mercoledì 18 marzo 2015

il Fatto 18.3.15
Facce di bronzo
di Antonio Padellaro


Lo scandalo è bello grosso e infatti di prima mattina eccoli paracadutati nei talk show per difendere l’indifendibile, negare l’evidenza, confondere le acque. In missione per conto di Renzi, in quel di Agorà (Rai3), la parola all’onorevole Ivan Scalfarotto, trascorsi decorosi per i diritti civili, oggi detergente multiuso.
Prova “schifo” Ivan Mastro-lindo e vorrei vedere voi a passare lo straccio sul sistema Incalza, 35 anni di appalti, 14 inchieste, un vorace amico detto Pigliatutto. Niente paura, l’ottimo governo lavora indefesso per il bene comune e la puzza diventa odor di gelsomino. Nello studio delle facce di bronzo “siamo tutti garantisti” che per l’uso smodato del termine ricorda il patriottismo secondo Samuel Johnson, ultimo rifugio dei farabutti. Il ministro Lupi non è indagato, lasciamo lavorare i magistrati, nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, non esistono più le mezze stagioni. E la legge anti-corruzione che giace da due anni? Utile approfondimento. E il premier che voleva il Daspo per i corrotti? Quando mai. La consigliera Ncd non finge di turarsi il naso. Lupi deve dimettersi? Giammai. E il figlio di Lupi? E il Rolex da diecimila euro? E l’assunzione presso lo studio Pigliatutto? E l’abito su misura? Niente persecuzioni. Si chiude con l’ossessione Salvini e i clandestini di Crotone, “che vogliono il wi-fi, ma non le lasagne”(mah).
Possibile che nulla riesca a scuoterli? Che il format sia sempre lo stesso, un compitino scritto per non dispiacere ai capi? Mai che qualcuno dica: sì abbiamo sbagliato, fingevamo di non vedere che l’inamovibile supermanager era il palo di un sistema tangentizio che faceva comodo a tutti. E quando dal passato è apparso sullo schermo Antonio Di Pietro che nessun ladro ha fatto fesso, di fronte alle parole di plastica abbiamo provato nostalgia per la cruda umanità di Tangentopoli.

il Fatto 18.3.15
Al Ministero
La rivincita dei garofani e la patente gialla di De Caro
di Paola Zanca


Con il cappotto in mano, come chi sa quando è il momento di uscire di scena, il sottosegretario Umberto Del Basso De Caro si aggira per il Transatlantico a dispensare consigli. Il “suo” ministero, quello delle Infrastrutture, traballa sotto i colpi dell’inchiesta fiorentina, eppure lui guarda la nave che affonda con un aplomb disarmante. Dev’essere per questa disinvoltura con i guai del potere che, ieri mattina, il ministro Maurizio Lupi si è rifugiato nelle sapienti mani del sottosegretario. “È venuto da me perché ho la patente gialla”, si compiace Del Basso De Caro. E da esperto della materia, da titolare di documento sgualcito, da nipote del massone a cui è intitolata la loggia di Benevento, ha messo in fila al ministro le tre cose evidenti anche a un bambino: “Dunque, sono trascorse ventiquattr’ore. Passata la sbandata, bisogna prendere in mano la situazione. Devi andare da Renzi e capire che intenzioni ha. Se lo vedi perplesso, ti devi dimettere. Perché se lui non ci mette la faccia, le mozioni di sfiducia in Parlamento sono già qui che ti aspettano. E il suo silenzio, parla da solo”. D’altronde lui, in inchieste, poltrone e messaggi velati ha un’esperienza decennale. Da principe del foro ha seguito, per dire, Craxi, Martelli e De Michelis negli anni di Tangentopoli e Nicola Mancino nel più recente processo sulla Trattativa. Da parlamentare, vent’anni fa tenne l’arringa in difesa del segretario Psi; mentre l’anno scorso fu tra i principali accusatori di Nunzia De Girolamo per lo scandalo della sanità sannita. Alle ultime primarie democratiche è stato sostenuto da Cuperlo e D’Alema. Ma anche con Renzi non gli è andata male, visto che - nonostante all’epoca avesse in ballo un processo per i rimborsi da consigliere regionale, poi archiviato - appena arrivato al governo lo nomina sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti.
È lì, nelle stanze di piazzale di Porta Pia, che la sua strada si è incrociata di nuovo con quella di un altro socialista d’antan. Riccardo Nencini, che di Lupi è addirittura il vice. Anche lui ha fatto carriera, e in un ministero di peso. Renzi, evidentemente, ha rimosso sia il suo antico sostegno a Pier Luigi Bersani, sia la telefonata del 2009 con cui Nencini mostrava estrema confidenza e puntuale interessamento per gli affari del costruttore Riccardo Fusi, poi nei guai per l’inchiesta sulla cricca delle Grandi Opere che aveva caratteristiche simili a quella di oggi.
NELLE INTERCETTAZIONI dell’inchiesta Sistema, il ministro fa sapere a Ettore Incalza - il supermanager arrestato due giorni fa, pure lui col garofano al petto - che la sua “sponsorizzazione” per Nencini è andata in porto ma che adesso lo deve chiamare per dirgli “che non rompa i coglioni”. Sarà poi lo stesso Incalza, al telefono con un amico, a dire che al ministero sono arrivati due suoi compagni socialisti per sentirsi poi rispondere: “... complimenti... sempre più coperto”. Nencini e Del Basso De Caro, ieri, hanno entrambi replicato. Il primo, felice che Lupi abbia chiarito nell’intervista a Repubblica che il suo era un “tono scherzoso”, l’altro spiritoso da sé: “Non credo sia un reato essere socialista. Un tempo forse lo era... Oggi non più”. Reato non è, e nemmeno una palla al piede. Al massimo fa venire la patente gialla. “Vedrete - dice Del Basso De Caro - Lupi mi ascolterà”.

Corriere 18.3.15
L’ex deputato comunista e il dc in campo da 45 anni
La pattuglia dei «rieccoli»
di Andrea Garibaldi


ROMA Vito Bonsignore, che ha 71 anni, fa politica da almeno 45, quando divenne consigliere comunale della Democrazia cristiana a Venaria Reale, provincia di Torino, giunto lì da Bronte in Sicilia, per diplomarsi geometra. A Bronte è tornato nel 1992 per finanziare le vetrate della Chiesa del Sacro Cuore, con lapide: «Vito Bonsignore munifico donò».
Antonio Bargone, 67 anni, è in pista da 27, da quando fu eletto deputato del Partito comunista. Stefano Saglia, 44 anni, era poco più che ventenne nel 1995, quando entrò nel consiglio provinciale di Brescia, appena uscito dal Movimento sociale e assorbito in Alleanza nazionale. Rocco Girlanda, 49 anni, cominciò da consigliere comunale a Gubbio nel 1997, Cdu e poi Forza Italia.
Politici di lungo corso, che hanno attraversato l’era in cui c’erano la Dc e il Pci, Andreotti e Occhetto, e hanno talvolta mescolato la politica con gli affari. Sono indagati nell’inchiesta di Firenze sulle grandi opere. Bonsignore, Girlanda e Saglia appartengono a un mondo «di centro» nelle sue varie forme e hanno relazioni con il ministro Maurizio Lupi. Bargone viene dalla sinistra, è stato vicino a Massimo D’Alema. Nella casa di Testaccio di Nicola Latorre, segretario allora di Bargone (pugliesi entrambi), D’Alema cucinò un famoso risotto, poi replicato a Porta a Porta , e offrì a Di Pietro la candidatura nell’Ulivo.
Bargone «ripone piena fiducia nei magistrati» e chiede di essere subito sentito: «Non conosco tal Perotti Stefano» (l’ingegnere personaggio chiave dell’inchiesta). Assieme a Bonsignore è accusato di aver facilitato proprio Perotti nell’affidamento dei lavori dell’autostrada Orte-Mestre. «Accusa campata in aria», secondo Bargone, dato che «il progetto della Orte-Mestre è fermo da anni nelle spire delle procedure ministeriali: non ci sono lavori da affidare, perché li affiderà il concessionario solo quando sarà vincitore di gara e con gara europea». Anche Girlanda ha «piena e totale fiducia nella magistratura». È accusato di turbativa d’asta per il collaudo della piattaforma logistica del Porto di Trieste: «Sono pronto all’ergastolo — dice — ma l’Autorità portuale di Trieste ha appena chiarito che quella gara è stata chiusa senza che si sia svolta». Saglia è indagato per lo stesso episodio e per «traffico di influenze illecite», reato introdotto dalla recente legge Severino: si sarebbe fatto dare da Perotti una consulenza, «sfruttando relazioni con ignoti dirigenti di Eni spa». Dopo aver chiuso l’esperienza parlamentare, dice Saglia, «ho aperto un ufficio di consulenza per le aziende, ma non ho mai interceduto con funzionari Eni».
Dei quattro esperti politici indagati il più influente è senza dubbio Bonsignore. Democristiano andreottiano, fu sottosegretario al Bilancio nel governo Amato. Con la fine della Dc, scelse l’Udc di Casini, il Pdl di Silvio Berlusconi, e infine il Nuovo Centro Destra di Alfano e di Maurizio Lupi. E’ vicepresidente del Partito popolare europeo. Ma entra anche in una telefonata fra D’Alema e il presidente Unipol, Consorte, ai tempi della scalata alla Bnl. D’Alema lo chiama semplicemente «Vito». Bonsignore è stato dirigente della Società autostrade, consigliere dell’Istituto mobiliare italiano e imprenditore in proprio nei settori banche e autostrade. Da qui l’interesse per la Orte-Mestre.
Bargone nasce avvocato, e anche lui diventa uomo di autostrade, in particolare della «Tirrenica», che dovrebbe collegare Civitavecchia a Livorno. Bargone da dodici anni è presidente della Sat, concessionaria dell’autostrada (che da 45 anni non viene realizzata) ed è anche, dal 2009, commissario straordinario del governo per la realizzazione dell’opera, con sospetto conflitto di interessi. Bargone è stato sottosegretario ai Lavori pubblici nei due governi D’Alema e nel Prodi primo.
Rocco Girlanda ha avuto un percorso da Cdu a Forza Italia al Popolo della Libertà al Nuovo centro destra. Era sottosegretario di Lupi nel governo Letta e con il passaggio a Renzi Lupi è rimasto al suo posto e lo ha nominato consigliere per il Cipe. Saglia, rautiano e anticapitalista in gioventù, è approdato al Popolo della Libertà, sottosegretario allo Sviluppo economico nell’ultimo governo Berlusconi con il ministro Scajola. Esperto di energia. E’ tra i fondatori dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà, nato nel 2003 su iniziativa di Maurizio Lupi.
Il cerchio si chiude, spetta ai magistrati esibire le prove.

Corriere 18.3.15
Maggioranza in tensione
Si incrina l’asse con i centristi
di Massimo Franco


Il governo sta perseguendo il doppio obiettivo di togliersi di dosso qualunque ombra di lassismo nei confronti della corruzione, e di evitare di essere destabilizzato dagli scandali. Per questo la vicenda dell’inchiesta sull’Alta velocità aperta dalla Procura di Firenze rappresenta uno snodo delicato. Le opposizioni circondano Maurizio Lupi e il suo partito, Area popolare, somma di Ncd e Udc, chiedendone le dimissioni. L’accerchiamento che il ministro delle Infrastrutture teme, però, è quello di palazzo Chigi e del Pd.
Lupi non è coinvolto dal punto di vista giudiziario. Ma si trova in una posizione difficile. Di fatto, è in bilico. I legami del figlio con alcuni degli inquisiti pone un problema. E ieri Matteo Renzi, al telefono con Lupi, non ha nascosto che la questione può rivelarsi politicamente imbarazzante. «I fatti non sono tutti a nostra conoscenza. Non c’è obbligo di dimissioni da parte del ministro», concede il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. «Poi ci sono le decisioni che spettano al singolo, oggetto di riflessione in queste ore». Insomma, la scelta è affidata allo stesso Lupi e al suo partito.
Alla lunga, un passo indietro potrebbe rivelarsi una strada obbligata per evitare uno scontro nella maggioranza e scongiurare una crisi. L’unico alleato del Pd si ritroverebbe a dover decidere in una manciata di ore se sacrificare il ministro come gesto esemplare; oppure se fare quadrato, nella speranza che la vicenda si ridimensioni. Sembra prevalere la seconda eventualità, sebbene non si presenti facile da gestire. Al ministro è stato chiesto di presentarsi in Parlamento e «fare chiarezza» anche da esponenti del Pd.
Alla Lega non pare vero di puntare il dito sul partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano, col quale non vuole stringere alleanze. Quanto a Movimento 5 stelle e Sel, la richiesta di dimissioni di Lupi ieri è stata formalizzata. L’unica forza a non unirsi al coro, dichiarandosi «garantista», è FI. Un inciampo come questo mentre cerca di trovare un ruolo nella competizione in atto nel centrodestra tra Silvio Berlusconi e la Lega di Matteo Salvini, per Alfano è scivoloso. Tende a schiacciare inopinatamente il partito nell’angolo di accusato numero uno dell’ultimo scandalo.
Eppure, i personaggi coinvolti rivelano una filiera trasversale di faccendieri ed ex politici. E i contorni dell’inchiesta sono ancora da definire nelle sue esatte dimensioni. La preoccupazione che esprime il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, leghista, per quanto può venire fuori anche sull’Expò, è significativa. Il fenomeno ha ramificazioni che nessuno oggi è in grado di prevedere. Il governo assicura di non temere gli sviluppi dell’indagine. E intanto cerca di prevenire ulteriori contraccolpi. Ma l’asse Pd-Ap rischia di incrinarsi, se Renzi abbandonerà Lupi.

La Stampa 18.3.15
La minoranza Pd avvisa Renzi: “Con la Cancellieri fu inflessibile”
Gotor: fu lui a chiederne le dimissioni, non si possono usare due pesi e due misure Il timore per un voto in Aula su Lupi che metterebbe in imbarazzo il partito
di Carlo Bertini


«Dimissioni? Lupi non è indagato, è chiaro che ci sono valutazioni politiche che si faranno ma ci vuole un po’ più di contezza delle carte. Poi c’è una decisione che spetta al singolo e credo che sia in corso una valutazione da parte del ministro», ammette Graziano Delrio durante la presentazione del suo libro «Cambiando l’Italia» alla Camera. Che la situazione sia difficile da reggere per il governo diventa sempre più evidente col passar delle ore, anche sul piano parlamentare le cose si complicano. Le facce e le battute degli anti-renziani del Pd in Transatlantico danno l’idea del clima. E al di là delle garanzie verbali di lealtà al premier-segretario, prefigurano sicure tensioni se si dovesse arrivare ad una resa dei conti in aula. Le opposizioni infatti sfornano già una mozione di sfiducia individuale al ministro firmata da Sel e 5 Stelle e nessuno nel Pd vuole che si arrivi ad uno sbocco parlamentare.
Il premier atteso al varco
Dunque le varie minoranze Pd, cioè le truppe di Bersani, Cuperlo e Civati, attendono Renzi sulla riva del fiume per vedere come se la caverà, avvertendolo che «non si possono accettare due pesi e due misure. Quando era segretario del Pd con Letta premier, fu lui a chiedere le dimissioni della Cancellieri per un motivo di opportunità politica», fa notare Miguel Gotor. Anche se nel caso Cancellieri il Pd, malgrado i maldipancia, votò compatto contro la mozione di sfiducia dei 5Stelle.
«Dimissioni? Decideranno Renzi e Lupi», allarga le braccia Bersani. Il quale, al pari di Luigi Zanda, sostiene la tesi della prevenzione del danno, «ci sono leggi da cambiare, come la legge obiettivo che prevede un cumulo di potere sbagliato poiché affida alle imprese appaltatrici anche la progettazione delle opere e la direzione dei lavori», dice il capogruppo al Senato. Ma l’ex segretario, come i «compagni» della ditta, non intende spaccare il Pd, è Renzi che ha l’onere di sbrogliare una matassa che certo non fa bene all’immagine del governo. «Noi faremo quello che deciderà il segretario», rispondono i vari Gotor, Stumpo e Zoggia. Ben sapendo che si farà in modo di non arrivare ad un voto che metterebbe in imbarazzo la maggioranza.
Il nodo di un voto in aula
Non è passata infatti inosservata ai vertici del partito la richiesta di un passo indietro avanzata ieri dal civatiano Walter Tocci all’assemblea del gruppo Pd in Senato. Dove la Lega ha ottenuto un placet unanime dei capigruppo alla richiesta di chiamare il ministro a riferire in aula sulla vicenda. Anche alla Camera la tensione si taglia a fette. «Tira una brutta aria nel Pd, Renzi con la Cancellieri ci ha fatto penare assai e questa vicenda è uguale», dice un ex Ds della corrente del capogruppo Speranza. Ma il timore sui numeri casomai il caso Lupi precipitasse fino ad un voto in aula non si pone, anche perché Forza Italia conferma la sua matrice garantista e dunque il soccorso azzurro non mancherà, specie per un ministro di centrodestra come Lupi. «Che non è neanche indagato», fa notare Brunetta, «e noi siamo garantisti anche con chi è colpito da un avviso di garanzia. Piuttosto siamo molto perplessi del modo che ha Renzi di trattare i suoi alleati di governo, senza spendere neanche una parola, mentre ci sono altri membri del governo indagati, un sindaco che vince le primarie e si parla di cambiare la Severino. Insomma ci sono troppi pesi e troppe misure».
La tenuta del governo
Il premier sa bene quale sia il quadro, sa che comunque un voto su Lupi si trasformerebbe in un voto di fiducia al governo su una vicenda sgradevole e per questo va in pressing per accelerare la pratica. La minoranza è sicura che verrà risolta prima di un voto in aula, «la vicenda è imbarazzante, siamo su un piano inclinato che porterà alle dimissioni ed è bene che il Pd ci arrivi unito», dice Gotor.

Repubblica 18.3.15
Stefano Fassina
“Situazione insostenibile la Idem e la Cancellieri dovettero farsi da parte”
Fassina chiede le dimissioni del ministro: “Il premier intervenga, non si arrivi alle mozioni di sfiducia”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Renzi convinca Lupi a fare un passo indietro». Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, chiede le dimissioni del ministro e un intervento sulle procedure d’appalto perché denuncia - «il concentrato di potere sostanzialmente sottratto a controlli preventivi emerso al ministero delle Infrastrutture obbliga a un intervento drastico ».
Fassina, il ministro Lupi si deve dimettere?
«Certamente va ricordato che Lupi non è indagato. Tuttavia emergono fatti per i quali è difficile non riconoscere che ha una diretta responsabilità politica».
E quindi deve fare un passo indietro?
«Sì, dovrebbe fare un passo indietro ed evitare una situazione oggettivamente insostenibile».
Il fatto che non sia coinvolto dal punto di vista giudiziario non merita una certa cautela?
«Con tutta la cautela, non solo nel caso di Anna Maria Cancellieri ma anche per Josefa Idem (e qui si trattava di una questione di minore rilievo politico) fu riconosciuta l’opportunità di lasciare l’incarico».
Lupi ha detto “no, non mi dimetto”. Sta cercando di resistere?
«Spero di no perché sarebbe una scelta insostenibile anche per lui, oltre che per il governo e per la maggioranza».
Nessuno però può essere “dimissionato” d’ufficio.
«Ma c’è la valutazione politica da fare. Teniamo pure distinti il piano giudiziario e quello politico. Dal punto di vista giudiziario la magistratura andrà avanti. Ci sono poi elementi che riguardano purtroppo familiari del ministro e che aggravano nell’opinione pubblica la percezione della classe politica come casta, oggetto cioè di privilegi».
Basterebbe un chiarimento in Parlamento che Lupi dice di essere pronto a fare?
«È chiaro che il Parlamento ha il dovere di chiedere chiarimenti e Lupi ha il diritto di darli. Però è il momento della responsabilità ».
Renzi cosa dovrebbe fare?
Il presidente del Consiglio credo abbia chiara la gravità della situazione e ritengo che dovrebbe convincere Lupi ad assumersi le sue responsabilità».
Se il ministro non si dimette, lei voterà la mozione di sfiducia di Sel e dei 5Stelle?
«Non dobbiamo arrivare a quel punto. Bisogna chiarire prima la vicenda senza arrivare alle mozioni».
Chi vedrebbe bene al posto di Lupi come garante di trasparenza? Si è fatto il nome di Michele Emiliano?
«Ci sono tante personalità di profilo politico adeguato. La proposta spetta al premier. Ma ci vogliono gli strumenti legislativi adatti e la correzione del meccanismo di assegnazione degli appalti, perché il problema va affrontato alla radice».
La corruzione è in Italia una malattia sociale endemica?
«È la vera ragione per la quale tanti investitori restano lontani dal nostro paese. Non è certo per l’articolo 18, ma per la diffusione patologica della corruzione».

il Fatto 18.3.15
Il figlio di De Luca indagato per bancarotta


PIERO DE LUCA, figlio del sindaco di Salerno Vincenzo, è indagato per bancarotta fraudolenta. L’ipotesi di accusa è legata al fallimento della Ifil, società con sede in Lussemburgo, che secondo la Procura di Salerno avrebbe pagato al primogenito di De Luca viaggi aerei per un importo di 23 mila euro. Nel luglio scorso, il figlio del sindaco aveva ricevuto un avviso di conclusione indagini per appropriazione indebita con la possibile contestazione alternativa di bancarotta fraudolenta qualora l’Ifil fosse fallita. Ipotesi concretizzatasi ieri, con la dichiarazione di fallimento dell’azienda. L’inchiesta è una costola dell’indagine sul crac da 100 milioni di euro del Pastificio Amato, per cui è stato rinviato a giudizio anche l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena, Giuseppe Mussari, con l’accusa di bancarotta fraudolenta.

il Fatto 18.3.15
Il 28 marzo di Landini, Camusso forse diserta
Faccia faccia teso sulla “Coalizione sociale”
In dubbio la partecipazione della Cgil alla manifestazione della Fiom
di Salvatore Cannavò


Faccia a faccia serrato e poco amichevole, quello di ieri mattina tra Susanna Camusso e Maurizio Landini. Lo scontro tra i due è arrivato al punto da mettere in forse la partecipazione di Susanna Camusso alla manifestazione nazionale indetta dalla Fiom il 28 marzo. Non c’è certezza che la segretaria nazionale ci sia, fanno sapere dalla Cgil, sancendo così uno strappo profondo.
La divergenza verte sulla proposta di “coalizione sociale” lanciata da Landini: “Non è il nostro mestiere – ha vergato su una nota la segreteria Cgil – salvo se fatta a titolo individuale”.
L’INCONTRO DI IERI era stato deciso da tempo ma alle nove del mattino, quando Landini ha varcato la porta di Corso Italia, recava la lettera della propria segreteria con cui precisava cosa intendono i metalmeccanici per “coalizione sociale”. “Pensiamo che sarebbe utile che la Cgil, assieme alla Fiom, si attivasse per costruire una tale coalizione sociale”.
All’accusa della Cgil di minare l’autonomia del sindacato e di voler, di fatto, lanciare un progetto politico, la Fiom risponde che “la proposta della coalizione sociale non prevede la presenza delle forze politiche” e comunque, la Fiom non torna indietro.
Dal canto suo Susanna Camusso ha proposto a Landini di stilare una “nota congiunta” per togliere di mezzo “qualsiasi ambiguità”: “Si dicano insieme le ragioni e la piattaforma sindacale della manifestazione del 28 marzo - ha poi precisato la segretaria Cgil - e si dica insieme che non si è soggetti promotori di nessuna forma di movimento”.
La risposta di Landini è stata netta: no. “Dopo l’invio a tutta l’organizzazione della nota dell’altra sera - è stato il suo ragionamento - sarebbe come piegarsi”. E ieri sera la stessa Camusso sottolineava di essere ancora “in attesa di risposta”.
Sullo sfondo c’è la manifestazione indetta dalla Fiom per il 28 marzo. Se sarà una manifestazione “politica”, sostiene Ca-musso che vorrebbe garanzie anche sulla scaletta degli interventi, la Cgil potrebbe ritirare il proprio appoggio tanto che lei stessa non garantisce la propria presenza.
MA ALLE MANIFESTAZIONI della Fiom, ricorda Landini, hanno sempre parlato soggetti individuali (ad esempio Rodotà) o associativi e movimenti vari. Il braccio di ferro continuerà e si intreccia ai motivi principali di questo scontro. Il primo riguarda le vicende sindacali. Secondo chi conosce la dinamica della riunione di segreteria, a premere su Camusso per uno stop all’iniziativa di Landini sarebbero coloro che ne temono la pretesa alla carica di prossimo segretario generale.
Non è un caso che la polemica sia nata nel momento in cui la Cgil sta licenziando i documenti per la prossima Conferenza d’organizzazione. Che si annuncia, a questo punto, molto animata. L’altro problema è politico.
Lo scontro è nato nello stesso momento in cui la sinistra del Pd ha provato a recuperare iniziativa. C’è chi sostiene, in Cgil, che dopo lo scontro sul Jobs Act, una parte del gruppo dirigente voglia ricucire con il partito di riferimento, o almeno una sua componente. E questa ricucitura passa anche per i niet a Landini.

La Stampa 18.3.15
Landini sfida Camusso: allarghiamo il sindacato a tutti i non garantiti
La segretaria della Cgil: non possiamo fare politica
Ma il capo Fiom: se non cambiamo rischiamo la fine
di Roberto Giovannini


«Non possiamo fare politica, non dobbiamo andare oltre la rappresentanza del mondo del lavoro», dice lei. «Se non cambiamo profondamente, il sindacato rischia di non farcela. Dobbiamo allargare la nostra rappresentanza a tutte le forme di lavoro anche quelle autonome. Mi riferisco alle partite iva e ai lavoratori autonomi», replica lui. Lei gli chiede di giurare che la manifestazione romana del 28 marzo avrà esclusivamente carattere sindacale. Lui le risponde che l’avrebbe pure fatto, se lei non avesse sollecitato lunedì una presa di posizione della segreteria Cgil che ha il sapore di una scomunica. Il duello tra Maurizio Landini e Susanna Camusso andrà avanti per molti mesi. Ieri è partito la mattina presto, con un polemico incontro nella sede di Corso d’Italia, ed è finito solo in tarda serata, con interviste su un quotidiano e a «Ballarò». Interviste da cui si capisce che nessuno dei due contendenti intende fare marcia indietro.
Sarà una guerra senza esclusione di colpi, visto il carattere dei protagonisti. Ma anche un po’ un gioco delle parti: il leader della Fiom a piacimento può qualificarsi come sindacalista oppure come leader politico de facto. La segretaria generale della Cgil può giurare impunemente di non saper nulla della «coalizione sociale», anche se da settimane Landini le aveva spiegato il suo progetto (facendola peraltro molto arrabbiare).
In mattinata Camusso ha ricevuto Landini in Cgil, e gli ha chiesto conto della manifestazione nazionale del 28, indetta dalla Fiom ma «poi offerta» alla «coalizione sociale». Per Landini, «sarebbe utile che la Cgil insieme alla Fiom si attivasse per costruire una coalizione sociale, a partire dall’interesse e dalla disponibilità espressa dai partecipanti alla discussione dello scorso sabato». Per Camusso, invece, «bisogna cancellare qualsiasi ambiguità: è necessario che Landini dica quello che pensa tutta la Cgil, e cioè che noi non diventiamo né i sostituti né i costruttori di nuovi movimenti politici». L’accusa è grave: «il bisogno di politica di Landini non può stravolgere la natura della Cgil». E Camusso chiede a Landini di firmare un documento comune Cgil-Fiom in cui si chiarisce che la manifestazione del 28 marzo a Roma ha «natura sindacale e non politica».
Una nota della segreteria della Fiom - in cui si ribadisce che nessuna struttura sindacale può promuovere formazioni politiche o loro componenti - è il massimo della concessione cui è disposto il leader dei metalmeccanici. Ma la lettera di abiura sul corteo del 28 non è disposto a firmarla. Dalle telecamere di «Ballarò», Landini replica duramente all’accusa di Camusso. «Io non ho nessunissimo bisogno di fare politica - afferma - sto facendo una battaglia per la difesa dei diritti e alla luce del sole. Non voglio fare un partito, ma dare voce a chi non è rappresentato. Faccio quello in cui credo e andrò in fondo» Infine, «la coalizione sociale è per unire il mondo del lavoro in senso ampio, non per fare un partito o per sostituirci alla politica».
Gli replica (indirettamente) Camusso. «Chiedo alla Fiom - spiega ai suoi la leader Cgil - di sciogliere l’ambiguità sulla coalizione sociale. C’è una questione di autonomia del sindacato dalla politica; e poi non si è più sindacato se si punta a rappresentare qualcosa di diverso rispetto al mondo del lavoro», chiamando in causa altri settori sociali. Questo sul versante del programma. Sul versante interno, Camusso dice che il rinnovamento serve. Ma boccia seccamente sia le «primarie sindacali» per eleggere i segretari generali, che la richiesta di Landini di far votare i delegati. Il duello per conquistare la Cgil è solo all’inizio.

Corriere 18.3.15
Camusso attacca Landini: è ambiguo e fa politica
intervista di Lorenzo Salvia


Il problema non è fondare una “cosa” e chiamarla partito oppure no. «Il problema è che se la “cosa” si basa su un programma politico generale, diventa oggettivamente una formazione politica. E questo, come Landini sa, non fa bene al sindacato e ai lavoratori». In un’intervista al Corriere, Susanna Camusso boccia la «Coalizione sociale» lanciata dal capo della Fiom e annuncia: «Nel 2018 lascio la Cgil»
«La scelta di Landini indebolisce i lavoratori Il sindacato fa i contratti la politica è altra cosa»
«Insieme il 28 ma Maurizio non snaturi l’iniziativa»
ROMA «Il problema non è fondare una cosa e chiamarla partito oppure no. Si può chiamare movimento, associazione delle associazioni, si può chiamare anche birillo. Ma se si basa su un programma politico generale, e si va oltre la rappresentanza del mondo del lavoro, diventa oggettivamente una formazione di ordine politico. E questo, come Maurizio sa, non fa bene al sindacato e quindi nemmeno ai lavoratori». Susanna Camusso è a Trieste. Dice che c’è molto vento ma non è una metafora sindacale, solo l’osservazione di un’appassionata di mare. E infatti alle fine di questa intervista proprio di mare parlerà.
Segretario, perché non va bene se la coalizione sociale del segretario della Fiom, Maurizio Landini, diventa una formazione politica?
«Intendiamoci: il sindacato è per forza di cose anche un soggetto politico. Ma fa politica sul lavoro e partendo dagli strumenti che gli sono propri, come la contrattazione. Rappresenta i lavoratori, insomma, non i cittadini in senso lato: e la sua forza sta proprio in questa parzialità. La Cgil rivendica sempre la centralità del lavoro ed è molto gelosa della propria autonomia. Non era forse la Fiom a rivendicare addirittura l’indipendenza?».
Anche la coalizione sociale parla di lavoro.
«Non solo, direi. Mi sembra orientata verso un programma generale, fatto di diversi temi, e guarda a diversi referenti sociali. E poi, anche sul lavoro, bisogna vedere cosa fa».
Cosa intende?
«Viviamo una stagione in cui c’è una straordinaria deficienza della politica rispetto ai temi del lavoro. Ed è chiaro, quindi, che su questi ci sia bisogno di organizzare una domanda alla politica. Ma proprio perché la politica non risponde, il sindacato deve guardarsi dall’idea di sostituirla».
Perché?
«Altrimenti viene meno la rappresentanza del lavoro, i lavoratori diventano ancora più indifesi. E visto il momento non mi pare proprio il caso. Questo non vuol dire che non si possano indicare dei temi sui quali costruire alleanze. Per carità, questo lo facciamo ogni giorno. Ad esempio abbiamo appena incontrato il governo con l’alleanza contro la povertà di cui facciamo parte con Cisl, Uil e altre associazioni».
E dove è la differenza tra un’iniziativa come questa e la coalizione sociale di Landini?
«Ad esempio, se dobbiamo firmare un accordo lo discutiamo con i lavoratori non con altri soggetti che non sono rappresentanti del lavoro. È questa l’ambiguità che abbiamo chiesto a Landini di sciogliere».
Lui ha detto che sarebbe utile se pure la Cgil si attivasse per la coalizione sociale.
«Su temi come questi non si risponde con le battute. Gli abbiamo proposto di condividere un documento che elimini ogni residuo dubbio».
E lui si è detto disponibile?
«Sarebbe utile per tutti».
Senza chiarimento ritirerete il sostegno alla manifestazione Fiom del 28 marzo?
«No, le due cose non vanno insieme. La Cgil è sempre e comunque con le sue categorie e i suoi lavoratori. Ma Landini deve sapere che quella non può diventare la manifestazione della coalizione sociale».
E se alla fine lo diventasse?
«Sarebbe un grande peccato, specie per i lavoratori».
C’è chi pensa che Landini entrerà in politica e chi pensa voglia scalare la Cgil «da sinistra». Lei che idea si è fatta?
«Che si tratta di un dibattito non utile al cambiamento della Cgil e dannoso per i lavoratori e l’unità del mondo del lavoro, oggi più che mai necessaria, visto l’attacco ai diritti».
Sul Jobs act, lei è critica come Landini. Condivide l’ idea di un referendum abrogativo?
«La cosa fondamentale è costruire una proposta per un nuovo statuto dei lavoratori che sia inclusivo, superi la divisione fra le tante forme contrattuali e riconosca diritti universali anche al lavoro autonomo».
Ma il referendum?
«Non è la nostra priorità, anche perché i referendum sono una scelta difficile per il sindacato. Poi certo, se dovessimo capire che sulla proposta di un nuovo statuto non c’è attenzione anche il referendum potrebbe diventare una strada. In quel caso, però, si è deciso che si consulteranno gli iscritti».
A proposito di iscritti. Come sarà eletto, nel 2018, il segretario Cgil? Con il metodo attuale, un congresso che somiglia ad una cooptazione, oppure con regole nuove?
«La discussione è aperta, io penso si debba innovare sul coinvolgimento della base senza cedere a forme liquide, gassose o plebiscitarie».
Provo a tradurre: niente primarie come nei partiti, niente elezione diretta da parte dei delegati in azienda?
«Sì, niente primarie. Quella dei delegati è un’ipotesi ma lascerebbe fuori le tante categorie che non hanno possibilità di eleggerli ed escluderebbe i precari che per definizione non hanno delegati. E non sarebbe giusto. Ci lavoreremo. E troveremo modalità che non lascino la scelta nelle mani solo del gruppo dirigente ristretto».
Landini non sarebbe il primo sindacalista a «scendere in campo». Cofferati, Epifani... Al passaggio in politica è contraria anche dopo, per chi il sindacato l’ha lasciato?
«Sono sempre rispettosa delle scelte personali. Però credo che oggi la distinzione sia più importante che mai: non dobbiamo costruire l’idea, sbagliata, che fare politica e fare sindacato siano la stessa cosa».
Lei non farà politica, quindi, dopo la fine del suo mandato che scade nel 2018?
«Guardi, ho un’idea ancora più radicale. Credo ci sia un tempo per tutti e, dopo una vita intensa, uno si possa dedicare alle altre cose che ama davvero».
Quali sono per lei?
«La lettura, ad esempio, e il mare che a me piace molto. Se non si va mai fuori dai piedi si diventa un gigantesco tappo per quelli che vengono dopo. Magari si parla pure di rinnovamento ma poi nei fatti si bloccano i più giovani».
Andrà in pensione, quindi?
«Nel 2018 non ci potei andare, prima devo cambiare la legge Fornero (ride, ndr ) che naturalmente va cambiata non per Susanna Camusso ma per gli sconquassi sociali che ha fatto e continua a fare. Poi, sì. Credo che ognuno a un certo punto debba concludere il suo percorso lavorativo. Altrimenti anche la Cgil rischia di diventare ostaggio di una generazione».

Repubblica 18.3.15
Cgil, la Camusso ora gela Landini “La tua coalizione danneggia i lavoratori”
Distanze invariate dopo il faccia a faccia
La leader: “Così non fai più sindacato”
Tutelare l’autonomia delle organizzazioni dalla politica
Non ho capito se la piazza del 28 marzo è il battesimo di un partito
di Paolo Griseri


ROMA La coalizione sociale di Landini «danneggia i lavoratori» perché «esula dai compiti del sindacato». Così Susanna Camusso spiega le ragioni dello scontro della Cgil con la Fiom.
La tensione resta alta e non serve a stemperarla il faccia a faccia di un’ora tra i leader delle due organizzazioni che ieri ha aperto la giornata in corso d’Italia. Lo scontro è quello sulla presunta intenzione di Maurizio Landini di dare vita a una coalizione sociale che sia l’embrione di un nuovo partito della sinistra. Ipotesi che è stata avanzata da esponenti dell’area di governo e che è sempre stata smentita dalla Fiom. La Cgil teme però che, dopo le polemiche, l’idea della coalizione sociale di associazioni contro la politica del lavoro di Renzi finisca per mutarsi in qualcosa di diverso da una semplice iniziativa sindacale. Per questo nel faccia a faccia di prima mattina Camusso chiede a Landini di «chiarire» il senso della manifestazione e propone alla Fiom di «scrivere insieme un documento che indice la protesta in modo da superare ogni ambiguità». Landini risponde che non c’è alcuna ambiguità. In serata dunque le divergenze rimangono profonde: «Dobbiamo tutelare l’autonomia del sindacato dalla politica dei partiti. Superare quel limite significa danneggiare i lavoratori», si sfoga Susanna Camusso con i suoi collaboratori. Per questo, aggiunge, «è decisivo capire se la manifestazione del 28 marzo indetta dalla Fiom è una manifestazione sindacale o se diventa il battesimo della coalizione sociale ». E’ evidente che in questo secondo caso la Cgil non intende avallare l’iniziativa.
Ma lo scontro, per quanto forte, rimane in una fase di stallo. Per evitare rotture definitive nel faccia a faccia della mattinata Maurizio Landini presenta a Camusso il testo che indice la manifestazione. Testo che definisce «pienamente legittima» la proposta di una coalizione sociale di associazioni e movimenti che sostenga la battaglia della Fiom per i diritti del lavoro. Così la Cgil chiede ai suoi metalmeccanici di rimanere nel terreno sindacale e la Fiom ribatte chiedendo ai vertici della Cgil di partecipare alla manifestazione del 28 marzo. Ipotesi, quest’ultima, che non si esclude del tutto: «Sul 28 - spiega Camusso - c’è da chiarire la piattaforma. Poi ci mancherebbe altro che i militanti della Cgil non partecipassero a titolo personale alle manifestazioni delle categorie dell’organizzazione». Lo scontro promette di andare anche oltre la manifestazione di fine mese. Un secondo terreno di confronto sarà quello del referendum contro il jobs act che la Fiom sostiene con forza e che ieri sera Landini ha riproposto anche nell’intervista a Ballarò. La Cgil è invece molto più prudente. «La strada del referendum - commentava ieri sera Camusso - non è una delle nostre priorità. Preferiamo quella della legge di iniziativa popolare che estenda lo Statuto dei lavoratori anche alle piccole aziende. In ogni caso, prima di decidere un referendum sarà necessario consultare gli iscritti». L’ultimo possibile terreno di scontro tra Camusso e Landini sarà sulla proposta della Fiom dell’elezione diretta del segretario generale della Cgil: «Non penso che fare le primarie nel sindacato sia una buona idea», chiude il discorso Camusso con una punta di malizia.

Il Sole 18.3.15
«Coalizione sociale»

Cgil: il leader Fiom chiarisca la natura sindacale della mobilitazione del 28
Nuovo movimento e manifestazione, tra Landini e Camusso è scontro aperto
di Giorgio Pogliotti


ROMA È “muro contro muro” tra la Cgil e il leader della Fiom. Ieri mattina il faccia a faccia di circa 40 minuti che si è svolto nella sede di Corso d’Italia, tra Susanna Camusso e Maurizio Landini, non è servito a trovare una posizione comune, ed ha messo in luce - ancora una volta - l’esistenza di una spaccatura sulla proposta di creare una coalizione sociale, giudicata dalla confederazione come una minaccia all’autonomia del sindacato.
L’attenzione è rivolta alla manifestazione del 28 marzo convocata dalla Fiom - sostenuta dalla Cgil - nell’ambito delle mobilitazioni delle categorie contro la politica del governo Renzi, considerata però da Landini come un banco di prova della capacità di mobilitazione della nascente coalizione sociale. Camusso ha chiesto a Landini di chiarire che la manifestazione del 28 marzo ha una natura squisitamente «sindacale e non politica», su una piattaforma comune con la Cgil. «Vedremo se ci sarà una risposta, allo stato non l’abbiamo», ha detto Camusso ribadendo che il sindacato ha una sua «autonomia e non può essere confusa con la costruzione di un movimento politico che non è coerente al bisogno di sindacato che c’è nel paese».
Ma all’indomani della presa di distanza della segreteria della Cgil sulla coalizione sociale, Landini ha deciso di rilanciare, con una nota diffusa alla fine dell’incontro con Camusso: «Pensiamo sarebbe utile che la Cgil insieme alla Fiom si attivasse per costruire una coalizione sociale, a partire dall’interesse e dalla disponibilità espressa dai partecipanti alla discussione dello scorso sabato». Pur escludendo di voler creare un nuovo partito, Landini non intende fare marcia indietro, ritiene necessario che come sindacato «si superi la semplice associazione di interessi» anche «attraverso una reale interlocuzione con associazioni di volontariato, sociali, culturali e personalità su obiettivi comuni e condivisi». È rimasta inascoltata, dunque, la richiesta avanzata da Camusso a Landini di «cancellare qualsiasi ambiguità» sul rapporto con la politica: «Il bisogno di politica che ha Landini - ha aggiunto Camusso - non può stravolgere la natura della Cgil. Il sindacato ha una sua soggettività politica, ma una sua fortissima autonomia e proprio per questo non può essere confusa con la costruzione di un movimento politico. Se il segretario Fiom dice che non ha intenzione di costruire una formazione politica rinnoviamo la richiesta di una nota congiunta che ponga fine al dibattito che si è creato».
Critiche a Landini arrivano dai leader dell’agrindustria Stefania Crogi (Flai), e del pubblico impiego Rossana Dettori (Fp) che in una nota comune sottolineano come «il sindacato non ha mai abdicato alla propria funzione ed al proprio ruolo fatto di mobilitazione, negoziazione e contrattazione». Sulla stessa lunghezza d’onda Emilio Miceli, numero uno della Filctem (chimici, tessili, manifattura, energia) che spiega la sua contrarietà alla coalizione sociale ribadendo l’autonomia della Cgil come fattore di credibilità nello scontro con il Governo sulla riforma del lavoro. Dal progetto di Landini si sfila il presidente di Libera, Don Luigi Ciotti: «Ben venga la coesione sociale - afferma - Libera non aderisce, perché è un coordinamento di associazioni, ogni associazione è libera di partecipare, ma Libera è al di sopra: disposta a collaborare con tutti, però non è una sigla da mettere lì». Mentre l’Arci «è disponibile a dare il proprio contributo alla coalizione sociale».

il manifesto 18.3.15
La Cgil si abbatte sulla Coalizione sociale
Lo scontro. Categorie compatte a sostegno di Camusso e contro Landini
La confederazione chiede di «abbandonare qualsiasi ambiguità» e di chiarire la natura della manifestazione del 28 marzo in una nota congiunta
Ma il segretario Fiom insiste: «È ora di cambiare, unitevi a noi»
di Antonio Sciotto

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il manifesto 18.3.15
Landini ci dica anche il “come”
di Massimo Villone

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il manifesto 18.3.15
Cofferati: «Landini scelga il coordinatore. Così stoppa i sospetti su di lui»
Il sindacato entri nell’associazione, tutti i problemi finiranno
Susanna e il premier fanno le stesse obiezioni, sbagliano
Nella crisi la rappresentanza del lavoro non basta, deve allargarsi e cambiare
intervista di Daniela Preziosi

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Corriere 18.3.15
Il futuro della rappresentanza
Cambiare partiti e sindacati la vera sfida di Landini
di Paolo Franchi


Può darsi che la «coalizione sociale» promossa da Maurizio Landini non prenderà corpo. Ma, anche se così fosse, varrebbe la pena di ragionarci su senza preconcetti, e senza impiccarsi in partenza a un quesito (partito sì, partito no) per ora a dir poco inattuale. Per almeno due ordini di motivi.
Il primo riguarda la sinistra. Per tutto il tempo in cui l’albero è stato vivo, a sinistra (o meglio nel movimento operaio, come si diceva un tempo) ha quasi sempre prevalso, nei momenti di svolta, quello che Antonio Gramsci chiamava lo «spirito di scissione»: l’elenco di nuovi soggetti grandi e piccini nati un po’ ovunque nel Novecento da una rottura dei partiti tradizionali, che da noi non ha mai comportato una spaccatura nella Cgil, è pressoché infinito. Il fatto è, però, che quell’albero si è seccato. Non solo in Italia, visto che né Syriza né Podemos sono frutto di una scissione socialista o comunista, ma certo anche in Italia, dove la sinistra storica di matrice Pci, a lungo rimasta l’unica su piazza, è ormai, nel migliore dei casi, oggetto degli studi degli storici. È possibile che il Pd di Matteo Renzi, benché irresistibilmente attratto dal centro, lasci alla sua sinistra uno spazio elettorale molto limitato. Che sarebbe però ancora più esiguo se Landini si impegolasse sin d’ora in trattative estenuanti e dall’esito peggio che incerto con minoranza democrat, Sel, Rifondazione comunista e una parte del Movimento 5 Stelle per dar vita, tra gli sbadigli generali, all’ennesimo partitino.
L’obiezione è nota, e ancora ieri Susanna Camusso, in polemica con la Fiom, la ha riproposta con nettezza. Landini è il segretario di un sindacato, e giura di voler fare ancora il sindacalista: ma un sindacato è un sindacato, non un soggetto politico, e nemmeno l’ala marciante di una forza politica allo stato nascente. Giusto. Ma fino a un certo punto. Lato sensu , la Fiom è già, e da un pezzo, anche un soggetto politico, in fabbrica e sul territorio; e, se vogliamo, di politica è intrisa tutta la storia del sindacalismo confederale italiano, quella della Cgil, che non è mai stata la «cinghia di trasmissione» del Pci, ma anche quelle della Cisl, che non è mai stata un’organizzazione «collaterale» alla Dc, e della stessa Uil. Forse sarebbe utile lasciar perdere i precetti in materia di «mestieri del partito» e di «mestieri del sindacato» di una politologia un po’ polverosa per chiedersi in modo più stringente di quali partiti e di quali sindacati stiamo parlando.
Si arriva così al secondo ordine di motivi che non consentono di liquidare sbrigativamente le questioni poste da Landini. Perché, dal suo punto di vista, il segretario della Fiom rende noto che il re è nudo, segnalando che è aperto e si aggrava un gigantesco problema di rappresentanza politica, ma anche sindacale. Si può pensare di aggirarlo (è la modernità, bellezza) sbarazzandosi di tutte le comunità intermedie per fare leva sul rapporto diretto tra il capo e chi a votare ci va, e sull’inconsistenza delle alternative presenti sul mercato: è un’idea che di questi tempi va per la maggiore, ma chi la professa dovrebbe anche spiegare quale sarà il suo lascito quando il ciclo politico di Renzi, come tutte le cose di questo mondo, si esaurirà. Oppure si può, e magari si deve, rimarcare che la decisione (o l’annuncio della decisione) è fondamentale, ma che, se non si rifondano strumenti cardine della partecipazione e della rappresentanza come partiti e sindacati, ad andarci di mezzo è la democrazia.
Renzi, leggiamo, vorrebbe replicare a Landini anche con due grandi «sfide culturali» e, speriamo, anche politiche: ripartendo da quel «metodo democratico» che, secondo l’articolo 49 della Costituzione, dovrebbe regolare la vita dei partiti, e, per i sindacati, da una nuova legge sulla rappresentanza. In attesa di dettagli (c’è legge e legge) è il caso di prenderlo in parola e di marcarlo stretto. Anche se fosse servita solo a dare una mano per rimetterle all’ordine del giorno, l’uscita di Landini non sarebbe stata inutile.

il manifesto 18.3.15
Opg, commissariamento per Veneto e Piemonte
Intervista. Il sottosegretario alla salute De Filippo annuncia provvedimenti per Zaia e Chiamparino
Scaduto il termine per la chiusura degli ospedali pschiatrici, quasi tutte le altre regioni stanno attuando il programma
di Eleonora Martini

qui

il Fatto 18.3.15
Ddl anticorruzione
Abuso d’ufficio, niente scorciatoie
di Roberta De Monticelli


C’è una vocazione profonda dei cittadini che non dovremmo dimenticare mai. È la difesa di ciò che è ideale. Un nome che faccia meno paura si trova facilmente: basta dire “difesa dell’interesse pubblico”. Se non lo difendiamo noi, non c’è nessuno che lo faccia. Ma difesa di ciò che è ideale è più netto e anche più chiaro. Ciò che è ideale non è reale. I valori non sono reali: sono – sempre in parte soltanto, perché sono vie verso l’infinito – da realizzare. Ciò che è ideale “si deve” realizzare: libertà e giustizia, per esempio, in tutta la profondità e l’articolazione che questi due valori manifestano alla coscienza di ognuno nell’età dei diritti (Bobbio ha chiamato così la modernità). Sappiamo bene che l’Italia è in questo senso ancora un paese profondamente illiberale. Bisogna combattere per strappare stracci di diritti civili, corrispondenti all’autonomia della persona (tutto quello che riguarda la procreazione e il morire con dignità) o alla pari dignità e al divieto di discriminazione (unioni gay, libertà di vivere pubblicamente secondo i propri orientamenti di genere eccetera), o alla libertà di religione (mancano le moschee). Sappiamo anche che è un paese profondamente ingiusto, non soltanto nella sfera del dovuto alle persone (non ho bisogno di fare esempi: la “coalizione sociale” di Landini ha soprattutto questo punto nel suo raggio d’attenzione) ; ma ingiusto anche nella sfera di ciò che è dovuto all’anima di ciascuno: i nostri paesaggi, la nostra bellezza, il nostro patrimonio, oscenamente svenduti, dissipati, rapinati, abbandonati all’incuria, distrutti dalla violenza degli interessi cementizi, non certo a causa del mercato e della concorrenza, ma al contrario degli scambi opachi fra i portatori di questi interessi e le amministrazioni locali corrotte – con le loro pratiche di svendita di demani pubblici, sostegno con pubblico denaro a imprese di gruppi di amici, uso di pubbliche risorse a vantaggio di interessi privati – mediante scambi che portano vantaggi di potere o “politici” agli stessi amministratori.
E così arriviamo al dunque. L’ultima cosa che ho descritto si chiama corruzione. Si può fare in modo opaco, contro la legge – oppure, ormai più sovente, “a norma di legge”. Basta corrompere le norme, e si corrompe legalmente, si è corrotti legalmente. Uno dei mezzi più diffusi, pervasivi, “normali” di operare in questo senso; uno degli ultimi “reati” che le norme contemplano, anche, è l’abuso di potere. Ecco, quindi, puntuale la notizia: alla Camera sarebbe pronta una modifica della legge Severino su questo punto. Una di quelle modifiche ad alto tasso di viscidità, che dovrebbero procurare un insulto di vomito a chi le maneggia. Si tratta cioè di modificare la legge Severino su questo punto minimo: che la condanna in primo grado per abuso d’ufficio sparisca dalle cause che possono determinare la sospensione da cariche negli enti locali o in Parlamento. A parte il caso di Vincenzo De Luca, vincitore delle primarie Pd in Campania, che senza modifica sarebbe sospeso qualora eletto: c’è una ragione al mondo per farla, questa modifica, nel paese dove l’abuso d’ufficio da parte di chi ce l’ha, un ufficio, è più normale che respirare? E dove, anche in conseguenza di questa normalità, la corruzione ha raggiunto i livelli che conosciamo? Nota di speranza: Raffaele Cantone, ieri su questo giornale, si è pronunciato contro “quei progetti di legge depositati in Parlamento che vogliono intervenire sulla legge Severino solo in relazione all’abuso d’ufficio”.
SPERIAMO che l’ascoltino. Qualunque indebolimento della legge sarebbe un atto di corruzione al quadrato, una meta-corruzione, peggiore di ogni atto corruttivo singolare, perché generatrice e rigeneratrice di abusi infiniti. La corruzione della legge, il suo appiattimento sul fatto. La sola direzione nel rapporto fra l’ideale e il reale che chi è al potere conosca, in Italia, da troppo tempo, ma con un’accentuazione e un’accelerazione parossistica negli ultimi tempi. Che l’ideale si riduca al reale, che il diritto si schiacci sul potere e il dovere sulla forza di chi ce l’ha. Speriamo che non avvenga ancora. In ogni caso, l’autorità dell’Autorità anticorruzione ha una sola fonte: noi cittadini. Cosa avverrebbe se – Cantone non voglia – passasse invece la proposta di appiattire sulla realtà perfino uno straccio di ideale come quello, minimo, che chi a giudizio dei tribunali ha abusato del potere, debba lasciarlo almeno fino a prova contraria? Forse è bene almeno prenderne atto: sono le nostre coscienze, l’ultima barriera. Quando cederanno anche quelle, la differenza fra uno Stato e una combriccola di briganti non esisterà più. Forse non siamo mai stati così vicini a questo limite.

Il Sole 18.3.15
Lotta alla corruzione, duro scontro Anm-premier
Il botta e risposta
Sabelli: «Carezze ai corrotti, schiaffi ai giudici»
La replica: «Frase falsa e ingiusta»
di Donatella Stasio


ROMA Botta e risposta al vetriolo tra Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e il presidente del Consiglio Matteo Renzi. «Uno Stato che si rispetti - dice il primo commentando l’inchiesta di Firenze, l’ennesima sulla corruzione - dovrebbe prendere a schiaffi, diciamo virtualmente, i corrotti e accarezzare coloro che svolgono il controllo di legalità, cioè i magistrati. Invece, purtroppo in Italia è accaduto l’esatto contrario». «Frase falsa e ingiusta, che fa male - ribatte risentito il premier -. Si può contestare un singolo fatto ma dire quelle cose lì, avendo una responsabilità, è triste».
Ovviamente lo scontro si consuma a distanza. In Tv, Sabelli aveva fatto notare che «dove ci sono soldi», in Italia e nel mondo, «è chiaro che c’è il rischio che qualcuno voglia approfittarne». Il presidente dell’Anm cita, come esempio delle «carezze» date ai corrotti, sia il cosiddetto decreto “salvaladri” varato dal governo in piena Tangentopoli, nel 1994, che vietava la custodia cautelare per gli indagati e imputati di corruzione, molti dei quali «furono scarcerati», sia, nel 2002, la depenalizzazione di fatto del falso in bilancio e, nel 2005, la riduzione dei termini di prescrizione. «Chi semina vento, raccoglie tempesta» ha quindi chiosato. Parole pesanti. Anche perché finora il governo Renzi, nonostante gli annunci, ha concluso ben poco su prescrizione e falso in bilancio, rinviando di mese in mese le proprie proposte, annunciandole a ogni inchiesta eccellente senza materializzarle subito dopo e rallentando così i lavori parlamentari. Forse è solo una coincidenza, ma l’emendamento del governo sul falso in bilancio, dopo una catena di annunci e rinvii, si è materializzato solo ieri, dopo la notizia dell’inchiesta fiorentina.
Dunque Sabelli ha buon gioco, ora, a puntare il dito contro il ritardo, quanto meno, delle misure anticorruzione, che dopo un anno dall’insediamento del governo Renzi sono appena arrivate in Aula, e ancora in prima lettura (al Senato arriveranno forse domani o la prossima settimana). Tuttavia, Renzi rilancia: rivendica l’Autorità anticorruzione, che prima «era un acronimo». «Noi l’abbiamo presa e messa in campo - dice - perché, appalto per appalto, sporcizia per sporcizia, si possa intervenire e fare pulizia». E rilancia anche la riforma della prescrizione con un nuovo slogan: «Prescrizione nega la dignità dello Stato». È «inaccettabile prescrivere la corruzione - dice alla Scuola superiore di Polizia - perciò stiamo intervenendo». Resta tuttavia ancora da sciogliere il contrasto con Ncd, contrario all’allungamento dei termini.

La Stampa 18.3.15
Ferrara: Silvio fai pace con Renzi, a parte me è l’unico che ti rispetta
“Un capriccio puntare sull’altro Matteo”
intervista di Ugo Magri


«Come ha potuto farlo? », lei Ferrara si domanda sul «Foglio». Cioè si chiede per quale incomprensibile ragione Berlusconi ha scelto il Matteo sbagliato, Salvini anziché Renzi...
«Dal momento che lo ritengo un uomo molto intelligente, non ho mai creduto che il motivo vero della rottura con Renzi potesse essere l’indicazione di Mattarella».
Ah no?
«No, perché era del tutto logico e normale che quella designazione spettasse al presidente del Consiglio in quanto leader della maggioranza parlamentare. Renzi ha fatto perfino un passo oltre, a Berlusconi ha suggerito: vada lei davanti ai giornalisti e proponga Mattarella come se lo avessimo deciso insieme».
Però Silvio non l’ha fatto. Anzi ha dichiarato guerra. Come se lo spiega?
«Che Berlusconi ha una concezione dei rapporti politici rispettabile, intendiamoci, ma molto all’antica, da imprenditore lombardo d’antan. Per cui una semplice stretta di mano che magari ci sarà stata in uno dei tanti loro incontri con Renzi, o anche una battuta tipo “stai tranquillo, non ti deluderò”, per lui è diventata decisiva in chiave di rispetto personale».
Non è che dietro ci sarà stata pure qualche pressione del «cerchio magico»?
«Il motivo vero è il capriccio. Che dal punto di vista politico considero folle. Non si è mai visto liquidare così il rapporto con un presidente del Consiglio che non soltanto ti conferma la centralità politica quale capo dell’opposizione, ma legittima i vent’anni della tua storia e addirittura realizza le cose che non sei riuscito a realizzare, rottamando tutto ciò che tu hai combattuto... Ma poi, rompere con Renzi in nome di cosa? Di Salvini? Del giovanotto esperto nel gioco delle tre felpe, di un impresentabile che si allea con Casa Pound, che ti tratta come un nonnetto e poi viene a chiederti i voti per governare il Veneto? ».
Nel nome del Nazareno Forza Italia ha perso un sacco di voti...
«Perché, invece, adesso che si è consegnata a una condizione minoritaria lei pensa che di voti ne prenderà parecchi? Non mi pare proprio. Semmai vedo Berlusconi più debole e marginale. Il che era chiaro da subito».
Ma se all’origine c’è un capriccio, magari Renzi potrebbe metterci una pezza con qualche gesto di rispetto, no?
«Più rispettoso di così... Renzi che altro dovrebbe fare, mi scusi! Da sindaco di Firenze è andato a trovare il Cav nel covo di Arcore, tra l’altro a scandali già scoppiati. Durante tutta la sua ascesa politica si è sempre guardato dal demonizzare Berlusconi, spiegando piuttosto ai suoi che l’avversario andava combattuto politicamente e non sul terreno delle procure. Non appena è diventato segretario Pd, Renzi ha stipulato nella sede del suo partito il famoso patto sulle riforme. In Italia ci sono solo due persone che hanno rispettato sempre e fino in fondo Berlusconi».
Chi sono?
«Uno sono io; il secondo è Renzi. Tutti gli altri gli sono stati debitori, oppure hanno condotto nei suoi confronti un’opposizione acerrima e spesso ribalda. Per questo mi domando: Berlusconi, come hai potuto... ».

il Fatto 18.3.15
Divorzio, per ora salta la procedura immediata


SALTA, almeno per ora, il divorzio immediato, quello che avrebbe consentito di evitare la fase della separazione in caso di richiesta consensuale di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio davanti a un giudice. Una strada che si sarebbe potuta seguire soltanto se la coppia non avesse avuto figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o figli con meno di 26 anni economicamente non autosufficienti. Ieri, infatti, l'aula del Senato ha stralciato la norma sul divorzio immediato contenuta nel comma 2 dell'articolo 1 della legge sul divorzio breve. L'assemblea ha approvato a maggioranza, con votazione per alzata di mano, la proposta avanzata dalla stessa relatrice Rosanna Filippin (Pd).

La Stampa 18.3.15
Quel che manca al nuovo divorzio breve
di Carlo Rimini

ordinario di Diritto privato nell’Università di Milano

Il Senato approva oggi il disegno di legge sul divorzio breve: basterà un anno di separazione, ridotti a sei mesi se la separazione è consensuale.
La norma che era stata approvata in Commissione che consentiva addirittura il divorzio immediato per i coniugi senza figli è stata invece stralciata. Il disegno di legge dovrà tornare alla Camera per un’ultima lettura. Quest’ultimo passaggio parlamentare dovrebbe però essere rapido. È quindi finalmente a portata di mano un risultato che era stato irraggiungibile durante le precedenti legislature, quando analoghi disegni di legge si erano incagliati sugli scogli di veti incrociati e pregiudizi ideologici. Siamo quindi in dirittura d’arrivo per avere una legge sul divorzio coerente con la concezione del matrimonio ormai diffusa nella nostra società e allineata con gli standard europei?
Per quanto riguarda i presupposti del divorzio la risposta è senz’altro affermativa. Non serve costringere due persone che non vivono più assieme ad attendere tre anni prima di sciogliere il loro matrimonio. Ma la nostra legge rimane assolutamente inadeguata per quanto riguarda un differente profilo: gli effetti economici del divorzio. Il coniuge più debole ha diritto, dopo il divorzio, ad un assegno assistenziale. Un diritto creato quasi mezzo secolo fa: il matrimonio si scioglie ma il vincolo assistenziale che lega i coniugi sopravvive per tutta la vita. È una regola che non ha più alcun senso.
Se si compie lo sforzo di leggere il dibattito che si è svolto in Senato si ha la percezione immediata della distanza fra il Parlamento e la società. In Aula si è detto fino alla noia che il matrimonio è una istituzione che lo Stato deve difendere. Eppure sempre meno giovani sono disposti a sottoscrivere questa affermazione. Non si sposano più: non vedono la ragione per farlo. Non ritengono che il matrimonio sia un insieme di garanzie, di sicurezze, di diritti e di doveri reciproci per cui valga la pena di impegnarsi. E non si può dar loro torto: attualmente il matrimonio, in caso di crisi del rapporto, non dà alcuna garanzia di una equa soluzione dei problemi. La legge garantisce assistenza, ma l’ex marito che guadagna più della moglie (sono ancora molto rari i casi in cui accade l’inverso) non capisce per quale motivo deve mantenere ad una persona con cui ha rotto ogni rapporto. E la parte più debole (ancora troppo spesso la moglie) non cerca assistenza, non vuole la carità di un assegno mensile spesso modesto e del tutto insufficiente a garantire il tenore di vita matrimoniale. Vuole invece un equo compenso per i sacrifici fatti durante il matrimonio a favore della famiglia e dei figli.
Ecco allora una riforma urgente: dopo il divorzio, un coniuge deve ricevere dall’altro una somma compensativa dei sacrifici fatti durante il matrimonio, di tutti i sacrifici, ma solo dei sacrifici. Quindi i criteri per determinare l’entità della compensazione dovrebbero essere la durata del matrimonio e l’entità delle rinunce fatte. Possibilmente questa somma dovrà essere versata in un’unica soluzione per evitare il formarsi di rendite periodiche. Solo così, nel contesto del divorzio, entrambi i coniugi otterranno adeguata tutela.

Repubblica 18.3.15
Salta il divorzio lampo, lite nel Pd
Stralciata la norma che permetteva alle coppie senza figli minorenni di evitare la separazione
Elena Cattaneo: “Un errore” E oggi il Senato vota sul “breve”: se l’addio è consensuale i tempi di attesa saranno tagliati da tre anni a sei mesi
di M. N. D.


ROMA Sembra (quasi) fatta. Il divorzio “immediato” lascia il posto al divorzio “breve”. Legge che oggi dovrebbe essere approvata dall’aula del Senato, per tornare poi alla Camera per una terza lettura. Quindi, per vedere la rivoluzione dei tempi di divorzio e separazione, si dovrà aspettare ancora qualche mese. Ma sperando che non ci siano nuovi inciampi, questi saranno i cambiamenti sostanziali: tra la separazione il divorzio si dovranno attendere sei mesi se il procedimento è consensuale, e un anno se l’addio è conflittuale. Un iter uguale per tutti, sia per le coppie con figli, sia per quelle senza figli. Finisce dunque l’attesa infinita tra i due gradi di giudizio, quei tre anni che spesso diventavano cinque, ma resta intatto invece l’impianto che prevede ben due processi prima di poter ottenere il divorzio.
Dal testo che sarà votato oggi, è stata stralciata infatti la norma, proposta dalla senatrice Pd Rosanna Filippin, che prevedeva l’accesso “immediato” al divorzio senza passare per la fase della separazione, in caso di addii consensuali, e per coppie senza figli minorenni. Norma approvata in commissione Giustizia (con l’opposizione di Ncd) ma che probabilmente sarebbe stata bocciata in aula. Così, esattamente come era già successo per le adozioni ai single, nel Pd, e non senza divisioni, è prevalsa la linea favorevole all’approvazione del divorzio “breve” sacrificando quello “immediato”. Senza dimenticare, pur nel rischio di confusione, che l’Italia ha già scelto alcuni mesi fa il divorzio “facile”. Ossia la possibilità di lasciarsi non soltanto davanti al giudice, ma anche in Comune con la “negoziazione assistita” degli avvocati, o direttamente davanti al sindaco.
Sofferta la dichiarazione della senatrice Filippin, che dopo l’assemblea del gruppo, si è vista costretta a mettere ai voti lo stralcio del divorzio “immediato”. «L’ho fatto per ottenere rapidamente il risultato più importante che è la riduzione dei tempi per il divorzio».
M5s e Sel hanno votato contro la proposta di stralcio. Pd, Ncd, Udc, Fi a favore. Duro invece il commento della senatrice a vita Elena Cattaneo, favorevole al divorzio “lampo”: «A due persone sposate, adulte e senza figli o con figli maggiorenni, non può essere negato di accedere subito al divorzio se è consensuale. Non si tratta di scelte etiche o morali, ma della tutela dei diritti di ogni persona a poter decidere di se stessa. In queste materie l’interferenza dello stato deve essere il più vicina possibile allo zero».

Repubblica 18.3.15
Nichi Vendola
“Voglio sposare Ed e adottare un bimbo”
La nuova vita di Vendola dopo la politica
intervista di Lello Parise


A me piacerebbe viverlo come festa, come cerimonia dell’amore. L’unica remora è legata al clamore mediatico
Hanno usato parole inappropriate. Non ci sono bimbi sintetici. Spero che correggano la loro caduta di stile

BARI Presidente Nichi Vendola, si sposa?
«Da maggio, per il sottoscritto, cambierà tutto».
Non sarà più il presidente della Regione Puglia.
«Ho vissuto dieci anni col cuore in gola».
Onori e oneri, come si dice. Adesso che le bocce politiche si fermano, vuole conquistare pure l’altare?
«Sì, vorrei farlo. Ma uso provocatoriamente il mio desiderio per sostenere la necessità di assumere come bersaglio critico la pigrizia della politica sul tema dei diritti civili, che devono essere uguali per tutti e per tutte».
Non è facile?
«Dobbiamo decidere che Paese siamo. Ecco tutto. Somministrare solo frammenti di diritti, non serve a nessuno. È maturo il tempo per rivoltare l’Italia come un calzino ».
Confessa a Chi di volersi unire in matrimonio con Ed Testa, che da dieci anni è il suo compagno. «Ma solo se me lo chiederà» racconta. E se non dovesse accadere?
«Ciò che conta è sempre la qualità di una relazione. Conta l’amore. A me piacerebbe vivere il matrimonio come festa, appunto come cerimonia dell’amore. L’unica remora è proprio legata al clamore mediatico che questa cosa produce, anche se ciascuno ha il dovere di provare a rompere il muro dei pregiudizi e delle fobie».
Ci riesce?
«È capitato sempre nella mia esistenza di essere un precursore, un anticipatore: ne ho pagato qualche prezzo, ma penso che sia bellissimo darsi la libertà di non nascondersi e di non essere ricattabile».
È vero che non ha nessuna intenzione di trasferirsi in Canada, la terra di Ed, perché per lei sarebbe troppo difficile vivere troppo lontano da sua madre?
«Non potrei vivere in un Paese freddo, io sono una creatura mediterranea. Non potrei vivere lontano dai miei affetti, da mia madre, dai compagni con cui ho condiviso le battaglie di una vita. La retorica patriottarda mi dà l’orticaria, però il Sud d’Italia è proprio la mia culla e la mia casa ».
Dolce e Gabbana difendono la famiglia tradizionale e si scatena il putiferio. Hanno ragione o torto?
«Ma da cosa va difesa la famiglia tradizionale? Dalle coppie gay che rivendicano i propri diritti? Dai bambini delle cosiddette “famiglie arcobaleno”? O non è forse vero che tutte le forme di famiglia vanno difese dalla povertà, dall’ingiustizia sociale, dallo svuotamento del welfare?».
Boicotterebbe il marchio D&G, come suggerisce Elton John?
«Io penso che i due stilisti italiani abbiano usato parole inappropriate. Non ci sono bimbi chimici o sintetici. Conosco molti bambini meravigliosi, accompagnati con immensa cura nei loro percorsi di crescita: e sono figli di coppie gay. Mettiamola in questo modo: spero che Dolce e Gabbana sappiano correggere la loro caduta di stile…».
Lei più di una volta aveva rivelato la voglia di avere un figlio. È ancora di questa idea o l’ha messa da parte una volta per tutte?
«Per quanto riguarda la mia persona, ogni volta che leggo di un neonato abbandonato in un cassonetto dell’immondizia mi viene voglia di correre a prendermi cura di quella creatura».
D’accordo, però non risponde alla domanda.
«Appena lascerò l’incarico di governatore rifletterò anche se affrontare la paternità oppure no: questo è un pensiero che riposa in un angolo della mia vita e che ho sempre rimandato. Una cosa, però, vorrei fare subito».
Quale, scusi?
«Scrivere un libro di filastrocche per bambini».
Quale sarà il futuro politico di Vendola?
«Io sto provando a guidare Sel oltre se stessa, senza nessuna ossessione per l’identità e l’appartenenza, cercando di dare una mano alla crescita di una generazione più giovane, con l’obiettivo di ricostruire una grande sinistra in Italia».
Perché Vendola non è riuscito a diventare lo Tsipras italiano?
«Io credo di aver incarnato un’esperienza peculiare di sinistra di governo, su questo terreno ho agito e faticato per un decennio nel laboratorio pugliese. La sinistra italiana, inclusa la storia che io mi porto addosso, è stata sconfitta».
Il celebrato “rivoluzionario gentile” alza bandiera bianca?
«Tutt’altro. Ma oggi occorre un grande coraggio per ricominciare, senza nostalgia e aperti al futuro. Senza miti da importare, ma con l’umiltà di mettersi tutti a disposizione di un’impresa così grande ».

il Fatto 18.3.15
Da insegnanti a venditori di pentole
Le regole del duo Renzi-Giannini creano l’industria dellìobbligo dell’istruzione
di Alex Corlazzoli


Da insegnanti a venditori di pentole. Da qualche giorno chi entra in classe si sente proprio così: uno che dovrà conquistare giorno per giorno il posto di lavoro ammaliando il dirigente scolastico che avrà in mano il destino di professori e maestri. Ci lamentavamo della scuola azienda pensata dal governo Berlusconi ma Gelmini a quanto pare fa proprio rima con Giannini: il progetto dell’ex inquilino di Trastevere è stato portato a termine dal premier Matteo Renzi e dalla fedele Stefania che non manca, a ogni conferenza stampa, di strizzare l’occhio al premier appena finisce di parlare. Come gli scolaretti più ruffiani. Il primo ministro ha mantenuto le promesse: addio alle graduatorie a esaurimento, basta con il precariato. Era il suo ritornello. Sembra di risentirla la voce da imbonitore dell’ex sindaco di Firenze mentre presenta la “Buona Scuola”. È vero sarà così: non dovremo più restare in attesa della convocazione di fine agosto all’ufficio scolastico provinciale. Non saremo più un numero in una lista che scorre. Non dovremo più scegliere in quale scuola fare lezione dal 1 settembre al 30 giugno. Addio all’ansia di fine agosto, alle code nei corridoi degli ex provveditorati, agli sguardi smarriti dei colleghi del Sud destinati a innominabili paesi delle province sconosciuti ai più.
ORA FINIREMO tutti negli albi regionali e territoriali. È cambiato il nome ma non la sostanza: saremo di nuovo in lista. Non tutti per l’esattezza. I docenti di seria “A” ovvero quelli di ruolo, i colleghi che a oggi hanno un posto, potranno dormire sonni tranquilli a meno che non chiedano trasferimento in una nuova sede. I prof di serie “Z” quelli che per decenni hanno mandato avanti ogni anno la scuola con contratti a tempo determinato, finiranno negli albi. Un sostantivo quest’ultimo che ricorda il decreto legislativo 227/2005. Eravamo ai tempi di Letizia Moratti: l’ex primo cittadino di Milano ci provò a istituirli ma fu costretta ad abbandonare l’idea per il rischio di incostituzionalità. Quindici anni dopo il progetto è tornato a galla. I docenti tra qualche mese dovranno iniziare a pensarci a meno che il Parlamento blocchi il piano aziendale per l’industria dell’obbligo dell’istruzione partorito da Renzi.
Prof e maestri, una volta entrati a far parte dell’albo regionale potranno esprimere una preferenza territoriale. Ma attenzione: varrà la pena individuare una zona dove i posti non mancano, pena la mancata assunzione. Se il prof. di Brugherio sceglierà una provincia che ha poche cattedre, in caso di indisponibilità, resterà a casa: entrerà a far parte della squadra dei disoccupati. Il resto lo farà il dirigente. Sarà l’uomo o la donna che stanno seduti nell’ufficio di presidenza a sfogliare la lista e a chiamare i papabili dipendenti.
IL CAPO DELLA DITTA scuola sceglierà i suoi operai, dovrà (secondo il disegno di legge) ridurre il numero di alunni per classe, valutare il suo personale, premiare quelli che per lui saranno i migliori.
Già mi sembra di vedere le code di docenti vestiti a puntino, con tanto di curriculum in mano, davanti alla porta del dirigente. Già mi sembra di origliare le telefonate che l’amico degli amici farà per chiedere al “sciur padrun” un piacere per il nipote maestro; per quel bravo ragazzo che dà una mano anche al partito; per l’amante; per la moglie; per il fratello o la sorella. Certo il comma 3 dell’articolo 7 del disegno di legge ha previsto che ciascun dirigente dovrà “dare pubblicità dei criteri che adotta per selezionare i soggetti cui proporre un incarico” ma sarà lui ad avere il libero arbitrio. Una volta assunti, non sarà finita. Gli incarichi avranno durata triennale, chiaramente rinnovabili. L’insegnante che inizierà il suo cammino con i bambini di prima elementare, una volta arrivati in terza, qualora non andasse bene al dirigente, dovrà lasciare la cattedra. Da notare che in questo caso non è prevista alcuna pubblicità dei criteri adottati dai dirigenti nel caso dovessero “licenziare” un docente dopo 1.095 giorni di incarico. Le organizzazioni sindacali potranno tranquillamente abolire gli scioperi nel settore scuola: se già oggi, infatti, c’è qualche docente che prima di starsene a casa fa i conti con ciò che potrebbe pensare il preside, figuriamoci ora che il dirigente avrà nelle mani la vita professionale di chi insegna.
AL TITOLARE della fabbrica spetterà anche dividere il gruzzoletto che servirà a premiare i più bravi. Tra i parametri di valutazione, oltre alla qualità dell’insegnamento (come si misura? C’è uno strumento?), ci sarà il rendimento scolastico degli alunni e degli studenti. Insomma, se hai una classe di secchioni, di allievi da 10 e 9, potrai entrare nel pantheon dei migliori ma se sei uno di quei maestri che perde tempo con il migrante tunisino arrivato in quarta senza saper leggere e scrivere, con quel ragazzino che a casa non ha nessuno che lo segue o con quello studente dello Zen o di Baggio che ha il padre in carcere, sarai destinato a non avere un centesimo di più. Con buona pace degli insegnamenti di don Lorenzo Milani.

il Fatto 18.3.15
Educazione poco civica
La fabbrica dei temibili imbecilli
di Luca Josi


L’ultimo proclama del governo si dichiara riformista: annuncia una “Buona scuola”, non ottima, lasciando intravvedere di volerne esorcizzare una pessima. In questo Paese bulimico di parole e anoressico di fatti potrebbe significare poco; fatturassimo le intenzioni il Pil italico sderenerebbe la Merkel. Tra tanti obiettivi encomiabili sfugge però qualcosa. Quando si discute di scuola si parla di giovani cittadini che devono scoprirsi tali e di cittadini adulti, gli insegnanti, che dovrebbero concorrere a realizzare questo obiettivo.
UNO È IL FINE, l'altro il mezzo (così come un ospedale è il luogo per provare a curare i cittadini e non per occupare gli operatori che a questo fine s'impegnano). Dei 12 punti dell'Esecutivo, almeno 8 sono focalizzati sui secondi. La nostra Italia conserva due grandi debolezze: è una nazione giovane e acerba per formazione civile, ma abitata da un popolo antico cresciuto nel disincanto sociale (non crede a nulla pensando di aver visto e provato tutto).
Ogni programma o progetto che migliori la scuola, e quindi la formazione dei suoi studenti, è un progresso ma se licenzieremo imbecilli civici, il fatto che siano anche anglofoni, musico-fili, umanisti e digitalizzati significherà solo aver cresciuto un imbecille ancora più temibile. Se si domanda a un adulto “cos’è lo Stato? ” si fatica a raccogliere una risposta univoca. Se lo si chiede a un bambino, sarà come chiedere a un esploratore, privo di carte e mappe, di parlarci di un mondo che non ha mai visitato. La prima Terra di un bambino è la sua casa, il luogo in cui ha vissuto fino a quel momento: è il teatro dei suoi valori, della sua immaginazione, il suo reale. “Essendo fatti di una stoffa la cui prima piega non scompare più” - Massimo d'Azeglio - sappiamo che un bimbo vive il mondo attraverso la sua famiglia e anche nella condizione più umile conoscerà, soprattutto in Italia, un'attenzione al decoro; e se non avrà capito bene perché i genitori gli impediscono di distruggere, creativamente, le mura di casa, avrà intuito l’idea del possesso, della proprietà: non rompere qualcosa che è nostro, della nostra casa sia questo un piatto o un televisore. La famiglia ti ha perciò insegnato a difendere ciò che è tuo, l’idea del privato.
Quindi, arriva l’incontro con lo Stato, con il Pubblico. Si presenta e lo fa attraverso un edificio, la scuola, che mostra spesso abbandono, incuria, sciatteria. La scuola pubblica, il primo luogo di alfabetizzazione civile – gli esterofili scriverebbero imprinting – è disarmante e t'inculca l'idea che ciò che Pubblico è sinonimo di orfano: ciò che è di tutti è di nessuno. Fatiscente. E la scuola, pagata dai propri genitori proietta l'immagine plastica di questo fallimento sociale.
Poi, quando sarai più grande, e forse ormai civilmente compromesso, capirai che quello Stato è il primo a non credere in se stesso, altrimenti non ti spiegheresti come mai l’ora accademica in cui il Paese si dovrebbe presentare e fare mostra di sé, Educazione Civica, sia un riempitivo, un calembour nominale, formale, che ognuno si guarda bene dal praticare. Perché non lavorare su quei principi immateriali che molte ricadute materiali possono portare?
PER ESEMPIO: se fin dal primo anno di scuola si facesse adottare a un bambino il suo banco, per il suo intero ciclo scolastico, magari onorandolo di una targhetta, si trasformerebbe quel perimetro di fòrmica nella superficie dello Stato; il bambino lo riceve integro e dovrà restituirlo come l'ha ricevuto. Allo stesso modo, questa assunzione di responsabilità si potrebbe ampliare alla classe, che andrà restituita rinfrescata a conclusione dell'anno scolastico. Il banco e la classe rappresenterebbero l'oggetto del primo contratto tra il cittadino-studente e il suo formatore: lo Stato. Quel banco è in parte suo, perché acquistato con i soldi di tutti. È la traduzione pragmatica di quel detto persiano che invita a pulire l’uscio della propria casa se si vorrà vedere la città pulita e della frase di Benjamin Franklin: “Dimmelo e me lo dimenticherò, insegnamelo e posso ricordarmelo, coinvolgimi e lo imparerò”. Dalla gestione di questo accordo, che descrive la partecipazione individuale all’uso e alla tutela del bene pubblico, deriverebbe il voto di educazione civica e una comprensione più immediata e accessibile dell'insegnamento astratto di questa materia.
È sacrosanto spendere altri soldi per nuova edilizia scolastica; lo è altrettanto formare persone che aiutino a conservare queste strutture e a tramandarle integre. Così, quando si teorizza la partecipazione degli sponsor e dei privati alla formazione pubblica, perché non coinvolgere le aziende che maggiormente subiscono gli effetti del vandalismo e della diseducazione civica diffusa? Ferrovie dello Stato, club di calcio, Autogrill e tanti altri operatori che pagano quotidianamente il conto, privato, di un malcostume pubblico. Ho provato a raccontare quest’idea molto semplice tanto a destra quanto a sinistra con esiti oscillanti tra il deprimente e l'esilarante (nell'interscambiabile e inconsistente vacuità degli interlocutori incontrati). Si può questionare su molto ma, se si appartiene a una comunità, esistono urgenze su cui è obbligatorio trovarsi d’accordo. Trattasi di riforme a basso costo: minima spesa, massima resa; minimi gesti, massimi effetti.

La Stampa 18.3.15
La protesta dei prof precari “Traditi dal governo Renzi”
di Flavia Amabile

con un video qui

Repubblica 18.3.15
La buona scuola di Atene
di Alessandro De Nicola


IL GOVERNO ha finalmente approvato il disegno di legge sulla scuola. Vi si possono trovare luci e ombre, ma finché non si capiranno le intenzioni del Parlamento, sarà difficile dare un giudizio definitivo.
Un aspetto però potrebbe essere decisivo, ossia la possibilità per le famiglie che scelgono di mandare i figli alle scuole (elementari e medie) paritarie di detrarre il costo della retta.
Qui si scontrano spesso due opposte fazioni: l’una, animata dall’interesse concreto alla sopravvivenza delle scuole private e dall’ideale della libertà di educazione, propone varie forme di sovvenzione, alcune virtuose altre meno. L’altra, animata dall’altrettanto interesse concreto di mantenere intatto il monopolio educativo, il potere dei sindacati e delle burocrazie ministeriali nonché dalla mistica della scuola pubblica e dall’avversione ideologica a quella dei “ricchi”, di risorse dirottate al di fuori del circuito statale non vuol sentire parlare.
Cerchiamo di fare un po’ d’ordine. Ci sono vari modi di finanziare le scuole private. Si possono distribuire dei fondi a tutti gli istituti accreditati in riconoscimento del servizio pubblico che svolgono e questo é il modo finora utilizzato in Italia. Oppure, come succede per le charter school negli Usa, si stipula un contratto con degli obiettivi e i soldi vengono erogati a seconda dei risultati ottenuti lasciando piena libertà operativa ai presidi. Alternativamente il finanziamento viene dato alle famiglie, non alle scuole, attraverso la possibilità di detrarre dalle imposte la retta o, meglio ancora, attraverso la dazione di un voucher spendibile indifferentemente in scuole pubbliche o private.
Dimentichiamoci per un attimo il fondamento etico della parità pubblico-privato, vale a dire che le famiglie devono essere libere di scegliere chi istruisce i loro figli e, visto che le tasse vengono pagate allo Stato per garantire l’educazione dei giovani, il governo non può imporre un monopolio di fatto a favore degli erogatori pubblici ma solo stabilire degli standard e garantire il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento. A me sembra un postulato prima di tutto logico ma è noto che non tutti la pensano così.
Guardiamo allora cosa assicura una migliore qualità dell’educazione e scopriamo che non tutte queste forme hanno pari efficacia ed in più il contesto normativo influenza il loro successo. Infatti, dove il titolo di studio ha valore legale, la tentazione per alcune scuole private sarà quella di fungere da esamificio di bassa qualità, abbassando la media generale dei risultati degli istituti privati. Nei contesti, come quello italiano, dove il mercato del lavoro è ingessato, è molto difficile sia licenziare che spostare di mansioni e ruolo, tasse e contributi sono alti e premiare l’impegno non è previsto, ancora una volta le scuole libere sono svantaggiate poiché non possono far valere il loro vantaggio competitivo di flessibilità ed innovazione. Infine, se i contributi non vengono dati direttamente ai consumatori (famiglie e studenti), i quali in generale vogliono la miglior educazione possibile per i loro figli e quindi scelgono le scuole più efficienti, ma agli stessi istituti, non vi sarà alcun stimolo alla concorrenza: anzi, si corre il rischio che per risparmiare e far quadrare i conti molte scuole private non cerchino i professori più bravi e non investano nelle attrezzature. Ecco perché poi sono solo le scuole per “ricchi”, i quali pagano rette elevate, hanno un elevato livello culturale medio e perciò pretendono servizi di eccellenza, ad avere delle performance superiori.
I difensori dello statalismo scolastico brandiscono come clave i dati Pisa (test che misurano le capacità degli scolari) dai quali risulterebbe che in Italia gli allievi degli istituti pubblici hanno risultati migliori di quelli liberi. Ora, a prescindere che il costo per studente è spesso più basso in questi ultimi, quindi in termini di efficienza (costo-rendimento) si potrebbe dire che la differenza si annulla, non si tiene conto che la situazione odierna è esattamente quella che i sostenitori della libertà di educazione non vogliono.
Gli stessi test Pisa internazionali dimostrano che nella maggioranza dei Paesi vagliati gli alunni delle private hanno risultati significativamente migliori (i ricercatori Ocse si sbracciano a dire che ciò si spiega con il livello socio-economico più elevato: appunto, bisognerebbe incrementare il numero dei meno abbienti, non precludere loro l’accesso all’istruzione libera).
Se poi andiamo a vedere le situazioni veramente significative, come alcuni esperimenti fatti con le charter school o con i voucher in America scopriamo che coloro i quali traggono più vantaggio dalla libertà di scelta sono i ragazzi delle famiglie a più basso reddito. L’Ocse stessa conclude nel suo rapporto 2012 che i Paesi che combinano gestione privata e finanziamento pubblico attraverso voucher generalizzati hanno una migliore performance accademica e riducono l’impatto della condizione socio-economica degli studenti sui loro risultati.
È ovvio che sia così: la concorrenza funziona sempre, è un processo di scoperta della conoscenza che, tra l’altro, migliora anche le scuole pubbliche, incentivate a non perdere studenti, e quindi classi e posti di lavoro.
La #buonascuola va nella direzione giusta? Qualche timido passo come i premi di merito, la detrazione per chi manda i figli alle paritarie e — a latere — una minor vischiosità generale del diritto del lavoro, si scorge. Il Parlamento, chiamato a migliorare il ddl governativo, rifletta su questo: Atene aveva un sistema scolastico basato sull’educazione libera e i “buoni scuola” per i figli dei caduti; Sparta aveva un monopolio ferreo dell’istruzione dei giovani spartiati da parte della Polis. Chi abbia avuto maggior influenza sulla storia della cultura e civiltà umana credo sia evidente.

Repubblica 18.3.15
Modello di governance e logica di profitto
di Nadia Urbinati


IL GOVERNO ha in cantiere due riforme importanti, quella che ridisegna la Rai e quella che riorganizza la scuola. Due settori fondamentali, da anni maltrattati: la Rai a causa della legge Gasparri che sacrifica il pluralismo e la libertà di informazione sull’altare del duopolio Stato-Mediaset, e la scuola a causa dello stillicidio delle risorse al quale vari governi l’hanno condannata, mortificando l’educazione nel suo complesso: gli educatori e gli studenti. In un precedente articolo avevamo messo in dubbio alcune proposte, come quella della parziale detassazione della retta per chi iscrive i figli alle private parificate e quella del contributo del 5 per mille che i cittadini possono destinare, se lo vogliono, alle scuole, secondo una logica di scelta privata che è in contraddizione con il bene istruzione. Una critica in questo senso è venuta anche da Chiara Saraceno su questo giornale.
Comune ad entrambe queste due proposte di riforma vi è inoltre un tratto distintivo non ancora sottolineato e che merita attenzione: l’accentramento delle funzioni dirigenziali secondo il modello della «governance », una trasformazione non di poco conto dei sistemi di decisione nella gestione dei beni pubblici. Circa la nuova Rai, per esempio, si propone un cda eletto dal Parlamento con “il capo azienda” nominato dal presidente del Consiglio (con voto di conferma del cda). Circa la scuola, la figura dei presidi diventa simile a quella degli amministratori delegati nelle aziende private: formano la loro squadra (un vero e proprio cda) scegliendo da appositi albi territoriali costituiti dagli Uffici Scolastici Regionali i docenti che ritengono più adatti per realizzare i loro piani di offerta formativa.
Il successo di una governance nelle aziende private si misura con i profitti. Quale sarà il successo che convaliderà l’offerta formativa nel caso delle scuole statali, forse il numero dei diplomati o l’attrazione di studenti mediante la creazione di attività ricreative, come avviene negli Stati Uniti? Si sostiene che l’accentramento dei poteri nella mani di un preside e del suo consiglio consentirà di realizzare l’autonomia scolastica, di avere cioè maggiori strumenti per gestire risorse umane, tecnologiche e finanziarie. Autonomia di gestione per ottenere che cosa? La scuola statale deve mirare all’inclusione degli studenti nell’attività formativa (universale nel caso della scuola dell’obbligo), non a caso a partire dagli anni Settanta, lo Stato e gli enti locali hanno approntato risorse per gli insegnanti di sostegno e per il diritto allo studio (risorse che tutte le riforme hanno teso a ridurre fortemente). Ora, supponiamo che l’istituto pubblico A voglia competere con l’istituto pubblico B (per avere, si spera, gli studenti migliori). Che cosa metterà sul mercato della reputazione per diventare competitivo? Troverà davvero conveniente fare scelte che impiegano risorse per l’inclusione dei disagiati?
Il merito di uno studente portatore di handicap può implicare dover investire più risorse: siamo certi che nel mercato dell’autonomia competitiva questo si traduca in politiche giuste e in eguali opportunità? Certo, quasi tutto dipenderà dal preside e dalla “squadra” che sceglierà in base ai suoi obiettivi (e alle sue visioni) e che predisporrà piani triennali con grande autonomia decisionale (sentiti gli insegnanti, il consiglio di istituto e le realtà territoriali — organi che però danno pareri non vincolanti; del resto, nella struttura piramidale aziendalistica gli insegnanti diventano dei dipendenti del preside più che dei collaboratori).
La logica della governance è, come si sa, di tipo mono issue — la direzione amministrativa dell’impresa ha uno scopo unico intorno al quale tutto il resto ruota (dal servizio di chi lavora e all’oggetto prodotto): il profitto, non la coerenza a principi o a criteri di merito e di giustizia come dovrebbe essere nelle strutture amministrative che gestiscono i beni pubblici (certamente la scuola). Il perseguimento di un obiettivo quantificabile risponde a una logica che non è ispirata alle stesse condizioni normative di un’amministrazione pubblica; per questo, dovrebbe impensierire l’applicazione del modello-governance alla scuola, che non sforna automobili ma forma persone. I referenti della scuola sono i futuri adulti, persone che devono essere stimolate a sviluppare le loro potenzialità (secondo tempi che, nonostante tutto, non sono programmabili come quelli della fabbricazione di un’auto) — un lavoro che è un processo misurabile solo molto approssimativamente in termini quantitativi. Una domanda che il legislatore dovrebbe porsi nel valutare questa proposta di riforma è quindi la seguente: che cosa esattamente significa offerta formativa e successo di gestione nella scuola pubblica?

Repubblica 18.3.15
Quell’idea dominante
di Franco Cordero


CORRE voce che l’Italia, soggetto politico, goda d’una stella fortunosamente buona. Adolf Hitler la nomina domenica 7 dicembre 1941 nella Tana del Lupo: fallita l’offensiva su Mosca, l’aggressore rischia un’irrimediabile disfatta; l’umore è cupo tra i commensali ma a mezzanotte irrompe l’addetto stampa Heinz Lorenz; una radio americana ha annunciato l’attacco giapponese a Pearl Harbour. «The turning point», la svolta, esclama il Führer (in tedesco, è monoglotta), e uscendo dal Bunker nel gelo della foresta, porta la notizia ai tirapiedi Keitel e Jodl (morranno impiccati a Norimberga). Ormai è impossibile perdere questa guerra. Il Reich ha due alleati: in tremila anni il Sol Levante non ha mai subito sconfitte; e l’Italia le incassa sistematicamente ma alla fine siede tra i vincitori (David Irving, Hitler’s War 1939-4-2, Macmillan, London 1977, 352).
Tale massima trovava conferme nella storia otto-novecentesca. Le Parche diranno fin dove viga ancora. Non è motivo d’orgoglio che gli ultimi ventun anni abbiano la figura egemone in un titano d’arti fraudolente: solo lui e pochi intimi sanno l’origine dei primi miliardi; poi favori venali gli portano un impero mediatico; monopolista delle televisioni commerciali, plagia le platee corrompendo pensiero, sentimenti, gusto (un’epidemia italiana, cinque secoli dopo i morbi ispanico e gallico). Caduti i protettori, raccoglie l’eredità fingendosi uomo nuovo. La sua fortuna sta negli avversari dalle ginocchia molli: avendo vinto (aprile 1996), gli garantiscono sotto banco le aziende, arnesi d’un colossale conflitto d’interessi, e lo riqualificano come partner d’una commissione chiamata a rifondare lo Stato nelle norme fondamentali; muore ignobilmente sabotato ab intra un secondo governo del centrosinistra, 1996-98. Ha dalla sua il Quirinale: Giorgio Napolitano predica «larghe intese», ossia apporti subalterni alla politica governativa; e gli presta manforte nella ricerca d’una impensabile immunità giudiziaria.
Qui l’astrologo vede influssi celesti: saremmo una monarchia caraibica se l’Olonese, stravinte le elezioni (aprile 2008), non portasse l’Italia a due dita dalla bancarotta, costretto quindi a dimettersi (novembre 2011); e sarebbe sparito se fossero sciolte le Camere, come la congiuntura richiede, senonché Neapolitanus Rex lo salva ibernandole; aperte finalmente le urne (febbraio 2013), il redivivo sfiora una quarta vittoria. Moltiplicano l’effetto intrighi notturni nei Ds: l’assemblea unanime acclama Romano Prodi, candidato al Quirinale; Deo gratias ma 101 elettori ipocriti gli negano il voto; e risale al Colle il patrono delle «larghe intese», nel segno d’una parentela (Enrico Letta, premier transigente Ds, è nipote dell’omonimo Gianni, plenipotenziario nei supremi affari berlusconiani).
Le stelle decidono diversamente: arriva in Cassazione uno dei processi dai quali usciva indenne perdendo tempo, affinché il delitto s’estinguesse (s’era abbreviato i termini): frode fiscale, quattro anni inflitti dalla corte d’Appello milanese; e passando in giudicato la condanna, decade dal Senato. Berlusco furiosus pretende la grazia su due piedi e comanda ai suoi d’uscire dal governo: stavolta qualcuno disubbidisce invocando interessi superiori; rinsavito, espia la pena nei servizi sociali. Intanto sopravviene una mutazione in casa Ds. Malato cronico, perdeva voti ogni volta, sottomesso al pirata, e dopo avvilenti esperienze era prevedibile che alle primarie (essendo in palio la direzione politica) il giovane sindaco fiorentino sbaragliasse vecchi oligarchi nonché juniores professionisti d’una squallida politica (non basta chiamarsi «giovani turchi»). Era parola d’ordine disfarsi dei rottami. Dalla segreteria l’occupante critica il governo in pose tra Savonarola e Robespierre: viene dai boy-scouts, campione d’oratorio e politicante precoce; inter alia vanta un ragguardevole successo alla Ruota della Fortuna, ordalia televisiva su Canale 5. Punta alla premiership e la via giusta sarebbe sciogliere le Camere, in cerca d’uno schieramento elettorale meno diviso, ma è dogma quirinalesco che restino quali sono, imponendo accordi a destra. Matteo Renzi presidente del Consiglio sceglie a colpo sicuro il partner d’un programma governativo: confabula con Berlusco Magnus nel Nazareno, santuario Ds; e spira «profonda sintonia». Non ha ripulsioni ideologiche né etiche: da allora il Sire d’Arcore fornisce voti al governo; ed è presumibile che il legame empatico includa interessi Mediaset. S’è formata una quasi diarchia. Saltano agli occhi profonde differenze ma non è pura fantasia che l’ex boy-scout capti l’elettorato sul quale sinora regnava divus Berlusco, ormai fallito nel sogno del partito unico. Emergono due punti: primo, il disinganno tra quanti investivano fiducia nel sindaco fiorentino contro le mummie transigenti; secondo, che almeno altrettanti lo guardino dall’area moderata, ma conversioni simili implicano il patronato d’interessi incompatibili con un partito vagamente orientato a sinistra. Sinora il funambolo evitava scelte traumatiche (appariva dubbio il senso dell’avere virtuosamente sostenuto la candidatura Mattarella: contro, complottavano esponenti della minoranza Ds; ed era certamente malvista dai berluscones). La conclusione suona ovvia: l’Italia sarebbe affossata da un partito dominante che lasci le cose quali sono; modificarle significa colpire corruttori, corrotti, parassiti, evasori fiscali, una criminalità infiltrata nello Stato. Partita ardua. L’analista patologo avrà molto da dire perché le equazioni economiche eclissano l’astro italico, refrattarie a illusionismi, inni, pantomime, dove eccelle l’omonimo dello sventurato notaio romano (1313-54: era anche ingegnoso scenografo, con un Ego vorace).

il manifesto 18.3.15
Con la riforma Renzi la scuola va al mercato
Affari privati. Il preside manager dissolve, per ora simbolicamente, la natura pubblica, egualitaria della formazione
E nasconde la mancanza di fondi con la distribuzione di qualche mancia
di Piero Bevilacqua

qui

Repubblica 18.3.15
Beni culturali
Ecco perché la riforma rischia di danneggiare le nostre città d’arte
La riorganizzazione ha molti punti deboli, dall’abbandono del controllo diretto di parti del territorio al disinteresse per il patrimonio archivistico
di Mina Gregori


Uno degli elementi che sconcertano di più è la decisione di scegliere solo gli architetti a capo delle soprintendenze

CARO direttore, siamo dunque arrivati al tempo finale di questo vero e proprio terremoto che ha dato un altro volto al ministero dei Beni culturali, e soprattutto alla sua amministrazione periferica che però ne costituisce l’ossatura determinante. A un primo sguardo agli organici si è colpiti da due aspetti. Da un lato risulta evidente l’abolizione delle direzioni regionali, che avevano generato tutta una serie di confusioni, sovrapposizioni e altro, e delle quali ben pochi possono rimpiangere la scomparsa. Il nuovo vocabolo scelto per designare i funzionari che sostituiranno i vecchi direttori è quello di segretari, termine abbastanza curioso in questo contesto e che fa inevitabilmente pensare al mondo politico.
D’altro canto si è invece voluto riesumare la desueta (e inopportuna) espressione “Belle arti” per quanto riguarda le normali soprintendenze. Belle arti: espressione che tutti credevamo ormai confinata fra i vecchi ricordi dell’Italia giolittiana, o poco meno. Ma per giungere a questioni più sostanziali si noterà invece la conferma dell’istituzione di cosiddette “Soprintendenze ai poli (museali) regionali”. La separazione, già introdotta in passato, non sembra un’idea particolarmente felice visto il conflitto di competenze e l’inutilità di certe operazioni. Soprattutto nel delicatissimo settore delle mostre, delle quali nel nostro Paese si registra una crescita esponenziale, preferendo sempre e comunque le mostre alle esposizioni museali.
La prospettiva però più sconvolgente riguarda la scomparsa, da più parti annunciata e ora sancita dalle nuove nomine, di soprintendenze come Mantova e Modena e di uffici staccati come quelli di Cremona e di Ferrara, tutti organismi che soffrono da tempo di mali, per così dire, endemici, che andavano semmai conservati e rafforzati per l’enorme e risaputa importanza di questi territori. L’idea che i patrimoni di alcune delle corti più importanti, soprattutto culturalmente, in Europa debbano restare senza un controllo diretto specialmente nel territorio, lascia esterrefatti e angosciati. Generazioni di valenti storici dell’arte si sono, spesso eroicamente, confrontati con mille difficoltà per ottenere risultati a volte appena soddisfacenti, e nel momento in cui si nota una generale, sia pure confusa, ripresa dell’interesse di tante persone per i beni culturali e ambientali, questi dirigenti si troveranno ad affrontare da sedi lontane una battaglia con armi ancora più spuntate.
Ci lascia sinceramente sconcertati, inoltre, il fatto che a capo delle nuove soprintendenze Belle arti e Paesaggio siano stati posti essenzialmente gli architetti, i quali hanno già un ambito professionale già ben individuato e definito. Non si vede come possano sostituirsi a coloro che hanno una precisa competenza storico-artistica, fra l’altro col tempo sempre più complessa. Un altro aspetto importantissimo, a cui deve essere dato il massimo risolto, è la nuova situazione degli Archivi di Stato, a proposito dei quali si può notare come siano semplicemente scomparse direzioni come quelle che amministravano i documenti dei Gonzaga e degli Estensi, a Mantova e a Modena, mentre a Parma mancherà l’opera dei funzionari addetti al patrimonio farnesiano rimasto dopo le spoliazioni. Per finire non si può dimenticare per la sua grande storia una culla come Urbino che, a quanto sembra, da insigne capitale artistica risulterebbe privata, incredibile a dirsi, sia di soprintendenza che di direzione di Archivio di Stato.
L’autrice è storica dell’arte e accademica dei Lincei. Fondamentali i suoi studi su Caravaggio

il Fatto 18.3.15
Fascisti sdoganati (in tv) e politici smemorati
di Loris Mazzetti


La cronaca dei tg è piena di immagini di nazifascisti che manifestano nelle piazze con il saluto romano, croci uncinate, foto del Duce, da quelli del Terzo millennio di CasaPound, in campo con la Lega di Salvini, a quelli di Forza Nuova di Roberto Fiore sempre in prima linea quando si tratta di menare, che ultimamente hanno reclutato gli stilisti Dolce e Gabbana (iscritti ad honorem) per le loro dichiarazioni a difesa della famiglia tradizionale. Da quel 28 aprile 2008 quando Gianni Alemanno si affacciò dalla finestra del Campidoglio annunciando la vittoria elettorale a un manipolo di giovani che, col braccio teso, gremiva la scalinata del Comune per rendere onore al camerata, le immagini dei neri in tv si sono moltiplicate.
POI LA CRONACA racconta che molti degli uomini che entrarono con Alemanno nel palazzo non erano soltanto “duri e puri” ma anche criminali, poi coinvolti nell’indagine di mafia Capitale. Quello che più mi sorprende nel vedere i servizi dei tg è che nessun giornalista ponga l’attenzione sui fatti descritti che legittimano principi contrari alla Costituzione che condanna l’apologia di fascismo. L’articolo 4 della legge 645 del 1952 considera reato la “propaganda per la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista”. Mai che un autore si chieda il perché di tanta tolleranza da parte delle amministrazioni comunali nel concedere le piazze, o perché gli interventi della magistratura sono rarissimi e solo, come è accaduto a L’Aquila, quando la procura è intervenuta arrestando 14 militanti di Ordine Nuovo perché scoperti a progettare azioni dinamitarde contro istituzioni. Tutto ciò rischia di creare nel telespettatore assuefazione che sfocia nell’indifferenza nei confronti di chi inneggia all’odio razziale e all’antisemitismo. Il culmine è stato toccato a Reggio Emilia, medaglia d’oro per la Resistenza: nel “Giorno del ricordo” per le vittime delle Foibe, è stata consegnata una medaglia d’oro alla memoria dell’ufficiale fascista Paride Mori del Battaglione dei bersaglieri volontari per “Benito Mussolini”, prima aggregato alle “Waffen SS” poi all’esercito della Repubblica di Salò, morto il 18 febbraio 1944 durante uno scontro con i partigiani. Sorprende non solo il clamoroso errore di valutazione istituzionale, ma che a consegnare la medaglia sia stato l’ex sindaco di Reggio, oggi sottosegretario, Graziano Delrio. La memoria è sempre più corta.

La Stampa 18.3.15
Eutanasia, svolta in Francia
Sì alla legge sul fine vita
Via libera dell’Assemblea alla “sedazione” dei malati terminali
di Paolo Levi


«Promessa mantenuta». Dopo due giorni di dibattito, l’Assemblea Nazionale francese ha approvato a larga maggioranza - 436 voti a favore, 34 contrari e 83 astenuti - la proposta di legge sul fine vita, uno dei sessanta grandi impegni del presidente, François Hollande, durante la campagna presidenziale che nel maggio del 2012 lo portò all’Eliseo. Presentato dai deputati di due opposti schieramenti, il socialista Alain Claeys (Ps) e il neogollista Jean Leonetti (Ump), il testo non autorizza né l’eutanasia né il suicidio assistito ma instaura il diritto di «sedazione profonda, continua» e irreversibile fino alla morte per i pazienti in fase terminale. La proposta di legge, che ora passa al vaglio del Senato, rende inoltre vincolanti tutte le «direttive» dettate in precedenza dal malato per rifiutare l’accanimento terapeutico. «Dormire prima di morire per non soffrire»: questo lo spirito del nuovo progetto legislativo, secondo quanto riferito dallo stesso Leonetti.
Dopo le nozze gay
A quattro giorni dalle elezioni provinciali di domenica - dove la maggioranza socialista rischia un’ennesima batosta davanti all’avanzata del Front National - Hollande può dunque vantare una seconda grande riforma sociale, dopo la legge sulle nozze gay del 2013. Mentre non si fermano le critiche per la sua inefficacia sul fronte economico e occupazionale. «Ci congratuliamo per il sostegno molto ampio sulla proposta di legge sul fine vita adottato all’Assemblée nationale», plaude il premier, Manuel Valls, in uno dei suoi numerosi cinguettii su Twitter. Respinti nei giorni scorsi i circa settanta emendamenti - presentati da alcuni membri della stessa maggioranza socialista, ecologisti e radicali della gauche - che puntavano a legalizzare il suicidio assistito e l’eutanasia. Il ministro della Salute, Marisol Touraine, che nel 2009 difese una proposta di legge per un «aiuto attivo a morire» insieme a Valls, ha chiesto di «non forzare la società francese» e accettare «il progresso significativo» della proposta Claeys-Leonetti.
Proteste in Aula
Il voto all’Assemblée è stato turbato da un breve incidente. Ignoti hanno gettato dalle tribune del pubblico volantini con la scritta: «No all’eutanasia», «R come resistenza» suscitando il richiamo del presidente dell’emiciclo, Claude Bartolone. Secondo un sondaggio Bva, in Francia circa il 96% della popolazione è favorevole a una sedazione quando a chiederla è il paziente. Lunedì scorso, cinque leader religiosi - un cattolico, un protestante, un ortodosso, un ebreo e un musulmano - hanno lanciato insieme un avvertimento. «Chiediamo che questa legge civile sia civilizzatrice, ovvero che aiuti a vivere e morire, senza mai accorciare la vita, senza mai decidere di dare la morte».

Il Sole 18.3.15
La crisi greca incombe sul vertice europeo
Al Consiglio Ue di domani Tsipras chiede un incontro con Tusk, Merkel, Hollande e Draghi
Bruxelles
di Beda Romano


Riuscirà il presidente del Consiglio europeo ad evitare che la crisi greca domini le discussioni del vertice di domani e dopodomani? Donald Tusk vuole che i leader si concentrino sull’agenda del summit: l’unione energetica, i rapporti con la Russia, la crisi libica, il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi). Preferirebbe che l’aggrovigliata questione greca venisse discussa dai ministri delle Finanze e dai tecnici dei Tesoro. Che l’ex premier polacco riesca nel suo intento era ieri sera molto incerto.
Il premier Alexis Tsipras ha annunciato di avere chiesto a Tusk un incontro ristretto prima dell’inizio del vertice domani a Bruxelles. L’entourage dell’uomo politico polacco ha confermato che una riunione è allo studio. Potrebbero parteciparvi la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, e possibilmente anche il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, oltre agli stessi Tsipras e Tusk. Il tentativo greco è di portare la crisi greca all’attenzione dei leader.
«Non c’è molto interesse a seguire questa strada», ammette un alto responsabile comunitario. «Si vuole che la questione, ormai ritenuta tossica, venga gestita per ora a livello tecnico, non politico». Da qualche giorno, Atene sta discutendo con i suoi creditori nuove riforme da cui dipendono la fine dell’attuale programma economico e l’esborso di 7,2 miliardi di euro in nuovi aiuti. Agli occhi di molti leader, il desiderio di Tsipras di risolvere, o quanto meno di discutere, la questione a livello politico sembra nascondere il tentativo di evitare nuove misure impopolari.
La giornata di ieri è stata segnata da un nuovo avvertimento del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, che ha segnalato il rischio di stretta finanziaria in Grecia. Una presa di posizione, quella dell’uomo politico olandese in piena campagna elettorale (nei Paesi Bassi si vota oggi a livello locale), che il governo greco ha considerato ingiustificata. Mentre alcuni governi europei sembrano ormai fare i conti con una possibile uscita della Grecia dall’unione monetaria, Tsipras ha appena annunciato una controversa visita a Mosca l’8 aprile. Vuole forse suggerire che nel caso di mancato aiuto europeo, Atene è pronta ad accettare addirittura il sostegno di Mosca?
Quanto ai temi ufficiali del vertice, sul fronte dell’unione energetica i Ventotto faranno proprio il recente progetto della Commissione europea. Due gli aspetti controversi. Il primo riguarda la possibilità da parte degli stati membri dell’Unione di effettuare acquisti in blocco di materie prime; il secondo è relativo alla richiesta di alcuni paesi di rendere trasparenti i contratti bilaterali, pubblici e privati, in modo che si possa verificare il loro rispetto dell’acquis communautaire. Su quest’ultimo punto, alcuni governi sono contrari, come l’Ungheria, ma anche la Germania: temono interferenze nei propri affari interni.
Sul versante internazionale, la discussione di giovedì e venerdì porterà sull’eventuale rinnovo delle sanzioni contro la Russia, accusata di fomentare la guerra civile in Ucraina. Tusk è tra coloro che vorrebbero fin da ora rinnovare le misure economiche in scadenza in estate. Non c’è l’unanimità tra i Ventotto, soprattutto sulla prima intenzione, tanto che è probabile nei fatti un rinvio. A questo proposito, la stampa greca rivelava ieri che nel visitare Mosca Tsipras sarebbe pronto a chiedere alla Russia di esentare i prodotti agricoli greci dall’embargo russo contro i paesi membri dell’Unione.
Infine i Ventotto parleranno anche dello sconquasso della Libia, alle prese con una guerra civile. L’Italia è riuscita a sensibilizzare i suoi partner su un paese che è ormai un porto di partenza di immigrati clandestini e una culla di estremisti islamici. I ministri degli Esteri hanno dato mandato all’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini di preparare eventuali iniziative di sicurezza, da adottare una volta il paese si sarà dotato di un governo. Ammette un alto responsabile europeo: «Abbiamo un rischio Afghanistan a meno di 100 miglia dalle nostre coste. C’è una enorme rischio sicurezza».

Repubblica 18.3.15
Europa dura con Atene “Niente leggi umanitarie”. Rischio default più vicino
Venerdì supervertice, liquidità agli sgoccioli
Possibile emissione bond in cambio di prime misure
L’Eurogruppo prefigura il controllo dei capitali
di Ettore Livini


MILANO L’Europa alza il cartellino giallo alla Grecia e prova a bloccare le leggi umanitarie di Tsipras in discussione oggi in Parlamento. «Si tratta di iniziative che vanno discusse prima con i creditori in un quadro di riforme più ampio», ha scritto una gelida lettera ad Atene resa nota da Channel 4 Declan Costello, direttore degli affari economici della Ue. Il piano per garantire luce gratis,100 euro di buoni pasto al mese e 150 di sussidio per l’affitto a 150 mila famiglie povere — dice Bruxelles — va congelato. «Procedere unilateralmente significherebbe venire meno agli impegni presi il 20 settembre all’Eurogruppo », chiude durissima la missiva che il governo, secondo le prime indicazioni, avrebbe intenzione di ignorare. L’irrigidimento dell’ex Troika non è un fulmine a ciel sereno e arriva alla vigilia di un vertice straordinario previsto per venerdì tra il premier greco (che ha chiesto l’incontro), Angela Merkel, Francois Hollande, Jean Claude Juncker e Mario Draghi. La tensione tra il governo ellenico e i partner è da giorni al livello di guardia. L’Eurogruppo ha giudicato insufficienti e generiche le proposte arrivate da Yanis Varoufakis all’ultimo meeting (ieri i suoi tecnici ne hanno discusso in una teleconferenza straordinaria). Le polemiche tra Atene e Berlino hanno gettato altra benzina sul fuoco. Jeroen Dijsselbloem è arrivato per la prima volta ad evocare lo spettro del controllo dei capitali sotto il Partenone: «Potrebbe essere una decisione utile per tenere il paese nell’euro se la situazione precipitasse. L’abbiamo fatto a Cipro nel 2013 chiudendo le banche per qualche giorno e limitando i prelievi e ha funzionato», ha detto minaccioso il presidente dell’Eurogruppo. «Penso sia inutile ricordargli che nessuno può ricattarci », ha risposto a stretto giro di posta il portavoce del governo.
L’allarme è rosso. Atene è senza soldi. Ue, Bce e Fmi sono la sua unica fonte di finanziamento. E le incomprensioni delle ultime ore rischiano di far saltare i negoziati riavvicinando il rischio di un’uscita della Grecia dall’euro. «Dovete darci una chance, visto che l’austerity imposta dalla Troika ha messo il paese in ginocchio», ha scritto Yanis Dragasakis, responsabile delle politiche economiche di Tsipras, in un editoriale sul Financial Times . La pazienza dei creditori è però quasi esaurita. «Anche noi stiamo facendo grandi sacrifici per riportare il bilancio dello Stato sotto controllo — ha detto il presidente del Consiglio sloveno Miror Cerar — Capisco la solidarietà, ma anche quella ha i suoi limiti e sarebbe un pessimo segnale ai miei concittadini».
Il tempo per trovare una soluzione è pochissimo e non a caso Atene ha moltiplicato nelle ultime ore gli sforzi diplomatici per riallacciare il filo del dialogo. E Tsipras è sceso in campo in prima persona per negoziare con i partner. Il vertice a cinque di domani è solo il primo passo. Lunedì prossimo avrà un bilaterale con Merkel e l’8 aprile, un mese e mezzo prima del previsto, vedrà Vladimir Putin, leader di quella Russia che ha fatto capire di esser pronta a dare una mano alla Grecia sfilandola dall’abbraccio soffocante dell’Europa. L’obiettivo immediato del governo ellenico è trovare i soldi necessari per pagare stipendi, pensioni e onorare i prestiti in scadenza. Questa settimana Atene dovrà staccare un altro assegno da 350 milioni per il Fondo monetario, rimborsare (dice Bloomberg) un vecchio derivato con Goldman Sachs e rinnovare 1,6 miliardi di euro di titoli di Stato. L’esecutivo ha già messo mano alla liquidità dei fondi pensione e a 550 milioni dell’ex fondo salva-banche. Il crollo delle entrate (un miliardo in meno tra gennaio e febbraio) ha però prosciugato la liquidità in cassa. Varoufakis ha chiesto — a volte in modo un po’ brusco — alla Bce di ricevere gli 1,9 miliardi di profitti di Eurotower su titoli ellenici. Bloccati a Francoforte in attesa di un piano di riforme credibile. L’incontro di dopodomani potrebbe servire a far saltare il tetto di emissioni di titoli di Stato imposto dall’ex Troika, dando così un altro po’ d’ossigeno al Paese. L’ipotesi sul tavolo, dice la stampa nazionale, è lo sblocco di uno di questi due fronti in cambio dell’approvazione immediata di qualcuna delle prime misure chieste da Bruxelles. Senza quei soldi, la Grecia rischierebbe il default.

La Stampa 18.3.15
Tsipras e la tentazione di trattare con Mosca
Il greco anticipa il viaggio in Russia. Il dialogo con Putin una chiave per far leva sull’Ue
di Tonia Mastrobuoni

qui

La Stampa 18.3.15
E a Berlino il governo si spacca sui risarcimenti di guerra ad Atene
Socialdemocratici contro la Cdu: giusto rimborsare i danni del nazismo
di T. Mas.


In vista dell’incontro di lunedì tra Alexis Tsipras e Angela Merkel, a Berlino è scoppiato il caso delle riparazioni di guerra e ha diviso la Grande coalizione. Un’esponente della Spd di lungo corso come Gesine Schwan, ex candidata alla presidenza della Repubblica, e il vicecapo dei socialdemocratici al Bundestag, Ralph Stegner, hanno chiesto di aprire una discussione sui danni del nazismo. Ma il numero uno dei parlamentari della Cdu, Volker Kauder, ha tagliato corto: «i greci la smettano di cercare le colpe altrove». Niente risarcimenti, per i cristianodemocratici: capitolo chiuso.
Intanto, in attesa dei tempi lunghi della politica, qualcuno ha preso l’iniziativa. Nella città greca di Nafpolio, il sindaco Dimitris Kostouros si è visto recapitare ieri gli 875 euro che due tedeschi hanno diligentemente calcolato essere la quota del loro personale debito con Atene, causa avi nazisti. Nina Lange e Ludwig Zaccaro hanno fatto sapere che con il loro gesto volevano significare che «la Germania deve ripagare anzitutto i suoi debiti».
Per Merkel, tuttavia, il problema non è solo la Grecia o il colloquio di lunedì con Tsipras, che potrebbe essere tentato di porre nuovamente la questione. Il punto è che Atene potrebbe essere il vaso di Pandora, il «la» per una serie di Paesi devastati dalla furia delle camice brune e che potrebbero mettersi in fila, se ad Atene venisse concesso qualcosa. Compresa l’Italia. L’origine della questione risale al 1952, quando la Germania sottoscrive prima con Israele, poi con un’altra dozzina di Paesi un accordo globale sulle riparazioni. Nel 1960 Bonn riconosce alla Grecia 115 miliardi di marchi, l’equivalente di mezzo miliardo di euro attuali. Un po’ poco, per un Paese che aveva subito come pochi la furia nazista e che aveva perso 80mila uomini nelle rappresaglie contro i partigiani - una delle più efferate fu quella di Distomo, ai piedi del Parnasso - e aveva visto centinaia di migliaia di cittadini morire di fame e decine di migliaia di ebrei deportati nei campi.
D’altra parte gli Alleati non volevano ripetere l’errore del Trattato di Versailles, non volevano mettere la Germania in ginocchio e favorire un ritorno della destra. Non deve meravigliare, in quel contesto di Guerra fredda, in cui i partner europei e atlantici cercavano il giusto equilibrio tra risarcimenti e margini concessi alla Bundesrepublik per recuperare la prosperità economica, l’abisso tra le richieste avanzate dai Paesi e le somme riconosciute. I greci avevano chiesto, poco dopo la guerra, un multiplo della somma incassata poi nel 1960, cioè l’equivalente di 14 miliardi di euro. In tutto la Germania ha sborsato 71 miliardi per risarcire le vittime dei nazisti, ma quasi due terzi di quelle somme, sono andate a tedeschi, circa 47 miliardi di euro.
Con gli accordi per la Riunificazione, nel 1990, stipulati tra le due Germanie e le potenze alleate, ma sottoscritti con la Carta di Parigi anche dalla Grecia, Atene ha rinunciato per sempre ai danni di guerra: le richieste sono diventate, da allora, «infondate», per i tedeschi. Nella giurisprudenza, però, il parere se questo significhi una rinuncia alle riparazioni, è controversa. Da anni, tra i tribunali italiani, greci, tedeschi e la Corte dell’Aja, rimbalzano sentenze che si annullano a vicenda. L’ultimo capitolo non è ancora stato scritto.

Corriere 18.3.15
L’ipnotista russo e le mani legate dell’Europa
di Luigi Offeddu


«Spiacevoli». Le nuove manovre militari della Russia nel Baltico sono «spiacevoli»: parola del ministro degli Esteri lettone Egars Rinkevic, presidente di turno del Consiglio Affari Generali Ue. Quanto allo schieramento in atto di bombardieri russi, armati forse di testate atomiche, Rinkevic assicura: «Non vediamo un immediato pericolo militare»; perciò è improbabile «che si discuterà su nuove sanzioni contro Mosca» domani, a Bruxelles, al vertice dei leader della Ue. Ma la tregua in Ucraina traballa. E Angela Merkel lo dice chiaro e tondo, o quasi: «In caso di emergenza, siamo pronti a nuove sanzioni». I polacchi, la Gran Bretagna ed altri premono per misure più severe. L’Italia, la Spagna, il Sud dell’Europa, remano in direzione opposta: isolare Vladimir Putin può diventare pericoloso, anche secondo l’Alto commissario per gli Affari esteri della Ue, Federica Mogherini. L’ago della bilancia sta ancora una volta in Germania: ma oltre a lanciare il «siamo pronti», Berlino non perde di vista i suoi interessi energetici, il reale equilibrio geo-politico nel cuore della Ue: Putin l’ipnotista non sarà un amico, ma un socio in tanti affari sì. E poi non si scherza con gli ipnotisti: troppo imprevedibili. Così una sola cosa sembra chiara, a Bruxelles: il vertice di domani avrà la Russia e l’Ucraina come temi centrali, insieme alla Grecia ma l’Europa ha come sempre le mani invischiate, se non legate. Può seguire la situazione giorno per giorno, non dominarla. E questo è provato dai paroloni che slittano, anche fra i potenti, paroloni già in partenza smentiti dai fatti. Tutti dicono che l’accordo di Minsk è l’unica via, e per Angela Merkel «l’importante è ristabilire l’integrità dell’Ucraina». Ma Mosca festeggia i 12 mesi trascorsi dall’annessione: quale «integrità», e quale vertice Ue potrà re-imporla? Tuttavia, la signora di Berlino non parla a caso: sbrigato l’omaggio ai grandi valori, negozierà con Putin parlandogli di rublo, prezzo del petrolio in calo, e interscambio commerciale. Anche agli ipnotisti può far male il portafoglio.

Corriere 18.3.15
Gli errori diplomatici sulla vicenda dei marò che mettono in crisi i rapporti Europa-India
di Danilo Taino


Nuovo guaio nella vicenda dei due marò. Il primo ministro indiano Narendra Modi ha cancellato un summit tra l’India e la Ue che egli stesso aveva suggerito di tenere a Bruxelles in aprile. La ragione è che la Ue non ha risposto alla sua proposta, avanzata un paio di mesi fa: in quanto — ha sostenuto un funzionario del governo di Delhi — «la Ue ha posto una questione bilaterale sopra un impegno multilaterale».
La questione bilaterale sarebbe appunto quella di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, secondo i media indiani.
Non è detto che sia proprio così. Però, Geoffrey Van Orden, il capo di una delegazione di parlamentari europei in visita a Delhi, ha detto alla televisione Ndtv di essere molto deluso «per un problema bilaterale che non avrebbe dovuto essere sollevato al livello di confronto tra l’Europa e l’India».
La sua vice, la parlamentare europea Nina Gill, ha sostenuto che «mai prima una questione bilaterale ha giocato un ruolo a livello di Ue in questo modo», ma ha anche sostenuto di non sapere se il motivo della non risposta europea stia nel contenzioso sul caso marò o nel semplice fatto che a capo della diplomazia europea ci sia un’italiana, Federica Mogherini, molto impegnata sulla vicenda dei due fucilieri.
I media indiani, infatti, arrivano a sostenere che sia stata l’opposizione della Mogherini a bloccare la risposta a Modi.
Come che sia, il problema è che l’Italia ha fatto del caso marò una questione tra Ue e India, fino a minacciare il blocco di negoziati commerciali, e in questo Mogherini ha una parte di responsabilità. Si sono ribaltati su Bruxelles tre anni di fallimenti e di impotenze dei governi italiani. Internazionalizzare il caso significava portarlo nei tribunali internazionali, non cercare di farlo diventare un caso multilaterale: non lo è. «Non è una questione che dovrebbe intromettersi nella relazione complessiva tra Ue e India», ha commentato Van Orden.

il Fatto 18.3.15
Gli arabo-israeliani: “Bibi, ti cacciamo”
Donne velate ai seggi con il sogno di essere ago della bilancia
“Non chiamateci estremisti islamici, pure noi paghiamo le tasse e pensiamo a un esecutivo che risolva i nostri problemi economici”
di Roberta Zunini


Nazareth - Nazareth è un grumo di cemento, spaccato da vicoli stretti e tortuosi. Per la prima volta sembrano portare tutti gli arabi israeliani, che popolano in maggioranza la città di Cristo, verso un'unica meta: i seggi elettorali allestiti nelle scuole. Fin dalle 8 del mattino di ieri, decine di donne velate, tenendo per mano i figli più piccoli, hanno formato una lunga e paziente fila per esercitare un diritto fondamentale ma finora considerato inutile: il voto. “Vado a votare per la prima volta e non solo perché, finalmente, i partiti arabi si sono uniti, ma perché il livello di razzismo nei nostri confronti dimostrato dal primo ministro è andato oltre”, dice Rula, una signora di 50 anni, madre di 6 bambini e proprietaria con il marito di un negozio di borse. Si riferisce al messaggio postato sulla pagina Facebook del premier uscente Bibi Netanyahu: “Il governo di destra è in pericolo, gli arabi stanno andando in massa a votare. Dovete quindi andare anche voi e portare i vostri amici in modo da colmare la distanza tra noi e i laburisti”.
“Basta, ci ha preso per i fondelli troppe volte: non ha risolto il problema di Gaza e dello stato palestinese e ci ha sacrificato per i suoi amici fascisti e miliardari americani. Noi siamo sempre più poveri e loro sempre più ricchi”, sostiene Omer che ha sempre votato Likud e ora, per protesta, vota Campo Sionista. La moglie, Liuba, di origine ucraina, sceglie la lista unita araba: “Dobbiamo risolvere questo conflitto, non si può più andare avanti così, le operazioni militari ci costano un sacco di soldi e non risolvono mai niente. Dobbiamo provare a imboccare un'altra strada. E la cosa migliore è che gli arabi israeliani diventino un partito forte così potremo negoziare anche all'interno di Israele e forse trovare un accordo all'insegna sia della giustizia sociale che di quella economica”. Omer e Liuba hanno appena fondato una start up in ambito informatico, sono entrambi ingegneri, e sono una coppia nonostante le divergenze in ambito politico. Ma questa volta, sono uniti nell'intento di “mandare a casa Bibi”.
“IMMAGINATE un primo ministro o un presidente di una qualunque democrazia che dichiari che il suo governo è in pericolo perché, per esempio, gli elettori di colore stanno votando in massa. È orribile, no? ”, ha commentato la deputata laburista Shelly Yachimovich. Se è vero che non sono decine di migliaia gli ebrei israeliani che hanno votato la lista ( araba) unita, è comunque una notizia che ce ne siano alcune migliaia, considerato che gli aventi diritto al voto sono poco più di 5 milioni di persone. “Il mio avvocato è arabo israeliano, la mia migliore amica è araba israeliana, vivo da anni qui a Jaffa dove la maggior parte degli abitanti è araba, cosa avrei dovuto votare secondo te? ” mi dice con un sorriso ironico Mona Nir Gilad. È un'insegnante di 55 anni, figlia di ebrei polacchi. “Finalmente c'è questa lista araba unita, forse è la volta buona che riusciremo a mandare a casa la destra e a formare un governo che vuole risolvere sia i problemi economici sia quelli che riguardano i nostri vicini palestinesi e i nostri connazionali arabi israeliani; che poi, sono palestinesi che pagano le tasse qui, non vivono a sbafo”, dice mentre abbraccia Selim Mari, taxista arabo israeliano, laureato in storia e tra i fondatori di un'organizzazione non governativa israelo-palestinese. “Credo molto in questa lista, perché ci sono persone di buon senso e per nulla estremiste”, ci spiega il quarantenne: ateo convinto, è membro di una “storica” famiglia arabo-israeliana di Jaffa.
“Otterremo spero 13 seggi e daremo il nostro appoggio esterno a Campo Sionista - dice la deputata Aida Suleiman, conosciuta per la sua attività di difensore dei diritti delle donne - sono femminista e non potrei tollerare di vivere in una società che nega i diritti e la libertà delle donne. State certi che gli obiettivi della nostra lista non hanno nulla a che vedere con l'estremismo islamico”, conclude.

Il Sole 18.3.15
La lacerazione del mondo arabo e la Palestina che non c’è
di Alberto Negri


Un’immagine si fissa nell’ultimo conflitto del luglio 2014, la terza guerra su Gaza in cinque anni. Donne, tante donne, che circolano tra le macerie sollevando sassi come macigni, sono infuriate e alzano le braccia al cielo, come se ci fosse ancora un cielo sopra di loro. Davanti alle telecamere una ha un gesto di rabbia e urla: «Ditelo a Netanyahu che anche i bambini di nove anni qui chiedono l’esplosivo».
In questa disperazione infinita è affondato lo stato dei palestinesi, argomento intorno al quale le nazioni arabe hanno fatto piombare il velo del silenzio. L’unico che fa proselitismo sul loro destino è il capo dell’Isis, al-Baghdadi: non perché gli interessi uno Stato palestinese (nella sua ottica la Palestina fa parte del Califfato) ma strumentalizza la sofferenza di questo popolo per atteggiarsi a nuovo Saladino. Come contrastare la capacità di attrazione del jihadismo tra i palestinesi nessuno se lo chiede, almeno fino alla prossima guerra.La questione forse è irrimediabile. Lo dicono i numeri. Nel 1947 l’Onu approvò la partizione tra Palestina e Israele mettendo Gerusalemme sotto regime internazionale. Un anno più tardi i palestinesi si ribellarono ma furono sconfitti. Israele si spinse oltre i confini imposti dall’Onu e conquistò la metà occidentale di Gerusalemme. Intere comunità di palestinesi vennero cacciate: 700mila furono i rifugiati i cui discendenti adesso ammontano a 7 milioni, il diritto al ritorno è impossibile. L’occupazione di Gaza e Cigiordania iniziò nel 1967 e fu il risultato della Guerra dei Sei Giorni, scoppiata tra Tel Aviv e i vicini arabi, Egitto, Siria, Iraq, Giordania, dove i palestinesi si rifugiarono a migliaia. Di questi stati la Siria non esiste più, sul Golan non ci sono più i soldati di Assad ma scorazzano gli estremisti islamici di Jabat al-Nusra finanziati dal Qatar, mentre quel che resta dell’Iraq non è ancora in grado di riprendere il controllo delle città in mano al Califfato. L’Egitto si difende in Sinai dai jihadisti e attacca in Libia per estendere una sorta di fascia di sicurezza come quella che Tel Aviv aveva in Libano. Quanto alla Giordania degli hashemiti, agli occhi di Israele con il suo 70% di popolazione palestinese resta il “candidato ideale” per ospitare un giorno un futuro stato nazionale. Tel Aviv si è ritirata dalla Striscia nel 2005 ma mantiene un embargo che l’ha trasformata in una sorta di prigione a cielo aperto: nessuno entra, nessuno esce. Il resto della Palestina vive una sorta di apartheid, con doppio regime per ebrei e palestinesi. Al punto in cui si è arrivati gli israeliani, qualunque governo si installi, non possono tornare indietro.
Nei Territori Occupati ci sono 500mila coloni. Ma quale governo avrebbe il coraggio di sloggiarli? Nei sei anni in cui Netanyahu è stato al potere l’occupazione è penetrata nel cuore della West Bank con la moltiplicazione delle colonie. Eppure il premier uscente non è l’unico nemico dei palestinesi. Se ne è aggiunto un altro: gli arabi e il contesto in cui vivono. La negazione da parte di Netanyahu della soluzione due popoli due stati può sembrare ancora una volta provocatoria ma corrisponde a una realtà lacerante: il concetto stesso di stato arabo come nozione territoriale e istituzionale unitaria è in disgregazione. Pensiamo soltanto ai milioni di profughi siriani e iracheni nella regione: non sappiamo neppure dove farli tornare. Ormai c’è soltanto un’ex Siria, implosa con oltre 200mila morti e 9 milioni di rifugiati, mentre l’Iraq è diviso tra sciiti, sunniti e curdi, il Libano è sempre sull’orlo del confronto tra fazioni, l’Egitto fatica a stare a galla, lo Yemen è nel pieno di un conflitto civile, della Libia non parliamone. Una situazione che spiega perché dei palestinesi e del loro stato siano gli stessi arabi a non occuparsene più: hanno altro cui pensare.

Corriere 18.3.15
«Così libero dal velo le iraniane come me»
Masih Alinejad, la giornalista che ha lanciato la campagna contro l’obbligo di coprirsi il capo
«Sono cresciuta senza poter andare in bicicletta. Nel mio Paese le donne non possono scegliere»
intervista di Farian Sabahi


«Non sono contraria al velo ma al fatto che nella Repubblica islamica sia obbligatorio dal 1980: non abbiamo libertà di scelta! A sette anni mi è stato imposto per andare a scuola, è stato frustrante. Una bambina non sa che cosa siano la libertà di espressione e la libertà di coscienza, ma è in grado di parlare dell’obbligo del foulard». Inizia così la conversazione con la giornalista iraniana Masih Alinejad, collaboratrice di Radio Farda e Voice of America , nota soprattutto per la campagna Stealthy Freedom (libertà clandestina) lanciata nel 2014 su Facebook per invitare le donne iraniane a postare le loro foto a capo scoperto, un gesto che potrebbe costare caro. Una campagna appoggiata da tanti uomini, che si sono fatti fotografare accanto alle loro madri, mogli e figlie senza velo.
Trentotto anni, il 24 febbraio Masih è stata insignita del premio del Geneva Summit for Human Rights and Democracy, una coalizione di una ventina di organizzazioni non governative. Su Skype i nostri visi si incrociano: carnagione chiara, capelli ricci, occhiali, un sorriso radioso. Mentre chiacchieriamo una troupe riprende la conversazione, per un documentario sulla sua vita. Masih è a Brooklyn, dove vive con il secondo marito, un iraniano con cittadinanza americana che lavora nel gruppo televisivo Bloomberg.
Partiamo dall’inizio...
«Sono cresciuta a Ghomikola, un villaggio del Mazandaran, la regione a nord di Teheran lambita dal Mar Caspio. Entrambi i miei genitori sono coltivatori, mio padre di riso e mia madre di agrumi. La mia è una famiglia religiosa, mi è sempre stato detto: “Dio vuole che tu stia a casa perché sei femmina”. Fin da piccola ho capito di essere diversa dai miei fratelli. Sognavo di fare la giornalista. Quando accompagnavo mia madre ai funerali accartocciavo un vecchio giornale per dargli la forma di un microfono, poi passavo tra la gente a fare domande. Ero una bambina entusiasta, reclamavo diritti che i miei fratelli davano per scontati: volevo nuotare nel ruscello vicino a casa ma non potevo perché mi era vietato esporre il corpo, così come non ero autorizzata ad andare in bici, a cantare e mostrare i capelli».
Come ha reagito la gente del villaggio alla sua ribellione?
«Ho dovuto lasciare il paese e trasferirmi nel capoluogo, Babol, dove ho frequentato il liceo. Lì sono stata coinvolta in politica con mio marito e mio fratello Ali, maggiore di due anni. Criticavamo il governo, leggevamo e commentavamo i libri di Ali Shariati, Jalal al-e Ahmad e Amir Parviz Pouyan (Pouyan è anche il nome del figlio di Masih Alinejad, ndr ). Autori che avevano fomentato il dissenso al tempo dello scià, facevano parte della letteratura underground che non piaceva alle autorità. Siamo stati arrestati nel 1994, mentre distribuivamo dei volantini. Eravamo in tredici. Sono stata rilasciata perché incinta, mio marito e mio fratello sono rimasti in carcere».
Dopo la prigione, il trasloco a Teheran. Come ottiene il permesso della famiglia?
«Sono stati tempi duri. Non avevo soldi. Volevo leggere e allora rubavo i libri. Mi sono trasferita nella capitale con mio marito, che avevo sposato proprio perché più aperto rispetto ai miei genitori. Un poeta, mi ha sempre aiutata e mi ha aperto tante porte. Anche se poi si innamora di una mia amica, la sposa e mi lascia. È stato un periodo terribile».
Oltre all’ex marito, quali altri familiari l’hanno sostenuta nella sua battaglia?
«Mio fratello Ali. Fin da bambino ha fatto in modo che potessi andare anch’io in bicicletta. Lo accompagnavo al ruscello e lo guardavo nuotare».
Come riesce a farsi assumere dal quotidiano riformista «Hambasteghì»?
«È il 2001, presidente della Repubblica islamica è il moderato Mohammad Khatami. Vado al giornale accompagnata da mio fratello, il capo redattore mi chiede se sono laureata e sono in grado di tradurre dall’inglese. Ad entrambe le domande rispondo di no, so scrivere ma non è un requisito sufficiente. Me ne vado, la coda tra le gambe. Il giorno dopo torno, insisto, chiedo di iniziare il praticantato. Mi viene data una possibilità. A capo della redazione politica c’è una donna. Approfittando della sua assenza, un mattino frugo tra le sue cose e trovo un’agenda con i numeri di telefono dei deputati. Ne intervisto un paio, i miei articoli finiscono in prima pagina. Quando il capo mi chiede come ho fatto, ammetto di averle rubato l’agenda. È una donna in gamba: non si arrabbia e mi dà l’incarico di seguire i lavori del Parlamento».
Com’è l’esperienza di reporter in Parlamento?
«Nel 2005 scrivo un’inchiesta sulla corruzione dei deputati e ci rimetto il posto. Passo alla redazione di Etemad Melli , il giornale di Mehdi Karrubi (che nel 2009 diventerà un leader del movimento verde di opposizione, ndr ). A fine anni Novanta è uno dei pochi deputati a sostenere i giornalisti. Mi dà una rubrica per scrivere di politica, un tema simile al meteo in Inghilterra: non sai mai se ci azzecchi».
Cosa succede?
«Nel 2008 scrivo un articolo, anche questo controverso, in cui paragono il presidente Ahmadinejad a un istruttore dei delfini: attorno a lui si riunisce la povera gente che spera di ottenere un pezzo di pane, come fanno i delfini con l’uomo che cerca di addomesticarli. L’articolo è considerato offensivo e il direttore del giornale deve scusarsi per averlo pubblicato».
Perché lascia l’Iran?
«Me ne sono andata nel 2009, prima delle presidenziali. Sentivo il bisogno di studiare. Essendo stata in carcere ed avendo avuto problemi come giornalista, non potevo iscrivermi all’università. Avevo scritto dei libri ma la censura ne vietava la diffusione».
Di fronte al successo della sua campagna su Facebook, le autorità iraniane rispondono con la diffamazione. Tempo fa, la tv di Stato ha dichiarato che a Londra lei è stata violentata da una banda, di fronte a suo figlio. Lei nega il fatto. Oggi come si sente?
«Ho vissuto cinque anni a Londra e sei mesi a New York. Mi hanno cacciata dall’Iran ma non sono riusciti a cacciare l’Iran dal mio cuore».

il Fatto 18.3.15
La Cina non riesce più a trovare la spinta
Sboom. L’ultima sessione annuale del Partito comunista ha rivelato i limiti di uno sviluppo solo in apparenza inarrestabile: i leader di Pechino sono a corto di nuove idee
di Fabio Scacciavillani


Appena salito al potere in Cecoslovacchia Alexander Dub›ek definì il proprio regime “socialismo dal volto umano”, solleticando il punto G politico di quanti misticamente anelavano a coniugare comunismo e democrazia. Agli attuali mandarini cinesi fa difetto la vena poetico-comunicativa con cui estasiare masse e intellettuali organici, tuttavia essi si trovano di fronte a un dilemma angoscioso quanto quello dell’effimera Primavera di Praga: coniugare capitalismo, proprietà privata, libertà individuali e partito unico.
LA SESSIONE ANNUALE del Congresso Nazionale del Popolo (il parlamento cinese), terminata il 15 marzo, ha rappresentato un’altra stazione in una via crucis di progetti confusi e indirizzi vaghi, volti a esorcizzare il passaggio epocale piuttosto che ad affrontarlo. Tutti concordano che si è esaurita la spinta propulsiva del modello basato su massicci investimenti infrastrutturali, valuta debole, partito forte e soprattutto manifattura a bassa tecnologia e salari stracciati con cui invadere i mercati mondiali. Ma sulla direzione futura grava una coltre greve come lo smog di Pechino.
Le cifre ufficiali sull’attuale crescita oltre il 7 per cento – che per credibilità iniziano a evocare quelle del Gosplan che preparava i piani quinquennali sovietici – non riescono a mascherare la realtà di una espansione drogata da conglomerati pubblici che dilapidano risorse, sistema finanziario disfunzionale oberato di debiti, città fantasma costruite solo per ottemperare agli obiettivi di crescita, debiti insostenibili delle amministrazioni locali, aziende private cui è negato l’accesso al credito. Per non parlare del magma sociale che ribolle nelle periferie e nelle campagne.
Per spiccare l’ulteriore balzo in avanti non basta più l’intermediazione politica, all’interno di un sistema autoritario, tra i gruppi di potere proliferati dentro il comunismo dal volto capitalista. Occorrerebbe una riconversione del regime profonda quanto quella con cui Deng Xiaoping cauterizzò la piaga del maoismo. Invece la leadership che ha preso il potere nel 2013 – fiaccando la disperata resistenza dei nostalgici delle Guardie Rosse – finora ha scelto un gradualismo sterile, facilmente sabotato dai mille interessi che agiscono negli interstizi del potere.
PERVASO DA QUESTO zeitgeist il Parlamento si è focalizzato su obiettivi economici ampiamente prevedibili: un tasso annuale di crescita intorno al 7 per cento annuo, il più basso dal 1999 (i tassi a doppia cifra sono ormai un ricordo), inflazione in leggera caduta al 3 per cento, disoccupazione al 4.5 per cento.
A un’analisi superficiale queste cifre dipingerebbero un quadro a tinte rosee. Ma a parte i dubbi sull’accuratezza delle rilevazioni statistiche (su cui pochi mettono il mignolo sul fuoco), in un’economia moderna non contano le quantità fisiche prodotte bensì la qualità. Anzi, predominano aspetti immateriali come l’adeguatezza dei servizi, sia pubblici che privati, il livello di istruzione, il soft power internazionale. In questo ambito la Cina, se si escludono le aree più ricche della costa orientale e le città principali, rimane un paese arretrato. L’obiettivo di lungo periodo della politica economica cinese è pertanto la ristrutturazione di un’economia ossessionata dagli obiettivi quantititavi verso un modello più “occidentale”. Un cambio in questo senso è già percepibile nei dati degli ultimi anni: la quota dei consumi privati nel Pil sale a discapito di quella degli investimenti. Ma il processo sarà lento e la pressione sociale esercitata da chi ancora non si è seduto alla tavola del benessere, se non per spazzolare le briciole, ossessiona i quadri del partito. Per questo la Banca centrale guadagna tempo abbassando i tassi di interesse, mentre il premier cinese Li Keqiang ha promesso che se l’economia rallentasse il governo ha pronte misure di stimolo, come nel 2008.
UNA SFIDA IMMEDIATA sarà l’ingresso a pieno titolo della seconda economia mondiale nel sistema finanziario internazionale. Finora le restrizioni ai movimenti di capitale e alla conversione dello yuan hanno eretto una muraglia protezionistica che ha permesso alla Cina di sottrarsi al giudizio degli investitori internazionali e mantenere un ferreo controllo sull’allocazione del risparmio interno. Di questa repressione finanziaria hanno beneficiato le banche pubbliche e gli interessi politico-affaristici che vi ruotano attorno. Spezzare questo circuito avrà costi politici ingenti e farà emergere il segreto di Pulcinella della fragilità finanziaria di un’economia tarata da un rapporto tra debito e Pil che supera il 250 per cento.
La chiave per interpretare le evoluzioni e le afflizioni dell’Impero di Mezzo in questo decennio sarà il corto circuito tra autocrazia politica e modernizzazione del tessuto economico prono a legami incestuosi con la burocrazia spesso corrotta.

La Stampa 18.3.15
Sì alla “Banca mondiale” cinese da Italia, Francia e Germania
Sarà operativa a novembre. Gli Usa attaccano: minacciata la nostra credibilità
di Alessandro Barbera


Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario degli accordi di Bretton Woods e della nascita del Fondo monetario internazionale. Senza un sussulto, nei libri di storia verrà ricordato come l’inizio del suo irrimediabile declino. Dopo la decisione a sorpresa della Gran Bretagna, ora anche Italia, Francia e Germania annunciano che entreranno a far parte del club fondatore della Banca asiatica degli investimenti, l’alternativa cinese al Fondo e al suo braccio operativo, la Banca mondiale. Per Washington è la fine di un’epoca e degli equilibri su cui si fondava l’Occidente a trazione americana. Dal dopoguerra in poi non c’è stata crisi finanziaria o umanitaria che non sia passata dalle stanze della istituzione che dista pochi passi dalla Casa Bianca.
A Pechino lavorano al progetto da ottobre del 2013. La «Asian Bank Develpoment Institute» promette di partire con un capitale di 50 miliardi di dollari e almeno 31 Paesi aderenti. Il primo gruppo - 21 in tutto - ha firmato un protocollo a Pechino lo scorso 24 ottobre. C’erano India, Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh, Brunei, Cambogia, Kazakhstan, Kuwait, Laos, Myanmar, Mongolia, Nepal, Oman, Qatar, Sri Lanka, Uzbekistan e Vietnam. Ora si sono aggiunti fra gli altri Arabia Saudita, Nuova Zelanda, ma soprattutto i quattro più grandi Paesi europei. La Casa Bianca è irritatissima - in particolare con Londra - e finora è riuscita a fermare l’adesione di Giappone, Corea del Nord e Australia.
«La credibilità e l’influenza internazionale degli Stati Uniti sono minacciate», ammette Jack Lew. Il caso ha voluto che la notizia trapelasse proprio nel giorno in cui il segretario al Tesoro americano ha chiesto nuovamente al Congresso il via libera alla riforma del Fondo monetario, approvata nel 2010 e finora bloccata dai veti. «L’ostruzionismo sta mettendo a repentaglio i nostri interessi economici e di sicurezza», attacca Lew. La nascita della nuova banca asiatica è l’inevitabile conseguenza della perdita di credibilità di una istituzione che non ha ancora preso atto dei nuovi equilibri mondiali e in cui Washington fatica a lasciare spazio ad altri. «Chiunque aderisca alla nuova Asian Bank dovrebbe prima accertarsi che vengano adottati standard rigidi». E l’istituzione dovrebbe «proteggere lavoratori e l’ambiente e lottare contro la corruzione», dice ancora Lew. In effetti nella lista dei fondatori della Asian Bank molti sono noti per i bassi standard nel rispetto dei diritti umani: dalla Cina al Pakistan, dai Paesi arabi al Kazakhstan. «La storia dell’Asian Bank si sta rivelando una debacle diplomatica per gli Stati Uniti», scrive il Financial Times. Di fronte ai progetti cinesi gli sforzi della Banca asiatica dello sviluppo - braccio regionale della Banca Mondiale - appaiono ormai come poca cosa. Mentre al Fondo si litiga sulla presunto strapotere della burocrazia giapponese sulla istituzione con sede a Manila, Pechino promette una «via della Seta» che unisca l’Asia e si spinga fino ai confini europei.
«La Asian Investment Bank può svolgere un ruolo di rilievo nel finanziamento dell’ampio fabbisogno infrastrutturale dell’Asia», scrive il Tesoro italiano nella nota congiunta che conferma la decisione di Roma, Parigi e Berlino. «Francia, Germania e Italia intendono lavorare con i membri fondatori della Banca per costruire un’istituzione che segua i migliori principi e pratiche in materia di governo societario e di politiche di salvaguardia, di sostenibilità del debito e di appalti». Per ottenere lo status di Paese fondatore occorreva aderire entro il 31 marzo: «Questa non è una iniziativa contro qualcuno, ma una grande opportunità geopolitica e per lo sviluppo di quell’area del mondo», spiegano fonti di governo. Non è ancora noto il valore delle quote che l’Italia sottoscriverà, né se la scelta è stata anticipata all’alleato americano. In ogni caso la decisione è presa: il Tesoro italiano sta già contribuendo alla stesura dello Statuto della Banca che potrebbe essere operativa a novembre.

Corriere 18.3.15
La banca cinese di investimenti che riapre la via della seta
di Guido Santevecchi


Ci saranno anche Italia, Francia e Germania tra i Paesi fondatori della Asian Infrastructure Investment Bank, il grande progetto lanciato dalla Cina per finanziare infrastrutture che attraversino l’Asia fino all’Europa. Il piano è stato presentato nel 2013 da Pechino, che da allora ha cominciato a lavorare alla (ri)costruzione della storica Via della Seta, promettendo investimenti per miliardi in ferrovie e gasdotti in Asia centrale e cercando di realizzare anche una strada marittima lungo le rotte del Sudest asiatico. Finora alla nuova banca, che avrà sede a Shanghai e una dotazione iniziale di 50 miliardi di dollari, avevano aderito 26 Paesi, compresa l’India. Pechino si è proposta come azionista di maggioranza.
Gli Stati Uniti avevano reagito cercando di dissuadere gli alleati occidentali dall’imbarcarsi in un’iniziativa percepita come rivale della Banca mondiale, basata a Washington. Secondo gli americani, un’istituzione finanziaria diretta dalla Cina non dà garanzie di governance trasparente e preoccupa sul fronte del rispetto delle regole economiche di libero mercato e ambientali. Il fronte però è stato rotto dalla Gran Bretagna, che la settimana scorsa ha annunciato la partecipazione. Uno scacco alla linea Usa proprio dall’alleato della special relationship , con Londra che dimostra di saper guardare ai propri interessi commerciali. Ora arrivano altri tre grandi Paesi del G7 e anche Corea del Sud e Australia mandano segnali di disponibilità.
Quante volte è stata ripetuta la previsione che questo sarebbe stato il «secolo cinese»? Tante, negli anni (più di trenta) nei quali il Prodotto interno lordo di Pechino cresceva a un ritmo del 10 per cento, con una punta del 14 nel 2007. Ora la corsa ha perso slancio, il presidente Xi Jinping è stato abile a inventare per il rallentamento la formula «nuova normalità», che significa un obiettivo intorno al 7% per il 2015. Però, proprio il lancio della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), con l’adesione dei principali Paesi europei, può rappresentare il colpo di gong per un rapporto di forze nuovo.
A Pechino lo sanno bene, anche se insistono a definirsi un Paese in via di sviluppo. Assicurano che investire nelle infrastrutture dell’Asia non è un’iniziativa geopolitica di potenza, non è una riedizione in mandarino del Piano Marshall. Il ministro degli Esteri Wang Yi giura che l’idea cinese è più antica del piano americano che ricostruì l’Europa dopo il 1945, perché affonda le radici nella storia millenaria della Via della Seta, ed è più nuova perché vive nell’era della globalizzazione, non in quella della Guerra Fredda. Sottigliezze dell’eloquenza diplomatica cinese. Il partito-Stato che governa incontrastato la Repubblica popolare dice anche di voler riformare l’ordine internazionale, ma promette che «non significa ribaltarlo, solo portare idee innovative, perché siamo sulla stessa barca, non vogliamo rovesciarla, ma viaggiare con gli altri passeggeri stabilmente verso la giusta direzione». Il punto è quale sia.
Il governo italiano ieri ha indirettamente replicato alle perplessità di Washington sottolineando che l’adesione degli europei alla AIIB servirà anche a costituire un’istituzione secondo i «migliori principi e le migliori pratiche in materia di governo societario e di politiche di salvaguardia, di sostenibilità del debito e di appalti». A Pechino, soddisfatti, ribadiscono che il mondo ha bisogno di infrastrutture per tornare a crescere stabilmente dopo quasi otto anni di crisi. Servono strade, ferrovie, porti, comunicazioni hi tech. Si calcola che questo mercato possa valere almeno ottomila miliardi di dollari. «Quindi perché la Cina non dovrebbe puntare su questa Banca di investimenti in infrastrutture che può produrre vantaggi per tutti? La Cina non ha ambizioni geopolitiche in questa partita, sono gli Stati Uniti che hanno una vecchia mentalità», ci dice Cui Hongjian, direttore del Dipartimento di studi europei del CIIS (China Institute of International Studies). E conclude suggerendo che per l’Italia può essere un doppio affare: entrare in questo mercato come azionista della AIIB e magari ricevere investimenti per le sue infrastrutture .
Un’operazione di soft power cinese che per ora spiazza gli Usa. Ma il colpo di gong della Banca per le infrastrutture può anche aprire una nuova fase di distensione tra Asia ed Europa .

il manifesto 18.3.15
La banca dei quattro made in China
Usa contro Londra, prima capitale del G7 ad aderire al progetto cinese
Anche Australia e Corea del Sud verso l’ok
di Simone Pieranni

qui

Il Sole 18.3.15
Dragone strategico
L’importanza della Cina
di D.Pes.

Dopo la Gran Bretagna, che con la sua decisione ha provocato l’irritata reazione degli Stati Uniti, anche Italia, Francia e Germania annunciano la loro intenzione di diventare «membri fondatori» dell’Asian Infrastructure Investment bank. Progetto fortemente voluto dalla Cina, che per gli Usa si configura di fatto come un diretto concorrente di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Asian Development Bank. La Aiib – spiega il ministero dell’Economia – «può svolgere un ruolo di rilievo nel finanziamento dell’ampio fabbisogno infrastrutturale dell’Asia». Una nuova banca d’investimento «che lavorerà con le banche multilaterali di sviluppo e di investimento esistenti». L’obiettivo è promuovere lo sviluppo economico e sociale nella regione e «contribuire alla crescita mondiale». Francia, Germania e Italia, «operando in stretto raccordo con i partner europei e internazionali», intendono dunque interagire con i membri fondatori della Aiib «per costruire un’istituzione che segua i migliori principi e le migliori pratiche in materia di governo societario e di politiche di salvaguardia, di sostenibilità del debito e di appalti».
Secondo la ricostruzione del «Financial Times», che ha anticipato la notizia, da Washington è partita nei mesi scorsi una potente controffensiva per evitare che nazioni occidentali entrassero nell’Aiib, istituto fondato nel 2014 (in giugno la Cina ha annunciato il raddoppio de capitale iniziale da 50 a 100 miliardi di dollari). Una banca che nasce con una forte impronta cinese (il presidente Xi Jinping ne aveva proposto la creazione durante l’Asia-Pacific economic forum di Bali, nell’ottobre 2013). L’annuncio congiunto di ieri delle tre maggiori economie europee va letto anche in indiretta replica all’adesione della Gran Bretagna e al suo evidente intento di acquisire un ruolo determinante in Europa sul versante degli investimenti cinesi.

La Stampa 18.3.15
Superpotenza Usa, finita l’egemonia resta la supremazia
Dai rapidi cambiamenti del mondo globalizzato stanno emergendo nuovi protagonisti come la Cina
Il ruolo dell’America cambierà ma resterà cruciale
di Joseph S. Nye Jr


Nessun paese nella storia moderna ha mai posseduto un potere militare globale pari a quello degli Stati Uniti. Ma ora alcuni analisti sostengono che gli Stati Uniti stiano seguendo le orme del Regno Unito, l’ultima potenza egemone a livello globale a declinare. Questa analogia storica, anche se è sempre più popolare, è fuorviante.
La Gran Bretagna non è mai stata così dominante come sono oggi gli Stati Uniti. E’ vero, la sua Marina era grande quanto le flotte odierne dei due paesi e il suo impero, su cui il sole non tramontava mai, si estendeva su un quarto del genere umano. Ma c’erano grandi differenze nelle relative fonti di potere tra la Gran Bretagna imperiale e l’America contemporanea. Allo scoppio della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna era solo al quarto posto tra le grandi potenze in termini di personale militare, al quarto in termini di Pil, e al terzo per le spese militari.
L’impero britannico era governato in gran parte ricorrendo alle truppe locali. Degli 8,6 milioni di effettivi britannici nella prima guerra mondiale, quasi un terzo proveniva dall’impero d’oltremare. Cosa che rese sempre più difficile al governo di Londra dichiarare guerra in nome dell’impero quando i sentimenti nazionalisti cominciarono a intensificarsi.
Con la seconda guerra mondiale, proteggere l’impero era diventato più un onere che un vantaggio. Il fatto che il Regno Unito si trovasse così vicino a potenze come la Germania e la Russia ha reso le cose ancora più impegnative.
Nonostante il parlare a ruota libera di un «impero americano», sta di fatto che gli Stati Uniti non hanno colonie da amministrare, e quindi hanno più libertà di manovra rispetto al Regno Unito. E, circondati da paesi che non li minacciano e da due oceani, si difendono molto più facilmente.
Questo ci porta a un altro problema con l’analogia della potenza egemone globale: la confusione su ciò che significa in realtà «egemonia». Alcuni osservatori confondono il concetto con l’imperialismo; ma gli Stati Uniti sono la chiara prova che una potenza egemone non deve necessariamente avere un impero formale. Altri definiscono l’egemonia come la capacità di impostare le regole del sistema internazionale; ma rimane oscuro proprio quanta influenza su questo processo debba avere una potenza egemone.
Altri ancora ritengono che egemonia sia sinonimo di controllo della maggior parte delle risorse. Ma, secondo questa definizione, la Gran Bretagna del XIX secolo – che al culmine del suo potere nel 1870 era al terzo posto (dopo gli Stati Uniti e la Russia) per Pil e al terzo (dietro la Russia e la Francia) per le spese militari – non poteva essere considerata egemone, nonostante il suo predominio sui mari.
Allo stesso modo, a chi parla di egemonia americana dopo il 1945 sfugge che l’Unione Sovietica ha controbilanciato la potenza militare degli Usa per oltre quattro decenni. Anche se gli Stati Uniti avevano un peso economico soverchiante, il loro margine di manovra politica e militare è stato limitato dal potere sovietico.
Alcuni analisti descrivono il periodo post-1945 come un ordine gerarchico con caratteristiche liberali guidato dagli Stati Uniti in cui essi fornivano beni pubblici all’interno di un sistema non vincolante di regole e istituzioni multilaterali che ha dato voce agli Stati più deboli. E sottolineano che potrebbe essere razionale per molti paesi preservare questo quadro istituzionale, anche se il potere americano è in declino. In questo senso, l’ordine internazionale a guida Usa potrebbe sopravvivere alla supremazia dell’America nel campo del potere, anche se molti altri sostengono che l’emergere di nuove potenze faccia presagire la morte di questo ordine.
Ma, quando si tratta dell’era della presunta egemonia statunitense, l’immaginazione si mescola ai fatti. Non era tanto un ordine globale quanto un gruppo di paesi con la stessa mentalità, in gran parte nelle Americhe e in Europa occidentale, che comprendeva meno della metà del mondo. E i suoi effetti sui non membri – tra cui importanti potenze come la Cina, l’India, l’Indonesia, e il blocco sovietico – non erano sempre benigni. Detto questo, la posizione degli Stati Uniti nel mondo potrebbe essere definita più correttamente una «semi-egemonia».
Naturalmente, l’America ha mantenuto il predominio economico dopo il 1945: la devastazione portata dalla seconda guerra mondiale in così tanti paesi ha fatto sì che gli Stati Uniti producessero quasi la metà del Pil mondiale. Tale posizione è durata fino al 1970, quando la quota statunitense del Pil mondiale è scesa al livello pre-guerra di un quarto. Ma, dal punto di vista politico o militare, il mondo era bipolare, con l’Unione Sovietica che controbilanciava il potere americano. In effetti, in questo periodo, gli Stati Uniti spesso non potevano difendere i propri interessi: l’Unione Sovietica acquisiva armi nucleari; il comunismo prendeva il potere in Cina, a Cuba, e in metà del Vietnam; la guerra di Corea si concludeva in un nulla di fatto; e le rivolte in Ungheria e Cecoslovacchia furono represse.
In questo contesto, «supremazia», sembra più una descrizione accurata della composizione non proporzionata (e misurabile) di tutti e tre i tipi di potere: militare, economico e «soft power». La questione ora è se l’era della supremazia degli Stati Uniti stia volgendo al termine.
Data l’imprevedibilità degli sviluppi globali, è, ovviamente, impossibile rispondere a questa domanda in modo definitivo. La comparsa delle forze transnazionali e degli attori non statali, per non parlare di potenze emergenti come la Cina, suggerisce che ci siano grandi cambiamenti all’orizzonte.
Ma c’è ancora motivo di credere che, almeno nella prima metà di questo secolo, gli Stati Uniti manterranno la loro supremazia in termini di influenza e continueranno a svolgere il ruolo centrale nell’equilibrio globale del potere.
In breve, l’era del primato degli Stati Uniti non è finita, ma è destinata a cambiare in modo importante. Resta da vedere se questi cambiamenti rafforzeranno la sicurezza e la prosperità globale o no.
© Project Syndicate, 2015 www.project-syndicate.org
Traduzione di Carla Reschia

il Fatto 18.3.15
Fra Isis e milizie
La Libia coglie la palla al balzo: “Italia, mandaci subito le armi”
di Caterina Minnucci


Mentre decine di famiglie stanno fuggendo da Sirte verso Misurata per l’inasprirsi degli scontri fra i jihadisti e le milizie dell’operazione Shuruq – legate al governo di Tripoli – il presidente del Parlamento libico, Akila Saleh, ha confermato che “l’Isis e al Qaeda possono passare dalla Libia all’Italia e questo è un grande pericolo visto che molti terroristi sono in Libia”. Ricordando lo storico legame con il nostro Paese, auspica “il sostegno dell’Italia nella lotta contro il terrorismo e nel pattugliamento del Mediterraneo per impedire che armi giungano ai gruppi terroristici”. In particolare il presidente Akila Saleh ha chiesto che “l’Italia tolga l’embargo imposto all’esportazione legale di armi verso la Libia, sostenendola nell’addestramento dell’esercito e assicurandole sostegno militare”. Nel suo intervento ha chiamato in causa il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il premier Matteo Renzi che venerdì scorso a Sharm el Sheikh, durante la Conferenza sullo Sviluppo economico dell’Egitto, ha promesso che l’Italia sosterrà i negoziati per pacificare la Libia e le operazioni internazionali contro l’Isis e gli estremisti in Medio Oriente. Un impegno che Renzi dovrà sottoscrivere il prossimo 17 aprile a Washington quando sarà ricevuto dal presidente Barack Obama per discutere della crisi libica e del sostegno all’Ucraina. Al riguardo, la Casa Bianca ha diffuso una nota per sottolineare che l’Italia è un “partner prezioso” nelle sfide globali e in questo momento è richiesto “uno sforzo nel fare pressione sulla comunità internazionale perchè siamo rispettati sia gli accordi di Minsk che il negoziato di Rabat”. La pace in Libia appare lontana e ieri l’Onu ha mostrato preoccupazione per i raid incrociati tra Fajr Libya (la milizia al potere a Tripoli) e le forze regolari guidate dal generale Khalifa Haftar, perché turberebbero la riconciliazione in corso in Marocco. Il comandante generale delle Forze armate libiche - a capo dell’operazione “Dignità” che si contrappone all’operazione “Alba” (braccio militare del Congresso nazionale che controlla Tripoli) - da ottobre sta cercando di riconquistare la città di Bengasi combattendo contro i “partigiani della legge islamica” e ieri ha fatto sapere che la totale cacciata dei jihadisti avverrà prima della metà di aprile. Di certo c’è che i combattimenti non conoscono tregua e l’Isis ha portato a termine il sequestro di una ventina di medici e infermieri filippini che lavorano come volontari sul suolo libico.

Repubblica 18.3.15
Il dadaista convertito al misticismo bizantino
Nel 1923 Hugo Ball, fondatore del movimento artistico più trasgressivo, scopre un’altra rivoluzione: quella dei maestri dell’ascetismo cristiano
Dopo il trauma vissuto in trincea l’immagine della guerra accomuna l’autore agli antichi padri “laceri e sudici”
Nella sua ricerca di libertà interiore dal presente brutale non c’è differenza tra il monaco, l’esteta e il ribelle
di Silvia Ronchey


«QUANDO mi imbattei nella parola Dada fui chiamato due volte da Dionigi Areopagita: D. A. — D. A.», annota Hugo Ball in Fuga dal tempo, il diario che documenta il passaggio, tra il 1913 e il 1921, dal dadaismo al cristianesimo bizantino, o meglio alla sua mistica, una conversione estetica prima ancora che etica e comunque meno religiosa che filosofica. È all’apice di quel transito che scrive le tre vitae sanctorum che compongono Cristianesimo bizantino.
Ne ha letto gli originali in antichi volumi «le cui pagine in folio crepitano, sfogliandole, come le vele di una fregata» e lo sospingano a un’eversiva libertà dal saeculum, il tempo del mondo, sulle tracce di tre maestri di fuga: di anacoresi, letteralmente “ritirata” (dal greco anachoreo, “me ne vado”), per Ball “secessione”.
Ball — scrittore, performer, regista, fondatore del dadaismo con Tristan Tzara — amava la saggezza dell’India, il manicheismo, che aveva divulgato nel cristianesimo le regole di astinenza buddiste, la filosofia di Nietzsche, Bakunin, la psicoanalisi, il pianoforte, il teatro e la poesia espressionista. Quella dal tempo fu l’ultima delle sue fughe. C’era stata prima quella dal fronte, dopo l’arruolamento volontario nel 1914 e l’orrore per lo spettacolo sacrificale delle trincee, che scardinava ogni idea di teatro. Rifugiato a Zurigo, le oppose le quinte effimere dell’antispettacolo Dada. Nei poèmes sans mots e nella poésie phonétique di Ball al Cabaret Voltaire, «rinuncia secca» al «linguaggio ormai corrotto dalla propaganda », già trapelava una mistica: occorreva abbandonare la parola per «ritirarsi (anachoreo) verso la sua alchimia più intima». Si era accorto che la sua voce «non avendo più altra scelta aveva adottato l’antichissima cadenza della sacra lamentazione, lo stile di quei canti liturgici che diffondono il loro gemito per le chiese d’oriente e d’occidente».
La lingua che Ball cercava aveva il «sommerso, boccheggiante mutismo dei pesci»: «I suoi caratteri guizzano in quelle curve del destino che attraversano all’improvviso la nostra coscienza come un flusso di luce». Il dadaismo del Café Voltaire e il pacifismo della Critica dell’intelligenza tedesca , il suo libro del 1919, cospirarono nella rilettura di tre classici della mistica bizantina. Il De coelesti hierarchia di Dionigi Areopagita, una vetta irradiata da Platone, «il grande sole d’oriente», da Giamblico, da Proclo (ma, ignorava Ball, soprattutto da Damascio). La Scala Paradisi di Giovanni Climaco, che «combatte la realtà come una pestilenza e la zavorra della vita come un’eresia». La Vita metafrastica di Simeone Stilita, l’“orologio di dio” che dissolve il tempo, ritto sulla meridiana della sua colonna.
«Abbiamo disimparato la lingua dei geroglifici. È andata perduta la sua chiave», scrive Ball. «Non capiamo più niente. Ma così siamo finiti sotto cieli che si fendono e vomitano sanme gue e fuoco». L’immagine della guerra accomuna le descrizioni delle sofferenze dei monaci nei testi degli antichi padri e in quello di Ball: «Tutti hanno la morte davanti agli occhi. Vivono e soffrono cose indicibili. Sputano sangue, gli occhi sono febbricitanti. Gli angeli della consolazione li attendono, annientati, laceri e sudici».
Per i figli superstiti del secolo breve, «atleti della disperazione», la risposta ai problemi del tempo cui appartengono è la soppressione dei bisogni, l’addio a «tutte le cure cui ci costringono società e stato, abitudine e comodità, proprietà e famiglia». Perché, scrive Ball, «i mali della società, paralisi e isteria» possono essere eliminati «solo assecondando la dissoluzione della forma interiore».
Dal dadaismo al bizantinismo c’è un passaggio obbligato e sotterraneo, che può percorrersi anche in direzione inversa: per esempio dal bizantinismo all’astrattismo, come predicato negli stessi anni del Novecento da Matisse e praticato da Kandinsky, grande amico di Ball, che dalle icone appese ai muri del suo atelier derivò il rifiuto della materialità nell’arte. All’icona bizantina, di cui l’arte contemporanea è orfana o figlia, Hugo Ball dedicherà gli scritti filosofici degli anni tra il 1923 e il 1927, trattando il rapporto tra immagine archetipica (Urbild) e immagine riprodotta (Abbild): del “fenomeno originario” l’icona non è copia ma “impronta”, una sorta di negativo della sua struttura intima, in cui alla mancanza della terza dimensione fa riscontro la necessità della ripetizione. Per questo l’arte bizantina è astratta e seriale come quella novecentesca, fino a Andy Warhol o a Yves Klein.
Il medioevo dadaista di Ball è precursore dell’evo postmoderno. Per la riscoperta dell’estetica concettuale bizantina, del suo messaggio di disintegrazione e sovvertimento dell’immagine e della parola stessa. Per la rilettura della teologia mistica cristiana non co- fede trascendente e neppure come ideologia pubblica ma come declinazione immanente di un pensiero negativo, pessimista se non nichilista, che si fa interiormente libertario e pacifista. Per l’individuazione in Bisanzio dell’alveo carsico di un incessante scambio sapienziale tra oriente e occidente in cui cristianesimo e buddismo, yoga ed esicasmo, attraverso i secoli e i millenni, attraverso le regioni oggi insanguinate da un conflitto solo superficialmente religioso, tracciano un’unica ininterrotta civiltà. Per l’intuizione della parentela tra mistica antica e moderna iniziazione psicoanalitica e la ricerca delle radici di questa nelle forme della “terapia” ascetica dell’anima, della santa esichìa.
In questa ricerca della libertà interiore nella secessione dalla contemporaneità brutale, dal suo culto della tecnica, della guerra, dell’edonismo, del consumismo, non c’è differenza tra l’asceta, l’esteta, il rivoluzionario. Sono la stessa figura, l’evoluzione disincarnata di un resistente la cui «spada sguainata contro la propria volontà», sospesa tra medioevo e Dada, sempre in assoluto conflitto col presente, è l’unica forma di resistenza possibile alla «ferita dei tempi». Tra le ultime note della Fuga dal tempo , al 3 gennaio del 1921, si legge: «Il socialista, l’esteta, il monaco. Tutti e tre sono d’accordo sulla necessità di abbandonare la moderna cultura borghese al suo declino. Da loro tre proverranno gli elementi di un nuovo ideale».
IL LIBRO: Cristianesimo bizantino di Hugo Ball (Adelphi, trad. di P. Taino, pagg. 316, euro 28)

il Fatto 18.3.15
Il crollo
Non solo recessione, le crisi di un mondo senza Stati
Stato di crisi, di Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni, Einaudi
di Ste. Fel.


L’espressione chiave è “soluzioni locali a problemi globali”. Che ovviamente non si trovano. Il dialogo tra il sociologo italiano Carlo Bordoni (professore a Firenze e Pisa, blogger del Fattoquotidiano.it ) e il maestro di tutti i sociologi, Zygmunt Bauman, richiede un po’ di concentrazione. Bisogna sedersi in poltrona, spegnere il cellulare e applicarsi. Come sa chi è andato oltre le folgoranti sintesi di Bauman (la modernità liquida, la società sotto assedio, ecc.), le tesi del professore anglo-polacco non sono banali. E i frequenti rimandi di Bordoni al pensiero marxista aggiungono gravitas, pur con intuizioni brillanti come questa: se Marx ed Engels avessero scritto ora il loro manifesto avrebbero parlato dello “spettro dell’indignazione” che si aggira per l’Europa. Stato di crisi è un libro all’altezza delle sue ambizioni, cioè cogliere la natura profonda di un disagio che si declina in populismo politico, recessione economica, aridità intellettuale (vedi il dibattito sull’austerità) e convulsioni sociali. Riassumendo : gli Stati nazionali non riescono più a mantenere le promesse alla base del contratto sociale che li legittima, dalla sicurezza alla redistribuzione delle risorse alla crescita economica. I grandi flussi sono sovranazionali, la finanza e la tecnologia non conoscono frontiere, e il “soft power” della cultura neoliberista ha trasformato i cittadini in consumatori, fedeli dunque più ai prodotti che ai governi. C’è, insomma, una separazione tra potere e politica che condanna gli elettorati nazionali alla frustrazione: eleggono rappresentanti che sono costretti a fare promesse per raccogliere voti, ma non hanno poi gli strumenti per mantenerle. Sul “che fare”, come ovvio, sopraggiunge un po’ di vaghezza: Bordoni vede cittadini locali soggetti a un potere economico mondiale senza politica, tutti uguali di fronte al mercato. Uguaglianza senza democrazia. Bauman, invece, suggerisce di “disfarsi della realtà” che è dove alberga desiderio e insoddisfazione. Sembra quasi accettare la sconfitta di ogni valore diverso da quelli del consumo. E di fronte all’avanzata della cultura del mercato, forse, l’unica soluzione è arrendersi.
Nella prima edizione del libro di Thomas Hobbes, nel 1651, il Leviatano era un mostro costruito assemblando vari corpi umani, non un Frankenstein ma una struttura frattale. Quegli individui ora sono tornati a essere “sfusi”, le strutture che determinano i loro destini sono lontane, imperscrutabili.

La Stampa TuttoScienze 18.3.15
Un giorno al museo, tra gli eroi che ci hanno cambiato la vita
Si danno ormai per scontate troppe vittorie della medicina
È ora di riscoprire un passato fondamentale per il nostro futuro
di Paolo Mazzarello


Vi sono delle costanti che purtroppo si ripetono nei crocevia della storia, quando gruppi di fanatici, fautori di ideologie esclusiviste, si impadroniscono del potere. Pretendendo di possedere la verità da imporre con il ferro e con il fuoco, si preoccupano di eliminare, oltre agli esseri umani che si oppongono alle loro prevaricazioni, anche i simboli, gli oggetti, le testimonianze della molteplicità del mondo. È successo tante volte nella storia e purtroppo si verifica di nuovo in alcuni luoghi alle fonti delle civiltà del Medioriente.
Perché il pensiero totalitario ha paura della variabilità dei percorsi della storia e si pone subito l’obiettivo di fare Tabula rasa delle esperienze del passato? Quale minaccia può serbare un museo o un sito archeologico per giustificare tanta violenza?
Vincere le paure
La risposta trova le sue ragioni nell’esercizio critico della razionalità che le strutture culturali plurali diffondono. Musei, biblioteche, archivi, siti archeologici sono strumenti di conoscenza che insidiano direttamente le pretese di possedere tutta la verità. Mettendo in mostra la ricchezza delle esperienze dell’uomo e la variabilità della natura, minano le certezze infondate, abituano a ragionare senza barriere mentali, educano a guardare al mondo criticamente. Nella centralità che la scienza ha assunto nelle moderne società un ruolo educativo fondamentale è rivestito dai musei scientifico-tecnologici, vere democrazie di oggetti, di esperienze, di percorsi legati alla conoscenza della natura e dell’uomo. Le raccolte museali storico-mediche, in particolare, attraverso preparati anatomici, apparecchi scientifici e terapeutici, testi medici, pannelli e mezzi multimediali, hanno lo scopo di illustrare le immagini del corpo umano e le idee sulla salute e la malattia dall’antichità all’epoca contemporanea. Si tratta di strumenti comunicativi dal grande impatto emotivo, perché sfidano il visitatore a vincere le proprie paure nell’attraversare le barriere mentali che ogni uomo sviluppa nei confronti del dolore e della morte.
Il panorama dei musei storico-medici è ricco e variegato a livello mondiale, con istituzioni in grado di dar conto dello sviluppo della medicina nelle varie epoche, spesso con la possibilità di passare dalla fruizione passiva all’interazione, rompendo, per mezzo di esperimenti, le barriere fra oggetto esposto e osservatore. Vi sono musei più generali, dedicati alla storia della medicina in tutti i suoi aspetti e nelle varie epoche, come la Wellcome Collection di Londra, il Museo Semmelweis di Budapest e il Museo di Storia della Medicina di Roma, e musei dedicati a temi e personaggi particolari. Un caso speciale è rappresentato dall’ampia sezione di medicina del Museo per la Storia dell’Università di Pavia - vero caravanserraglio della scienza medica pavese - che costituisce un unicum nel panorama delle istituzioni museali. Formatosi negli Anni 30 del secolo scorso, possiede una ricca raccolta di preparati anatomici, strumenti scientifici e documenti che, caso unico a livello mondiale, si riferiscono sia a scoperte straordinarie sia a testimonianze sullo scopritore. Per esempio, di Camillo Golgi il visitatore potrà vedere il diploma del Nobel, accanto al microscopio, ai vetrini istologici e ai disegni che gli permisero di ottenere quel riconoscimento. E di Carlo Forlanini, oltre ad attestati biografici e fotografici, gli strumenti che resero possibile la realizzazione del «pneumotorace terapeutico», primo successo nella cura della tubercolosi polmonare e di Edoardo Porro, assieme a fotografie e strumenti chirurgici, l’utero della prima donna sottoposta all’originale intervento di parto cesareo - da lui concepito - che aumentò le possibilità di salvezza per la madre e per il bambino.
Le esposizioni museali hanno una grande funzione nel far capire meglio la medicina e nel rompere i pregiudizi con i quali, spesso, le persone affrontano i temi del corpo e della salute. Per esempio, osservare le grosse cisti ovariche esposte nel museo pavese permette immediatamente di capire quanto uno strumento come l’ecografo abbia cambiato la vita delle donne attraverso la diagnosi precoce di queste formazioni. O ancora, per mezzo di laboratori museali di microscopia, è più immediato ed emotivamente coinvolgente capire la lunga lotta compiuta da un manipolo di scienziati fra Ottocento e Novecento per giungere a dimostrare la teoria microbiologica delle malattie infettive, una delle acquisizioni che maggiormente ha contribuito a cambiare il destino degli esseri umani.
Lo spirito della ricerca
I musei scientifici, medico-biologici in particolare, possiedono una importante funzione educativa ed etica, aiutando la diffusione di una mentalità razionale, il miglior antidoto all’accettazione acritica di quanto propalato da ciarlatani di varia natura che pretendono di possedere delle vie privilegiate alla conoscenza: il caso Stamina ne è un esempio recente. Sono strumenti neurocognitivi per eccellenza al fine di capire lo spirito profondo della ricerca libera da pregiudizi e dovrebbero rivestire un ruolo didattico fondamentale nelle società basate sulla conoscenza. Non è forse un caso che i Paesi più democratici siano dotati dei migliori musei scientifici del mondo in grado di comunicare, quasi in prima persona, l’entusiasmo dell’esplorazione del mondo, della natura e della storia umana.
21 - Continua

La Stampa TuttoScienze 18.3.15
Anno 1610, quando l’uomo cambiò il mondo e con malattie e cibi ebbe inizio l’Antropocene
di Gabriele Beccaria



Siamo il cibo che mangiamo e le malattie che ci portiamo addosso. Ma c’è stato un momento della storia in cui la nostra presenza è diventata così ingombrante da trasformarsi in una forza geologica, capace di modificare il Pianeta. Questo rullo compressore corrisponde a una nuova epoca, l’Antropocene. Se il termine era stato popolarizzato dal Nobel Paul Crutzen già nel 2000, finora il debutto di questa rivoluzione era controverso: quando siamo diventati la specie invasiva che tutto altera?
Ora la risposta arriva da un team dello University College London: intorno all’anno 1610, secondo lo studio pubblicato su «Nature». Dopo aver analizzato il nostro impatto ambientale negli ultimi 50 mila anni, Simon Lewis ha individuato agli albori del XVII secolo due elementi che, insieme, sono la prova giudicata incontrovertibile: la veloce diffusione del mais in Europa e il brusco calo della CO2.
Entrambi sono tra gli effetti delle scoperte geografiche e della collisione tra Nuovo e Vecchio Mondo: un evento senza precedenti che - dicono gli scienziati - scatena l’energia di un meteorite. Mentre l’import di nuovi prodotti cambia per sempre l’agricoltura europea (come rivelano i pollini fossili), il genocidio degli indiani d’America, innescato dalle ripetute epidemie di vaiolo, mette ko le loro coltivazioni e ridà fiato alla veloce avanzata delle foreste: ecco spiegato il sorprendente fenomeno di un’atmosfera che ridiventa - ma solo per poco - più pulita.
«Specie diverse saltarono da una metà all’altra del mondo», ha osservato Lewis, che enfatizza il paradosso: se oggi l’Antropocene corrisponde al riscaldamento della Terra (e all’ennesimo Sos ambientale, come spiega uno studio apparso ieri su «Science»), i suoi albori vedono la luce in uno scenario opposto. «Ma non disperiamoci - ha osservato uno dei suoi collaboratori, Mark Maslin -. C’è un primo passo per rimediare ai nostri disastri: riconoscerli».

Corriere 18.3.15
Psicologia
Nuova ipotesi sugli attacchi di panico
A provocarli potrebbe essere una forma di paura di aver paura
Palpitazioni o vertigini, percepite come catastrofiche, causano ansia, che a sua volta le amplifica. E ciò non fa che aumentare i timori
di Danilo Di Diodoro

qui

Corriere 18.3.15
Garzonio eletto presidente degli junghiani

Marco Garzonio, presidente della Fondazione Ambrosianeum e firma nota ai lettori del «Corriere», è stato eletto alla guida del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa), società storica degli analisti junghiani in Italia, che compie il prossimo anno mezzo secolo di vita. «La psicoanalisi — ha dichiarato Garzonio — è quanto mai viva e la sua pratica capace di offrire un aiuto qualificato di fronte alle sofferenze e ai disagi della crisi». In particolare il Cipa dispone di tre sedi, collocate a Milano, Roma e Palermo, che servono diverse aree territoriali per la formazione degli psicoterapeuti. Il nuovo presidente del Centro ha sottolineato che l’Italia «ha crescente bisogno di presenze vigili, responsabili, competenti, capaci di leggere i segni dei tempi e di portare un po’ di luce sulle difficoltà delle persone».

Repubblica 18.3.15
Il gene della felicità
Gli ultimi studi nel campo delle neuroscienze mostrano che una mutazione nel cervello produce maggiori livelli della “molecola della beatitudine”, la nostra marijuana naturale Ecco perché alcune persone sono immuni da agitazione e stress
di Richard A. Friedman


È MOLTO probabile che ogni essere umano nella vita abbia sperimentato l’ansia. La maggior parte di noi, inoltre, dà per scontato che sia innescata da un fattore psicologico.
I medici specialisti, invece, da tempo sanno che un gran numero di persone vive in uno stato d’ansia anche in assenza di pericoli o stress e ignora perché si senta così. È un po’ come se soffrissero di una condizione mentale che non ha alcuna origine o significato particolare.
Una recente ricerca nel campo delle neuroscienze spiega perché potrebbe essere proprio così. Per la prima volta gli studiosi hanno dimostrato che una variazione genetica nel cervello rende alcune persone meno ansiose per natura. Questa fortunata mutazione genetica produce nel cervello livelli maggiori di anandamide, la cosiddetta molecola della “beatitudine”, la nostra “marijuana” naturale.
In sintesi, alcune persone tendono a essere meno ansiose di altre perché hanno vinto questa sorta di lotteria genetica. Per di più, coloro che hanno questa mutazione genetica potrebbero essere meno portati a diventare dipendenti dall’uso della marijuana e di altre sostanze stupefacenti, perché non hanno bisogno dell’effetto calmante.
Un paziente mi è venuto a trovare di recente dicendomi che si sentiva depresso e letargico. Mi aveva raccontato che negli ultimi quindici anni ha fatto uso di cannabis quasi tutti i giorni e che per lui «è diventato quasi un modo di vivere», perché grazie a questa pratica ogni cosa appare «più interessante » tanto che riesce ad affrontare le delusioni senza deprimersi troppo. Mi è parso subito evidente, tuttavia, che era limitato dal punto di vista cognitivo a causa dell’assunzione costante di marijuana. In pratica, anche se la cannabis lo aiuta a tenere sotto controllo l’ansia, la sua capacità di impegnarsi e lavorare bene ne risulta pregiudicata.
Esiste tuttavia un modo diverso per interpretare l’ansia del mio paziente e il conseguente uso di cannabis. Il sistema endocannabinoide, così denominato perché la sostanza attiva nella cannabis, il THC (tetraidrocannabinolo, uno più noti principi attivi della cannabis, ndt), è associata all’anandamide prodotta dal cervello, è l’obbiettivo sul quale agisce la marijuana ed è risaputo che è collegato all’ansia.
Il cannabinoide più importante presente per natura nel nostro cervello è l’anandamide, una sostanza che i nostri corpi stessi sintetizzano. Tutti abbiamo l’anandamide, ma coloro che possiedono il gene fortunato ne hanno in quantità maggiore perché, viceversa, possiedono in minore quantità un enzima denominato FAAH (idrolasi di ammide dell’acido grasso, ndt), che disattiva l’anandamide. Ed è proprio una mutazione nel gene FAAH a far sì che quantità maggiori della beatifica molecola anandamide irrorino il cervello.
Le persone che presentano la variante del gene FAAH sono dunque meno ansiose e meno portate al consumo di marijuana. Anzi: quando la fumano sperimentano un calo della sensazione di felicità.
Uno studio basato su una comunità di quasi 2100 volontari sani ha permesso di scoprire che le persone che avevano due copie del gene mutante avevano quasi la metà (11 per cento) della possibilità di diventare dipendenti dalla cannabis rispetto a chi aveva un solo gene mutante o nessuno (26 per cento).
Interessante è constatare la frequenza con la quale la benefica mutazione FAAH differisca tra i vari gruppi etnici. Secondo i dati forniti dall’HapMap, un progetto che studia le somiglianze e le differenze genetiche tra gli esseri umani, più o meno il 21 per cento degli americani di origine europea, il 14 per cento dei cinesi Han che vivono in Cina e il 45 per cento dei nigeriani yoruban presentano questa fortunata variante genetica.
Eppure: questa mutazione è semplicemente da mettere in relazione a una diminuzione dell’ansia e a una minore dipendenza dalla marijuana? Per rispondere a questa domanda, Francis S. Lee, professore di psichiatria, e la ricercatrice Iva Dincheva del Weill Cornell Medical College insieme ad alcuni colleghi dell’università di Calgary e di altri atenei, hanno prelevato la variante del gene FAAH e l’hanno inserita in cavie da laboratorio. Come era prevedibile, queste cavie “umanizzate” si sono rivelate meno ansiose. E proprio come gli esseri umani, hanno evidenziato cambiamenti simili nei circuiti neuronali coinvolti con l’ansia e la paura.
Quando il dottor Lee ha insegnato ad associare alcuni stimoli precedentemente neutri con uno negativo, quale un rumore o una scossa elettrica, tutti i soggetti — a prescindere dalla loro variante genetica — hanno appreso le associazioni mentali legate alla paura. Quando però ha insegnato ai medesimi soggetti che il segnale di pericolo era diventato sicuro, presentando più volte questo stimolo non più in abbinamento con quello negativo, i risultati sono stati sorprendenti. Sia le cavie sia gli esseri umani con le mutazioni dei cannabinoidi hanno imparato in modo più efficiente a essere impavidi.
In pratica, sembra che la natura ci abbia progettati per essere vigili nei confronti dei pericoli: tutti impariamo ad avere paura delle nuove minacce con la stessa facilità. Alcuni di noi, però, dimenticano più facilmente i pericoli corsi in passato e affrontano la vita con minore ansia.
Il fatto è che tutti ce ne andiamo in giro con un assortimento casuale di varianti genetiche che ci rendono più o meno contenti, ansiosi, depressi o propensi all’uso di sostanze stupefacenti. Alcune persone potranno rallegrarsi del fatto di scoprire di avere una va- riante genetica che li predispone a essere più ansiosi, anche se per il momento non esiste una soluzione ad hoc. Il mio paziente ha tratto beneficio dall’assunzione di antidepressivi e dalla meditazione. Ma farmaci psicotropi, terapie e tecniche di rilassamento non giovano a tutti. Che cosa c’è di male, dunque, nell’utilizzare la marijuana nel trattamento dell’ansia?
Il problema è che la cannabis prende il sopravvento sul sistema cannabinoide del cervello e il suo utilizzo cronico può alleviare l’ansia ma anche interferire sull’apprendimento e la memoria. Ciò che servirebbe davvero sarebbe una sostanza in grado di aumentare l’anandamide — la molecola della beatitudine — di coloro che sono geneticamente svantaggiati. Per vedere quali saranno gli sviluppi, restate sintonizzati.
(Traduzione di Anna Bissanti. © 2-015, The New York Times)