni in cui le trattative di pace sono sfociate nel nulla e ci sono stati almeno due conflitti bellici, Netanyahu ha deciso di abbandonare la soluzione di due stati per due popoli e di parlare solo ai cittadini ebrei dello Stato israeliano, facendo leva sui timori degli israeliani per la loro sicurezza in un Medioriente liquido, violento e senza un orizzonte politico praticabile.
Proprio ieri sera in tv alcuni disoccupati del Negev, hanno detto che loro voteranno Netanyahu fino alla tomba e sulla lapide magari chiederanno che si scriva “io ho votato il Likud”.
Netanyahu negli ultimi due anni ha ripetuto tante volte che Israele non ha un partner palestinese per una vera trattativa di pace. Dopo queste elezioni pare che il messaggio di Netanyahu e di tutta la destra, è che neanche Abu Mazen, leader dell’Autorità palestinese, ha un partner israeliano per discutere della pace.
L’ennesimo governo di Netanyahu sarà un governo di destra molto omogeneo e molto poco aperto verso il mondo arabo. Il piano politico di questa destra avrà molta difficoltà a convincere l'Occidente che Israele è interessata a una soluzione del conflitto con i suoi vicini. Ma chissà, forse anche stavolta Benjamin Netanyahu farà un'altra magia delle sue.

Repubblica 19.3.15
Coloni e incubo Iran, così Bibi è rinato
Ma ora nel mondo sarà più solo
di Bernardo Valli


GERUSALEMME LO DAVANO per spacciato. Come primo ministro ci ha stancato, sentivi dire un po’ dappertutto. Nel ristorante kosher la studentessa che fa la cameriera. Nel tassì l’autista “sabra” nato a Gerusalemme, ma di una famiglia originaria di Bassora in Iraq. Strano, un sefardita, un ebreo orientale, dovrebbe essere un elettore di “Bibi”. E invece non lo ama. Non l’ama neppure il cronista nella redazione di un quotidiano moderato come Yediot Ahronot, anzi lo detesta. Senza parlare dell’amico, appesantito dagli anni, che ritrovo in pensione nella German Colony dopo averlo conosciuto dinamico attivista del Likud. Proprio del partito di “Bibi”. Anche noi siamo stufi di lui, mi confessa. E i due figli, uno ingegnere l’altro avvocato, si associano.
La lista degli scontenti era insomma lunga, e avvalorava i toni disincantati dei giornali nei confronti del primo ministro in carica da un numero d’anni inferiore soltanto a quello di Ben Gurion, il fondatore dello Stato. Vale a dire da troppi anni. Poi, come in un’allucinazione, martedi notte, Benjamin Netanyahu è apparso trionfante nella sede del suo partito, con la moglie Rosa accanto. Battuto? Spacciato? Estromesso?
È l’una quando comincia a parlare. La coppia Netanyahu sprizza energia, dopo un giorno decisivo, pesante, trascorso nell’attesa del risultato di un voto incerto, che poteva segnare una svolta decisiva, la fine di una grande carriera politica o quasi. La sconfitta annunciata dalle indagini d’opinione non c’è stata. Le proiezioni annunciano che dalle urne dovrebbe uscire un pareggio. In Israele invece delle percentuali dei voti si danno i risultati in seggi parlamentari: un 27 a 27 non è un successo strepitoso: ma una bella rimonta rispetto ai sondaggi che aggiudicavano al capo del Likud quattro seggi in meno della coppia Herzog— Livni, alla testa dell’avversaria Unione sionista, la coalizione di centro sinistra.
Chi sperava nel tramonto di Benjamin Netanyahu si addormenta un po’ deluso. Inquieto. Gli scontenti dovrebbero essere in tanti, vista l’atmosfera di Gerusalemme. Invece le lunghe ovazioni dedicate dai militanti del Likud a Rosa e a Benjamin, e i sorrisi smaglianti con quali Rosa e Benjamin le accolgono, fanno pensare che i due conoscano la sorpresa annidata nello scrutinio dal quale usciranno i veri risultati soltanto nel primo mattino. Dichiarano la vittoria. Avendo dimestichezza con la mappa elettorale del paese è più facile prevedere dalle proiezioni la conclusione del voto. Forse hanno ragione quando si dicono vincitori in anticipo. Questo vale anche per quelli dell’Unione sionista che, invece, accogliendo la notizia del pareggio hanno un’aria bastonata. Anche loro inneggiano tuttavia al successo. Due vincitori in un solo voto. Due governi e una sola elezione.
Il risveglio è brutale per gli uni ed euforico per gli altri. Nella notte il pareggio è sparito. Lo spoglio delle schede dà una chiara vittoria a Benjamin Netanyahu: 30 seggi contro 24 in favore del Likud. Le nostre corrispondenze scritte la sera erano l’effimera verità di un momento che si è dissolto. Benjamin Netanyahu avrà un quarto mandato come primo ministro. Nello spazio di poche ore sono sparite le speranze di una nuova dinamica nella politica mediorientale, e quindi una svolta nell’immobile problema israelo—palestinese. Dopo quasi cinquant’anni (che conto dalla guerra del 1967) di occasioni perdute, è sparito il miraggio di due Stati, il palestinese accanto all’israeliano garantito nella sua sicurezza. È tragicamente sfuggito di mano come un pallone. Si è perduto nel vuoto spinto da un voto democratico. L’occupazione continua e del processo di pace non si vede più traccia.
Questo è il prezzo del successo di Benjamin Netanyahu. Riacciuffato in extremis con l’energia e l’abilità riservate a pochi uomini politici. Nel suo ufficio Bibi tiene un ritratto di Winston Churchill, pensando di poterne trarre ispirazione, ed anche po’ di nobiltà. Ne avrebbe bisogno se volesse dare un senso e po’ di dignità al populismo che gli consente di riemergere ogni volta da crisi per altri politicamente fatali.
Fino a qualche giorno prima della notte che ho descritto egli è apparso spesso ai collaboratori in preda al panico. I pronostici gli erano ostili. Le indiscrezioni sulle spese eccessive nella residenza di primo ministro erano oggetto di indagini e di indiscrezioni giornalistiche; la sfida lanciata a Barack Obama al Congresso di Washington sul problema nucleare iraniano, presentato come una minaccia diretta per Israele, non aveva avuto grande successo e aveva ferito la preziosa alleanza con la Casa Bianca; gli stessi dirigenti del suo partito gli rimproveravano di avere condotto una cattiva campagna elettorale.
Ma lui conosce il suo elettorato. Gli stanchi del suo lungo potere erano soprattutto gente di città, delusi della politica che dopo l’ultima crisi di Gaza non dava più stabilità al paese nel Medio Oriente in tempesta. Molti erano askenaziti, ebrei originari del centro e nord Europa, non particolarmente amati dalle masse sefardite, originarie del Maghreb o del Medio Oriente, da sempre irritate dal ruolo privilegiato che loro, gli askenaziti, hanno nella politica e nella cultura. Bisognava tuttavia estirpare o attenuare lo scontento delle classi meno abbienti, anch’esse per lo più sefardite, per il rincaro dei prezzi, in particolare degli affitti, e per la forte sperequazione dei redditi, in una situazione economica tutt’altro che sfavorevole, con una crescita invidiabile in Europa e una bassa disoccupazione. Per questo lo scontento serpeggiava anche nel tradizionale elettorato del Likud.
Benjamin Netanyahu l’ha strappato per il tempo necessario del voto da quelle preoccupazioni. L’ha isterizzato gettando nei comizi argomenti profondi, sensibili, non del tutto irreali, riguardanti la sicurezza. Ha colpito il ventre degli elettori distratti o scontenti. Li ha mobilitati. Ha sfoderato problemi che non aveva mai affrontato con tanta schiettezza. Uno Stato palestinese? Ne aveva accennato, dichiarandolo necessario, nel 2009. Alla vigilia del voto incerto l’ha escluso con fermezza. Quando ha mentito? Sei anni fa o sei giorni fa quando ha sentenziato che non ci sarà mai uno Stato palestinese?
Un verdetto che blocca ancor più il paralizzato processo di pace. Se si esclude uno Stato binazionale, ritenuto irrealizzabile anche per la rapidità della demografia palestinese, e se si scarta l’idea di due Stati separati, resta soltanto la gestione normale delle crisi. Vale a dire l’occupazione dei territori palestinesi. Questo significa anche isolarsi dal resto del mondo, che nella sua grande maggioranza, Stati Uniti compresi, chiede che quel diritto, in larga parte già concesso dalle Nazioni Unite, sia riconosciuto al popolo palestinese.
Nell’offensiva promossa nelle ultime ore per recuperare i voti che gli stavano sfuggendo, Netanyahu ha accusato i suoi avversari di volere dividere Gerusalemme con i palestinesi. E di voler smantellare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. In poche ore ha riconquistato molti elettori (in larga parte sefarditi e russi) presentando le sue decisioni come irrinunciabili per garantire la sicurezza di Israele. E questa sicurezza assomiglierà sempre più a quella voluta dall’estrema destra con la quale si deve alleare per avere la maggioranza in Parlamento. Un’estrema destra che vorrebbe annettere via via parte della Palestina già presidiata da 350 mila coloni.
La procedura concede all’incaricato quattro settimane più due in caso di necessità per formare il nuovo governo. Unendo i seggi del suo partito a quelli dei partiti estremisti (di Bennett e di Liebermann), Netanyahu ne avrebbe a disposizione 44. I restanti dovrebbero darglieli Moshe Kahlon, abile ministro dissidente destinato a rientrare nei ranghi come ministro delle finzanze. Kahlon dispone di dieci preziosi seggi da aggiungere a quelli dei partiti religiosi ortodossi: lo Shass (safardita) e l’Ebraismo unificato della Torah (askenazita). Questa è la coalìzione che Netanyahu cercherà di realizzare. Se ci riuscirà avrà una maggioranza di 67 seggi sui 120 che conta la Knesset.
Il prezzo di questo governo, costruito con un abile populismo democratico, rischia di essere molto alto. L’autorità palestinese presenterà al Tribunale penale internazionale una denuncia contro l’occupazione della Cisgiordania. E reclamerà i diritti di dogana dei suoi prodotti gestiti da Israele e non corrisposti da due mesi. Netanyahu dovrà inoltre affrontare un isolamento internazionale, dopo la sfida lanciata al presidente americano e le richieste inattese di riprendere i negoziati di pace avanzati dalle democrazie occidentali. Lo Stato ebraico dovrà usare l’ampio credito che la Storia gli riconosce.

Repubblica 19.3.15
Lo scrittore Etgar Keret
“Ha vinto la deriva messianica ora gli israeliani si sveglino”
Dopo il voto di martedì temo un maggiore isolamento internazionale
Bisogna decidere che nazione essere: la discriminazione dei cittadini arabi deve finire
“L’affermazione di Netanyahu - spiega lo scrittore è stata una grande delusione
Lui vuole un paese più ebraico e meno democratico
Spero che questa corrente illiberale e religiosa non prenda il sopravvento
Ma la sinistra ha perso perché è diventata minoranza”
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME La voce cupa e stanca che arriva dal telefono non è dovuta al jet lag ma al vero e proprio shock che lo scrittore e sceneggiatore israeliano Etgar Keret dice di aver subito quando, ieri mattina, è sceso dall’aereo che lo ha portato a New York e ha saputo il risultato del voto. Teme, e non fa nulla per nasconderlo, «questa deriva illiberale e messianica » che è scaturita dalle urne.
All’alba di ieri sono svanite tutte le illusioni della sinistra di mandare a casa Netanyahu...
«Una delusione enorme. Netanyahu ha fatto così tanti errori, ha danneggiato così tante persone, che sembrava che la sinistra, così indebolita negli ultimi dieci anni, potesse approfittare di questa crisi per conquistare una vittoria decisiva. Il Likud aveva deluso in tutti i campi possibili, nella sicurezza, nell’economia, nelle relazioni internazionali, dopo che erano stati svelati tanti casi di malgoverno e di corruzione. Se in questa realtà non siamo riusciti a vincere probabilmente significa che la sinistra è diventata una minoranza in Israele».
E supponendo che davvero la sinistra sia ora minoranza, cosa accadrà adesso?
«Ci sono sempre state opinioni differenti ed opposte all’interno del popolo ebraico, ed evidente che questa divergenza continuerà, posso solo sperare che questa corrente destrorsa, illiberale e messianica non prenda il sopravvento totale e che la gente si svegli».
Ma Netanyahu ha però dalla sua la forza del risultato, non crede?
«Certamente. Ha sfruttato in maniera cinica questa campagna elettorale, ed è riuscito a danneggiare i nostri rapporti con gli Usa. Israele ha sempre avuto bisogno del sostegno americano ed è possibile che ora questo sostegno scompaia o quanto meno venga molto indebolito. Adesso chissà cosa farà con i suoi alleati nella nuova coalizione, temo un maggiore isolamento sul piano internazionale».
E la divisione interna in Israele non è un fatto ancora più preoccupante?
«Entrambi i partiti hanno usato un linguaggio ultimativo “o noi o loro”, mentre forse si dovrebbe tentare di trovare un terreno in comune. Giorni fa ero su un taxi guidato da una donna, un tipo cordiale, di una certa età. Ad un certo punto siamo finiti a parlare delle manifestazioni degli ultimi giorni a Piazza Rabin e del fatto che un giornalista di destra ha accusato una vedova dell’ultima guerra di Gaza, che aveva parlato al raduno della sinistra, di essere l’assassina del marito caduto, perché aveva appoggiato il ritiro israeliano da Gaza nel 2005. “Bisognerebbe usare un linguaggio più moderato – ho detto alla tassista – in definitiva siamo lo stesso popolo”. “No, tu ed io non siamo lo stesso popolo – mi ha risposto – siamo due popoli diversi, che si trovano in guerra”. Penso che questa sensazione di appartenere a due popoli differenti sia ormai divenuta reale».
Quali sono le linee di separazione fra questi due popoli? Sono religiose, economiche, ideali?
«Le linee di demarcazione classiche fra destra e sinistra in Israele sono sempre meno significative. Per esempio il presidente Rivlin, che pur essendo un uomo di destra, è un liberale; o l’exministro della Giustizia Dan Meridor, che pur essendo nato e cresciuto nel Likud non vi si riconosce più e non ha votato per Netanyahu. Credo che dobbiamo decidere se vogliamo essere un Paese in cui tutti i suoi cittadini sono uguali, o un Paese i cui i cittadini arabi sono sistematicamente discriminati. Apparentemente Netanyahu vuole un paese più “ebraico” e meno democratico. Quindi ritengo che la questione religiosa, nell’accezione di Netanyahu e delle destre israeliane, sia quella più significativa. Da un lato c’è una visione religiosa e messianica, dall’altro una liberale e democratica».

il manifesto 19.3.15
Elezioni israeliane: il trionfo della paura, grazie al premier
di Zvi Schuldiner

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Il Sole 19.3.15
Quel «no» a uno Stato palestinese, un macigno per Europa e Usa
di Ugo Tramballi


È altamente probabile che per le dimensioni del suo successo elettorale e l’orientamento del governo che formerà, Bibi Netanyahu sia il premier israeliano che fra due anni celebrerà il giubileo dell’occupazione dei Territori palestinesi. Cinquant’anni. Mezzo secolo d’occupazione e di colonie, con una scia di guerre, di morti, di profughi, di terrorismo che prima dell’ascesa del qaidismo e del califfato avevano caratterizzato più di ogni altro conflitto l’instabilità del Medio Oriente.
L’annuncio da campagna elettorale – fino a che sono premier, uno Stato palestinese non ci sarà – era stato preso come la provocazione di un candidato in difficoltà. Ora che invece Netanyahu ha vinto, quella dichiarazione è un programma politico che pesa come un macigno sui rapporti di Israele con gli Stati Uniti, con l’Europa, con quel sistema internazionale di relazioni che aveva creato e coltivato, più come feticcio che come seria agenda di lavoro, la formula dei “due Stati, Israele e Palestina, per due popoli in pace e sicurezza”.
A Hamas e Hezbollah non importa ciò che dice Netanyahu: avrebbero continuato la loro guerra a Israele anche se avesse vinto Isaac Herzog. Ma per tutti gli altri quell’arroganza del premier israeliano, la palese violazione di un impegno preso con gli alleati e gli amici, è una scossa che fa temere un inizio: il passaggio di un Paese e un leader dal nostro campo a quello dell’imprevedibilità comportamentale come la Russia di Vladimir Putin che fissa le regole internazionali sulla sola base del proprio interesse.
Quali danni può fare un governo nazionalista che ricominciasse a costruire nuove colonie nei Territori; o facesse passare la legge tribale sulla natura ebraica dello Stato, che sancisce lo status di cittadini di seconda classe per gli arabi d’Israele, il 20% della popolazione? E se la chiara vittoria lo spingesse all’inebriante convinzione di un potere senza limiti, cos’altro farebbe Netanyahu per minare il negoziato nucleare fra Stati Uniti e Iran? Dicendo no a uno Stato palestinese, Bibi ha contemporaneamente guadagnato voti in casa e perso quel poco di credibilità internazionale che gli era rimasta fuori dalla cerchia dei repubblicani del Congresso.
Il volto civile e i toni misurati di Isaac Herzog avevano offerto la possibilità di un Israele normale che come ogni Paese democratico cerca una misura fra le sue esigenze di sicurezza e i diritti degli altri. Invece si è imposto il populismo di Bibi – o noi o loro -, l’arroganza di chi considera la Bibbia un manuale di politica. È come nel 1996 quando, commentando la sua sconfitta contro Netanyahu, Shimon Peres disse che gli ebrei avevano sconfitto Israele.
Il passato che vince sul futuro: non è tanto una questione di legittima sicurezza, quanto di affermazione di un dogma fondamentalista, la terra donata da Dio al suo popolo. Anche gli ultimi avvenimenti di Tunisi aiutano a spiegare il successo di Netanyahu: è difficile chiedere agli israeliani di essere lungimiranti in un Medio Oriente così pericoloso. In questo contesto, infatti, nessuno stava premendo su Israele perché facesse passi decisivi verso un accordo con i palestinesi. Ma il governo Netanyahu ha continuato ad approfittare del momento di stallo per creare le condizioni affinché un compromesso non potesse mai essere raggiunto. Il massacro di Tunisi spiega un’altra cosa: che in pericolo non c’è solo Israele. La difesa con ogni mezzo di una sola tribù non aiuta a sconfiggere il terrore, lo alimenta.

il manifesto 19.3.15
Israele con Netanyahu, Likud sulla vetta
Elezioni 17 marzo. Contro le previsioni e tutti i sondaggi, il leader della destra si conferma primo ministro e sbaraglia il centrosinistra di Yitzhak Herzog
In cantiere un governo di ultranazionalisti e religiosi che non lascerà spazio ad alcun negoziato con i palestinesi
di Michele Giorgio

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il manifesto 19.3.15
Il grande freddo tra Bibi e Obama
La Casa Bianca si congratula con gli israeliani, ma non con Netanyahu
L'Unione Europea spaventata dalle minacce alla soluzione a due Stati
di Chiara Cruciati

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Corriere 19.3.15
Entra in scena la politica dei palestinesi
di Khaled Diab


Dopo aver deluso le aspettative e le speranze del centro e della sinistra israeliane, il partito di destra del Likud è emerso come il primo partito di Israele, in un Paese contraddistinto da un sistema politico frammentato, al punto tale da poter paragonarsi al Belgio e all’Italia. Malgrado la prospettiva inevitabile e deprimente dell’ennesima coalizione della destra più intransigente guidata da Netanyahu, i palestinesi di Israele, invece di abbandonarsi allo sconforto, appaiono addirittura giubilanti. Nella città di Nazareth al Nord, per esempio, gli automobilisti si sono messi a suonare il clacson, quasi fossero diretti a un matrimonio. Il motivo di tanta, e in apparenza paradossale, esultanza non ha nulla a che vedere con il Likud, ma si cela invece nell’avanzata senza precedenti della Lista Comune, appoggiata dagli arabi. «È un ottimo risultato, perché testimonia il rinnovato sostegno da parte dei cittadini arabi ai loro rappresentanti» ha commentato un amico di Nazareth.
Questo «voto di fiducia», assieme alla larga partecipazione elettorale degli arabi, dopo anni di apatia, è dovuto principalmente a due uomini, uno dei quali è Avigdor Lieberman, del partito ultranazionalista Yisrael Beiteinu. Difatti è stato proprio il ministro degli Esteri uscente ad aver voluto innalzare la soglia elettorale, una mossa interpretata come il tentativo di sbarrare la Knesset ai partiti arabi, che tradizionalmente raccolgono meno voti dei loro rivali ebraici. Questa strategia, assieme a una retorica infiammatoria anti-araba, ha spinto i partiti minori a formare un’improbabile alleanza, la Lista Comune, che raccoglie tra le sue file nazionalisti palestinesi, progressisti arabi ed ebraici, ed islamisti.
L’altro uomo è un avvocato di Haifa passato alla politica, Ayman Odeh, che è emerso da una relativa oscurità per guidare una campagna carismatica a favore della Lista Comune, e che alcuni osservatori hanno descritto come il più interessante politico arabo del Medio Oriente. «La nostra Lista Comune chiama a raccolta tutti i popoli deboli e oppressi, a prescindere da razza, sesso o religione», ha spiegato Odeh in un’intervista a The Guardian . «Il nostro sarà uno schieramento alternativo, democratico, dove arabi ed ebrei non sono nemici, bensì partner a pari titolo». Tenendo ben presente che gli arabi costituiscono la principale fascia dei poveri e dei diseredati di Israele, la Lista Comune ha elaborato un piano decennale per colmare il divario socio-economico tra questi e i settori più avanzati della società. «Vogliamo fare una marcia su Gerusalemme per sensibilizzare il Paese al nostro programma e reclamare giustizia e democrazia», ha dichiarato Odeh, ispirandosi ai pionieri dei diritti civili, come Martin Luther King.
Un altro punto saliente della piattaforma politica è la decisa opposizione all’occupazione, in un Paese che ormai ha dimenticato l’oppressione dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, per dedicarsi sempre di più alla «gestione» del conflitto. «Noi diciamo che non potrà esservi nessuna reale e sostanziale democrazia in Israele fintanto che continuerà l’occupazione dei territori palestinesi, iniziata nel 1967», nelle parole di Odeh. Non è chiaro, tuttavia, fino a che punto la Lista Comune potrà raggiungere i suoi obiettivi, davanti a una possibile coalizione della destra ultranazionalista o a un governo di «unità nazionale». Ma una cosa è certa: il successo della Lista Comune alle urne ha finalmente, seppur con grande ritardo, segnato l’ingresso dei palestinesi di Israele sulla scena politica del Paese, dove potrebbero diventare il primo partito di opposizione. È un risultato, questo, che potrebbe indicare una svolta sullo scacchiere mediorientale, e i futuri storici forse guarderanno a questa data come il momento in cui la lotta dei palestinesi ha iniziato a trasformarsi in un movimento per i diritti civili.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 19.3.15
L’avvocato che ha smosso gli arabi
Integralisti, nazionalisti e comunisti si sono raccolti attorno a Ayman Odeh, l’uomo che ha tenuto testa al falco Liberman. Ma la coalizione ha troppe anime
di Lorenzo Cremonesi


Non hanno vinto e non faranno parte di alcuna coalizione di governo. Eppure, i 13 o 14 deputati (da confermare dai risultati dello scrutinio finale) della nuova Lista Unita eletta dagli arabi israeliani rappresentano una delle novità più significative delle elezioni. E’ dalla prima legislatura nel 1949 che gli arabi cercano di creare una coalizione unitaria, ma le divisioni interne avevano sempre prevalso. Il quotidiano Haaretz nota che, se si conteggiano anche i quattro deputati arabi nei «partiti sionisti», la Ventesima Knesset (il Parlamento) dovrebbe avere così in tutto 17 deputati arabi (sui 120 complessivi). Circa il doppio di quelli che erano stati eletti nella precedente legislatura.
«La forte presenza araba è figlia dell’effetto boomerang generato dalle dichiarazioni ostili e razziste della destra, a partire da quelle del ministro degli Esteri Avigdor Liberman», notano i commentatori israeliani. Uno dei momenti topici fu durante un dibattito televisivo poche settimane orsono, quando Liberman rivolgendosi al leader del partito comunista Hadash (il cui elettorato è quasi tutto arabo), Ayman Odeh, lo definì «straniero» e «cittadino palestinese». Questi, nato ad Haifa nel 1975, noto avvocato, in ebraico perfetto ricordò a Liberman la sua immigrazione dall’ex Urss nel 1978 aggiungendo: «Io sono molto ben accetto nella mia città natale, sono parte della natura, figlio di questa terra». Da allora Odeh è diventato il motore primo della Lista Unita, che coalizza assieme ai comunisti tre partiti arabi minori: Ta’al, Balad e Lista Araba Unita.
Al suo fianco sono state elette figure ben note alla politica locale. Prima tra tutte la 46enne «pasionaria» Haneen Zoabi, araba israeliana figlia di una delle più note famiglie musulmane di Nazareth. Lei, laureata all’università di Gerusalemme, è entrata alla Knesset per la prima volta nel 2009 tra le file del Balad. Venne poi processata per aver partecipato alla spedizione pacifista nel 2010 a favore della popolazione palestinese di Gaza sulla nave turca «Mavi Marmara», quando nove attivisti rimasero uccisi nello scontro con i commando israeliani. Punto centrale della sua politica è oggi la nascita di uno Stato binazionale arabo-ebraico che comprenda Israele e i territori occupati nella guerra del 1967. Altra figura di punta della nuova lista è il 55enne Jamal Zahalka, anch’egli attivista nel Balad impegnato in quella che definisce la «lotta contro l’apartheid».
La Lista Unita vorrebbe rappresentare il milione e 658.000 arabi israeliani (circa il 20,7 per cento della popolazione del Paese), di cui l’80 per cento musulmani. Pure, non mancano le difficoltà. Le sue componenti vedono al loro interno profonde differenze. I comunisti, che raccolgono tra l’altro circa 10.000 elettori ebrei, sono propugnatori di istanze socialiste, laiche e femministe. Per contro, i tre partiti arabi raccolgono elementi tradizionalisti islamici, alcuni ispirati al fondamentalismo religioso di Hamas e altri al nazionalismo dell’Olp. Tenerli assieme potrebbe risultare impossibile.

il manifesto 19.3.15
Palestina. Parla l'intellettuale Omar Barghouti, attivista per i diritti umani
«Con questo voto cadono le maschere, l’Italia boicotti le aziende e chieda l’embargo militare»
di Geraldina Colotti

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La Stampa 19.3.15
Tra i palestinesi esplode la rabbia, ma dal Golfo arriva “comprensione”
Hamas: siamo forti e i nostri aggressori pensino bene a cosa fanno
I nemici dell’Iran: i negoziati Usa sul nucleare fanno paura anche a noi
di M. Mo


«É il risultato di una campagna elettorale basata su razzismo e apartheid». Saeb Erakat, capo-negoziatore dei palestinesi, reagisce da Ramallah alla vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu parlando di «successo dovuto al sostegno per gli insediamenti, alla discriminazione degli arabi israeliani e alla negazione dei diritti umani fondamentali dei palestinesi» nei Territori di Cisgiordania e Gaza. La responsabilità di quanto avvenuto, aggiunge Erakat, è della «comunità internazionale che non ha obbligato Israele a rispondere delle violazioni di leggi, convenzioni e diritti» facendo maturare nella popolazione «la convinzione dell’immunità».
L’offensiva diplomatica
Il fuoco di sbarramento anti-Netanyahu che arriva dal governo palestinese lascia intendere che a breve partirà una duplice offensiva diplomatica: per ottenere il riconoscimento della sovranità sui Territori da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e per far condannare Israele per «crimini di guerra» dal Tribunale penale internazionale a seguito dei raid su Gaza in estate. In entrambi i fori, gli Usa assicurano al momento che opporranno il veto ma i palestinesi ritengono che Barack Obama potrebbe adesso decidere limitare le «difese legali» di Israele. Anche Abu Mazen, presidente palestinese, interviene per dirsi «pronto a lavorare con qualsiasi governo accetti la soluzione dei due Stati» ovvero evidenziando che ora Netanyahu è in un angolo, obbligato a dover spiegare Usa e Ue le sua nuova posizione contraria agli accordi siglati a Oslo. Ciò che conta per i palestinesi è l’isolamento internazionale di Israele e, secondo Erakat, «quanto avvenuto lo conferma».
La striscia di Gaza
Da Gaza intanto parla di Hamas. È il portavoce Sami Abu-Zuhri che adopera un linguaggio di guerra davanti al risultato israeliano: «La resistenza dei palestinesi è forte, capace di lasciare il segno sui nemici e dunque i nostri aggressori devono pensare bene a cosa fanno».
I portavoce dell’ala militare di Hamas tagliano corto: «Per noi non c’è alcuna differenza fra i partiti politici israeliani perché fra loro c’è un consenso di massima» sulla «necessità di colpire i palestinesi». L’altro fronte di crisi di Israele è con l’Iran, da dove il governo di Hassan Rouhani reagisce al successo di Netanyahu parlando «di poche differenze fra le spie sioniste» perché «si tratta della stessa storia sebbene colorata in maniera diversa».
I sunniti del Golfo
Nei Paesi sunniti del Golfo l’impressione è invece differente. «È l’affermazione dell’Iran nucleare ad aver facilitato la riconferma di Netanyahu alla guida del governo» afferma un alto funzionario degli Emirati, secondo il quale «il premier israeliano crede profondamente nella necessità di proteggere la sua gente e dunque crea consenso attorno alla sua politica». Sono toni nei confronti di Netanyahu che si ritrovano, in maniera informale da Dubai al Cairo, ovvero in quei Paesi sunniti accomunati a Israele dalla doppia opposizione al nucleare iraniano e al jihadismo del Califfo di Isis. Sami al Faraj, consigliere per la cooperazione sulla sicurezza in Kuwait, aggiunge: «Certo, da una parte c’è scontento per quanto detto da Netanyahu sugli accordi Oslo ma dall’altra molti ritengono che tali posizioni saranno presto ridimensionate se il mondo riuscirà ad esprimere sostegno a Israele minacciata dai jihadisti». «I negoziati nucleari fra Usa e Iran - aggiunge il consigliere del Kuwait - fanno davvero paura a molti Stati arabi perché ignorano la presenza di unità militari iraniane in Iraq e Yemen» e dunque la reazione del pubblico israeliano «alla ricerca della sicurezza» è «naturale».

La Stampa 19.3.15
E ora Tsipras va allo scontro
“Non prendo ordini dai tecnici”
Oggi il vertice a Bruxelles, ma sale il malumore Ue Il tedesco Schaeuble avvisa: il tempo sta scadendo
di Mar. Zat.


Alexis Tsipras ce l’ha fatta. Non è detto che sia un buon affare, ma è riuscito a far convocare per stasera - o al massimo per domani - una riunione a sette per parlare della «crisi umanitaria ellenica» a livello politico e non tecnico. Nel bel mezzo del vertice dei capi di stato e di governo che si apre nel pomeriggio a Bruxelles, il premier greco si apparterà con la coppia Merkel-Hollande, il presidente della Bce, Mario Draghi, e quelli di Consiglio, Eurogruppo e Commissione, cioè Tusk, Dijsselbloem e Juncker. Gente che, alla vigilia, avrebbero fatto di tutto per evitare il mini vertice. E che, ora, potrebbe dimenticare la clemenza fuori dalla porta.
Il barometro del malumore europeo nei confronti del governo Tsipras continua a salire. «Sono preoccupato e per nulla soddisfatto dei progressi degli ultimi giorni», confessa Juncker, in genere il più paziente della banda. Anche il suo uomo economico, Pierre Moscovici, si lancia in una frase pericolosa per le possibili interpretazioni. Dice che «l’intera Unione vuole che la Grecia resti nell’Eurozona perché il contrario creerebbe pericoli gravi dal punto di vista economico e politico». Tuttavia, aggiunge il francese, «questo deve avvenire alle condizioni pattuite con l’accordo del 20 febbraio e non altre». Invita a lavorare «rapidamente e con sincerità». Perché «se non c’è cooperazione», si perde il tempo necessario per precisare entro fine aprile la lista «poco dettagliata» delle riforme greche.
L’idea che si sono fatti gli osservatori di Bruxelles è che Tsipras provi ad ottenere con un accordo politico i margini che gli inviati di Ue, Bce e Fmi non possono dargli. Per evitare la rottura, gli altri leader e presidenti hanno dovuto accettare il gioco di Atene dove ieri, è stata varata una legge «umanitaria» che promette buoni pasto a 300 mila greci e luce gratis a 30 mila famiglie (costo: 200 milioni). Senza entrare nel merito, le fonti Ue concedono che è un intervento fuori dal percorso definito con i greci, una mossa che incrina ulteriormente la fiducia. «Abbiamo la sensazione che il tempo stia scadendo», ha sentenziato Wolfgang Schaeuble, ministro delle finanze tedesche.
I funzionari dell’ex Troika, oggi Brussels Group, lamentano che Atene rema contro. «Non cooperano», riferiscono fonti dell’Eurozona. Tsipras cerca la rissa e assicura che non prenderà ordini dai «tecnici», motivo per cui ha voluto l’incontro di oggi. Proprio Dijsselbloem ha risposto mettendo in circolo quella che è parsa una minaccia. Prima di arrivare all’uscita dall’euro, ha avvertito, esistono altre opzioni, dalla chiusura temporanea delle banche e al ripristino dei controlli sui capitale.
Ai massimi livelli politici si cerca di frenare le furie. Detto che l’Italia non è nella partita, Frau Merkel si dichiara «convinta che sia il momento giusto» per parlare con Tsipras, il quale è atteso a Berlino lunedì. Il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, assicura che «faremo qualsiasi cosa per evitare un incidente e credo che lo eviteremo». I mercati tremano. Il ritorno rapido del differenziale del rendimento di Btp e Bund tedesco oltre i 100 punti base a quota 112 fa capire che nei borsini i tecnici temono una nuova tempesta che, se le cose andassero male, domani non potrebbe che farsi più vicina.

Repubblica 19.3.15
Grexit, con l’addio all’euro i creditori rischiano 400 miliardi
di Federico Fubini


ROMA La festa nazionale greca, il 28 ottobre, si chiama «giorno del no» in memoria del rifiuto opposto a Mussolini nel 1940. Certo l’area euro del 2015 non somiglia in niente all’Italia di 75 anni fa e la Troika non è un esercito fascista che preme ai confini. Ma se stasera al vertice di Bruxelles il premier Alexis Tsipras rispolverasse lo spirito di quei tempi, oltre a vellicare l’orgoglio nazionale otterrebbe un altro risultato: muovere un passo in più verso un’insolvenza che può portarlo ad abbandonare l’euro nel giro di pochi mesi. L’uscita della Grecia dalla moneta unica non è mai stata lo scenario più probabile, forse non lo è neanche ora. Ma i rapporti fra Atene e i suoi creditori ormai hanno toccato a un punto così basso che ministri, commissari e bancheri europei ne parlano apertamente. Federico Ghizzoni sostiene che Eurolandia oggi ha istituzioni e economie così solide da poter resistere a un’uscita di Atene senza troppi traumi. L’amministratore delegato di Unicredit in questo concorda con Johan Van Overtveld, ministro delle Finanze olandese, che parla di «difese sufficienti». Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari monetari, la vede in modo opposto: «Sarebbe una catastrofe - ha detto più volte il francese - Se un Paese esce, metterebbe in pericolo la zona euro perché i mercati si chiederebbero subito chi è il prossimo».
Di certo la contabilità di una rottura sarebbe più complessa di quanto di solito si pensi. Quella che Tsipras chiama «austerità», vista dai creditori appare qualcosa di diverso: un flusso di finanziamenti a vario titolo da 400 miliardi di euro, in gran parte a carico e a rischio dei contribuenti del resto d’Europa. Fatte le proporzioni, è come se dal 2010 ad oggi l’Italia avesse ricevuto da Eurolandia 3.500 miliardi di euro. Il primo programma per la Grecia valeva 80 miliardi, per un terzo dal Fondo monetario internazionale e per il resto dai governi europei. Il secondo ne vale 164 e gli esborsi per ora sono arrivati quota 153,8 miliardi (11,9 del Fmi, il resto del Fondo salvataggi europeo Efsf-Esm). Poi ci sono i vari canali della Bce, o meglio del sistema europeo delle banche centrali. Lì a fine gennaio la posizione debitoria «ordinaria» dell’istituto centrale di Atene era di 75,9 miliardi. Vanno contati inoltre i circa 70 miliardi di euro dei prestiti di emergenza che la Bce sta fornendo in queste settimane e i 19,8 miliardi di titoli greci che rimangono sul bilancio dell’Eurotower dopo gli acquisti per il salvataggio del 2010-2011. In totale fanno appunto circa 400 miliardi di euro, due volte e mezzo il reddito nazionale greco.
Se Atene facesse default e tornasse alla dracma, la perdita per i creditori non sarebbe su questa somma per intero. Parte dei prestiti recenti sono serviti a rimborsarne altri dei primi anni di crisi, dunque la perdita sarebbe un po’ superiore ai 300 miliardi: un volume di oltre metà del crac Lehman, concentrato su istituzioni pubbliche europee. Già questo porrebbe problemi intrattabili. Le banche centrali nazionali, attraverso la Bce, dovrebbero cancellare dai bilanci fino a 166 miliardi di attivi. Risulterebbe così che i saldi debitori e creditori fra Banca d’Italia, Banque de France o Bundesbank all’interno dell’eurosistema non sono pure scritture contabili, ma posizioni di rischio reale. Qualcuno ricorderebbe che per esempio l’Italia a febbraio era in «rosso» di 164 miliardi nei saldi dell’Eurosistema e magari in Germania si pretenderebbe di non condividere più questi rischi. L’uscita della Grecia può far sembrare l’euro non più una moneta unica, ma un sistema revocabile di cambi fissi. Gli investitori chiederebbero tassi più alti per comprare il debito dei Paesi più fragili, temendo che possano tornare alle proprie monete deboli. «I mercati si porrebbero domande sull’Italia, la Spagna o il Portogallo», prevede il presidente dell’istituto tedesco Diw Marcel Fratzscher.
La Grecia se la passerebbe anche peggio: «Ci sarebbero fallimenti di banche e imprese - nota Fratzscher - e il Paese sarebbe tagliato fuori dai finanziamenti. La catastrofe umanitaria sarebbe molto più grave di oggi ». Possibile che Atene si rivolga a Mosca, per poi magari rendersi conto che la Russia è un protettore ingombrante ma incapace di sostenerla. Tutte prospettive che dovrebbero scoraggiare dalla rottura definitiva. Ma non sempre va così, ricorda Angel Ubide del Peterson Institute: «La Federal Reserve e il Tesoro Usa erano convinti di aver preparato difese adeguate, prima di lasciar fallire Lehman - dice -. Ma quando qualcosa di tanto enorme succede per la prima volta nella storia, nessuno può dire di conoscere tutte le conseguenze».

Corriere 19.3.15
La Serbia arresta i macellai di Srebrenica


«Nedjo il Macellaio» non gusta più i suoi aperitivi alla «sljivovica» nei bei caffè di Belgrado. Sta in galera, la giustizia serba l’ha catturato insieme con 7 dei suoi compagni di genocidio. L’ha fatto dopo 20 lunghissimi anni da quando loro — secondo l’accusa — premettero il grilletto, lanciarono le granate su prigionieri disarmati, e arrossarono i coltelli da scuoiatori di pelli: ma l’arresto è lo stesso una notizia. Perché Nedjo, cioè Nedeljko Milidragovic, e compagni, sono i primi, presunti responsabili materiali della strage di Srebenica in Bosnia, il peggior massacro delle storia europea dal 1945 in poi, sui quali la giustizia serba abbia messo le mani. E perché la stessa Serbia, da gennaio nel pieno delle trattative per il suo ingresso nell’Ue, può forse sciogliere con questo gesto una delle tante ombre addensatesi sul suo passato.
Già il suo governo aveva arrestato il leader politico serbo-bosniaco Radovan Karadzic, nel 2008, e il comandante militare Ratko Mladic nel 2011, come mandanti del massacro, oggi processati dalla Corte penale internazionale dell’Aja. Ma «Nedjo» e i suoi sono altri fantasmi, che non predicarono soltanto, ma tuffarono direttamente le mani nel sangue.
Il prossimo 3 luglio cade l’anniversario di ciò che fecero nel 1995: oltre 1000 uomini e ragazzi musulmani mitragliati e finiti a colpi di granata in un grande magazzino-deposito alle porte di Srebenica. Un ottavo del totale, cioè degli ottomila maschi di ogni età separati dalle loro famiglie, caricati su file di camion e portati a scavarsi da sé le loro fosse comuni. Quelli furono anche i giorni del disonore: quando i «caschi blu» olandesi, soldati incaricati dall’Onu di proteggere la popolazione civile, lasciarono che i musulmani disarmati rifugiatisi nella loro base fossero portati via come agnelli.
È il passato, lontano. Ma pesa. Anche perché oggi, nei negoziati Serbia-Ue, alla voce «giustizia, libertà, diritti fondamentali», Bruxelles continua ad annotare: «notevoli sforzi necessari» .

Corriere 19.3.15
Gli schiavi della Corea del Nord nei cantieri del Mondiale in Qatar
Il regime di Kim «esporta» operai e trattiene le paghe per i lussi di regime
di Guido Santevecchi


PECHINO Migliaia di nordcoreani sarebbero stati inviati all’estero dal regime per lavorare in condizioni di semi-schiavitù. Secondo le informazioni sulle quali sta indagando la commissione speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani violati in Corea del Nord, questi operai forzati a emigrare sarebbero almeno 20 mila, concentrati in Cina, Russia e Medio Oriente.
Marzuki Darusman, il relatore dell’Onu, dice che i nordcoreani sono presenti in numeri imponenti anche nei cantieri del Qatar, dove sono in costruzione gli impianti per i mondiali di calcio del 2022.
Le prime notizie sulla situazione in Qatar sono frutto di inchieste giornalistiche. Il Guardian ha riferito il caso di Lusail City, una città che sta nascendo nel deserto a nord di Doha. Il progetto prevede abitazioni per 200 mila persone, un grande parco divertimenti, due campi da golf e uno stadio da 86 mila posti che dovrebbe ospitare la finale della Coppa del Mondo tra sette anni. Il grosso degli operai vene dall’Asia, sono vietnamiti, tailandesi, nepalesi e indiani le cui condizioni di lavoro hanno già destato molte polemiche.
Ma lo stato più grave sarebbe quello dei nordcoreani «affittati» dal loro governo con contratti della durata di tre anni. È una mano d’opera a basso costo e secondo la denuncia Pyongyang trattiene il 90 per cento del salario. Per evitare proteste il regime del Nord minaccia rappresaglie sui familiari dei lavoratori rimaste in patria. Dietro l’operazione di rastrellamento delle paghe è stato individuato un «Ufficio 39» di Pyongyang, incaricato di trovare valuta per il regime, stretto dalle sanzioni internazionali. Alcuni fuggiaschi nordcoreani sostengono che una parte dei soldi finisce in un fondo per sostenere lo stile di vita del dittatore Kim Jong-un.
Nell’accampamento dei nordcoreani, dietro i cantieri di Lusail City, nessuno vuole parlare, le uniche dichiarazioni spiccano sugli striscioni rossi che inneggiano al «Nostro grande Kim Il-sung e a Kim Jong-il, per sempre con noi». Kim Il-sung è il defunto fondatore della Repubblica popolare democratica di Corea (il nome ufficiale della Nord Corea); Kim Jong-il era il figlio e successore, morto nel 2011. Al potere da allora c’è il nipote Kim Jong-un, poco più che trentenne. Gli imprenditori del Qatar sostengono che le maestranze non qualificate sono pagate 3.000 riyal (circa 770 euro) al mese e che oltre i due terzi vanno alle famiglie in Corea.
Il delegato nordcoreano presso le Nazioni Unite di Ginevra ha smentito ogni accusa, sostenendo che è tutta una montatura basata su false testimonianze. Marzuki Darusman ha detto alla Reuters : «I fatti stanno emergendo con chiarezza, si tratta di lavoro costretto o di schiavitù ed è giunto il momento di fare luce su questi deportati». Il rappresentante dell’Onu chiede da tempo invano di poter visitare liberamente anche la Cina per accertare la situazione.
NK Watch, un gruppo basato a Seul che raccoglie informazioni sulla Nord Corea, stima che i forzati inviati da Pyongyang all’estero siano fino a 100 mila. Il loro sacrificio porterebbe alle casse del regime tre miliardi di dollari l’anno. Ma non ci sono riscontri su questi numeri. Anche all’interno del Paese guidato dal Partito dei Lavoratori (così si chiama l’onnipresente centro di potere della dinastia Kim) la vita dei lavoratori è dura. A Kaesong c’è un parco industriale gestito congiuntamente dal Nord e dal Sud. Le 124 aziende e la tecnologia sono di Seul, la mano d’opera è fornita da Pyongyang.
Le paghe basse invitano gli imprenditori sudcoreani a investire; il governo nordista incassa buona parte degli utili prodotti da circa 53 mila operai. Ora a Pyongyang hanno deciso un aumento del salario minimo: da 70 dollari e 35 centesimi al mese a 74. Ma quei 3,65 dollari in più non sono piaciuti agli industriali del Sud: contestano la decisione unilaterale.

Corriere 19.3.15
Bell’Italia delle occasioni mancate
Tesori trascurati, investimenti respinti, presunzione. Ma potremmo rinascere grazie al nostro patrimonio
di Gian Antonio Stella


C’ era una volta una grande società di consulenza che lavora soprattutto per lo Stato e che voleva brindare con i dipendenti al 2015 in un museo italiano nel cuore di Roma. Un lunedì di chiusura. Una mezz’oretta di visita alle sale, un’altra per il brindisi in piedi. Un paio di tavoli coperti, qualche stuzzichino, un po’ di bottiglie. Un’ora e tutto finito. Pedaggio: 15 mila euro.
Caruccio. Ma la società accettò: i quattrini sarebbero stati spesi bene. Dio sa quanto sono poveri i musei. Purché, spiegò il direttore, il brindisi non fosse fatto nel salone («queste cose non si fanno!») ma nell’androne. Al gelo. Il 15 dicembre. Con sciarpe e cappotti. Non bastasse, andavano pagati uno a uno separatamente i custodi disposti allo straordinario. Conclusione, tanti saluti e cincin in un museo privato: 15 mila euro buttati ma verginità salva. Vade retro, sterco di Satana !
Dite voi: possiamo permetterci questi rifiuti dettati più dallo snobismo che da reali necessità di tutela? È quanto si chiede in Resort Italia (Marsilio, pp.162, e 17) il nostro Lorenzo Salvia. Spiegando perché piuttosto che accanirsi nei tentativi insensati di salvare industrie o miniere da decenni in stato comatoso bisognerebbe puntare sull’accoppiata cultura e turismo. Il che «non vuol dire trasformare l’Italia in una grande EuroDisney dove tutti girano in infradito, canottiera e bastoncino per il selfie. Anzi, è l’esatto contrario». Fare turismo «non è solo tenere aperto il Colosseo con orari diversi rispetto a uno sportello della Motorizzazione. È anche riconoscere che la mano pubblica non potrà mai prendersi cura di tutto il nostro patrimonio».
Un esempio? Sapendo che un giorno o l’altro il petrolio finirà, «Abu Dhabi ha deciso di aprire il più grande museo del mondo». Un’isola intera, Saadiyat, che avrà la più alta concentrazione planetaria di beni culturali. Ci saranno il Guggenheim Abu Dhabi, lo Sheikh Zayed National Museum, un museo marittimo, un campus della New York University ma soprattutto una dependance del Louvre. Per averla, gli sceicchi hanno pagato 720 milioni di euro per l’affitto delle opere che saranno via via temporaneamente esposte. Più 525 milioni per il solo uso del marchio Louvre. Quattro volte l’incasso di tutti i musei e le gallerie e i siti archeologici italiani messi insieme nel 2013.
Immaginiamo certi sospiri: han venduto l’anima questi francesi, signora mia! Fatto sta che tutti quei soldi saranno spesi per rendere il museo parigino ancora più bello, per comprare nuovi quadri e nuove sculture, per i restauri e gli allestimenti. Ricorda Salvia che nel 2009 l’allora governatore toscano Claudio Martini buttò lì l’idea di una operazione simile con gli Uffizi. Non l’avesse mai fatto! «Il nostro patrimonio non è una merce da sfruttare». E tutti i soldi necessari per curare il più esteso patrimonio artistico, monumentale, paesaggistico del pianeta chi li dovrebbe mettere? Lo Stato. Sempre che non pretenda di recuperare qualche spicciolo con il merchandising o altre «americanate»…
È un elenco di occasioni perdute ed errori, il reportage del cronista del «Corriere». Come quello di tirarla così in lungo con la Disney, che a metà degli anni Ottanta pareva intenzionata a costruire il suo parco di divertimenti europeo nell’area di Bagnoli, da spingere la multinazionale californiana ad andarsene a Parigi: non c’è ‘o sole di Napoli? Pazienza.
Se è finita così, sostiene Salvia, «è perché abbiamo sempre pensato che il turista che vede il Louvre e quello che va nel castello di Biancaneve siano due persone diverse. E invece no, si tratta della stessa persona che nella sua vacanza mischia i generi senza problemi. Facciamo tutti così, quando programmiamo i nostri viaggi. Ma in quel disordinato progetto che è l’Italia degli ultimi anni abbiamo separato alto e basso. Un errore da piccoli snob, che nasce da un vecchio malinteso».
Mette di malumore confrontare la rinascita di Ercolano dopo l’ingresso anni fa d’un mecenate privato quale David Packard, figlio di uno dei fondatori della multinazionale dell’informatica Hp, e il parallelo degrado di Pompei «che si sbriciola a ogni pioggerellina autunnale e perde 10 centimetri quadrati di intonaci e affreschi al giorno». E così l’elenco delle eccellenze gastronomiche che ci siamo lasciati copiare: «Tra il Grana Parrano prodotto in Olanda, il Real Asiago Cheese che arriva dal Wisconsin, il Salam Napoli rumeno, la Daniele Soppressata statunitense, l’ Italian sounding copre più del doppio delle nostre esportazioni agroalimentari». Con un danno di 50 miliardi l’anno.
Avremmo, a volerlo, enormi praterie da sfruttare. Lo dimostra il successo di iniziative come quella dello chef David Sgueglia della Marra, che tutte le mattine si aggira tra i banchi di Campo de’ Fiori con un gruppo di turisti americani e inglesi: «Compra zucchine, carciofi, pomodori, basilico e tutto quello che serve per preparare un typical Italian pranzo . Poi va con il suo gruppo di turisti in un appartamento vicino a largo Argentina e cucina, mangia, chiacchiera insieme a loro. E alla fine viene anche pagato».
E «se nel Regno Unito vanno di moda i tour per assaggiare le birre prodotte nelle diverse zone del Paese, cosa potremmo fare noi con i nostri vini, con la pasta, la moda o il design?» E perché mai devono finire a siti stranieri 3 euro ogni 10 delle prenotazioni online nei nostri hotel? Perché manca la consapevolezza di quanto occorra prepararsi ad accogliere «trecento milioni di nuovi ricchi che sognano l’Italia»?
Eppure, Resort Italia non è affatto pessimista. Anzi. Nessuno al mondo ha i siti Unesco, le chiese, i musei, i vini, la varietà gastronomica, i panorami, le occasioni di shopping che abbiamo noi. Purché, finalmente, passi l’idea che il turismo e i beni culturali possono essere l’uno al servizio dell’altro. Senza «svendere» nulla. Con rispetto. Con cura .

La Stampa 19.3.15
L’Egitto va a pezzi ma non ti preoccupare
Nelle lettere di due scribi reali, padre figlio, conservate a Torino, scambi affettuosi, raccomandazioni e lavate di capo, sullo sfondo di uno dei periodi più tumultuosi nella storia dell’antica civiltà
di Maurizio Assalto


Si mandavano messaggi affettuosi, interminabili voti augurali, saluti e abbracci. Si raccomandavano prudenza, si rassicuravano sulla loro salute e su quella dei loro cari. Qui tutto bene, e laggiù? Tranquillo, non ti preoccupare. E i bambini? E la ragazza? Ma qualche volta bisticciavano pure, il più anziano redarguiva il giovane, che gli rispondeva a tono.
Scambi epistolari tra padre e figlio. Per certi versi sembrerebbero scritti adesso - o almeno in un tempo non troppo lontano, prima dell’avvento dell’email. Invece risalgono all’Egitto di tremila anni fa. Della miriade di documenti scritti che ci ha lasciato la civiltà egizia, quel che colpisce è soprattutto la capacità di parlare con una voce che travalica i millenni e si ripropone attuale e viva, in contrasto con l’immagine stereotipata di un mondo lontano di mummie e rituali funerari.
Una famiglia potente
I protagonisti di questa storia sono due altissimi funzionari addetti alla Sede della Verità, ossia alla necropoli della Valle dei Re, appartenenti a una della famiglie più in vista di Tebe, che da diverse generazioni si trasmetteva l’incarico di scriba reale. Djehutymes il padre e Butehamon il figlio, come è confermato dalle iscrizioni sui sarcofaghi (esterno e interno) di quest’ultimo, provenienti dalla collezione Drovetti venduta al Museo Egizio di Torino. Secondo la consuetudine, il primo aveva cominciato come semplice operaio ed era assurto al rango di scriba reale ai tempi di Ramesse XI (circa 1099-1069 a.C.). Identica trafila per Butehamon, che gli si affianca negli ultimi anni del sovrano, e resta ben presto vedovo (una toccante lettera alla moglie defunta è affidata a un ostrakon conservato al Louvre).
Sono tempi di dura crisi, economica, sociale, politica: furti nelle tombe, scioperi, crescenti pressioni da parte delle tribù libiche stanziate a Ovest, che tra l’altro hanno costretto la comunità di Deir el-Medina, il villaggio degli artigiani che lavoravano nella Valle dei Re, a trovare rifugio nel più sicuro sito di Demy (oggi Medinet Habu), il complesso templare fortificato voluto da Ramesse III. Tebe è in preda all’anarchia. Il nubiano Panehsi, viceré di Kush, chiamato per ristabilire l’ordine, si dà al saccheggio. Il generale di origine libica Herihor, inviato per scacciarlo, si fa nominare Sommo Sacerdote di Amon, adotta la titolatura reale e si assimila al faraone, inaugurando l’Età della Rinascita. Alla sua morte un altro militare di probabile estrazione libica, Piankh, assume il pontificato e, pur senza contendere la sovranità a Ramesse XI, comincia a governare in modo indipendente, riprendendo nel contempo la guerra contro l’indomito Panehsi.
«Prega Amon per me»
È in questo quadro tumultuoso che si colloca la vicenda umana di Djehutymes e Butehamon. In una situazione contraddittoria, in cui non è mai facile definire con sicurezza chi sta con chi, le personalità dei due scribi reali risaltano in tutte le loro sfumature, annullando d’incanto la distanza temporale. È l’effetto prodotto dalle numerose lettere che si scambiano, e che con moderno scrupolo conservano nei propri archivi privati, parte consistente della cinquantina di «Late Ramessides Letters» pubblicate da Edward F. Wente nel suo Letters from Ancient Egypt (Scholars Press, Atlanta, 1990). Tre di queste, risalenti all’anno decimo della Rinascita, ossia il terz’ultimo del regno di Ramesse XI, sono conservate tra i papiri di Torino, e nel rinnovato museo saranno esposte accanto ai sarcofaghi di Butehamon.
Nella prima è il padre che scrive. Si trova a Elefantina, l’isola alle porte della Nubia dove si è recato per un incarico connesso alla guerra con Panehsi. Dopo il rituale augurio di «vita, prosperità e salute e favore di Amon-Ra, re degli dèi», con quel che segue (una formula lunga e elaborata, che si ripete con poche varianti in tutte le lettere e che da sola eccederebbe di gran lunga i limiti di un tweet), Djehutymes racconta di come è arrivato ed è stato accolto da Piankh, che gli fatto trovare pane e birra. Quindi una serie di raccomandazioni: «Ti prego, chiedi a Amon mio signore di farmi tornare sano e salvo, e occupati personalmente dei piccoli figli di Hemesheri e di Shedemdua [donne citate spesso nella corrispondenza, che dovevano essere strettamente imparentate con i due scribi, ndr] e riforniscili di olio. Non lasciarli nel bisogno. E occupati personalmente di questa figlia di Khonsmose, non trascurarla. Non preoccuparti per me». Un’ultima richiesta: «Di’ a Amenpanefer di scrivermi».
Sebbene al suo arrivo Piankh lo avesse rassicurato - «Un’altra volta non dovrai venire fin quaggiù» -, Djehutymes era tutt’altro che felice di trovarsi in quei paraggi. Da un’altra lettera sappiamo che si era pure ammalato, e in genere disseminava le sue missive di preghiere a tutti gli dèi possibili, sollecitando i suoi famigliari a fare altrettanto. Questi a loro volta lo ammonivano a stare bene attento, a non esporsi, perché lui non era un guerriero e le montagne sopra Elefantina erano piene di «pericoli di ogni genere».
L’incidente delle lance
Ma anche in questa situazione lo scriba non veniva meno al suo dovere. Nella seconda delle lettere torinesi, vergate con la calligrafia minuta e puntigliosa che gli egittologi ben riconoscono, specchio fedele del suo carattere, non le manda a dire al figlio. «Guarda qua, per favore, cosa significa ciò che mi dici?». Il riferimento è a una consegna di lance avvenuta senza che Djehutymes ne sia stato preventivamente informato, senza una lettera di presentazione, per un tramite a lui ignoto e con una nave di cui non gli era stato comunicato il nome. «Le ho ricevute e le ho trovate tutte in buone condizioni», concede, ma «che razza di affare è mai questo? Io non posso passare sotto silenzio…». E già che c’è, aggiunge un ulteriore rimbrotto, riguardo a una certa faccenda su cui aveva scritto a Butehamon di riferirgli, senza avere soddisfazione.
Finisce il Nuovo Regno
Nella risposta dalla sua casa di Medinet Habu (di cui sono ancora visibili le fondamenta e parte del colonnato) il figlio - buon sangue non mente - risponde punto per punto, garbato ma fermo: «Io ho scritto la lettera e l’ho data al guardiano Karoy […]. Gli ho detto di trovare la nave e l’uomo al quale consegnarla e di scriverci sopra il suo nome. E lui mi ha riferito: “È a Payshuuben che ho affidato le lance”. Che ne so io di quel che ne ha fatto?». Quanto all’altra faccenda, assicura, è tutto a posto, «non ti preoccupare».
Non ti preoccupare. E però, sullo sfondo di queste piccole questioni private, in Egitto sta maturando un passaggio epocale. Con la morte di Ramesse XI finisce dopo mezzo millennio il Nuovo Regno e comincia il Terzo Periodo Intermedio: quattro secoli convulsi in cui il paese perde la sua unità, dividendosi di fatto in un regno del Nord, governato da Tanis, sul Delta del Nilo, da sovrani di origine libica, e da Tebe dalla teocrazia dei Sommi Sacerdoti di Amon. Ma Djehutymes e Butehamon, tutti presi dalle loro faccende, non possono rendersene conto. Gli sconvolgimenti storici, quando cominciano, scivolano via inavvertiti.

La Stampa 19.3.15
Diario postumo di Montale, il giallo della cartolina retrodatata
Sempre più dubbi sull’autenticità. Un appello di 120 italianisti alla curatrice Annalisa Cima, ultima musa del poeta: “Fuori gli originali”
di Mario Baudino


«Gentilissima Signora Cima, questa lettera Le giunge sottoscritta da oltre centoventi studiosi che operano in oltre trenta diverse sedi italiane ed europee. La ispirano amore di verità e desiderio di confronto scientifico. Confidiamo in un Suo riscontro». Il tono è cortese, come d’obbligo, la sostanza è durissima. Riguarda il Diario postumo di Eugenio Montale, ovvero le poesie che il poeta avrebbe consegnato in diverse occasioni all’ultima musa, col mandato di pubblicarle dopo la sua morte. Il che è stato fatto, ma tra polemiche d’ogni genere.
Quel Diario postumo pubblicato da Mondadori, autenticato sulle prime da Gianfranco Contini, Mariella Bettarini, Maria Corti e Cesare Segre - e contestato però tra gli altri da Dante Isella e Giovanni Raboni - è da sempre oggetto di controversia. Ora molti ricercatori si sono convinti che sia un apocrifo. La polemica si è rinfocolata in occasione di un convegno all’Università di Bologna, nel novembre scorso, dove le presunte poesie di Montale sono state fatte letteralmente a pezzi. Ora la mossa decisiva: con una lettera aperta gli italianisti chiedono a Annalisla Cima di rendere finalmente pubblici gli originali delle carte e degli altri documenti in suo possesso.
Lo spunto è una sua intervista a La Stampa di qualche mese fa, dopo il convegno di Bologna, in cui diceva, a proposito degli autografi del Diario postumo, che «sarebbe stato sufficiente chiedermeli». «Proprio questo - scrivono ora i professori - vorremmo invitarLa a fare: mettere a disposizione tutti i documenti utili a un’analisi approfondita e pacata dei dati». I firmatari (che vanno da Luigi Blasucci, Giulio Ferroni, Romano Luperini, Pier Vincenzo Mengaldo, Pasquale Stoppelli a Federico Condello, Paolo Italia o Alberto Casadei, tra i più attivi nella condanna del Diario postumo) dichiarano di esprimere «posizioni diverse in merito all’autenticità della raccolta»; tutti però vogliono, come si suol dire, le carte finalmente sul tavolo. Anche perché nel frattempo si accumulano prove piuttosto pesanti.
La vicenda è un vero giallo filologico, dove non mancano i colpi di scena, e ora una muta di detective che non ha più troppi dubbi in proposito. Un libro di Federico Condello (I filologi e gli angeli. È di Eugenio Montale il Diario postumo?, Bologna, Bup, 2014) e il convegno all’Archiginnasio bolognese hanno inferto duri colpi, fino alla conclusione che quella raccolta di poesie sia «in tutto o in gran parte frutto di una falsificazione, per di più grossolana», come ripete il professor Condello.
Intanto si aggiungono altre ricerche, che stanno per essere pubblicate in rivista e in un volume della Bononia University Press, mentre il Sistema bibliotecario centrale ha ritirato l’attribuzione a Eugenio Montale. Alcune di queste sono degne di Sherlock Holmes. Paola Italia, per esempio, ha avuto l’idea di sfidare gli archivi ministeriali per una cartolina di Forte dei Marmi (disponibile in fotocopia) sulla quale è vergata con correzioni e ripensamenti una poesia datata 1976. Ma anche le cartoline, questo non lo sa quasi nessuno, sono databili, se pure con grande difficoltà: perché riportano il numero di autorizzazione ministeriale.
Non è facile risalire a quando sia stata concessa, ma con molta pazienza (e un piccolo aiuto da parte di un amico, come direbbero i Beatles, che sia esperto in archivi e burocrazie) ci si può arrivare. Ebbene quella di Forte dei Marmi - questa la conclusione della studiosa - è di almeno tre anni posteriore alla data in cui sarebbe stata scritta. Un Montale che si ricopia nel ’79, con molte correzioni, e per di più appone la data 1976, è quantomeno bizzarro. Un giallista non resisterebbe alla tentazione di citare la pistola fumante.

Repubblica 19.3.15
Elisabeth Badinter racconta la straordinaria Madame du Châtelet
Ode a Émilie nostra signora dei Lumi
“Fu il grande amore di Voltaire che da lei imparò la filosofia e il pensiero astratto”
“Fu la prima scienziata e matematica madre spirituale delle donne moderne”
di Anais Ginori


PARIGI DOPO la sua morte, Voltaire scrisse: «Non ho perduto un’amante ma la metà di me stesso. Un’anima per la quale sembrava fatta la mia». La relazione tra il filosofo ed Émilie du Châtelet è stata una delle storie d’amore più appassionate dell’Illuminismo, una relazione in cui si mischiavano il piacere dei sensi e un instancabile lavoro intellettuale. «Una coppia che ha sfidato i pregiudizi dell’epoca com’è stato nel Novecento per Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir» racconta Elisabeth Badinter, che ha fatto riscoprire la figura della marchesa du Châtelet dedicandole una biografia.
IN ITALIA esce adesso il Discorso sulla Felicità di Émilie du Châtelet (Elliot edizioni), in cui Badinter firma la prefazione. «Era un personaggio moderno, una delle madri spirituali delle donne del ventunesimo secolo» racconta la filosofa nella sua casa affacciata sui giardini del Luxembourg, con due ritratti di Émilie du Châtelet appesi sopra alla sua scrivania.
Cosa la affascina in questa intellettuale del Settecento in fondo poco nota?
«Intanto le donne intellettuali all’epoca erano poche, e lei è stata la prima scienziata di Francia. Soprattutto, era estremamente libera. A dispetto degli obblighi sociali, Émilie du Châtelet è la persona che si è sottomessa di meno ai pregiudizi della sua epoca e che ha saputo dar prova di stravaganza, indipendenza e ambizione contro un mondo ostile a tali pretese. A trent’anni, la marchesa du Châtelet lascia Parigi, marito, bambini e amanti per andare a vivere con Voltaire nel castello di Cirey, al confine con la Lorena. Dal 1733 al 1746 ne è l’amante, la compagna e la musa. Muore nel 1749 a causa di una gravidanza in età avanzata, mentre ha appena finito di tradurre Newton».
«Siamo dei filosofi molto voluttuosi » scriveva Voltaire a proposito della sua relazione con la marchesa.
«Vivevano nel lusso, ognuno aveva il suo appartamento. Nel castello c’era un teatro, nel quale la marchesa recitava fino all’alba. Oltre che essere filosofa, scienziata, era anche un’ottima attrice. Aveva un’energia formidabile, dormiva e mangiava poco. Amava pazzamente il sesso, anche se Voltaire non era sempre all’altezza delle sue attese. Andava sempre in cerca di sensazioni forti. Giocava d’azzardo, scommettendo soldi che non aveva e spesso Voltaire doveva saldare i suoi debiti. Ma era anche una donna razionale, studiosa, erudita ».
Perché scelse di studiare matematica?
«Era una disciplina quasi sconosciuta alle donne del suo tempo, anche se nell’aristocrazia c’era una piccola moda. Ma al contrario delle duchesse de Chaulnes, d’Aiguillon o de Saint-Pierre, che ci provarono per qualche tempo solo perché il seducente Maupertuis aveva portato i matematici in voga, Émilie du Châtelet ne ha fatto un impegno costante fino agli ultimi anni della sua vita. Dalla matematica alla fisica, e dalla metafisica all’analisi dei testi biblici, è il più solido e completo personaggio di scienza del suo tempo».
Il suo soprannome era “Pompon Newton”?
«Così la chiamava Voltaire per indicare la passione che nutriva sia per i fronzoli che per lo scienziato inglese. Contribuisce alla divulgazione e allo sviluppo delle teorie di Leibniz e di Newton. La prima tappa del suo riconoscimento scientifico è sancita quando concorre anonimamente al Prix de l’Académie des Sciences nel 1738. Il tema, “De la nature du feu et de sa propagation”, aveva ispirato Voltaire. Lei decide, senza avvertirlo, di inviare un testo cui aveva lavorato segretamente. Nessuno dei due ottiene il premio, ma entrambi vengono pubblicati a spese dell’Académie. La sua più grande impresa è stata però la traduzione in francese dei Principia di Newton».
Ha influenzato anche l’opera di Voltaire?
«È stata la sua maestra dal punto di vista filosofico. Fino a quando non incontra la marchesa du Châtelet, Voltaire scrive più che altro pamphlet, teatro. È lei che lo introduce all’astrazione filosofica, al mondo dei concetti. Madame du Châtelet era agnostica e probabilmente atea, anche se non si poteva dire all’epoca. Lei e Voltaire, all’inizio della loro passione, passavano le giornate al letto, analizzando l’Antico e il Nuovo Testamento, e facendosi un sacco di risate. È un aneddoto straordinario, che ben rappresenta la storia dei Lumi. Tra loro c’era una complicità intellettuale forte. Anche dopo che Voltaire la lascia per un’attrice e soprattutto per la nipote, Madame Denis, il legame non si spezza ».
Una relazione conflittuale?
«Nel 1740, Madame du Châtelet pubblica Institutions de physique , testo che la rende la rappresentante ufficiale di Leibniz in Francia, con grande malcontento di Voltaire, che invece è rimasto fedele a Newton. A lei non importa. Non si cura neanche delle critiche della setta cartesiana e dei devoti di Newton, al quale tra l’altro tornerà a dedicarsi successivamente. Anche nei momenti più tesi, Voltaire ha sempre difeso pubblicamente la libertà di pensiero della sua compagna. Era solidale in tutto. Dopo la sua morte prematura commentò: “Era un grande uomo la cui unica colpa fu essere una donna”».
Qual è il valore filosofico del “Discorso sulla Felicità”?
«Scritto subito dopo la fine del sodalizio con Voltaire e pochi anni prima di morire, è stato pubblicato postumo nel 1779. Non sarebbe mai potuto uscire mentre Madame du Châtelet era ancora in vita: si sarebbe coperta di ridicolo. Rispetto ai tanti trattati sulla felicità dell’epoca, è un testo molto personale, una sorta di diario, un breve saggio autobiografico in cui fa un bilancio di conquiste e sconfitte, ma soprattutto parla delle sue tante e diverse passioni. È un inno all’ambizione femminile. Quando non si è credenti, la voglia di lasciare una piccola traccia in questo mondo è una sorta di eroismo. Nei testi religiosi l’ambizione è considerata un peccato. Per me, invece, è una virtù che molte donne dovrebbero coltivare».
Voltaire e il suo Trattato sulla tolleranza sono tornati in cima alle classifiche dopo gli attentati parigini. Cosa ne pensa?
«Sulla lotta contro il fanatismo religioso, non c’è niente di meglio. Voltaire è un militante della tolleranza, non un intellettuale da salotto. Interviene pubblicamente, cerca di scuotere le coscienze, vuole creare un movimento. Ha una penna di una strepitosa ironia e di una crudeltà terribile. Neppure Rabelais, predecessore illustre nella lotta contro il fanatismo, è così chiaro, efficace. Voltaire fa ridere ma anche riflettere: un altro livello rispetto a Charlie Hebdo ».

Corriere 19.3.15
Addio a Guido Zappa. Approfondì nell’algebra la teoria dei gruppi


Guido Zappa era il decano degli studiosi italiani di algebra, un matematico profondo. È scomparso a 99 anni, professore emerito dell’Università di Firenze. Nella città toscana aveva insegnato dopo essere stato professore a Napoli, dove era nato il 7 dicembre 1915. Era stato allievo di Francesco Severi e in quegli anni Severi era lo studioso dominante nella scuola italiana di geometria algebrica. A quel settore della matematica Zappa aveva contribuito con risultati sulla degenerazione di famiglie di superfici e sulla completezza delle cosiddette «serie caratteristiche». Da qui il suo lavoro si era indirizzato alla teoria dei gruppi. Un qualsiasi insieme dotato di un’operazione che trasformi coppie di elementi di quell’insieme in altri elementi dell’insieme stesso, sia associativa, ammetta l’identità e per ogni elemento il suo inverso, è chiamato gruppo. I gruppi non sono solo enti astratti: hanno un ruolo essenziale nella costruzione di modelli matematici del mondo fisico. A classi specifiche di gruppi si era indirizzato il lavoro di Zappa: i gruppi policiclici, i gruppi di Philip Hall, quelli di Peter Sylow, le classi di Hans Fitting. Guido Zappa era un membro dell’Accademia dei Lincei dal 1977. Un altro grande socio linceo è scomparso lo scorso 4 marzo: Giuseppe Grioli, fisico-matematico che aveva superato il secolo di vita. Entrambi hanno reso più ricca la cultura italiana.