il Fatto 20.3.15
La verità di Barca sul Pd pericoloso
di Antonio Padellaro
“Provace a veni’ qui che poi vedemo”. Oppure: “Ho da fare fino a primavera”. Sono alcune risposte dei capibastone del Pd romano a Fabrizio Barca, incaricato dal commissario Matteo Orfini di redigere il rapporto che definisce il sistema di potere dei Dem capitolini “non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso”. Non era mai accaduto che un esponente di partito denunciasse con tanto coraggio il marcio esistente nel suo stesso partito, soprattutto quando si parla di una sinistra che ha sempre fatto pesare la sua molto presunta “superiorità morale”. Tipico di Barca. Lo ricordo qualche anno fa, a L’Aquila, in una caldissima giornata estiva, rispondere per ore in piazza del Duomo alle proteste dei tanti cittadini esasperati dall’abbandono post-terremoto. Il sole picchiava, ma l’allora ministro della Coesione territoriale di Monti restò fino alla fine perché, ci fece capire, non c’è fatica che tenga quando si rappresenta lo Stato. Chissà quante altre eccellenze avrebbero mollato tutto alla prima gocciolina di sudore. Non ebbi più occasione di sentirlo fino al febbraio 2014, quando di lui si parlava come possibile ministro di Renzi. Poi la telefonata con il finto Vendola alla La Zanzara, dove Barca definiva ciò che si muoveva attorno al Matteo nascente “avventurismo senza idee”, bruciò la poltrona che neppure voleva. In politica, si sa, la verità ha un prezzo salatissimo. Ecco di che pasta è fatto Barca. Ecco perché il Pd “pericoloso e dannoso” può fare a meno di lui.
il Fatto 20.3.15
Quale Caritas
Sposetti sistema l’ex deputato
In una breve intervista a Repubblica, Ugo Sposetti, già tesoriere dei Ds, finito nelle spire dell’indagine sul superdirigente Incalza, giustificava una propria raccomandazione all’amico Giulio Burchi, manager pubblico indagato in quell’inchiesta: “Ho solo provato a dare una mano, a rendermi un po’ utile. Un po’ come fa la Caritas”. Purtroppo per Sposetti alla fine le intercettazioni sono uscite. Ugo “Caritas” Sposetti chiama a dicembre Burchi per segnalargli “tal Marchignoli”. Burchi si impegna “lo metto in una società”. C’è però un problema. Massimo Marchignoli non ha un curriculum adeguato. Senza una laurea non può essere inserito nel collegio sindacale di una società. Marchignoli, già sindaco di Imola e deputato Pd nella scorsa legislatura (peraltro tra i più presenti in aula) è funzionario di partito. Ha un diploma. Burchi (che spera di essere portato alla guida di Terna) chiama Sposetti per informarlo. Il nostro non si dà per vinto. E il giorno dopo richiama: “Lì dove ci vuole la laurea perché non ci mettiamo Luciano?”.
Corriere 20.3.15
«Gli indagati pd? Decidiamo di volta in volta»
ROMA «Era inevitabile. Però va riconosciuto a Lupi il merito di aver compiuto un atto di sensibilità e responsabilità. Ed è un bene che tutto sia avvenuto senza bisogno di un passaggio parlamentare». Miguel Gotor, della minoranza pd, apprezza la decisione di Maurizio Lupi (Ncd) di dimettersi da guida del ministero delle Infrastrutture.
Però nel Pd avete 4 sottosegretari indagati che non si dimettono: Barracciu, Del Basso, De Caro e De Filippo.
«Il caso Lupi non ha un profilo giudiziario, era una questione di opportunità: un ministro che si trova a imporre ai suoi funzionari un codice etico che viene disatteso dai propri familiari… C’è un problema di credibilità, di autorevolezza, di possibile ricattabilità».
Il profilo giudiziario non è grave?
«I sottosegretari hanno responsabilità ben diverse da quelle di chi guida un dicastero che tratta appalti importantissimi. E poi io non ho mai avuto un atteggiamento giustizialista: prima dell’ultimo grado di giudizio, per me vale sempre la presunzione di innocenza».
Non deve esistere una regola per tutti?
«La valutazione deve essere politica. Dipende dal tipo di comportamento, va visto di volta in volta, ma l’asticella deve essere alta».
E la vostra candidatura di De Luca a presidente della Campania? Condanna in primo grado per abuso di ufficio e rischio di sospensione in base alla Severino.
«C’è un problema, sì. Il Pd ha un codice etico che non è stato automaticamente adeguato alla norma come, invece, avrebbe dovuto essere. C’è stata un’omissione di vigilanza da parte della segreteria nazionale, di cui De Luca, che gode di grande consenso, ha saputo approfittare».
Daria Gorodisky
Il Giornale 20.3.15
Da Sposetti a Delrio le chiacchiere di Burchi svelano le trame rosse e inguaiano mezzo Pd
L'ex presidente Italferr, indagato, parla a raffica: i versamenti all'ex tesoriere Ds, le nomine nei Cda, le raccomandazioni. E l'amicizia col sottosegretario
di Massimo Malpica, Patricia Tagliaferri -
qui
La Stampa 20.3.15
Ma sulla corruzione la battaglia è appena agli inizi
di Federico Geremicca
Con l’onore delle armi al ministro che se ne va, si chiude – nei tempi giusti e col minor danno possibile – l’ennesima brutta storia italiana. I nuovi particolari che andavano emergendo dall’inchiesta sulle Grandi Opere e il clima che montava intorno a lui, hanno convinto Maurizio Lupi a gettare la spugna. Può anche essere – come lo stesso ministro ieri ha assicurato – che il premier non gli avesse chiesto le dimissioni: ma certo Renzi non ha speso una parola in sua difesa, e la scelta di lasciare il ministero – dunque – sembra saggia, oltre che inevitabile.
Così, nel giro di pochissimi giorni, il governo si è tirato fuori da una vicenda che – se non fosse stata chiusa nel modo in cui è stata chiusa – avrebbe rischiato di trasformarsi in un handicap non da nulla sul piano della credibilità e della coerenza tra parole e fatti. E’ stata, al contrario, compiuta la scelta giusta. E il merito della soluzione di questa triste vicenda va naturalmente dato all’uomo al quale – nel caso di una scelta diversa – sarebbe stato riservato il grosso delle critiche e delle contestazioni: e cioè Matteo Renzi.
Intendiamoci, la via era quasi obbligata: ma c’era modo e modo di percorrerla. Tanto sul piano del senso comune, infatti, quanto su quello dei rapporti politici, tentare di mantenere Lupi al suo posto si sarebbe rivelato difficilissimo, oltre che un errore. Il presidente del Consiglio è però riuscito ad ottenere che la soluzione giusta maturasse evitando crisi di governo, tensioni sostanzialmente inutili e soprattutto l’apertura di un altro «fronte di guerra» dentro il Pd, che difficilmente sarebbe rimasto compatto nel voto sulla mozione di sfiducia a Lupi in caso di indicazioni di «salvataggio» da parte del governo.
Il caso può dunque considerarsi chiuso nel modo migliore: ma sarebbe enormemente sbagliato, per il governo, archiviarlo semplicemente come un «pericolo scampato». Il pericolo non è scampato per nulla, infatti: e l’inchiesta fiorentina testimonia come il fenomeno della corruzione sia tuttora dilagante, nonostante il moltiplicarsi delle strutture di controllo e l’appesantirsi delle pene. Il faro acceso su Ercole Incalza – uno dei più potenti e longevi «burocrati di Stato» – deve insomma spingere l’esecutivo a raddoppiare l’impegno sul fronte anti-corruzione, pena il passare da uno scandalo all’altro senza soluzione di continuità.
In questo senso, non saranno affatto irrilevanti le decisioni che il premier assumerà a proposito della sostituzione di Maurizio Lupi e della ventilata riorganizzazione del delicatissimo ministero delle Infrastrutture. Si sussurra di nomi di assoluta garanzia (Raffaele Cantone) e di uno smembramento del dicastero. Si vedrà. Le scelte che verranno compiute e i segnali che verranno lanciati avranno però grande importanza: sia sul fronte dell’efficienza e della «pulizia» del ministero, naturalmente, sia su quello del consenso e della fiducia dell’opinione pubblica. Consenso e fiducia decisivi per il governo in una fase che si conferma più delicata che mai.
La Stampa 20.3.15
Un terzo delle Pmi ha pagato tangenti
Meno del 10% denuncia
di Roberto Giovannini
Non solo bustarelle. Ma posti di lavoro per figli e nipoti, agevolazioni, ristrutturazioni gratuite di appartamenti privati. Vale per i grandi appalti ma anche per le commesse delle piccole e medie imprese: secondo un’indagine dell’«Adnkronos», il 35% delle Pmi interpellate tramite diverse associazioni d’impresa, circa mille distribuite su tutto il territorio nazionale, ammette di aver pagato una tangente, sotto una qualsiasi forma. E tra le imprese che ammettono di aver praticato la corruzione 3 su 4 indicano forme «alternative» al tradizionale pagamento in denaro.
Misure inevitabili per ottenere il timbro giusto o anche, semplicemente, per accedere a una commessa, visto che più della metà delle imprese interpellate (51%) sostiene di aver rifiutato almeno una richiesta di denaro per concludere un affare nel corso dell’ultimo anno. Altrettanto allarmante il dato che riguarda le mancate denunce: delle imprese che hanno ricevuto richieste di denaro, meno del 10% si è rivolta alle forze dell’ordine. Chiara, dunque, la rassegnazione degli imprenditori di fronte a quello che viene percepito come un «sistema consolidato»: il 55% delle imprese interpellate pensa che le proprie possibilità di chiudere affari sia influenzata da tangenti pagate da altri.
E l’evasione fiscale resta in Italia ancora a livelli «estremamente alti, troppo alti», secondo il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi; ma i continui sforzi nella lotta al sommerso starebbero dando qualche risultato. Nel 2014, infatti, l’incasso recuperato dalle attività in nero è salito a 14,2 miliardi, oltre un miliardo in più rispetto al 2013. «Un traguardo mai raggiunto prima», dice Orlandi, alle prese con la sentenza della Consulta che ha trasformato in illegittime le nomine di tantissimi dirigenti. Per ridurre l’evasione, Orlandi punta «sulla collaborazione tra fisco e contribuente», considerata parte essenziale della strategia fiscale del governo. Lotta incisiva contro i fenomeni fraudolenti e cooperazione camminano di pari passo e a dimostrarlo sono i dati 2014: in un triennio i ricorsi fiscali sono stati quasi dimezzati grazie alla mediazione, passando dai 171 mila del 2011 ai 90 mila del 2014. Lo scorso anno sono stati inoltre rimborsati 13 miliardi di euro a 3 milioni di cittadini e imprese. E quest’anno parte il 730 precompilato.
il Fatto 20.3.15
Anticorruzione: in aula con il trucco prenditempo
di Antonella Mascali
PARTE AL SENATO LA DISCUSSIONE, MA L’EMENDAMENTO DI PALAZZO CHIGI È AGGANCIATO A UNA LEGGE NON ANCORA IN GAZZETTA UFFICIALE
Dopo ben due anni è approdato in aula a Palazzo Madama il disegno di legge anticorruzione, a firma del presidente del Senato Pietro Grasso.
Ma ci sono dietro almeno un paio di beffe.
La prima è sicuramente che il testo originario è stato stravolto al ribasso con emendamenti e stralci che hanno spuntato le armi contro i corruttori e i riciclatori, la seconda beffa è che si rischia un voto non valido se ci sarà prima del 2 aprile. Un emendamento del ministro della Giustizia Andrea Orlando, approvato in commissione Giustizia, sul falso in bilancio, si aggancia alla legge sulla tenuità del fatto che non è ancora effettiva: il governo a quanto pare si è dimenticato di scrivere sulla Gazzetta Ufficiale che sarebbe entrata in vigore dal giorno dopo. Invece lo sarà dal 2 aprile, dopo i canonici 15 giorni.
Il testo sul falso in bilancio, di grande manica larga con il 98% delle società che in Italia non sono quotate in Borsa (non si possono fare intercettazioni perché le pene non superano i 5 anni, prescrizione garantita) prevede anche che per le stesse società non quotate potrà essere applicata la non punibilità per particolare tenuità del fatto quando il danno per le modalità della condotta e le caratteristiche dell’autore è stato di limitata offensività. Nello stesso emendamento viene anche prevista la pena da 6 mesi a 3 anni per colpire i fatti di “lieve entità”.
UN PROBLEMA che “poteva essere risolto”, ci dice il senatore Enrico Cappelletti di M5s, “se fosse stato approvato un subemendamento di Forza Italia che avrebbe superato quello del governo e prevedeva la non punibilità per le società non quotate se il fatto è conseguenza di valutazioni estimative che singolarmente considerate differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta. Ma Forza Italia l’ha ritirato poco prima di votarlo. M5s l’ha fatto proprio ed è stato bocciato. E ora in aula si dovrà sciogliere il nodo della validità”.
Su questo punto è furente anche il capogruppo al Senato di M5s, Andrea Cioffi: “ Il governo Renzi rischia di ritardare l’esame in aula della legge di almeno 15 giorni. Vedremo se il capogruppo del Pd Zanda riuscirà a fermare l’auto ostruzionismo del governo”. Ancora Cappelletti evidenzia che del testo Grasso è rimasto ben poco, o nulla: “La Legge Grasso prevedeva, per esempio, il mantenimento delle pene per voto di scambio dai 7 ai 12 anni, maggioranza e governo hanno votato una legge meno efficace e con pene ridotte così come hanno votato una normativa sull’autoriclaggio che esclude il reato se si fanno attività di riciclaggio per acquisire beni per fini personali”.
IERI POMERIGGIO alle 17:30, in un aula semi deserta, il relatore Nino D’Ascola ha dichiarato che “C’è una chiara connessione tra i delitti contro la Pubblica amministrazione e quelli delle false comunicazioni sociali, volte a creare quel ‘nero’ utile anche per il pagamento delle tangenti”. Secondo D’Ascola “è un testo che si fa carico di questi problemi”.
Il presidente del Senato Grasso, con riferimento a un battibecco con il forzista Nitto Palma, presidente della Commissione Giustizia, ai giornalisti che gli chiedevano un commento sull’incardinamento della legge in aula ha risposto: “Che sia un Alleluja o un ‘evviva’, ciascuno esulti come ritiene. Il disegno di legge è arrivato in aula: era ora. Un passo importante per un cammino ancora lungo”.
Lunedì alle 13 scadono i termini per presentare emendamenti. Da martedì riprenderà la discussione e già Forza Italia annuncia che presenterà una “questione pregiudiziale”. Come se non si fosse perso già abbastanza tempo e l’Italia non fosse sommersa dalla corruzione.
il Fatto 20.3.15
Vitalizi ai condannati: nuovo rinvio
DOVEVA ARRIVARE in aula il prossimo mercoledì. Invece per lo stop ai vitalizi ai condannati arriva un nuovo, l’ennesimo, rinvio.
Lo denuncia Laura Bottici, questore al Senato in quota M5S: “I Questori del Senato hanno riferito di aver consultato i capigruppo di Palazzo Madama che hanno fatto richiesta (a esclusione del Movimento 5 Stelle che si è detto contrario) di acquisire ulteriori due pareri: quello di Cassese e Luciani”. E poi ci sarà da attendere ancora. “Il presidente Grasso aveva richiesto al Questore anziano di poter cambiare un nome con uno a sua scelta - continua la Bottici - gli hanno risposto picche e quindi Grasso si riserverà di chiedere un parere a chi vuole lui”.
La riunione è riaggiornata al 26 marzo, il giorno dopo la prevista votazione. “Comprendo la difficoltà di prendere una decisione da parte dei colleghi quando si tratta di toccare gli interessi dei loro amici - conclude la Bottici - a questo punto non si può più rimandare. Si fissi una data e, pareri o non pareri, la si rispetti e si decida una volta per tutte”.
il Fatto 20.3.15
Semestre Ue, la solita Italia: niente gare, si fa tra amici
Un solo bando su 58 contratti stipulati nei sei mesi di presidenza
di Alessio Schiesari
PER IL RESTO SONO AFFIDAMENTI DIRETTI E CONSULENZE AI PENSIONATI
Cinquantotto contratti e una sola gara d’appalto, quella per l’unica fornitura gratuita. È questo il bilancio dei lavori commissionati dal ministero degli Esteri per il Semestre italiano di presidenza Ue, finito i il 31 dicembre scorso. Ben 52 contratti su 58 sono stati concessi con affidamento diretto (i restanti con convenzione). Il ministero decide chi invitare a presentare l’offerta e, sulla base di una ristretta rosa di partecipanti, affida la fornitura, senza gara di appalto.
SE DAL PUNTO DI VISTA politico il bilancio della presidenza è stato piuttosto magro, quello relativo all’organizzazione è invece positivo, almeno per le aziende che sono state scelte, a totale discrezione del ministero, per le forniture. Il catering a Roma, ad esempio, è stato monopolizzato da Triumph group: cinque appalti per un valore totale di 1 milione 7.692 euro. Il nome della presidente Maria Criscuolo è balzato alle cronache nel settembre di due anni fa, quando decise di celebrare in modo speciale il suo compleanno. Fece aprire il Mitreo all’interno delle Terme di Caracalla a Roma, uno spazio inaccessibile ai comuni mortali, per festeggiare il lieto evento insieme a una nutrita rappresentanza del governo Monti (Elsa Fornero, Filippo Patroni Griffi e la moglie dell’allora premier, Elsa Monti). Ai sorrisi di Triumph corrisponde la delusione di Relais le Jardin, l’azienda del genero di Gianni Letta, altra sempre presente quando a decidere chi lavora è la politica. Per loro un solo appalto da 52.853 euro. Ma il Semestre italiano sarà ricordato soprattutto per le cravatte e i foulard di seta, di rigorosa “produzione italiana” precisa il ministero. Per il dono ufficiale del Semestre sono stati spesi un milione 336 mila euro scaglionati in tre affidamenti diversi, anche se, specifica la Farnesina, uno dei tre lotti era comprensivo anche di “matite legno/grafite” e “penne biro in materiale plastico riciclato”. Il più piccolo dei tre contratti, quello da 68.680 euro, è stato affidato alla Sve. ti. a. di Maurizio Talarico, lo stesso che vestiva Romano Prodi e Silvio Berlusconi.
Va dato merito alla Farnesina di non avere inseguito un evento faraonico: in totale per il Semestre sono stati spesi 30,24 milioni di euro, meno dei 34 stanziati dal governo Berlusconi nel 2003 e, soprattutto, una cifra considerevolmente inferiore ai 56 previsti dalla legge di Stabilità. Le buone notizie però si fermano alla spending review, perché organizzare un evento del genere utilizzando le gare d’appalto solo per selezionare lo sponsor (ha vinto Fiat, che ha messo a disposizione quaranta 500L, una Panda e nove Ducato), è quantomeno singolare. Per evitare la procedura standard, quella che consentirebbe a tutti i soggetti interessati di concorrere alla fornitura, la legge (il decreto 163 del 2006) prevede tre fattispecie: si può realizzare un affidamento diretto quando in una precedente gara d’appalto non è stata presentata alcuna offerta, per ragioni artistiche o tecniche, quando vi è un’estrema urgenza.
Per il ministero degli Esteri il massiccio ricorso agli affidamenti diretti è stato giustificato proprio dall’urgenza dell’evento, che ha colto di sorpresa il governo nonostante fosse in programma da un decennio. “Il tempo restante fra il momento dell’effettiva disponibilità dei fondi 2014 (fine gennaio) e l’inizio delle attività del Semestre rendeva difficile adottare procedure aperte o ristrette con previa pubblicazione di bando di gara. Il ricorso alla procedura negoziata ha consentito di rispettare i tempi imposti dal calendario”. Tradotto dal burocratichese, i soldi sono arrivati tardi.
Non va meglio sul fronte delle consulenze. Nonostante gli oltre 400 diplomatici in servizio a Roma, la Farnesina ha speso 213.935 euro per quattro consulenze, tutte assegnate ad ambasciatori in pensione. La più corposa, 90.936 euro per il cerimoniale, è stata affidata a Leonardo Visconti di Modrone. Un esperto che sulla materia ha pubblicato Consuetudini di Cerimoniale Diplomatico. E, a proposito di nomi che ritornano, il tomo è edito dalla Tipolitografia Vitaliano Calenne, che per il Semestre ha ricevuto un affidamento diretto da oltre 339 mila euro.
Un’altra consulenza da 41 mila euro è andata all’ambasciatore in pensione Gianpaolo Arpe-sella per coordinare i responsabili all’accoglienza: 75 contratti a termine costati oltre 969 mila euro. E, anche loro, selezionati senza concorso pubblico.
Repubblica 20.3.15
Quel passo lento sui diritti civili
di Piero Ignazi
IL PARLAMENTO francese ha appena adottato una legge sul fine vita attraverso una “sedazione profonda e continua” di malati in fase terminale che avevano lasciato precise indicazioni in merito. In Italia se ne parla da tempo ma nulla si muove. Il riformismo renziano sembra infatti procedere con due diverse velocità. Sul piano istituzionale e su alcuni aspetti socioeconomici esprime una forza propulsiva molto forte. Anzi, a volte si muove a passo di carica, usando ogni accorgimento, dal canguro alla tagliola, pur di arrivare in tempi brevi alla approvazione. Sul piano dei diritti civili, invece, si sconta una certa sedentarietà.
Il matrimonio omosessuale, le adozioni monoparentali, un effettivo diritto all’interruzione di gravidanza, il fine vita, la libera somministrazione della pillola del giorno dopo (Ru486) e di cinque giorni dopo (EllaOne), il diritto di cittadinanza rimangono indietro. Soprattutto non hanno centralità nel dibattito politico. Anche la questione del divorzio breve, approvato al Senato alcuni giorni fa, ha scontato una resistenza passiva al limite dell’ostruzionismo da parte degli stessi esponenti del partito della maggioranza pur di evitare uno snellimento radicale delle procedure. La componente cattolica del Pd si è imputata a “difendere la famiglia”, utilizzando una espressione che si pensava appannaggio della destra tartufesca, quella che sfilava in piazza durante il family day, nonostante tutti i leader del centrodestra fossero divorziati. In questi casi viene invocata la libertà di coscienza, come se i diritti civili fossero un problema soggetto alla sensibilità etica. Ovviamente si possono avere opinioni diverse ma non le si può utilizzare per limitare i diritti di chi la pensa diversamente e chiede riconoscimenti che non violano la libertà di nessuno.
Il problema rimanda alla cultura politica prevalente nella classe politica nazionale e alla sua sintonia con l’opinione pubblica. Il caso Englaro fu una cartina di tornasole drammatica della distanza siderale che separava il “Paese legale da quello reale”, per usare una vecchia formula. In quella circostanza sembrava di essere tornati agli anni Settanta quando la Dc sfidava sicura e arrogante un tremebondo Pci sul referendum sul divorzio pensando di vivere in Paese ancora clericale. E invece, come allora, anche nella drammatica vicenda Englaro, la maggioranza degli italiani stava dalla parte di coloro che vennero definiti in pieno Parlamento “assassini”.
Quelle punte esasperate ora non risuonano più ma la maggioranza di governo — anche, ma non solo, per la presenza dell’Ncd — non sembra intenzionata ad imprimere un passo svelto a questa agenda. È di pochi giorni fa la restrizione imposta all’assunzione della cosiddetta pillola dei cinque giorni: mentre la Commissione europea ha dato il via libera all’acquisto senza prescrizione medica, il nostro ministro della Salute ha imposto l’obbligo della ricetta «per evitare effetti collaterali ». Ottima precauzione, ma chissà perché negli altri Paesi non la considerino necessaria.
Questo esempio, come gli altri ritardi — il 12 marzo il Parlamento europeo ha votato la relazione annuale sui diritti umani in cui si invitano tutti i Paesi, e quindi anche l’Italia, a riconoscere le unioni civili tra persone dello stesso sesso — dimostrano un perdurante deficit di cultura politica laica nel Parlamento. Del resto, il Pd non ha mai brillato per posizioni avanzate su questo terreno. Risente ancora del peso sulle ali depositato dalla tradizione cattolica, prudente e a volte neghittosa sul fronte dei diritti civili, soprattutto se connessi alla sfera della sessualità, e da quella comunista, anch’essa per lungo tempo estranea a questi temi.
Così, è rimasto poco spazio per la promozione dei civil rights . Non per nulla sono i sindaci più sbilanciati verso posizioni laiche, da Ignazio Marino a Giuliano Pisapia, ad aver sfidato l’inerzia legislativa celebrando nozze gay (e incorrendo nei fulmini del ministro dell’Interno Angelino Alfano). Eppure, proprio la nuova classe dirigente oggi al timone del Pd, essendo, virtualmente, più in linea con la modernità e la postmodernità, non dovrebbe aver timori o remore ad aprire le finestre. In fondo, il presidente del Consiglio ha tenuto un profilo “laico”: non è corso in Vaticano appena nominato premier, non ha ostentato frequentazioni con prelati, non ha mai fatto riferimenti impropri alla religione. Abbandoni allora timidezze e imponga un altro ritmo a tutto il carnet dormiente dei diritti civili.
il Fatto 20.3.15
Expo
La famosa invasione dei cinesi a Milano
di Gianni Barbacetto
I CONTI di Expo non tornano. Non parliamo di soldi e bilanci, ma di cinesi. Sì, perché nelle mirabolanti previsioni del successo planetario di Expo 2015, si è annunciato che per l’esposizione universale arriveranno a Milano 20 milioni di visitatori, tra cui 2 milioni di cinesi. Poi, per paura di essersi fatti prendere la mano dall’entusiasmo, le cifre sono state un po’ ridimensionate: i visitatori saranno 12 milioni, tra cui 1 milione di cinesi. Ma proviamo a fare i conti. L’Expo dura sei mesi, cioè 180 giorni. Se in sei mesi i cinesi arrivati saranno 1 milione, significa che ne sbarcheranno a Milano 5.555 al giorno. Vuol dire 20 aerei al giorno di soli cinesi per portarli e altrettanti per farli tornare in patria, 40 aerei al giorno.
Consideriamo pure che la metà dei cinesi arrivi dalla Cina sbarcando in altre città d’Italia e d’Europa, per fare un tour più ampio di quello del solo sito di Rho-Pero, e che poi raggiunga Milano in bus o in treno. Restano pur sempre 2.700 cinesi ogni giorno, per sei mesi, che devono sbarcare a Li-nate o a Malpensa: almeno 10 aerei al giorno Pechino-Milano, o Shanghai-Milano, e altri 10 sulla rotta opposta. Faccio fatica a immaginare la scena. Ma se andrà così, val la pena di fondare subito una compagnia aerea dedicata.
Se poi ai cinesi uniamo tutti gli altri stranieri attesi, l’affare si fa ancor più complicato. Almeno la metà dei 12 milioni ipotizzati potrebbero arrivare in aereo: 6 milioni di persone, più di 30 mila al giorno. Vuol dire 120 voli in più ogni giorno in arrivo e altrettanti in partenza. Ma è possibile?
Non oso poi pensare l’impatto dei previsti 12 milioni sulle strade milanesi, sui taxi, sugli autobus, sui tram, sul metrò. Anche perché chi vorrà visitare l’Expo ci andrà preferibilmente la mattina e ne uscirà la sera tardi, per passarci un po’ di ore e ammortizzare il costo del biglietto (non proprio a buon mercato). Vuol dire che in città si muoveranno in media oltre 60 mila persone al giorno in più rispetto alla popolazione normale. Un po’ meno nei giorni feriali, molti di più il sabato e la domenica. E prevedibilmente i movimenti saranno concentrati al mattino subito dopo l’apertura (in andata), e la sera a ridosso della chiusura (al ritorno).
Decine di migliaia di persone in più, rispetto agli utenti abituali, che useranno auto, bus e mezzi pubblici. Un ingorgo programmato permanente. Quasi quasi agli organizzatori (e ai gestori di servizi, dai trasporti ai ristoranti) conviene sperare che i visitatori siano molti meno del previsto, per evitare di bloccare tutto o collassare il sistema.
COME ANDRÀ? Comunque vada, sarà un successo. Ne sono convinto, alla faccia dei gufi. Chi mai dirà che le cose non sono andate secondo le previsioni?
A nessuno conviene dichiarare il flop. Il grande circo si metterà in moto, magari con qualche ritardo e larghe aree non finite. I molti lavori in corso anche dopo il 1 maggio saranno nascosti dalle “quinte di camouflage”, come previsto da una gara (da 1 milione e 100 mila euro) per mascherare i ritardi. E i milanesi vivranno per sei mesi immersi nell’aria frizzante e internazionale del “fuori salone”, come succede ogni anno nella settimana del Salone del mobile. Magari all’Expo non ci andranno nemmeno, ma potranno frequentare aperitivi, feste, eventi, manifestazioni, mostre, esibizioni, happening, concerti e auto in doppia fila. Ci sarà da divertirsi, qualche soldo arriverà dai visitatori, cresceranno i seguaci di Airbnb (affittare la propria casa ai turisti e andare a vivere dalla fidanzata o dai parenti). Forse non si nutrirà il pianeta, ma un po’ di energia alla vita dei milanesi, chissà, potrà arrivare.
La Stampa 20.3.15
Medici con la valigia in mano
6 mila i medici ospedalieri che mancano in corsia per colpa del blocco delle assunzioni
Per fuggire al precariato solo l’anno scorso 2.363 hanno scelto di emigrare
Il sindacato scrive a Renzi: valiamo come azioni Lehman Brothers nel 2008
di Paolo Russo
Medico, con una vita da precario. O da immigrato. «Messi in regola» quando comincia a spuntare qualche capello bianco, con un contratto scaduto da 4 anni che gli ha già fatto perdere 30mila euro di potere d’acquisto, costretti a turni massacranti per fare anche la parte di chi è andato in pensione e non sostituito. E sempre più spesso con la valigia in mano. I medici ospedalieri del sindacato Anaao, il più forte della categoria, hanno scritto una lettera aperta al premier e denunciato «la svalutazione del capitale umano in sanità». Che «dopo le cure dei governi che la hanno preceduto, oggi vale quanto le azioni della Lehman Brothers dopo il 15 settembre 2008», scrive il segretario nazionale Costantino Troise. E i numeri gli danno ragione. Dal 2009, anno di avvio del blocco delle assunzioni, sono circa seimila i camici bianchi che mancano in corsia. Dove le spending review hanno tagliato all’osso anche i posti letto, 4,7 ogni mille abitanti 12 anni fa e ora solo 3,4. La media Ocse che è di 4,8. Se a questo si aggiunge che circa 9mila di quei letti sono scarsamente utilizzati in reparti da chiudere o riaccorpare, ecco spiegati i turni massacranti e le barelle nei corridoi del pronto soccorso.
«Non si salvano da questa deriva neppure le risorse fresche», ricordano ancora i camici bianchi al premier. Ogni anno in 10mila conquistano la laurea in medicina, ma la metà di loro resta fuori dalle scuole di specializzazione che ne accolgono solo 5mila. Per tutti ci sono lunghi anni di precariato davanti. Oramai un medico diventa «stabile» in ospedale intorno ai 37 anni, alcuni anche dopo i 40. E allora ecco che monta la voglia di andarsene dove «fare il medico» vuol dire ancora prestigio e benessere. A fare la valigia erano in 400 nel 2009, 2363 lo scorso anno. Significa regalare all’estero 150 mila euro di formazione spesi in Italia per ciascun dottore. E’ alla firma di Renzi un decreto che consentirà di stabilizzarne un po’. «Un provvedimento insufficiente, perché potrà riguardare un numero limitato di personale ed esclude tutti i contratti atipici. Senza contare l’ostacolo del blocco del turn over», spiega il segretario nazionale Cgil medici, Massimo Cozza. Le Regioni propongono di assumere anche chi la specializzazione non ce l’ha, ma senza contratto da dirigenti. Una scorciatoia che fa storcere il naso ai sindacati.
La Stampa 20.3.15
Niente anestesisti, interventi annullati
di Flavia Amabile
Mancano gli anestesisti e gli ospedali italiani ricorrono a mille espedienti per non far chiudere le sale operatorie. L’ultima denuncia arriva da Napoli dove al Policlinico si deve ricorrere alla collaborazione di una decina di medici convenzionati, provenienti dall’Asl, retribuiti a circa 58 euro l’ora, almeno il doppio di quanto si spenderebbe con medici interni.
Il problema riguarda tutta l’Italia. A febbraio sono state sospese le operazioni all’ospedale Goretti di Latina, annullando gli interventi in programma e mettendo in attesa persino un paziente con tumore cerebrale. A dicembre stesso problema si è registrato al San Camillo a Roma e a Vittoria in provincia di Ragusa.
«Al Policlinico a Napoli ci sarebbe bisogno di altri 10 anestesisti a tempo indeterminato. Perché non assumere? Ci sono tanti bravi anestesisti disoccupati», chiede Antonio Alfano, dirigente sindacale Usb del Policlinico.
A dare un’idea di quanto sia grave il problema è la Aaroi-Emac, associazione che rappresenta la categoria: gli anestesisti-rianimatori italiani che lavorano nel Servizio sanitario nazionale sono circa 11 mila, ma ne servirebbero 3-4mila in più. «A spiegare la carenza sono i turni, la insostituibilità degli anestesisti a differenza di altre equipe di specialisti, e i nuovi Lea», spiega Alessandro Vergallo, presidente dell’associazione.
«Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad una crescita esponenziale del ricorso alle cooperative esterne - prosegue Vergallo -che pagano il lavoro degli anestesisti 7-8 euro nette l’ora, meno di una colf». Oppure le aziende ospedaliere iniziano ad assumere in modo diretto oppure inquadrano gli anestesisti come specialisti ambulatoriali anche se la loro attività si svolge in sala chirurgica. «E’ un modo per aggirare i divieti alle assunzioni imposti dai piani di rientro delle regioni».
Nel frattempo il governo ha annunciato che saranno gli specializzandi in medicina ad andare a colmare i vuoti nelle sale operatorie. Una soluzione che non convince del tutto gli anestesisti. «Stiamo elaborando una proposta, gli specializzandi da soli non bastano».
il Fatto 20.3.15
Chiesa e politica, cambia il vento
di Marco Politi
Qualcosa di profondo è mutato, con l’avvento di papa Francesco, nei rapporti tra Chiesa e politica. Non ci sono più partiti amici a priori, è finita l’epoca dei politici protetti a prescindere a causa della loro etichetta cristiana e non funziona nemmeno l’occhio di riguardo in cambio di una somma a favore delle scuole private cattoliche.
Il vento mutato si era già avvertito con il secco altolà dell’Avvenire e di mons, Galantino, segretario della Cei, alle manifestazioni di plauso per l’assoluzione di Berlusconi al processo Ruby. La linea nuova si è manifestata anche adesso in occasione dello scandalo che ha travolto il ministro Lupi. L’abbraccio fotografico di Paola Bi-netti al Maurizio amico di Comunione di liberazione (la Binetti sempre così rigida sui principi etici “non negoziabili” e improvvisamente distratta di fronte al miserando cocktail di lavori e favori opachi, Rolex regalati, abiti pagati, biglietti aerei gratis totalmente immotivati) può apparire su qualche quotidiano d’informazione, ma non trova posto sul giornale dei vescovi.
Il mondo ecclesiastico è un universo fatto di segni e sfumature. E allora salta immediatamente agli occhi che l’Avvenire giovedì abbia dedicato alla vicenda non commenti difensivi, bensì un pezzo intitolato “Lupi resta. Ma sale il pressing dimissioni”. Articolo sovrastato da piccole finestre di interventi politici tutti con il pollice verso nei confronti delle porcherie emerse. Con Giorgia Meloni che chiede di “sfiduciare il governo”. Zanetti di Scelta Civica che ricorda come la vicenda vada giudicata con il metro di “opportunità etica e politica”. E la Camus-so che richiama la necessità di una linea precisa su politici e inchieste “senza lasciare ai singoli la decisione”.
A nessuno è sfuggito l’intervento immediato del cardinale Bagnasco, che allo scoppio dello scandalo ha invocato una rivolta degli indignati. Chi conosce la cura che il presidente della Cei dedica al peso di ogni sillaba, ha compreso immediatamente che il porporato ha dato voce a quel mondo cattolico quotidiano, disgustato ed esasperato dall’infinita abbuffata della casta politico-lobbista incurante dello sperpero dei soldi pubblici, mentre la crisi morde le carni della popolazione. “Il popolo degli onesti
– ha scandito Bagnasco – deve assolutamente reagire senza deprimersi… anche protestando nei modi corretti contro questo ‘mal esempio’ che sembra essere un regime”. Dove l’espressione popolo degli onesti (usata a suo tempo da Landini) è uno di quei vocaboli che fa venire l’orticaria a Renzi, impegnato sotto Natale a inventare la soglia minima di bilancio falsificato.
Non si tratta di uscite isolate. Nel pieno della tempesta sempre l’Avvenire ha pubblicato un duro editoriale in prima pagina con un attacco frontale a Confindustria “ così solerte a nel denunciare la cattiva politica e così lenta a guardare al proprio interno”. Confindustria che tace sulla rete di affaristi, che pagano tangenti a funzionari e politici e si rifanno “ingrassando i costi degli appalti, spesso eseguiti male”, Ci sono, ricorda l’editorialista Antonio Maria Mira, “nomi e imprese che spesso ritornano”.
Squinzi non ha niente da dire? Il vento fresco, che spira nella redazione del giornale dei vescovi, non lascia spazio ad allusioni. L’editoriale si rivolge proprio per nome e cognome al presidente di Confindustria, criticando Squinzi perché che nulla dice su coloro che “falsificando i bilanci o devastando l’ambiente, hanno fatto e fanno ricchi affari”.
Ci voleva Francesco perché venisse usato un linguaggio papale papale su questi scandali. Intanto Avvenire denuncia i continui stop al disegno di legge anti-corruzione. E denuncia la debolezza (o complicità?) del governo nei confronti della lobby potente del gioco d’azzardo: un governo che non viene incontro alle preoccupazioni dei sindaci per le fasce deboli colpite dalla patologia del gioco.
C’è molto da imparare da questa nuova stagione dei rapporti Vaticano-politica, leggendo la stampa ufficiale cattolica. Si scopre per esempio, in un articolo sulla visita di Lupi al polo fieristico di Rho Pero, un’aria di sfottò sugli “stilemi del tipici del renzismo: tanto ‘fare’ e tanta ‘ripresa’… ottimismo a piene mani…”. Tanto che il lettore pensa immediatamente al Renzi-Crozza, così profetico nel descrivere l’originale.
E tuttavia non va dimenticato che lontano da papa Francesco è ancora operante un sottobosco ecclesiastico-politico, che vive di accordi sottobanco. Si vedano le eloquenti telefonate del poco glorioso arcivescovo Francesco Gioia, ansioso di incanalare voti alle Europee per il buon Maurizio: “Mi dovete far sapere… perché se devo poi avviarmi per alcuni istituti religiosi del mio entourage…”.
Gioia, inutile dirlo, è stato intercettato per colloqui con Perotti a proposito di appalti.
Corriere 20.3.15
La croce simbolo di libertà
Noi, assediati e troppo timidi
di Ernesto Galli della Loggia
Destabilizzare tutti gli assetti politico-statali del mondo arabo; impadronirsi di quell’immenso spazio geopolitico instaurandovi un potere ispirato all’islamismo radicale; da lì muovere a uno scontro con l’Occidente, preliminarmente messo sulla difensiva e impaurito dall’azione di nuclei terroristici reclutati nelle comunità musulmane al suo interno. Davvero si corre troppo con la fantasia attribuendo un disegno del genere alla galassia della jihad che mercoledì a Tunisi ha compiuto la sua ennesima impresa sanguinaria? Davvero significa dare corpo a dei fantasmi? Bisogna vedere: chi l’avrebbe detto nel gennaio del 1933 che quel tizio esagitato appena nominato cancelliere della Germania avrebbe effettivamente cercato di realizzare i suoi fantastici propositi di sterminio, mettendo a ferro e a fuoco il mondo? Eppure allo scoppio della Seconda Guerra mondiale mancavano neppure sette anni.
Il messaggio che viene da Tunisi è chiaro: per il nostro Continente si avvicina una prova decisiva. Siria, Libia, Tunisia, cioè la sponda meridionale del Mediterraneo, cioè il confine marittimo dell’Unione. Come non accorgersi che prima che agli Stati Uniti è a lei, a noi, che è rivolta la sfida islamista? Dunque le imprevedibili accelerazioni della storia impongono oggi all’Europa ciò a cui essa si è finora sempre rifiutata: di essere un soggetto politico vero. Vale a dire con una vera politica estera; con un vero esercito. E con veri capi politici: gli unici che nei momenti cruciali possono fare scelte coraggiose, costruendo altresì intorno ad esse il consenso necessario. Non c’è tempo da perdere. Per far fronte alla feroce determinazione dell’islamismo radicale, alla sua capacità di penetrazione, la politica deve innanzitutto prepararsi all’impiego della forza. La si chiami come si vuole per non turbare i nostri pudori lessicali — operazione di polizia internazionale, missione di pace ( sic !) o che altro — l’importante è capirsi sulla sostanza. Così come è necessario che l’Europa si convinca — e convinca gli Stati Uniti — a dire con chiarezza all’Arabia Saudita, al Qatar e a qualche altra monarchia del Golfo che il loro doppio gioco non può continuare a lungo: che esse non possono con una mano fare lauti affari con l’Occidente, e con l’altra finanziare chi uccide a sangue freddo i suoi cittadini. Un Islam antijihadista peraltro esiste: noi dobbiamo sia aiutarlo con più determinazione a non divenire ostaggio del terrore (è il caso della Tunisia), sia abituarci a chiederne l’aiuto prezioso che può offrirci.
Non si tratta certo di esportare la democrazia, si tratta semplicemente di difenderla. E con essa la nostra libertà. Ricordandoci però che la battaglia per la libertà è sempre, per forza, anche una battaglia culturale: sui valori e sull’identità. La libertà non nasce dal nulla, è il frutto di una storia: e non di tutte.
I carnefici islamisti, autoproclamatisi per l’occasione «leoni del monoteismo», si sono vantati ieri, «postando» online la foto di un nostro connazionale da loro ucciso, di aver «schiacciato» un «crociato italiano». Sono parole a loro modo cariche di significato culturale alle quali non possiamo evitare di dare una risposta dello stesso tenore, foss’anche solamente dentro noi stessi.
Naturalmente noi non siamo crociati, né ci sogniamo di esserlo. Ma se per i nostri nemici lo siamo per il solo fatto di abitare questa parte del mondo, di aver dato vita a questa nostra civiltà, ebbene, allora dovremmo forse avere il coraggio di ammettere che quel termine comunque c’interpella. Che esso evoca una Croce da cui ci è impossibile dissociarci dal momento che essa è consustanziale alla nostra storia, a ciò che siamo e a ciò in cui crediamo. Così come alla fine è grazie ad essa che noi occidentali siamo «spiritualmente semiti», e che quindi, pur attraverso le circostanze le più drammatiche, resta indistruttibile il nostro legame con l’ebraismo.
Ormai perlopiù religiosamente incerti, in parte significativa non credenti, è davvero difficile ed anzi francamente ridicolo definirci «crociati». Ma se ci si vuole ammazzare per colpa di una Croce, allora non serve far finta di niente. Allora è bene che i nostri nemici sappiano che in questo modo quella Croce diviene un semplice simbolo di libertà. Anche della loro, sebbene ad essi ciò non possa che risultare incomprensibile.
Corriere 20.3.15
Democrazia
Tunisi sogna una marcia come a Parigi
«Noi, il popolo contro i terroristi»
di Giuseppe Sarcina
TUNISI I tunisini si preparano oggi, festa dell’Indipendenza, a marciare contro il terrorismo. Con le idee chiare: Tunisi può reagire come Parigi. Alcuni parlamentari del partito di maggioranza, Nidaa Tounes, e dell’opposizione, Fronte popolare, stanno preparando una lettera per suggerire al capo dello Stato, Beji Caid Essebsi, di organizzare un’altra manifestazione, magari già domenica 22 marzo. Il modello cui ispirarsi è il presidente francese François Hollande: invitare a Tunisi i leader del mondo per sfilare insieme contro il nemico comune.
Si vedrà se l’iniziativa potrà avere un seguito nei palazzi del potere tunisino. I cittadini, intanto, sono pronti a riversarsi nell’Avenue Bourguiba, il viale dedicato al presidente fondatore del Paese. Si aspetta solo che i politici si mettano d’accordo. Le formazioni di sinistra non vogliono condividere la piazza con Ennahda, il partito islamico moderato che appoggia l’esecutivo guidato dai laici di Nidaa Tounes. Il contrasto ha suggerito il rinvio della mobilitazione, nella speranza che si trovi il modo di non spezzare subito «il fronte unitario» antiterrorismo cui tutti si appellano.
Nel frattempo i tunisini si fanno vedere nelle strade, come spinti da una forza individuale, prima ancora che politica e collettiva. Mercoledì sera, a poche ore dalla strage, i militanti di Ennahda si erano riversati nel centro della capitale. Ieri pomeriggio, preavvertiti via Facebook, davanti al Bardo, il museo della strage, si sono dati appuntamento i sindacalisti, i rappresentanti di tante organizzazioni della società civile vicini soprattutto alla sinistra di Fronte popolare.
«La Tunisia non è un grande hotel e i tunisini non sono i suoi dipendenti». Hajer Ajroudi, 36 anni, giornalista e blogger, si stringe nella bandiera tunisina gettata sulle spalle, si aggiusta gli occhiali. È arrabbiata: «C’erano ancora i morti nel museo e tutti hanno subito cominciato a parlare di quanto turismo avrebbe perso il nostro Paese. È una cosa umiliante per la Tunisia e trovo sia offensivo anche per le vittime straniere, che sono esseri umani e non clienti. Noi siamo uno Stato come gli altri, vogliamo, dobbiamo essere come gli altri. I terroristi hanno colpito la Francia, la Turchia, la Danimarca. Qualcuno si è messo a fare i conti sulle perdite economiche prima ancora dei funerali? Non credo». Con Hajer arrivano gruppi alla spicciolata, sollevando striscioni strutturati e molti cartelloni preparati alla buona, con i pennarelli. Tante ragazze, tante donne, come ai tempi della Rivoluzione dei Gelsomini. Anche gli slogan sembrano quasi uguali: «Il popolo vuole cacciare i terroristi», laddove quattro anni fa era «Il popolo vuole cacciare Ben Alì», il dittatore. Dopo un’oretta si forma una piccola folla: 1.000, forse 1.500 persone. Cantano l’inno, dispiegano le bandiere nazionali, un po’ anche a uso del plotone di giornalisti e operatori. Houcine Kuini è un signore con i capelli bianchi che osserva silenzioso, candidandosi al ruolo di comparsa così necessario nei fenomeni di massa. Piano, piano, però, esce allo scoperto: «Sono un militante sindacale, vivo qui a Tunisi. Non so se sono giovane o vecchio: ho 53 anni. Quello di cui, invece, sono sicuro è che i terroristi non sono un pericolo solo per me e la mia famiglia. Riguarda tutti, noi e voi. Ci dovreste aiutare, come avete fatto con Parigi». La capitale vicina, colpita a gennaio. Parigi e Tunisi sullo stesso meridiano epocale. Dahie Jaivi, 58 anni, si è presentato in toga nera e fiocco bianco, con tanti altri colleghi avvocati. Si incarica lui di identificare il nemico comune: «Faccio il penalista e vengo da Sfax, la città portuale nel centro della Tunisia. Dobbiamo bloccare tutti quei Paesi e tutti quei partiti che usano la religione per arrivare al potere. È un problema che riguarda i musulmani, ma non solo loro. Sono questi gli integralisti che stanno facendo di tutto per distruggere le società aperte e democratiche». Emna Aouadi è una dirigente del sindacato Ugt e chiede di aggiungere un’ultima cosa: «Guardo il Bardo e penso che la nostra storia, la nostra cultura risale a tremila anni fa. Non siamo come voi?».
Repubblica 20.3.15
Parla il leader di Ennahda
Ghannouchi: “La nostra libertà è più forte della barbarie”
I killer sono di qui, ma chi ha pianificato l’attacco viene dall’esterno
La primavera araba è nata da noi, non distruggeranno 3000 anni di storia
intervista di G. Cad.
TUNISI . In queste ore il sorriso di Rachid Ghannouchi è un po’ appannato. Il leader del partito islamico è convinto che la Tunisia stia reagendo bene, ma sa anche che Ennahda rischia di pagare caro l’assalto dei jihadisti in termini elettorali.
Presidente, chi è che odia la Tunisia tanto da organizzare un attacco come quello del Bardo? «Sono i nemici della Primavera araba, la Tunisia è l’ultima fiamma ancora accesa delle rivoluzioni arabe».
Ma sono forze interne o vengono dall’estero?
«Forze interne quelle che hanno eseguito, esterne quelle che hanno pianificato. Lo scopo era colpire assieme le istituzioni e la civiltà tunisine. Lo indica il luogo scelto, che riunisce la Camera dei deputati e un museo» Come sta reagendo secondo lei la Tunisia?
«Abbiamo tremila anni di storia, nemmeno un crimine come questo potrà avere effetti negativi seri. Batteremo il terrorismo, la civiltà vince sulla barbarie. E la resistenza tunisina ha radici solide: abbiamo cominciato noi la Primavera araba, abbiamo ottenuto una Costituzione che il 94 per cento dei cittadini approva. I jihadisti sono un elemento assolutamente marginale. E a spingere la gente c’è la certezza di aver imboccato la strada giusta, dopo la Rivoluzione».
Ma come mai un paese di tradizioni laiche ha al suo interno una presenza così robusta di integralisti, tanto che tremila hanno raggiunto la Siria e altri novemila sono stati bloccati prima di arruolarsi nello Stato Islamico?
«La presenza massiccia di aspiranti jihadisti è un’eredità del vecchio regime: gli estremisti c’erano ai tempi di Ben Ali, adesso trovano ancora più spazio».
C’è chi accusa i governi di Ennahda per aver lasciato proliferare tendenze estreme. Che ne pensa?
«È solo propaganda. Ma di un episodio come questo, un crimine mai visto in Tunisia, nessuno si può approfittare per proprio interesse. Già ai tempi della dittatura nelle carceri c’erano tremila persone accusate di terrorismo. Con la rivoluzione, la società civile ne ha imposto la liberazione, ma ora sono fuori tutti, buoni e cattivi. È stato il governo di Ennahda a vietare il raduno di Ansar al Sharia a Kairouan, nel 2012, e a mettere poi fuori legge l’organizzazione. È vero che Ennahda in un primo periodo aveva contatti con gli imam radicali, ma quando questi hanno cominciato a predicare l’uso delle armi gli abbiamo dichiarato guerra. Infine, non scordiamo che questa gente ha basi e campi di addestramento in Libia: attaccano e poi scappano ».
Chi è più colpito politicamente da questi attacchi?
«Tutta la Tunisia è colpita da atti come questi. E quando una barca è danneggiata, tutti quelli che sono a bordo rischiano di annegare. Spero che a questo punto tutti i tunisini si prendano per mano per aiutarsi».
Ma com’è che un giovane può fare scelte nichiliste come quella di arruolarsi fra i fanatici?
«Si può fare un parallelo con le Brigate Rosse in Italia o la Raf in Germania, per non parlare dei movimenti rivoluzionari in America Latina. Negli anni ‘70 questi gruppi avevano tanti sostenitori. Poi qualcuno ha gettato le armi e abbracciato la democrazia, e magari oggi siede in Parlamento. Succederà anche in Tunisia, alla fine vincerà la democrazia». ( g. cad.)
La Stampa 20.3.15
Obama spaventa Netanyahu
“Pronti a dire sì alla Palestina”
Gli Usa minacciano di non “proteggere” più Israele all’Onu
di M. Mo.
Gli Stati Uniti minacciano di abbandonare la difesa di Israele all’Onu, e nelle stesse ore il premier Netanyahu fa una mezza marcia indietro rispetto ai proclami della campagna elettorale. Dice che vuole ancora la soluzione dei due stati, se l’Autorità palestinese mollerà Hamas e negozierà in maniera seria.
L’avvertimento
Mercoledì, dopo la conferma della vittoria di Bibi, fonti diplomatiche americane hanno fatto filtrare su diversi media l’intenzione di cambiare strategia in Medio Oriente, partendo proprio dal Palazzo di Vetro, dove gli Usa stanno considerando di far approvare al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che sostenga la creazione dello Stato palestinese. Secondo la storiografia tradizionale, Israele nacque proprio grazie ad una risoluzione dell’Onu, la 181, che nel novembre del 1947 sancì la suddivisione di quella regione fra due stati. Da allora in poi, però, nella percezione degli israeliani le Nazioni Unite sono diventate sempre più ostili al loro paese, un po’ per il suo comportamento con l’occupazione di territori che non gli erano stati assegnati, e un po’ per la presenza massiccia al Palazzo di Vetro dei membri islamici. Da sempre, quindi, gli Usa svolgono il ruolo dei difensori dello Stato ebraico, usando il veto ogni volta che viene presentata una risoluzione non gradita.
A dicembre gli americani hanno ripetuto agli altri membri del Consiglio che avrebbero bloccato qualunque iniziativa presa prima del voto di martedì scorso, perché speravano che la vittoria di Herzog cambiasse il clima. Invece ha vinto Netanyahu, promettendo di opporsi alla creazione di uno Stato palestinese, e questo ha spinto gli Usa a rivedere la strategia, anche perché ora i palestinesi si sentono autorizzati ad abbandonare le trattative e seguire tutte le vie possibili verso l’indipendenza. L’idea che Washington sta considerando è proprio quella di far approvare una risoluzione con cui appoggiare il processo di pace finalizzato alla nascita dei due stati, senza stabilire una scadenza precisa entro cui dovrebbe completarsi il negoziato.
Gerusalemme isolata
Questa iniziativa isolerebbe completamente Netanyahu, anche se in cambio gli Usa chiederebbero ai palestinesi di rinunciare al progetto di denunciare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale. La mossa, se mai si farà, dovrebbe essere rapida e arrivare entro l’estate, perché poi comincerà la campagna per le presidenziali del 2016 e il candidato democratico chiederà alla Casa Bianca di non metterlo in difficoltà con l’elettorato ebraico. La bocciatura della soluzione dei due stati, del resto, ha provocato reazioni negative anche in questi ambienti. Sul «New York Times», Thomas Friedman ha scritto che è un boomerang per Netanyahu perché, vista la prospettiva demografica del paese favorevole agli arabi, per mantenere la sua promessa dovrà scegliere fra «uno Stato ebraico non democratico, o uno stato democratico non ebraico».
Poco dopo l’uscita di queste indiscrezioni sulla possibile mossa americana all’Onu, Netanyahu ha rilasciato un’intervista alla tv MSNBC in cui ha fatto parziale marcia indietro: «Io non voglio la soluzione di uno stato. Voglio una soluzione dei due stati sostenibile e pacifica, ma perché ciò avvenga devono cambiare le circostanze. Dobbiamo avere veri negoziati con persone impegnate per la pace». Se questo basterà a convincere Obama, o verrà visto come l’ennesima manovra dilatoria, si capirà a breve.
La Stampa 20.3.15
La nostra speranza infranta
di Abraham B. Yehoshua
Il capitolo 29 della Genesi racconta la storia di Giacobbe che lavorò 7 anni per meritarsi in sposa Rachele, figlia minore dello zio Labano, che amava. Ma ecco che la prima notte di nozze Labano mandò nel letto del nipote la figlia maggiore, Lea.
E quando Giacobbe si alzò la mattina seguente e «vide ch’ella era Lea», capì di dover lavorare altri sette anni per avere in sposa la sua amata.
La frase «e vide ch’ella era Lea» descrive dunque in ebraico un cambiamento drammatico e frustrante avvenuto nel giro di una notte. Un cambiamento che lo schieramento israeliano per la pace (più numeroso di quello della sinistra) ha vissuto più volte durante gli ultimi trent’anni in occasione di elezioni che lo vedevano opposto alla destra. Anche questa volta, fino a pochi giorni prima delle votazioni, e persino la sera della giornata elettorale, sondaggi ed exit poll davano in vantaggio il centro sinistra, che aveva la netta sensazione di essere lì lì per vincere. Ma nel corso della notte, con l’arrivo dei risultati effettivi dalle urne, le proiezioni si sono ribaltate e quella che sembrava una vittoria si è trasformata in un trionfo della destra.
La frustrazione è profonda, fa male, ed è senza dubbio analoga a quella provata dal patriarca Giacobbe all’alba del giorno dopo le nozze, quando scoprì nel suo giaciglio una donna diversa da quella amata. La popolazione israeliana, negli ultimi decenni, si è fatta più reazionaria, religiosa, e non appare ancora pronta a dare fiducia allo schieramento per la pace, nonostante le buone intenzioni e i programmi razionali di quest’ultimo. Preferisce che siano i leader della destra, del cui patriottismo si fida più che dei bei sogni della sinistra, a condurre negoziati con gli arabi e a fare concessioni territoriali. Così è stato con Menahem Begin, firmatario dell’accordo di pace con l’Egitto, e con Ariel Sharon, fautore del ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza.
Il rammarico per la frantumata speranza di un cambiamento è nondimeno grande, per me come per molti altri israeliani. Non che avessimo la sensazione che se la sinistra fosse andata al governo avremmo potuto siglare entro pochi giorni la pace in base alla soluzione di due Stati per i due popoli. La strada per raggiungere questo obiettivo è difficile e complicata. Però avremmo potuto almeno coltivare la modesta speranza di interrompere la costruzione di nuovi insediamenti nei territori palestinesi, pregiudizievole per ogni possibile soluzione futura.
Nei recenti risultati elettorali ci sono tuttavia due raggi di luce:
1. Un drastico calo di voti per il partito radicale dei coloni «HaBait HaYehudi», efficiente e ostinato promotore degli insediamenti in Cisgiordania.
2. La coalizione di tutti i partiti arabi israeliani riuniti in un’unica lista, che rafforza molto il loro potere di rappresentanza alla Knesset.
Nonostante questo mi sono ritrovato a consolare i miei figli, incapaci di comprendere come così tanti loro connazionali non riescano a vedere che la destra va in una direzione sbagliata. E per attenuare la loro amarezza e porre il risultato di queste elezioni nelle giuste proporzioni, ho deciso di approfittare del mio mestiere di scrittore (che mi costringe, di tanto in tanto, a calarmi nei panni di personaggi diversi) per immaginare il monologo di un razionale cittadino medio israeliano che ha votato Likud, e che spiega le ragioni di questa scelta.
Le sue parole potrebbero essere queste: “Occorre ammettere che la situazione economica in Israele è relativamente buona. Il tasso di disoccupazione è basso e la crescita è costante. E negli ultimi anni ci si sono aperti nuovi e proficui mercati in India e in Cina. Anche lo stato della sicurezza è sostanzialmente buono. Gli attentati terroristici sono diminuiti e la guerra contro Hamas, a Gaza, nonostante le difficoltà, per il momento è riuscita a fermare le folli provocazioni di questa organizzazione che invece di preoccuparsi del suo popolo lancia missili contro i centri abitati israeliani. L’Autorità palestinese mantiene un coordinamento di sicurezza con le forze armate israeliane e le critiche della comunità internazionale non sono ancora sfociate in veri e propri atti di boicottaggio di Israele o in un blocco economico. E, naturalmente, la ragione principale per cui ho votato Likud è che il mondo arabo sta vivendo una fase di radicalizzazione, di sgretolamento, di brutali guerre civili. Persino il forte Egitto si trova a dover fare i conti con il terrore islamista. E Israele non può permettersi che una simile situazione di instabilità arrivi tanto vicina ai suoi confini, nel caso rinunciasse ad altri territori Per questo, nonostante gli errori e i fallimenti, ho ancora fiducia in questo governo. È vero, non provo molta simpatia per il primo ministro Netanyahu, ma è in carica da parecchi anni e riesce a tenere in piedi il Paese. Perché allora sostituirlo con qualcuno forse più simpatico, ma inesperto?».
Così ho cercato di confortare i miei figli dall’amara delusione per le ultime elezioni. Non voglio infatti che provino alienazione o ostilità verso il loro Paese, o che perdano le speranze per il futuro. Dovranno pur sempre costruire la loro vita e l’avvenire dei loro figli in questo minuscolo Stato democratico che in poco tempo sta cercando di normalizzare la problematica e millenaria storia del piccolo popolo ebraico.
Così ho cercato di confortare i miei cari, ma il fatto è che io stesso non riesco ancora a trovare consolazione.
il Fatto 20.3.15
Avraham Burg
“Solo Onu e Usa possono far fare la pace a Bibi”
intervista di di Roberta Zunini
Gerusalemme Nonostante da decenni Avraham Burg sia una delle voci più critiche di Israele, sostenitore accanito del dialogo con i palestinesi, il 60enne ex presidente del Parlamento, nonché a lungo presidente dell'agenzia ebraica, ha sorpreso molti quando ha reso noto che avrebbe appoggiato l'inedita Lista Unita (arabo-ebraica) e non il suo ex partito, il Labour. Confluito per l'occasione nel “Campo sionista” con i centristi di Tzipi Livni.
Sembra che Israele possa essere guidato solo da Bibi Netanyahu, perché ?
Quella di Bibi è stata sicuramente una vittoria mediatica, ma a votare per lui è stato il 25% della società israeliana. Non la maggioranza. Rimanendo nell'ambito della destra, tanti hanno dato il loro voto a figure ancora più nazionaliste e di destra, o al neo partito Kulanu dell'ex collega di partito di Bibi, Moshe Kahlon, che ha puntato tutto sull'impoverimento del ceto medio e sulla frustrazione dei giovani che non possono affittare, tanto meno comprare un appartamento per la crescita spaventosa dei prezzi nelle città principali dove lavorano. Bibi ha vinto perché ha puntato tutto sulla paura del nemico esterno, l'Iran e Hamas e, soprattutto, perché non c'erano alternative reali, eccetto la Lista Unita. Che infatti ha ottenuto un discreto numero di voti anche da parte degli israeliani di sinistra.
Perché Herzog non è a riuscito a diventare un punto di riferimento per i progressisti ?
Non tanto per mancanza di carisma ma perché non ha proposto idee e cambiamenti reali, forti, convincenti. Non ha una reale visione politica. Ha condotto la campagna elettorale nel segno della critica alla figura di Netanyahu, trasformando il voto in una sorta di referendum sul primo ministro. Una strategia perdente.
Anche la sua decisione di appoggiare l'unione dei partiti palestinesi-israeliani, che ha messo assieme quelli secolaristi e di sinistra con i movimenti islamici, si è rivelata una strategia perdente dato che Bibi ha subito sfruttato l'esistenza di questa alleanza per instillare altre paure e sospetti nella mente degli israeliani.
Non credo Bibi abbia avuto più voti a causa della Lista unita e neanche per aver tuonato che non farà mai nascere uno stato palestinese. Chi non aveva intenzione di dargli il voto, non si è lasciato incantare dalla sua retorica e chi non aveva intenzione di andare a votare, non è entrato nei seggi dopo aver sentito il suo discorso razzista nei confronti dei palestinesi-israeliani, che sono cittadini di Israele a tutti gli effetti, pagano le tasse, contribuiscono all'economia del paese ma vengono trattati come persone di serie B. Ricordo inoltre che la Lista Unita è ora il terzo partito. Non si può dire che non sia stata un'idea vincente.
Lei pensa sarà in grado di rimanere davvero unita? E, se sì, di riuscire a realizzare una vera opposizione davanti a una imminente coalizione di governo compatta, ultranazionalista e religiosa?
Non metto in dubbio che ci siano e ci saranno tensioni per esempio tra il partito che sostengo, i comunisti di Hadash e i movimenti islamici partner, ma ho molta fiducia in questa nuova classe di politici palestinesi-israeliani, giovani, carismatici, preparati come l'avvocato 40enne Ayman Odeh, presidente di Hadash nonché leader della Lista Unita o la sua collega Aida Suleiman, una professoressa e attivista storica dei diritti delle donne, entrambi secolaristi. Certo l'opposizione è debole ma lo è per definizione. Questi parlamentari però sono tutt'altro che persone e politici deboli e sprovveduti.
Nascerà mai uno Stato palestinese?
Non dipende né da Netanyahu né da Abu Mazen, ma dalla comunità internazionale, soprattutto dal Consiglio di sicurezza Onu, dagli Usa e dalla Russia che però ora hanno altro a cui pensare, vedi l'accordo sul nucleare con l'Iran, il conflitto siriano, quello ucraino e la minaccia dell'Isis.
La strage di Tunisi sembra confermare l'allarme lanciato durante la campagna elettorale dall'oltranzista ministro uscente degli Esteri Avigdor Lieberman, leader di “Casa ebraica”, che ha perso molti voti, anche se farà parte della coalizione di governo.
Purtroppo sì, non solo lui peraltro, e cercherà di trarne vantaggio per rimanere sulla sua poltrona.
Repubblica 20.3.15
Dopo le elezioni
La Casa Bianca non esclude di votare per il riconoscimento della Palestina. Il premier: “Sì alla pace, se cambiano le circostanze”
In programma una telefonata tra i due leader
Ora Obama minaccia di togliere il veto all’Onu ma Netanyahu rettifica “Soluzione con due Stati”
di Federico Rampini
NEW YORK «È la vendetta di Obama contro Israele» annuncia la tv Fox News di Rupert Murdoch, allineata coi repubblicani pro-Netanyahu. La Casa Bianca starebbe preparando una svolta. Potrebbe smettere di usare il suo veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, finora uno “scudo difensivo” per Israele. Da sempre gli Stati Uniti hanno protetto Israele contro risoluzioni di condanna, o di riconoscimento dello Stato palestinese. Senza il veto americano, Israele soffrirebbe un isolamento diplomatico senza precedenti. Il termine “vendetta” lo usa solo la destra; ma la Casa Bianca non smentisce la sostanza. E anzi si giustifica: è Benjamin Netanyahu ad avere sconvolto gli equilibri internazionali, con quella frase in campagna elettorale in cui negava la possibilità futura di uno Stato palestinese. Il principio dei “due Stati” è un pilastro della dottrina americana in Medio Oriente, fin qui accettato anche dal governo israeliano. «Rinnegandolo — spiegano i consiglieri di Obama — è Netanyahu che ci costringe a un riesame di tutto il percorso davanti a noi».
Che cosa potrebbe succedere adesso? La Casa Bianca non scopre le sue carte. Ma l’ambasciatrice Usa al Palazzo di Vetro, Samantha Power, potrebbe ricevere istruzioni diverse da quelle che l’hanno guidata finora, così come guidarono Susan Rice e gli altri predecessori. Non si contano le risoluzioni presentate da altri membri del Consiglio di sicurezza, che non passarono perché bloccate dal veto Usa. «Ora che il governo d’Israele abbandona l’obiettivo di uno Stato palestinese, allargheremo le nostre opzioni», è la frase che ricorre ai vertici della diplomazia Usa. Un’ipotesi concreta è stata ventilata dall’esponente di un gruppo proisraeliano di sinistra, molto vicino a Obama: l’associazione J Street. Il suo presidente Jeremy Ben-Ami sostiene che “d’ora in avanti questa Amministrazione non escluderà di votare in favore di risoluzioni Onu che fissino i parametri per risolvere il conflitto israelo-palestinese”.
Il capo dei negoziatori palestinesi, Saeb Erakat, è già pronto a sfruttare la nuova situazione, intensificando la sua attività diplomatica in sede Onu.
Per avere un esempio di quello che potrà accadere, basta risalire al novembre scorso, quando il Consiglio di sicurezza prese in esame un progetto di risoluzione, promosso dai paesi arabi, che chiedeva il ritiro di Israele dalla Cisgiordania entro tre anni. L’opposizione americana fu determinante per affossarlo. Risalendo un po’ più indietro, nel febbraio 2011 Obama esercitò il suo primo veto al Consiglio di sicurezza, per impedire che passasse una condanna degli insediamenti costruiti col beneplacito di Netanyahu nei territori occupati. Tutti gli altri membri del Consiglio erano favorevoli.
Un dossier scottante che si presenta a breve termine — il primo aprile — è l’ingresso dell’autorità palestinese nella Corte criminale internazionale, altro organismo Onu. Qualora i palestinesi avanzassero in quella sede la richiesta di condannare Israele per crimini di guerra, il Congresso a maggioranza repubblicana ha già annunciato che cancellerà i 400 milioni di dollari annui di aiuti che l’America versa ai palestinesi. Tuttavia Obama potrebbe trovare un modo per aggirare la minaccia del Congresso.
La ventilata “vendetta” di Obama sta già provocando delle conseguenze in Israele. Pur assaporando il suo trionfo alle urne, e prima ancora di inaugurare il suo quarto mandato, il premier ha cominciato un’opera di ricucitura con Washington. Questo mentre il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, fa sapere che la presidenza americana è in trattative con lo staff di Netanyahu per concordare una telefonata fra i due leader.
Netanyahu si è affrettato a rilasciare un’intervista a una tv americana, la Msnbc, per rimangiarsi la “frase galeotta” che Obama ha considerato come lo strappo più grave. Senza ammettere il nuovo dietrofront, visto che il rifiuto dello Stato palestinese gli era valso pochi giorni prima un travaso di voti dalla destra, ieri Netanyahu ha presentato la nuova correzione come una «interpretazione autentica » delle proprie parole. «Non ho cambiato la mia politica — ha dichiarato Netanyahu — non mi sono rimangiato durante la campagna elettorale ciò che dissi sei anni fa all’università Bar-Ilan, quando invocai uno Stato palestinese smilitarizzato che riconosca lo Stato d’Israele. Quello che è cambiato, è la realtà», ha detto accusando i palestinesi di non voler riconoscere lo Stato d’Israele, ed evocando il controllo di Hamas sulla striscia di Gaza. «Io non voglio uno Stato solo — ha proseguito Netanyahu nell’intervista al network americano — voglio una soluzione sostenibile e pacifica fondata su due Stati. Per questo, però, le circostanze devono cambiare».
Repubblica 20.3.15
Quel rifiuto di Bibi, un errore indelebile
di Thomas L. Friedman
È CHIARO, ormai: Benjamin Netanyahu sarà uno dei personaggi più importanti della storia israeliana. Non perché stia per diventare il premier che ha mantenuto l’incarico più a lungo, ma perché la sua impronta sarà indelebile. La sua vittoria elettorale — conquistata anche affossando la soluzione dei due Stati israeliano e palestinese — farà di Netanyahu il padre della soluzione di un unico Stato. Questo vuol dire che Israele diventerà una democrazia non-ebraica o una non-democrazia ebraica. E il leader più contento al mondo è il leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. Infatti, qual modo migliore per isolare Israele a livello globale, e sviare l’attenzione dal comportamento dell’Iran? I perdenti in tutto questo, a parte gli israeliani che non hanno votato per Netanyahu, sono gli ebrei americani e i non ebrei che sostengono Israele. Per vincere, Bibi ha spostato il Likud dal centrodestra all’estrema destra. Se il governo ufficiale d’Israele è un partito d’estrema destra che rifiuta la soluzione dei due Stati e ricorre ad appelli contro gli arabi, l’unità della comunità ebraica americana su Israele si spaccherà. Quanti ebrei americani difenderanno la soluzione di un unico Stato a Washington o nelle università? E l’Aipac, la lobby israeliana, premerà sul Campidoglio per quella soluzione? Quanti democratici e repubblicani vorranno sostenerla?
Un unico Stato sarà una democrazia ebraica che nega sistematicamente il diritto al voto di circa un terzo della popolazione, oppure una democrazia che sgretolerà il carattere ebraico di Israele. Basta osservare i numeri: se si sommano gli abitanti della Cisgiordania agli arabi israeliani, si ottengono 4,4 milioni di persone. Gli ebrei israeliani sono 6,2 milioni. Stando alla Jewish Virtual Library, la popolazione ebraica d’Israele è cresciuta dell’1,7% l’anno scorso, mentre quella araba del 2,2%. Netanyahu l’ha tenuto in conto? Infine, quanto sarà pronto Obama a difendere un Israele che rifiuta la soluzione dei due Stati? Non lo so. Ma saremo in un mondo nuovo. (© 2-015 New York Times News Service)
La Stampa 20.3.15
La Merkel gela Tsipras: “Non si aspetti nessuna svolta”
Polemiche sul mini summit a sette di Bruxelles
E cresce l’insofferenza verso la Grecia
di Marco Zatterin
Martin Schulz ha provato a sdrammatizzare con una battuta amara. «È già un passo avanti che l’Europa si riunisca per ridurre i margini di interpretazione delle sue decisioni», ha detto a chi gli chiedeva di commentare l’irrituale incontro previsto in serata fra il premier Tsipras, l’Europa, la Francia e la Germania. Altri l’hanno presa peggio. «Sono infuriato», ha protestato il premier belga, Charles Michel, anima con olandesi, finlandesi, lussemburghesi del club che non gradito la ristretta chiesta da Atene e convocata suo malgrado dal presidente del Consiglio, Donald Tusk. Riunione in apparenza inutile. «Non ci saranno nuove decisioni», aveva avvertito la cancelliera Merkel: «Ne abbiamo già prese e vanno rispettate».
Il vertice di primavera dell’Unione è andato per le lunghe, inseguendo l’orologio dibattendo su energia e interrogandosi sul dopo Tunisi. A tarda sera, dopo la cena, è arrivata sul tavolo l’incognita greca, quella che aveva agitato l’inizio della riunione e il prepartita. Tsipras ha invocato «una politica decisa che assicuri il rispetto dei trattati e della democrazia». Bello slogan, ma difficile da capire per gli altri, uniti nel ricordare che la Grecia ha firmato un’intesa il 20 febbraio e che questa garantisce quattro mesi di finanziamenti in cambio di un programma di riforme. «Avere fiducia significa deve rispettare gli impegni presi», ha avvertito il premier finlandese Stubb.
È stato come un coro. «Niente riforme, niente soldi». E un’attenzione diplomatica sebbene irritata a Tsipras che sogna una riflessione politica che cambi i patti sottoscritti un mese fa. Tutti sono disposti a trattare anche perché nessuno intende rimanere con in mano il cerino di una nuova crisi e di una possibile Grexit. «Finché si parla, siamo disponibili», assicurano le fonti tedesche, per le quali nessuno deve farsi illusioni, la trama del dialogo coi greci non cambierà. Non qui, non ora. Non a Berlino, lunedì. «La soluzione spetta all’Eurogruppo e così deve rimanere», ha fatto sapere la cancelliera.
C’è stato gran mugugno. Tusk ha reagito alla fronda che non voleva il «settetto greco» chiedendo se volessero un vertice dell’Eurozona. Nessuno ha accettato. I piccoli si sono accontentati di vedere Tsipras separatamente. Così in pista sono rimasti Draghi (Bce), Juncker (Commissione), Dijsselbloem (Eurogruppo) con Tusk, Merkel e Hollande. Il quale, pur ammettendo di comprendere i greci, li ha invitati «a tassare di più i ricchi». Non convocata l’Italia. «Nessun problema - ha assicurato Sandro Gozi, l’uomo del governo per gli Affari Europei - i contatti sono permanenti e a ogni livello».
Oggi l’intesa Eurogruppo-Grecia compie un mese. Ha fatto poca strada nella confusione generale. «Gli incontri di verifica sono male organizzati, avvengono negli hotel, sempre pattugliati dalla stampa», lamentano a Bruxelles. L’ex Troika vorrebbe una soluzione entro aprile. Denuncia la poca trasparenza dei piani di Tsipras e, soprattutto, il tempo perduto. Troppi i pericoli alimentati dalle troppe incertezze, si fa notare. Anche se una cosa è sicura, ribadita da tutti: «Senza progressi i greci non avranno un cent». E, senza soldi, i greci rischiano di fare bancarotta.
Corriere 20.3.15
Attacchi di Tsipras all’Europa: uno spettacolo che alla fine danneggia solo la Grecia
I margini di compromesso ci sono ancora, ma occorre maggiore pragmatismo
di Alan Friedman
Alla fine, nonostante tutte le polemiche, ci sarà un compromesso per risolvere la crisi del debito greco. La soluzione sarà, a mio avviso, una specie di rescheduling (riscadenzamento) finanziario che porterà tutti a fare buon viso a cattivo gioco. Non solo: grazie al Quantitative easing di Mario Draghi, il rischio di un contagio è fortemente ridotto o addirittura non c’è più. Va detto però che lo Tsipras-Varoufakis Show in Europa, con la sua retorica sempre provocatoria e iperbolica, sta diventando uno spettacolo poco edificante. E poco utile per la Grecia.
Che il mini-summit di ieri sera a Bruxelles, richiesto da Alexis Tsipras, non sarebbe stato risolutivo, l’aveva già annunciato giovedì mattina Angela Merkel davanti al Bundestag. La cancelliera aveva anche spiegato con ironia: «Ho invitato il primo ministro Alexis Tsipras a Berlino lunedì e attendo la sua visita con impazienza. Avremo il tempo di parlare in dettaglio e forse anche di litigare».
L’insistenza di Tsipras per ottenere un incontro con Angela Merkel, François Hollande, Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Jeroen Dijsselbloem viene in un momento in cui questi leader europei stanno perdendo la pazienza nei confronti del neofita premier greco e del suo vulcanico ministro del Tesoro, Yanis Varoufakis.
Tsipras e Varoufakis negli ultimi giorni avrebbero tenuto i burocrati della famosa «ex troika» chiusi in un albergo ad Atene, negando loro accesso ai conti e bloccando qualsiasi forma di collaborazione. Il suo governo, ha detto Tsipras, non prende ordini dai tecnici. La ex troika, insiste Tsipras, è morta. Piuttosto, il premier greco spera in una soluzione politica dei suoi problemi finanziari. Si tratta di problemi veri, nel senso che Atene potrebbe finire le ultime gocce della sua rimanente liquidità tra qualche settimana. A quel punto si rischierebbe non un «Grexit» voluto da Syriza ma un «Grexident», ovvero un incidente di percorso che potrebbe portare Atene alla bancarotta ufficiale (è già in bancarotta da anni, de facto).
È ovvio che guardiamo tutti con simpatia alle sorti della gente in Grecia, dal punto di vista umano. Ma l’Italia è anche il secondo Paese creditore della Grecia, dopo la Germania: in ballo ci sono i soldi dei contribuenti, decine di miliardi di euro in questo caso.
Il problema di fondo è che Atene avrebbe potuto ottenere più sconti da Berlino e Bruxelles se non avesse sempre brandito l’arma di un terrorismo verbale con cui si minaccia in continuazione e si dicono stupidaggini. Ma chi crede davvero che minacciare di inviare jihadisti e terroristi in Germania aiuti a ottenere più soldi dall’Europa? Aiuta davvero la Grecia nella trattativa con l’Eurogruppo il tirare continuamente in ballo i nazisti, come ha fatto il primo ministro, e chiedere praticamente di cancellare il suo debito per compensare l’occupazione tedesca di settanta anni fa?
E mentre si lancia una provocazione dopo l’altra e si parla della sofferenza umanitaria dei poveri in Grecia, Varoufakis non fa una grande figura mostrandosi con la moglie elegante in posa glamour nel servizio pubblicato da Paris Match sulla sua terrazza con vista ad Atene.
Ormai, invece del vaudeville in atto ad Atene ci vuole una trattativa seria tra la Grecia, la Troika e l’Eurogruppo su quali riforme si possono concordare, quanto e come si possa ristrutturare il debito greco, e quanti soldi l’Europa e il Fondo monetario possano ancora concedere, e per quanto tempo.
Si capisce come il governo di un leader idealista popolato da un gruppo di ex manifestanti no global possa aver bisogno di un periodo di rodaggio prima di capire che la sua posizione è talmente debole da dovere, per forza di cose, diventare più pragmatico. Ma qualcosa, di tutto questo trambusto, ce la potevano risparmiare.
Repubblica 20.3.15
Pirelli, la Cina si avvicina
Allo studio Opa totalitaria “targata” China Chemical, titolo in Borsa su del 3,2%
L’Offerta lanciata da una newco partecipata dagli azionisti di Camfin e dal nuovo socio
di Giovanni Pons
MILANO La Pirelli è pronta a indossare una divisa cinese. Si sta infatti realizzando ciò che in ambienti finanziari si vocifera da tempo, e cioè un riassetto societario ai piani alti della catena di controllo della società della Bicocca destinato a spostare il baricentro del gruppo verso un investitore asiatico e in particolare cinese, che sarebbe stato individuato nel colosso China National Chemical Corporation. Il riassetto azionario sarebbe però legato alla vendita parziale o totale a un altro investitore cinese (ma sempre controllato dallo Stato) della divisione degli pneumatici “truck”, quella per i veicoli pesanti, che verranno presto scorporati in una società a sé stante lasciando la Pirelli concentrarsi nella fascia alta delle gomme per vettura. Le due operazioni sono collegate tra loro ma il primo passo sarà il lancio di un’Opa totalitaria sulla Pirelli quotata in Borsa che ieri è salita del 3,26% sulle voci del possibile lancio di un’offerta. Unicredit e Intesa Sanpaolo, azioniste di Pirelli attraverso la Camfin, stanno mettendo a punto in queste ore i dettagli dell’operazione che passa attraverso la costituzione di una nuova scatola societaria che si incaricherà di lanciare l’offerta pubblica.
Il meccanismo sarebbe stato studiato in modo da permettere agli attuali soci italiani e russi di passare alla cassa e monetizzare parte del loro investimento. La Camfin è infatti controllata pariteticamente da un fondo collegato a Rosneft e da un veicolo societario dove sono presenti i soci italiani Marco Tronchetti Provera, Sigieri Diaz, i fratelli Rovati e le due banche Unicredit e Intesa Sanpaolo. In particolar modo i russi, entrati in possesso del 50% di Camfin nel luglio 2014 attraverso il fondo Long Term Investment, hanno la necessità di rientrare di almeno la metà del loro investimento a causa della crisi che si è abbattuta sul loro paese in seguito alle sanzioni imposte dalla Ue, al crollo del rublo e del prezzo del petrolio. Tronchetti Provera, dal canto suo, possiede in trasparenza il 5,17% della Pirelli che ai valori di Borsa di ieri vale circa 350 milioni di euro. Se le indiscrezioni verranno confermate la Camfin consegnerà all’Opa il suo 26,2% di titoli Pirelli e i suoi azionisti italiani e russi reinvestiranno nella nuova Newco parte del ricavato insieme al nuovo socio cinese. Rosneft per esempio aveva investito 553 milioni nell’estate 2014 a un prezzo base di 12 euro e se realizzasse più di 15 euro otterrebbe una plusvalenza importante, soprattutto se tradotta in rubli fortemente svalutati rispetto all’euro. Al momento, comunque, non è dato di sapere chi controllerà effettivamente la nuova società e quale sarà la sua governance. Ovviamente molto dipenderà da quante azioni verranno consegnate all’Opa ma la Newco per lanciare l’offerta sul 100% del capitale dovrà avere capitali e affidamenti bancari sufficienti a coprire oltre 7 miliardi di euro. Gran parte dei quali dovrebbero essere garantiti dal socio cinese che di conseguenza dovrà avere molta voce in capitolo sul controllo futuro del gruppo. Tronchetti Provera e i soci italiani parteciperanno comunque alla governance attraverso un patto parasociale che garantirà la continuità della gestione al management italiano per i prossimi cinque anni. E, come già avvenuto per i riassetti precedenti, prevederà delle clausole ben definite per stock option e passaggi azionari successivi. Ma è evidente che se lo schema appena descritto verrà confermato l’identità del gruppo milanese potrebbe essere messa in discussione.
In seguito all’Opa la Pirelli dovrebbe uscire dal listino di Piazza Affari e procedere lontano dai riflettori ad eseguire la seconda parte dell’operazione, quella legata allo scorporo del “truck” e alla ricerca di un partner per questa divisione di business che con 1,4 miliardi di euro di ricavi rappresenta quasi un quarto del giro d’affari di Pirelli con un margine lordo pari al 17%. Ma gli azionisti di minoranza questa volta dovrebbero essere tutelati dal lancio dell’Opa totalitaria a un prezzo superiore a quello di mercato. La Borsa aveva comunque fiutato l’arrivo di qualche operazione straordinaria, come dimostra il volume anomalo di scambi degli ultimi giorni: ieri è stato trattato il 4% del capitale pari a oltre 18 milioni di titoli mentre nelle sette sedute precedenti sono stati scambiati in media oltre 5milioni di azioni (1,1% del capitale). Nonostante ciò la Consob sinora non ha ritenuto opportuno chiedere alcuna spiegazione ai vertici Pirelli.
Corriere 20.3.15
La peste, il mugnaio, i mercanti E la storia creò la lingua italiana
Dal Cinquecento abbiamo un lessico comune. Che l’inglese non distruggerà
di Paolo Di Stefano
La Storia della lingua italiana nasce, come disciplina universitaria, nel 1938, quando viene istituita a Firenze l’omonima cattedra, affidata a Bruno Migliorini. L’anno successivo Roma attiva un insegnamento per Alfredo Schiaffini: poi, fino agli anni Cinquanta, le sole nomine sarebbero state quelle di Gianfranco Folena a Padova nel 1956 e di Maurizio Vitale a Milano nel 1957. Eppure gli studi di storia della lingua in Italia hanno avuto, fino a oggi, esponenti di sommo rilievo, capaci di spaziare tra la dialettologia e la stilistica letteraria, tra la filologia e la critica tout court . Ora, con la Prima lezione di storia della lingua italiana (Laterza, pp. 176, e 12), Luca Serianni, erede a Roma del grande Schiaffini e autore di saggi e manuali tra i più importanti degli ultimi decenni, si propone di tracciare le grandi linee della disciplina a beneficio di un ampio pubblico, con ammirevole chiarezza argomentativa e per quanto possibile senza troppi tecnicismi (quelli indispensabili vengono spiegati in un utile indice conclusivo).
«Come è ovvio — dice Serianni — la storia della lingua, non avendo riferimenti scolastici, è poco nota, dunque può capitare che anche le persone colte la confondano con altre discipline, come la glottologia oppure la storia della letteratura, mentre il suo campo di interesse non riguarda soltanto i testi letterari». I vari passaggi di continuità e discontinuità, a cominciare dal rapporto genetico tra latino (nella varietà parlata del «latino volgare») e italiano, sono illustrati con una molto essenziale serie di esempi. Senza dimenticare la presenza, nell’italiano come nelle altre lingue romanze, di un lessico dotto direttamente attinto dal latino, che ha lasciato un ricco deposito lessicale non solo nella lingua ma anche nei dialetti.
C’è una storia interna e una storia esterna. La prima riguarda gli sviluppi, strutturali, della fonetica, della morfologia, della sintassi, dovuti al succedersi delle generazioni di parlanti e alle interferenze di altre lingue. Quelli esterni provengono da fattori fisici, storici, antropologici o culturali. Si sa che le catastrofi naturali, le migrazioni, gli eventi bellici determinano più di altri il cambiamento delle lingue. Un esempio? La peste del 1348, con il conseguente spopolamento di Firenze e il successivo inurbarsi di persone provenienti dal contado, ha finito per provocare sensibili innovazioni linguistiche. E basti pensare alle conseguenze del sacco di Roma del 1527 ad opera dei lanzichenecchi, che con l’ondata migratoria giunta dal Centro-Nord portò numerosi tratti settentrionali in un dialetto che fino ad allora registrava elementi tipicamente meridionali. E non si allude solo alle evidenze del lessico, ma anche alla fonetica.
«Si può sostenere — scrive Serianni — che la storia di una lingua altro non sia che una particolare declinazione della storia generale, alla stregua della storia dell’arte o delle istituzioni sociali». Un filo rosso che Serianni insegue con particolare attenzione e che non dovrebbe sfuggire agli storici tout court riguarda il rapporto tra cultura alta e «gente comune»: secondo studi ormai consolidati, l’acquisizione della lingua scritta è avvenuta, in passato, attraverso canali non istituzionali. Il caso del mugnaio friulano del Cinquecento Domenico Scandella, detto Menocchio, ricostruito da Carlo Ginzburg in un libro divenuto un piccolo classico della storiografia, è particolarmente significativo: nonostante la sua distanza geografica e culturale dagli ambienti intellettuali, Menocchio, processato dall’Inquisizione e poi condannato al rogo nel 1599, era arrivato a conoscere l’italiano da autodidatta attraverso la lettura di libri d’avventura e di testi religiosi ottenuti in prestito. Si deve ai lavori di Francesco Bruni e di Enrico Testa su documenti privati come gli epistolari l’idea di un «italiano pidocchiale» diffuso ben prima dell’unità nazionale, della scolarizzazione estesa e dell’azione determinante della televisione. Un «italiano nascosto» che conviveva con i dialetti.
«La tradizione — osserva Serianni — sottolinea l’inesistenza dell’italiano nei secoli passati: nella percezione comune l’identità italiana è poco più che un’invenzione romantica o risorgimentale, ma un filo linguistico comune, sovradialettale, si può cogliere a partire dal Cinquecento anche fuori dal recinto della letteratura alta». Gli illetterati dialettofoni potevano imparare l’italiano «per pratica», arrivando ad averne una competenza passiva grazie all’azione, certo «preterintenzionale», svolta con il catechismo dalla Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento. Insomma, l’idea che i dialetti abbiamo dominato incontrastati la comunicazione orale non sarebbe altro che «un solido pregiudizio», come ha scritto lo stesso Bruni.
È dimostrato, tra l’altro, che tra la lingua umile quotidiana e la codificazione letteraria è esistita un’area di mezzo rappresentata da un italiano scritto commerciale e diplomatico, utilizzato in ampie zone del Mediterraneo e dell’Europa orientale per almeno tre secoli, tra il XVI e il XVIII: l’italiano è stato, per esempio, la lingua super partes adottata nel testo ufficiale di un importante trattato bulgaro del 1774, quello di Kuüçüc Kaynarca, che pose fine a uno dei conflitti tra russi e turchi. Anche le cancellerie dei consolati francese e britannico a Tunisi, nel corso del Seicento, adottavano la nostra lingua. Una lingua veicolare simile all’inglese attuale? «Certo — risponde Serianni — ma in una proporzione più ridotta: l’inglese è oggi una lingua planetaria adottata sistematicamente in ambito scientifico, ma il meccanismo è simile». Fatto sta che oggi gli apocalittici parlano di decadenza dell’italiano. Solo luoghi comuni e errori di prospettiva, come fa notare ironicamente Giuseppe Antonelli in un recente libro? «Gli ultimi dati Istat dimostrano che l’uso dell’italiano rispetto al dialetto sta crescendo, mentre fino a qualche anno fa sembrava immobile. Gli aspetti di criticità si verificano semmai nella pratica scritta, soprattutto a scuola: i test mettono in evidenza la povertà del lessico e la scarsa capacità di comprensione di un testo complesso come un editoriale giornalistico. Questo è il dato più preoccupante, che ha anche ricadute sul piano civile, non certo la morte del congiuntivo, che tra l’altro non sta affatto morendo. Quel che sta morendo è la capacità di argomentare». Proprio all’argomentazione, Serianni ha dedicato un libro, uscito l’anno scorso da Laterza, che proponeva «prove ragionate di scrittura».
Se l’invasione dell’inglese è ormai un dato di fatto, Serianni non concorda con l’auspicio di Tullio De Mauro che l’inglese diventi la lingua veicolare della polis europea: «Se così fosse, l’inglese dovrebbe diventare la lingua della comunicazione politica, ma il discorso politico non trasmette solo informazioni tecniche, perché fa leva sui simboli, sulle emozioni, sui sentimenti. Pensare che la conoscenza dell’inglese sia così avanzata da cancellare le lingue nazionali sarebbe sbagliato. Sarebbe come decretare la perdita dell’identità plurilingue europea». Del resto, in Germania, per fare un esempio, la questione linguistica non si pone nemmeno: in ogni sede istituzionale il tedesco è inamovibile e un corrispondente di un giornale italiano che pensasse di stabilirsi a Berlino conoscendo solo l’inglese resterebbe rapidamente fuori gioco. Per non parlare della Francia, ancora saldamente ancorata alla propria identità linguistica a ogni livello.
Altra faccenda è la letteratura. Manzoni era convinto che l’italiano doveva scrollarsi di dosso la sua cultura letteraria e guardare piuttosto a quella parlata «viva e vera» capace di diventare lingua nazionale, e cioè il fiorentino. Graziadio Isaia Ascoli contestò il dirigismo manzoniano, rivendicando la portata della tradizione scritta e della cultura alta come motori del processo di costruzione di una lingua unitaria. Una vexata quaestio che rimane ancora attuale. Provando infine ad abbozzare una sorta di «certificato storico per l’italiano», sul modello dei documenti di residenza o di stato di famiglia rilasciati dai Comuni, Serianni si schiera con Ascoli: lo strumento che ha permesso di dare voce agli emarginati è la scrittura, quel modello super-regionale filtrato dalla Chiesa e diventato con la grande letteratura trecentesca e con la codificazione del Cinquecento «un esempio precoce di lingua sufficientemente stabile».
Corriere 20.3.15
Un testo di Luciano Canfora sul primo imperatore
Augusto, il camaleonte spietato che si fece adorare dai Romani
di Giovanni Brizzi
L ibro ricchissimo, complesso e affascinante, Augusto figlio di Dio di Luciano Canfora (Laterza, pp. 567, e 24); che tratta di due non dirò eroi (l’autore, in una delle tante sue felicissime formule, ricorda come quella del periodo sia inevitabilmente, in Appiano, una «storia pragmatica e senza “eroi”, che “va al fondo delle cose”»), ma certo figure di riferimento per l’età delle guerre civili a Roma. Il primo in maniera solo indiretta, trattandosi di quell’Appiano che, circa due secoli dopo i fatti narrati, ha lasciato il resoconto più completo e prezioso degli anni fondamentali successivi alla morte di Cesare. L’altro, Ottaviano poi Augusto, protagonista vero, solo vincitore e (come proprio Appiano sottolinea) creatore del successivo regime monarchico.
Dopo aver fatto la storia dell’autore greco e del suo testo, a lungo dimenticati e talvolta sottovalutati ancor oggi, Canfora affronta, di Appiano, il metodo di lavoro; e rivela come questo «parassita» — così lo ha definito Giuseppe Giusto Scaligero —, il fucus che dei lavori altrui riporta, traducendole ad uso di un pubblico eminentemente greco, intere porzioni, abbia in realtà saputo scegliere assai bene le sue fonti, affidandosi, oltre che a Timagene, il discusso alessandrino suo conterraneo, a due opere preziosissime per noi perdute, le Historiae ab initio bellorum civilium di Seneca padre e i Commentarii de vita sua , le cosiddette Memorie di Augusto. La prima, che nel titolo stesso cercava un initium all’interminabile conflitto civile, risalendo fino ai prodromi graccani, era, su quei fatti, la fonte forse migliore e più indipendente; l’altra restituiva le preziose note personali del primo imperatore. Opere di segno opposto, dunque, che — pur non riuscendo sempre a conciliare — Appiano maneggia però con qualche attenzione critica.
Ma, per venire alla figura del secondo, gigantesco personaggio, e cioè di Augusto, occorre ora accennare al metodo non di Appiano, bensì di Canfora stesso, capace di un prodigioso (e oggi impensabile quasi per tutti…) lavoro di Quellenforschung , di paziente recupero storiografico. Per usare le sue stesse parole, si dovrà rinunciare «al vezzo di mescolare i dati delle fonti onde creare un (fittizio) racconto di “sintesi” anziché cercare di farle parlare distintamente, capirne le differenze ed eventualmente coglierne la consapevole contrapposizione». Proprio così si muove Canfora, sottoponendo il testo di Appiano ad un paziente confronto incrociato con ogni altro autore alternativo della letteratura antica, Dione e Velleio, Plutarco e Svetonio, i poeti augustei e l’infinito epistolario di Cicerone; e, grazie alle sue smisurate conoscenze, giunge non solo a proporre ipotesi acute e sempre puntuali circa l’origine degli asserti appianei, ma anche a far emergere un Augusto almeno in parte inedito; e, direi, talvolta quasi inatteso (come nel rapporto con Cicerone, forse davvero abbandonato al suo destino obtorto collo e non senza rammarichi…).
Del vincitore di Azio, Canfora viene costruendo un profilo complesso e affascinante nella sua fosca grandezza. Capace dei più acrobatici equilibrismi politici, poi giustificati sempre con estrema disinvoltura dialettica; pronto a piegarsi come un giunco, assecondando le situazioni, per riemergere ogni volta; spietato con gli avversari, della cui morte non esita a sincerarsi di persona; gelido e razionale sempre, persino con gli amici; mai esente da calcolo, Ottaviano Augusto — il «camaleonte», secondo l’azzeccata definizione che ne dà l’imperatore Giuliano — è, ben più del padre adottivo Cesare, il politico perfetto, capace di concepir la finezza di «“restaurare” la Repubblica nell’atto stesso di seppellirla per sempre» sotto il nuovo regime.
«Le analogie sono diagnosi compendiarie», osserva infine Canfora, proponendo un suggestivo raffronto tra la mummia di Lenin nel mausoleo sulla Piazza Rossa e il sidus Iulium , la cometa apparsa in morte di Cesare che fa di Ottaviano il Divi filius , anticipando non tanto il titolo di Augustus , quanto l’altro e più compromettente, il greco Sebastòs , «colui che deve essere adorato». È il preludio alla nascita del formidabile impianto ideologico che farà definitivamente di lui il «figlio di Dio», impianto e modello del quale resteranno ostaggi a lungo i successori.
Repubblica 20.3.15
Todorov: “La libertà d’espressione va difesa sempre per i deboli ma va limitata per i soggetti forti”
“Giusto proteggere un uomo solo contro il sistema come Snowden ma non lasciamo ai leader xenofobi il diritto di dire qualsiasi cosa”
di Fabio Gambaro
PARIGI PER Tzvetan Todorov, in un sistema democratico ogni potere deve avere dei limiti. Solo così la democrazia può difendersi dai suoi nemici. Lo studioso francese di origine bulgara ne parlerà domenica a Udine insieme al direttore di Repubblica Ezio Mauro, in un dialogo pubblico intitolato “La libertà e i suoi vincoli”. Per Todorov una simile riflessione è più che mai d’attualità, specie dopo gli attentati di Parigi. «Personalmente, in quegli atti di violenza non vedo un attacco ai fondamenti della democrazia, né un esempio di scontro di civiltà», spiega lo studioso molto noto anche in Italia per i suoi saggi, tra cui I nemici intimi della democrazia e La paura dei barbari . «Gli stessi attentatori hanno spiegato il loro gesto come vendetta per le caricature del Profeta e gli interventi militari occidentali. Ciò che è in aperta contraddizione con i principi democratici non sono le convinzioni all’origine di quegli atti, quanto la fredda esecuzione di diciassette persone. Sono quindi simili ai passati atti terrorismo della Raf in Germania o delle Br».
Secondo molti osservatori, gli attentati di Parigi hanno voluto colpire alcuni principi universali — libertà e uguaglianza di diritti — considerati fondamenti della democrazia.
«La democrazia liberale non è un regime fondato su valori universali. Tale definizione vale per le teocrazie. Oppure per i sistemi totalitari che pretendono di realizzare un progetto legittimato dalla scienza (la biologia delle razze, il materialismo storico). Le democrazie non invocano valori assoluti, la loro azione nasce dal compromesso tra principi complementari, ad esempio tra eguaglianza e libertà, che possono coesistere ma anche confliggere, oppure tra potere del popolo e libertà degli individui».
Vale anche per la libertà d’espressione? Dopo l’attentato a Charlie Hebdo, si è riaperto il dibattito sui suoi limiti.
«La libertà d’espressione non è un valore inalienabile, intangibile o non negoziabile. Lo stato democratico è espressione della volontà popolare e contemporaneamente protezione delle libertà individuali, che deve difendere insieme a una pluralità di valori, come la sicurezza, la giustizia, l’eguale dignità di tutti. Tali valori tendono a limitarsi l’un l’altro. E la politica di uno stato è sempre un compromesso tra valori diversi. Limitare la libertà d’espressione non significa introdurre una censura oscurantista ma assumersi le proprie responsabilità politiche ».
Quindi lei è favorevole a tali limitazioni?
«Anche la libertà di stampa è un potere. E in democrazia, come diceva Montesquieu, un potere senza limiti non è legittimo. Non dimentichiamo che, nel XIX secolo, il giornale dell’antisemita Edouard Drumont si chiamava La libre parole : per lui libertà era denigrare gli ebrei. Ora in Europa i partiti xenofobi invocano la libertà di stampa per poter dire impunemente tutto il male dei musulmani. Quando difende la libertà di stampa, bisognerebbe sempre interrogarsi sul rapporto di potere tra chi l’esercita e chi la subisce. Drumont attaccava una minoranza — gli ebrei — già discriminata, beneficiando dell’appoggio della maggioranza. Edward Snowden, che ha svelato le derive illegali dei servizi americani, è un singolo individuo che accusa il governo del suo paese. Dobbiamo condannare il primo e difendere il secondo».
Se ogni comunità impone i propri limiti, lo spazio di libertà condiviso si riduce enormemente. La nozione di laicità può essere d’aiuto?
«Le nostre società non sono mai state completamente omogenee. Sono sempre state costituite da popolazioni portatrici di molteplici differenze: regionali, professionali, di classe, di sesso o di età. Per gestirle, si è fatto ricorso a due principi complementari: quello della legalità comune (una stessa legge per tutti) e quello della tolleranza (per tutte le pratiche non coperte dalla legge). Di fronte a cittadini di diverse religioni o senza religione, la laicità è una necessità, a condizione che lo stato sia neutrale nei confronti delle diverse fedi, senza pretendere la scomparsa dallo spazio pubblico di ogni segno di appartenenza religiosa, come accade a volte in Francia. Le appartenenze culturali fanno parte delle persone».
I terroristi parigini sono nati e cresciuti in Francia.
Com’è possibile che una società democratica abbia partorito i propri nemici più radicali?
«Più che della democrazia, gli assassini di gennaio sono i figli della società mondializzata. Cercano informazioni su internet, uno spazio virtuale che nessuno controlla e nel quale è ormai impossibile distinguere tra fatti e affabulazioni. Alla ricerca di una causa sacra che dia un senso alla loro vita, sono facile preda di abili predicatori».
Pur senza fare ingiuste generalizzazioni, come interpreta il fatto che i terroristi parigini si richiamassero all’islam?
«La difficoltà consiste nell’articolare due proposizioni entrambe vere: gli atti terroristici non dipendono dalla religione musulmana eppure i loro autori si richiamano all’islam. Più che nel Corano, che come tutti i libri sacri contiene affermazioni contraddittorie, occorre cercare la spiegazione nella storia dei paesi musulmani, dove le correnti d’interpretazione fondamentaliste hanno impedito un’evoluzione della dottrina».
Come le sembrano oggi le relazioni tra l’islam e il mondo occidentale?
«Occorre riconoscere che l’islam è ormai una religione praticata nel mondo occidentale, di conseguenza è possibile domandare ai suoi fedeli di rispettare le leggi comuni. Al contempo occorre evitare l’islamofobia. Inoltre gli interventi militari nei paesi musulmani hanno prodotto risultati assai negativi, hanno favorito l’identificazione dell’Occidente con il ruolo dei dominatori, il che evidentemente ha accresciuto il risentimento nei suoi confronti. Purtroppo, le scelte dei nostri governi non sono sempre coerenti».