La Stampa 10.2.15
La strage dei migranti
In mare 29 morti di freddo
Si temono altre vittime. Boldrini: addio al Mare Nostrum, ecco le conseguenze
di Laura Anello
Pietro Bartolo, il direttore del poliambulatorio, ha la voce dei giorni più bui. «Parlo da medico e non da esperto di questioni internazionali, ma con Mare Nostrum questi ragazzi molto probabilmente sarebbero vivi. Non è possibile che si vadano a recuperare i migranti a 100-120 miglia da Lampedusa per poi portarli verso la Sicilia in condizioni meteo proibitive e con mezzi inadeguati al soccorso». Davanti a lui ci sono i 29 cadaveri sbarcati dalla motovedetta Cp 302 d della Guardia costiera al molo Favaloro di Lampedusa, i vestiti fradici di acqua, le bocche aperte, gli occhi sbarrati, le mani violacee.
Assiderati
Sette erano già morti quando l’imbarcazione ha raggiunto il barcone in avaria, gli altri ventidue si sono spenti uno dopo l’altro davanti agli occhi dei soccorritori che solcavano a fatica il mare forza 8, e il vento gelido era un killer. I vivi ieri sera erano 83. Ma sette di loro sono stati ricoverati in emergenza, sei a Lampedusa, uno a Palermo con l’elisoccorso. «Alla fine il bilancio potrà essere ancora più pesante», aggiunge Bartolo, mentre gli uomini della guardia costiera hanno la faccia sconvolta, «onde alte nove metri, come tre piani di un palazzo, è stata durissima».
Sono i volti e le voci dell’ennesima tragedia dell’immigrazione nel Canale di Sicilia, questa volta accompagnata da un coro di polemiche contro i limiti di Triton, la missione europea che all’inizio dell’anno ha preso il posto dell’operazione tutta italiana Mare Nostrum. Con la differenza che, per dirla con il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini – anche lei ripiombata nel peggiore degli incubi – «Mare Nostrum era un’iniziativa umanitaria, Triton è un’operazione di salvaguardia delle frontiere». E quindi se con la vecchia missione c’erano le navi militari italiane a pattugliare il Canale di Sicilia, ad accogliere, soccorrere, mettere al sicuro, curare a bordo i profughi, adesso questo non c’è più. E succede, come in questo caso, che debbano essere due motovedette a partire da Lampedusa, viaggiare per 120 miglia in mezzo alla tempesta, recuperare uomini assiderati e portarli in direzione inversa.
La presidente della Camera
«Un orrore - come dice in un tweet il presidente della Camera, Laura Boldrini - persone morte non in un naufragio, ma per il freddo. Queste le conseguenze del dopo MareNostrum». Il leader della Lega Nord Matteo Salvini, sul fronte opposto, dice che chiederà al presidente della Commissione europea Junker di sospendere Triton, «operazione inutile e di morte», mentre invita il ministro degli Interni Angelino Alfano a dimettersi. Giusi Nicolini è sconfortata: «I 366 morti del 3 ottobre 2013 non sono serviti a niente, le parole del papa non sono servite a niente».
La cronaca sembra darle ragione. L’Sos è partito nel primo pomeriggio di domenica – la solita chiamata da un telefono satellitare rimbalzata al Centro nazionale di soccorso delle Capitanerie di porto di Roma – ma le motovedette salpate da Lampedusa hanno raggiunto il barcone proveniente dalla Libia soltanto dopo le 10 di sera e hanno poi lavorato tutta la notte per completare il trasbordo dei migranti. I due mercantili che si trovavano in zona e sono stati dirottati sul posto, il Bourbon/Argos e il Saint Rock, poco hanno potuto fare se non cercare di proteggere l’imbarcazione. Anzi, le imbarcazioni. Perché accanto a quella più grande e più affollata c’erano altri due gommoni, dove sono stati recuperati soltanto 7 uomini in uno e 2 nell’altro. Che fine hanno fatto gli altri passeggeri? Dove sono finiti? Una delle domande cui dovrà rispondere l’inchiesta aperta dalla procura di Agrigento, «al momento contro ignoti, ma non escludiamo l’omicidio colposo o doloso», spiega il procuratore capo Renato Di Natale. A Lampedusa torna intanto a girare la frase antica. «Siamo stati lasciati soli, l’Europa ci ha abbandonato».
La Stampa 10.2.15
“Tragedia destinata a ripetersi”
Il Viminale teme per il 2015
Libia e Siria premono: il flusso di clandestini cresce
di Guido Ruotolo
Tre «eventi» diversi. Decine di morti, forse molti di più, per il freddo, per assideramento. Profughi, disperati che hanno sfidato la sorte, che sono scappati dalle guerre etniche, di religione. Sono sempre loro, gli irregolari che provano ad attraversare il Canale di Sicilia, a pagare con la vita il tentativo di lasciarsi alle spalle un passato drammatico.
È la prima strage del 2015. Un brutto segnale. Anche a gennaio, anche adesso che il mare è proibitivo si sono fidati dei trafficanti di “merce umana” e si sono imbarcati su tre gommoni. Questo pezzo di Mediterraneo non conosce mai una sosta, mai un periodo di «fermo». E nonostante una Libia nel caos e ingovernabile, decine di migliaia di uomini e donne, vecchi e bambini, si affacciano sulla costa della Tripolitania o della Cirenaica, in attesa di partire per l’Italia. Nel gennaio del 2014 ne arrivarono 3.300, 3.709 nei primi 31 giorni di quest’anno. E se il 2014 si è chiuso con 170.000 sbarchi, quanti ne arriveranno quest’anno? Gli esperti sono pessimisti, ufficialmente non azzardano ipotesi, anche se i ragionamenti che si fanno lasciano intendere che i numeri del 2014 potrebbero essere superati.
Gli esperti del Viminale non vanno oltre un: «Nessun fattore di spinta è venuto meno». E cioè le tante crisi geopolitiche ed economiche dell’Africa e del vicino Medio Oriente continuano ad alimentare quel fiume carsico di migranti che cerca di trovare uno sfogo per raggiungere l’Europa. Finora sono stati recuperati 29 corpi senza vita, morti per il freddo. Ma degli altri due «eventi» di ieri i superstiti sono stati solo una decina. E gli altri disperati che fine hanno fatto? I due gommoni sono per caso partiti vuoti? Mentre sono confuse le notizie che arrivano dalla Libia e dal Canale di Sicilia, da noi c’è già chi comincia a denunciare che queste vittime potevano essere salvate solo se Mare Nostrum non fosse andata in pensione.
L’anno scorso, nonostante l’operazione umanitaria di Mare nostrum, con i mezzi della Marina militare a poche miglia dalle acque territoriali libiche, secondo i dati delle Nazioni unite, vi furono 3.538 tra morti e dispersi. Certo, potevano essere dieci volte di più, ma di per sé la certezza di avere navi ai confini delle acque libiche non esclude la possibilità di naufragi. E solo quasi la metà dei 170.000 migranti arrivati nel nostro Paese nel 2014 sono stati salvati da Mare Nostrum. Oggi c’è il dispositivo di Frontex che pattuglia il Canale di Sicilia, anzi i confini italiani a trenta miglia da Lampedusa. È l’operazione «Triton» che siamo riusciti a ottenere da una Europa poco entusiasta. La cronaca di queste ore ripropone drammaticamente la questione immigrazione. Anche senza Mare nostrum continueranno ad arrivare. Ma se questo esodo viene vissuto «solo» come un problema di ordine pubblico e adesso di sicurezza nazionale, per via del rischio che i terroristi jihadisti potrebbero utilizzare i canali dell’immigrazione clandestina per arrivare in Europa, il fenomeno è destinato a riproporsi in termini anche più significativi se non si aggrediscono le cause alla radice.
Per la sua dimensione endemica, l’immigrazione irregolare deve essere affrontata ormaicome questione di politica estera dell’Unione Europea. Siria e Libia, sono le due emergenze. Se si troverà una soluzione, allora si potrà governare il fenomeno della immigrazione.
Corriere 10.2.15
Il medico di Lampedusa: «Così i soccorsi sono inadeguati. Prima li avremmo salvati»
di Alessandra Coppola
«Tutti uomini giovani e forti — sospira amaro Pietro Bartolo —. Tutti morti». Ce li ha davanti, mentre gli squilla il cellulare: «Non riesco a cominciare il lavoro». Affaticato, spiccio. Un’altra strage: «Era prevedibile, e succederà di nuovo. Non è questo il sistema giusto per salvare vite umane. Probabilmente con Mare Nostrum non avremmo avuto questi morti: non è possibile che si vadano a recuperare i migranti a 100-120 miglia da Lampedusa per poi portarli verso la Sicilia in condizioni meteo proibitive. Quel dispositivo consentiva alle navi della Marina di raggiungere questi disperati, prenderli a bordo, metterli al riparo e ristorarli. Ora questo è più difficile». È il dottore dell’isola, il direttore del Poliambulatorio che ne ha salvati a centinaia, ne ha fatte partorire a decine. E poi ha anche contato i cadaveri, di tutte le provenienze e di tutte le età. «Bare, bare, qui ci servono tante bare e nient’altro!», gridava disperato alla radio quando di corpi ne erano stati raccolti in mare 366, il 3 ottobre 2013. E lui era sul molo a ricomporli: «I pescherecci arrivano e mi scaricano qui solo morti e ancora morti!».
Ieri, la Guardia costiera gliene ha portati altri 29. «Africani, sub-sahariani — dice, e per la lunga esperienza saprebbe azzardare anche da quali Paesi venivano —. Costa d’Avorio, Ghana, Niger. Non ci sono donne e bambini. Erano ragazzi. Al cento per cento morti di ipotermia». Di freddo.
Sono settimane che a Lampedusa fa il gelo degli inverni peggiori. «Una roba impensabile». Il mare è così grosso, racconta Vito Fiorino, che per 15 giorni la nave non ha attraccato. «C’è riuscita domenica a portarci i viveri, oggi neanche è venuta». Lampedusano del weekend, Fiorino era stato tra i soccorritori volontari del 3 ottobre, e adesso è con una certa angoscia che raccoglie le notizie della motovedetta che è partita per il salvataggio e per le condizioni delle onde rischiava pure di ribaltarsi.
«Non è cambiato nulla — continua Bartolo —. Dopo il primo novembre (fine di Mare Nostrum, ndr ) le barche hanno continuato ad arrivare. Solo che non se ne dà più notizia». L’ultima bagnarola «è stata rimorchiata 5, 6 giorni fa: 181 persone a bordo, come questi ragazzi partiti dalla Libia». Buttati in acqua dai trafficanti nonostante il maltempo che sta battendo il Mediterraneo.
Quando le onde sono alte, i primi a salire a bordo sono gli africani, che per gli scafisti valgono meno e possono rischiare di più. Ma ora il freddo è micidiale. «Si sono salvati i più robusti — continua il medico — chi è riuscito a trovare un angolino riparato. Ma anche i sopravvissuti sono in condizioni precarie». Non è stagione da rotta Sud. Gli arrivi negli ultimi mesi sono soprattutto via terra o dalla Turchia, su mercantili che resistono alle onde. Ma chi segue le pagine Facebook e i siti arabi dove i profughi siriani si scambiano notizie segnala un inquietante aumento delle ricerche di persone scomparse in viaggio .
Repubblica 100.2.15
Giusi Nicolini
“Tragica prova dell’inutilità di Triton con Mare Nostrum arrivavano vivi”
intervista di A. Z.
ALLE cinque del pomeriggio, sotto un vento sferzante, Giusi Nicolini è di nuovo sul molo Favaloro. Di nuovo davanti a corpi senza vita pietosamente adagiati nei teloni di plastica.
Sindaco, ci risiamo?
«Siamo di nuovo qui, di fronte a un’altra tragedia, a piangere ragazzi morti in cerca di un futuro: una situazione drammatica ma purtroppo ampiamente prevedibile, che in tanti hanno sulla coscienza ma nessuno prova vergogna ».
Chi li ha sulla coscienza, l’Europa?
«Tutti quelli che hanno fatto finta di non capire e che forse ora faranno finta di non vedere. Tutti quelli che dicevano che l’operazione Mare nostrum ha fatto aumentare gli arrivi. Forse è vero. ma almeno arrivavano vivi. Ora, invece, arrivano morti. E Triton, che dovrebbe sostituire Mare nostrum , non è un’operazione umanitaria ma solo di salvaguardia delle frontiere. Non serve a nulla: né a salvare la gente e nemmeno a dare l’allarme. L’Sos l’hanno mandato quei poveri migranti. E quel che è successo dopo è l’esempio perfetto di quanto accadrà chissà quante altre volte in futuro».
Soccorsi troppo lontani?
«Lontani, inadeguati e non attrezzati: come si può pensare di salvare i migranti in mezzo al Canale di Sicilia facendo partire motovedette aperte, senza materiali, da Lampedusa? Lo sapete quante ore ci vogliono per andare e tornare? E nel frattempo a questa gente che sta morendo quale aiuto siamo in grado di dare? Questi ragazzi non sono naufragati, né annegati, ma morti di freddo. Per non parlare del rischio che corrono anche gli operatori dei soccorsi. Ma a chi interessa davvero tutto questo? ».
Lampedusa nell’ultimo anno, con Mare nostrum , era ormai fuori dalle rotte di migranti. Cosa si prospetta adesso?
«Un drammatico ritorno al passato, come se i naufragi del 3 e del 10 ottobre non fossero mai avvenuti, come se Mare nostrum non fosse mai esistita. Ma le cose devono cambiare per forza. L’Europa ha deciso di lasciare nuovamente l’Italia da sola e l’Italia in silenzio ha permesso che succedesse di nuovo. Io purtroppo non posso spostare Lampedusa dalla carta geografica, noi siamo l’unico avamposto in mare ma non possiamo pensare di affrontare una nuova drammatica stagione di sbarchi. E soprattutto di morti. Il governo deve fare la voce grossa per riprendere un’operazione umanitaria».
Il centro di accoglienza, dopo lo scandalo delle docce disinfettanti ai migranti, è in ristrutturazione. Siete attrezzati per questa nuova emergenza?
«I padiglioni non interessati dai lavori sono agibili, il poliambulatorio lavora a pieno ritmo, ma questi poveri morti dove li mettiamo? Non abbiamo neanche le bare».
Repubblica 10.2.15
Vergogna europea
di Gad Lerner
LA DENUNCIA di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, è di quelle che dovrebbero rendere insonni le notti dei nostri governanti.
«SIAMO tornati a prima di Mare Nostrum. Non sono serviti a niente i 366 morti del 3 ottobre 2013, non sono servite a niente le parole di Francesco».
Ci avevano presentato come un successo il coinvolgimento degli altri paesi europei nella nuova operazione Triton, minimizzando il vincolo imposto alle navi militari: limitare il pattugliamento all’interno delle acque territoriali. Sottovoce lasciavano intendere che non sarebbe cambiato nulla, anzi, che tale arretramento del raggio d’azione avrebbe disincentivato i trafficanti e i profughi loro ostaggi. Con un bel risparmio di 9 milioni al mese, ovvero 108 milioni l’anno, considerati un onere eccessivo sul bilancio dello Stato.
Menzogne, sotterfugi. La verità si è imposta in queste notti invernali di mare a forza 7, quando la rinuncia a una presenza costante della Marina Militare in acque internazionali ha ritardato l’intervento delle motovedette della Guardia Costiera, peraltro encomiabili per l’impegno profuso tra le onde di otto metri che hanno prima infradiciato e poi congelato decine di poveracci, fino a ucciderli per ipotermia.
Inequivocabili risuonano le parole di Pietro Bartolo, direttore sanitario di Lampedusa: «Non è questo il sistema giusto per salvare vite umane. Probabilmente con Mare Nostrum non avremmo avuto questi morti». Le motovedette non sono attrezzate a prestare soccorsi immediati, a differenza delle navi della Marina non hanno medici a bordo, faticano a coinvolgere i mercantili di passaggio.
Anche le nude cifre sono inequivocabili. Smentita la pretesa di scoraggiare i viaggi dall’Africa mostrandoci meno accoglienti. Gli sbarchi dacché Frontex ha preso il posto di Mare Nostrum sono aumentati: furono 2171 nel gennaio 2014; sono stati 3528 nel gennaio di quest’anno. I morti registrati fino al 9 febbraio dell’anno scorso furono 12; i morti già contati alla stessa data del 2015 sono più di 50. Considerateli il prezzo di una ritirata dalle acque internazionali e chiedetevi se possiamo accettare che l’annegamento, il soffocamento, il congelamento di persone ci riguardi meno quando avviene a 100 miglia anziché a 12 miglia da Lampedusa.
Sarà bene precisare, a questo punto, che la decisione Ue di accontentarsi del presidio dei confini europei — ammesso che sia sensata e moralmente accettabile — di per sé non costituiva un impedimento alla libera iniziativa sovrana dello Stato italiano. In altre parole, l’Europa gretta e egoista non vietava affatto al nostro governo di proseguire l’azione intrapresa con Mare Nostrum. Tanto è vero che la nostra Marina Militare ha fatto pressioni sulle autorità politiche per proseguirla, ricevendo in cambio accuse di insubordinazione corredate di insinuazioni sui vantaggi economici che gliene derivavano. Insomma, l’Europa ci ha fornito un alibi per rinunciare a un’opera di soccorso umanitario della quale pure avevamo menato gran vanto. E che il governo ha pensato di poter interrompere alla chetichella, fingendo che nulla fosse cambiato.
Da questo punto di vista, i morti di freddo nel Canale di Sicilia non rappresentano solo una ferita alla coscienza nazionale di un paese civile. Segnalano anche un deficit di politica estera che offusca il nostro ruolo di potenza mediterranea.
Stiamo cedendo spazio al monopolio di mafie transazionali che insieme alla tratta dei migranti gestiscono anche il commercio illegale di armi e materie prime, avvantaggiando il radicamento jihadista sulla sponda sud del nostro mare. L’esito più immediato di questo ripiegamento potrebbe essere la chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, ultimo avamposto occidentale in Libia, dove aumentano i rischi anche per il nostro rifornimento energetico.
Ricordiamo Enrico Letta e Josè Barroso inginocchiati davanti a centinaia di bare nell’hangar di Lampedusa, meno di due anni fa. La sensazione è che ora ci troviamo di nuovo in ginocchio, ma voltati dall’altra parte come se questa tragedia non ci riguardasse più. Magari perché così ha voluto il ministro Alfano. Eppure ci vorrebbe poco per ripristinare Mare Nostrum, salvando vite umane e insieme l’onore della nazione.
il Fatto 10.9.15
C’è ancora un’Europa?
Continente diviso La sfida di Atene
La Bce non basta, serve la politica
di Barbara Spinelli
IL DEBITO PUBBLICO
141,8 mld arrivano dal fondo salva Stati, 27 dalla Bce, 52,9 dai governi, 25 dal Fmi
In un’Unione malata, divisa, minacciata da povertà e diseguaglianze crescenti, le proposte avanzate dal governo greco dopo le elezioni del 25 gennaio andrebbero attentamente esaminate e discusse: tra i 28 Stati membri, tra i 19 governi dell’Eurozona e nella Commissione, nel Parlamento europeo, nella Banca centrale europea.
Le risposte fin qui date ad Atene sono non soltanto ingiuste e in alcuni casi pericolosamente antidemocratiche, ma del tutto controproducenti. La possibilità di cambiare radicalmente rotta, nell’amministrazione della crisi e nei programmi di austerità, viene esclusa a priori. La domanda stessa formulata dal governo Tsipras – non una cancellazione del debito ma un negoziato sulle modalità dei rimborsi e un aggancio di questi alla crescita – viene arbitrariamente travisata, demonizzata e rigettata. Vince l’autocompiacimento della fede, contro i fatti e l’evidenza dei fatti. La malattia, non curata, coscientemente la si vuol perpetuare.
Per questo c’è da allarmarsi, quando i governi (e in primis il governo tedesco) lasciano sola la Banca centrale europea, con le uniche risposte tecniche che le sono consentite, a sciogliere nodi che essendo eminentemente politici non le spettano. Sola, ad annunciare che non accetterà più i titoli di Stato ellenici, e a dare alla Grecia pochi giorni di tempo per rientrare nei ranghi e obbedire alle direttive impartite a suo tempo dalla troika (la Bce lascia tuttavia una porta aperta: la possibilità di erogare liquidità d’emergenza attraverso l’Ela). Vuol dire che la richiesta di studiare il piano ellenico di rientro dal debito non sarà neppure presa in considerazione. Che al governo greco è vietato fronteggiare l’emergenza umanitaria con aumenti del reddito minimo, con la restaurazione di servizi pubblici basilari nell’istruzione e nella sanità, con nuovi investimenti, con tasse patrimoniali.
Vuol dire che non si discuterà del Piano Marshall – ben più consistente del Piano Juncker – che il ministro del Tesoro Yanis Varoufakis ha proposto al governo Merkel, chiedendogli di divenire l’“egemone” di un’Europa da guarire e rifondare. Vuol dire che l’Europa così com’è non è considerata affetta da una crisi sistemica tale da mettere in questione non qualche Stato indebitato, ma l’intera architettura dell’unione monetaria. Significa infine chiudere gli occhi di fronte all’essenziale: il divario che va estendendosi fra la sovranità dei cittadini, iscritta nelle singole costituzioni, e quello che un’élite decide al loro posto. Il fastidio è palpabile e diffuso, verso il tribunale democratico che sono le elezioni. Personalmente non auspico il ritorno delle banche centrali nelle mani degli Stati, né la fine dell’indipendenza dell’istituto di emissione. Ritengo che tale indipendenza rappresenti non un ostacolo, ma una precondizione perché il pubblico interesse sia almeno parzialmente tutelato dall’intrusione imprevedibile e infida dei mercati, delle lobby, delle forze politiche di questo o quello Stato. La vera insidia non è racchiusa nell’indipendenza della Banca centrale, ma nella sua eccessiva solitudine. Un comune istituto di emissione senza Europa politica sarà per forza di cose accusato di ingerenza e prepotenza. La banca centrale è, e deve rimanere, un’istituzione con compiti limitati; non può colmare le lacune della politica. Tuttavia, deve essere più che mai consapevole delle speciali difficoltà e responsabilità che derivano dall’anomalia di una moneta senza Stato.
UNA MONETA è legittimata se costituisce lo strumento di pagamento e di scambio di un territorio dotato di un governo, di un sovrano politico: in democrazia, un sovrano legittimato dalle urne. Se l’euro non è legittimato, è appunto perché continua a essere una moneta senza Stato. Contrapporre le riforme strutturali dell’eurozona al verdetto delle urne, affermare che le elezioni democratiche non hanno effetto alcuno sugli accordi di gestione della crisi che hanno prodotto disastri umanitari in uno Stato membro è una regressione gravissima. Questa regressione è in atto da molti anni: perdono peso le Costituzioni, i Parlamenti, gli appuntamenti elettorali. La crisi economica che traversiamo è sfociata in crisi delle democrazie. Cresce la propensione a ripetere errori del passato, precipitando un popolo nell’umiliazione: tende a ripeterli proprio Berlino, che sperimentò tale umiliazione dopo la Prima guerra mondiale. Continuare a ripetere che “l’euro è irreversibile” non ha più senso. È un sotterfugio performativo, che appartiene alla sfera del pensiero magico e non ha nulla a che vedere con la realtà e con la sua possibile evoluzione. Nessuna conquista politica o sociale è irreversibile. Non dobbiamo andare molto indietro nella storia per sapere che la nostra civiltà è, come tutte le altre, mortale.
Corriere 10.9.15
Se la sinistra attua politiche di destra
Liberali e cattolici. Tutto ciò che manca alla destra
di Ernesto Galli della Loggia
qui
Repubblica 10.2.15
I Partiti messi a nudo dalla corsa verso il Colle
di Piero Ignazi
LE ELEZIONI del presidente della Repubblica potevano costar care a Matteo Renzi se non avesse trovato un candidato in grado di unire il proprio partito e di aggregare consensi ulteriori. La prova è stata superata brillantemente gettando lo scompiglio nei campi avversi. Da un lato, il M5S si è trovato una volta di più isolato, incapace di cogliere una occasione propizia per incidere, come invece era successo al momento delle nomine dei membri per la Consulta e il Csm. Dall’altro, Forza Italia ha capito, una volta per tutte, che non ha più di fronte dei leader impacciati e percorsi da un inferiority complex, bensì un giocatore spavaldo e senza timori riverenziali.
La rivelazione della nudità del loro leader carismatico ha scatenato una crisi di identità tra i forzisti: questa volta non ci sono complotti di magistrati o di poteri forti, brogli elettorali o interventi esterni, per giustificare la sconfitta. Si è trattato di uno schienamento plateale e patente, consumato in diretta, ora dopo ora, sotto i riflettori di tutte le televisioni. Il Patto del Nazareno, continuamente invocato come un amuleto salvifico da Forza Italia, ha rivelato il suo vero fine che non riguardava tanto l’approvazione delle riforme, bensì la svirilizzazione dell’opposizione berlusconiana in vista di quel passaggio cruciale per tutti i segretari di partito che sono le elezioni presidenziali. Arrivati all’appuntamento del Quirinale tranquilli e sereni (anche loro…), i dirigenti forzisti si sono trovati di fronte un muro senza appigli, cioè un partito unito come non mai, grazie all’etica della responsabilità di Bersani. Solo allora è emerso che il Patto, ivi compresi tutti i suoi connessi opachi, serviva a Renzi per scollinare il Quirinale: gli serviva per ricondurre a sé la minoranza Pd nel momento in cui le avrebbe offerto l’occasione di contrapporsi frontalmente alla destra, e per blandire il Cavaliere illudendolo di poter tornare al centro del gioco.
Il successo, si sa, emana un profumo inebriante. Irresistibile. I primi effetti vengono dallo smottamento finale di Scelta Civica e dalla disponibilità di alcuni fuoriusciti del M5S. Quello che accade nelle aule parlamentari, però, non necessariamente si riflette a livello di elettorato. I cittadini moderati, conservatori e popu-listi, e quelli arrabbiati e disgustati, non seguono i quattro parlamentari che transumano verso il vincitore. Affinché il magnete renziano attragga e trattenga anche gli elettori, il Pd deve definire una propria identità, che vada oltre il pastiche, peraltro mal riuscito, post-democristiano e post-comunista, e oltre gli slogan e le battute ad effetto. Fin qui è stata la novità della leadership a trainare il Pd fuori dalle secche. Ma questo fattore si logora in fretta: facile per Renzi confrontarsi con un vecchio leone stanco e usurato come Berlusconi e con una wild card, a tratti inquietante, come Beppe Grillo. Il 41.8% delle europee si spiega così. Ma il futuro presenta dinamiche, e opportunità, diverse.
Certo, oggi Il Pd appare il perno di un nuovo sistema partitico, un sistema, per riprendere il classico schema di Giovanni Sartori, che ricalca il “pluralismo polarizzato” di un tempo (molti partiti molto distanti tra loro): il centro dello spazio politico è saldamente nelle mani di un grande partito (il Pd, appunto) il quale si avvale di piccole formazioni satellite alla sua destra e alla sua sinistra, e viene contrastato da due opposizioni vocali e fortemente antagoniste, posizionate a destra (Lega) e a sinistra (M5S). E Forza Italia dove si colloca in questo assetto? A destra, ovviamente, ma in posizione subalterna. Per sua responsabilità “storica”, sostanzialmente. Per troppi anni il berlusconismo ha solleticato, e legittimato, le pulsioni illiberali e populiste del suo elettorato, tanto da dar vita nei suoi anni d’oro ad un impasto, giustamente definito da Edmondo Berselli, di forzaleghismo. Allora, la dominante di quell’incrocio esibiva un doppiopetto perbenista, che si concedeva ogni tanto delle scivolate plebee e celoduriste; d’ora in poi, prenderà il connotato rozzo e diretto del leghismo in salsa lepenista di Matteo Salvini. A dimostrazione, una volta di più, che il moderatismo di stampo europeo, in Italia, non riesce ad attecchire.
Renzi naviga felicemente nella liquidità del sistema post-quirinalizio, come scriveva lunedì scorso Ilvo Diamanti. Ma i fluidi sono per definizione instabili. Per consolidare la sua posizione dominante il Pd, più che continuare a correre o nuotare, deve incominciare a pensare a sé stesso, al suo profilo valoriale: c’è una identità tutta da precisare, al di là di slogan usa e getta. Una vera egemonia da partito centrale del nuovo sistema partitico passa da questo sforzo collettivo.
il Fatto 10.9.15
Un servizio sulla scuola, ma lo staff del Ministero non gradisce le critiche ai provvedimenti del governo
Renzi, allergia alle inchieste. Raffica di tweet anti-Iacona
di Paola Zanca
C’è stato un tempo in cui arrivava la telefonata in diretta. Erano i Silvio Berlusconi, i Mauro Masi che, incapaci di contenere l’ira sul divano di casa, si intromettevano, puntualizzavano, sbraitavano. Ma nell’era di Matteo Renzi anche l’incursione nel talk show ha cambiato mezzo. E domenica sera si è messo in piedi il primo tweet-bombing ministeriale contro la videoinchiesta sulla scuola trasmessa da Presa Diretta di Riccardo Iacona. Stilettate da 140 caratteri contro chi ha osato mettere in discussione i programmi del governo su istruzione e edilizia scolastica.
LA PRIMA MOSSA, sia chiaro, l’aveva fatta lui, Matteo: due lunedì fa, guardando Piazzapulita, ha inaugurato la stagione del rosicamento via Twitter: “Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri - scriveva - basta una sera alla Tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia”. Sull’argomento, qualche giorno dopo, si erano esercitati perfino gli inglesi del Guardian, immaginando che quel tweet potesse essere l’inizio della fine del pollaio politico in tv. Il conduttore, Corrado Formigli, aveva invece interpretato il messaggio con canoni decisamente più italiani: l’evoluzione (in peggio) della telefonata insofferente. “Trovo inopportuno che il presidente del Consiglio intervenga su come debba essere fatta l’informazione in Italia - disse Formigli al fattoquotidiano . it - Mi pare uno sconfinamento. Dovrebbe stare a governare. Non è un utente qualsiasi che passa da Twitter e lascia il suo commento, è l’uomo più potente d’Italia”.
CONTRO Presa Diretta, Renzi non ha twittato. Ma che gli prudessero le mani lo si intuisce dalla raffica di retweet (citazione di frasi scritte da altri utenti) compulsata mentre andavano in onda i servizi di Iacona. Ne ha scelti 8, tutti provenienti da staff, sottosegretari e consulenti del ministero dell’Istruzione. Che nel frattempo, sui loro profili, si esercitavano nella demolizione della puntata in corso.
C'è il capo di gabinetto del ministro Stefania Giannini, Alessandro Fusacchia: “La cosa più importante che dovrà fare #labuonascuola è insegnare ai ragazzi l'onestà intellettuale. E il rifiuto degli slogan semplici”. C'è il suo collega Francesco Luccisano, capo della segreteria tecnica: “Peccato che #Presadiretta non abbia monitorato i 2000 eventi autorganizzati in giro per il Paese”. E ancora, il sottosegretario Davide Faraone, renziano doc: “Ma uno che ne parla bene di questa riforma sulla scuola lo avrete intervistato? ”. E pure la deputata Simona Malpezzi: “Spieghiamo a @Presa_Diretta come si legge la stabilità? I miliardi di investimento sono tre. Il miliardo vale solo x i mesi da settembre a dicembre”. Infine la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi: “Governo @matteorenzi assume 148.000 docenti precari. La più grande assunzione della storia. Iacona, chiamali tagli”. Il suo collega senatore Andrea Marcucci va giù dritto: “Neanche uno, neanche per sbaglio, parla bene o con cognizione della riforma scuola”.
Ma il tweet bombing, almeno su Riccardo Iacona, non ha ottenuto l’effetto sperato. “Interessante nuova frontiera della comunicazione”, lo liquida. Piuttosto, rivendica il giornalista, sono i numeri che contano. E le opinioni di chi, tra i banchi, ci vive e ci lavora. “Abbiamo dimostrato che le scuole, senza il contributo dei genitori, non potrebbero nemmeno aprire il portone. Non bisogna spaventarsi dei problemi – dice Iacona al governo - così come non si possono rimpiazzare le risorse con le parole”.
il Fatto 10.9.15
Moretti e Pinotti: contro la crisi più armi per tutti
QUASI NESSUNO se n’era accorto, ma uno dei massimi problemi dell’Italia è che spendiamo troppi pochi soldi in armamenti da guerra. Per scoprirlo, bisognava assistere ieri al convegno a cui partecipavano l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti e il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Spiega Moretti che in Italia ci sono “scarse risorse” destinate alla difesa , per questo "alla politica non bisogna chiedere solo più soldi, ma anche programmi pluriennali più certi”. Spendiamo meno della metà della Gran Bretagna, insiste, e non si tratta in questo caso “di un paese molto più grande di noi o con maggiori necessità di difesa”. A fianco, annuiva il ministro Pinotti, fresca di incontro con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (a cui ha illustrato il Libro bianco della Difesa): “Dobbiamo dare una mano alla nostra industria e alle sue eccellenze, perché questo può portare frutti a tutto il sistema-paese”. Contro la crisi, più armi per tutti. “Ricordiamoci - ha concluso il ministro Pd - che il settore industriale militare è uno dei pochi ad essere rimasto forte”.
La Stampa 10.2.15
La Cassazione: “No alle nozze gay, ma sì ai diritti”
Il parere dei giudici: le coppie omosessuali godano di uno “statuto protettivo”
qui
La Stampa 10.2.15
“Renzi è d’accordo, a marzo in aula il testo sulle unioni gay”
La relatrice Cirinnà: stessi diritti degli etero, tranne l’adozione
di Francesca Schianchi
«Con Renzi ne abbiamo parlato l’ultima volta che è venuto al Senato, e ci siamo confermati il cronoprogramma: portare il testo sulle unioni civili in Aula a marzo».
Il testo di cui lei, senatrice Monica Cirinnà, è relatrice.
«Un testo che unifica oltre 15 proposte presentate: una legge per dare diritti, doveri e riconoscimenti a chi è unito da un legame affettivo e ha un rapporto di convivenza».
L’unione civile per i gay sarà come il matrimonio?
«Tra le proposte iniziali – io stessa ero una firmataria - c’era anche quella di estendere il matrimonio alle persone dello stesso sesso. Ma abbiamo preferito accantonare l’ipotesi per evitare di far morire il testo. Con le unioni civili, i gay avranno gli stessi diritti degli sposati eterosessuali, tranne l’adozione».
Sarà però possibile che il figlio biologico di uno dei due sia adottato dall’altro, giusto?
«Giusto. Per evitare quello che succede oggi, quando per esempio una donna che ha un figlio piccolo si ammala e non può chiedere alla propria compagna di andarlo a prendere a scuola o agli scout perché, di fatto, l’altra persona della coppia per la legge è un estraneo».
La sua legge segue il modello tedesco?
«Sì, ma noi abbiamo aggiunto, nella seconda parte della legge, anche una serie di diritti quotidiani a chiunque conviva, etero ed omosessuali, come la possibilità di fare visita in ospedale o in carcere».
Tutto il Pd è d’accordo?
«La stragrande maggioranza del Pd è favorevole: in Commissione giustizia al Senato, su 8 membri forse 1 solo ha dubbi».
Non è troppo ottimista?
«Io penso che sono forse 10 o 12 i senatori Pd che potrebbero non essere d’accordo: il vero problema non è dentro al Pd, ma è capire quanti sono gli ultra-cattolici di tutti gli schieramenti e se riescono a saldarsi trasversalmente».
Anche fra gli alleati di Ncd c’è chi ha dubbi…
«Temo che dentro Ncd siano più o meno tutti contrari. Ma quando dicono di voler difendere la famiglia tradizionale, mi chiedo, da cosa? Se due uomini o due donne fanno un’unione civile, cosa tolgono in termini di diritti a me e mio marito?».
Forse temono si apra la strada a future adozioni gay.
«In Audizione, psicologi dell’età infantile ci hanno spiegato che, per il bambino, l’importante è essere amato e accudito. Comunque questo testo non prevede l’adozione, cerchiamo di fare una buona legge senza mettere il carro davanti ai buoi».
Riuscirà a passare questa legge?
«Sono certa che avremo i numeri: laddove i cattolici sapranno costruire una trasversalità, anche i progressisti sapranno costruire la loro».
Il Sole 10.2.15
La lunga crisi
Pil pro capite: baratro tra Nord e Sud
Istat: livello del 45,8% inferiore rispetto al Settentrione
In testa Bolzano, in coda Calabria e Puglia
di Alfonso Ruffo
Il reddito d'impresa non abita nel Mezzogiorno. Se, infatti, il reddito da lavoro dipendente per occupato è superiore al Centro Nord di solo (potremmo dire) il 14,8 per cento, il complessivo prodotto interno pro capite che incorpora anche il risultato dell’intrapresa presenta tra Nord e Sud profondi divari che diventano voragine se si compara il territorio più ricco, la Provincia autonoma di Bolzano, a quello più povero, la Calabria, che non raggiunge il 40 per cento del livello della prima.
Sono alcuni tra i dati più interessanti che si ricavano dalla lettura dell’ultimo bollettino rilasciato dall’Istat, l’Istituto statistico nazionale che periodicamente misura lo stato di salute del Paese attraverso la fornitura e la comparazione di alcuni parametri indicativi dell’andamento dell’economia. In questo caso il riferimento è agli anni 2011-2013.
Dunque, persiste il divario tra le diverse parti del Paese con un pil per abitante che nel Nord-Ovest è di 33,5 mila euro, nel Nord-Est di 31,4 mila, nel Centro di 29,4 mila e nel Sud di 17,2 mila euro. Si può facilmente notare la ripida caduta tra i valori dei primi tre dati, abbastanza omogenei, e il quarto che è inferiore del 45,8 per cento rispetto la media degli altri.
Insomma, in termini di ricchezza pro capite le regioni meridionali valgono la metà di quelle settentrionali. E, come già detto, a fare la differenza sono soprattutto i ricavi delle attività d’impresa, i profitti, che al Sud devono essere giunti al lumicino se i dati del lavoro dipendente, in gran parte pubblico ma anche privato, in qualche modo tengono il passo.
Tra le curiosità che vale la pena di rilevare c’è che in sole due realtà territoriali, nel 2013, il pil procapite non diminuisce: sono la Provincia di Bolzano e la Campania, naturalmente tarate su livelli assoluti assai distanti dal momento che la prima è in cima alla classifica con 39,8 mila euro e la seconda al quart’ultimo posto con 17 mila euro. Stanno peggio la Sicilia, la Puglia e la Calabria che chiude la serie con 15,5 mila euro.
Anche la spesa per i consumi delle famiglie denuncia il classico divario – e non potrebbe essere diversamente – con una media nazionale di 16,3 mila euro che diventa 18,3 mila euro nel Centro-Nord e 12,5 mila euro al Sud con una differenza del 31,7 per cento e quindi inferiore alla distanza della ricchezza. Vuol dire che, stante il basso reddito complessivo, nel Mezzogiorno si consuma in proporzione più che al Nord dove aumenta il risparmio e il possibile investimento.
Quanto alle attività che determinano il valore aggiunto pro capite, sono i servizi alle imprese, finanziari e immobiliari a fare la parte del leone (29 per cento) con il Lazio al primo posto nel terziario (85 per cento). Il contributo dell’industria è più alto nel Veneto e nell’Emilia Romagna che pareggiano con il 24 per cento, nel Friuli e nelle Marche (23 per cento) e incredibilmente in Piemonte e Basilicata (22 per cento) risultando quest’ultima la più industrializzata regione del Mezzogiorno grazie alla presenza dello stabilimento Fiat a Melfi.
Quasi tutte le regioni presentano una caduta dell’occupazione (-2,2 per cento nella media) tra gli anni osservati 2011-2013 tranne le Provincie di Bolzano e Trento (+ 2,2 e +1,3 per cento), e la Lombardia (+0,4 per cento). Le peggiori perfomance riguardano la Calabria (- 8,1 per cento), il Molise (- 8 per cento ampiamente recuperato, tuttavia, dalle recenti assunzioni proprio a Melfi), la Sardegna (-7,5 per cento) e la Sicilia (-7,4 per cento) che già partivano da posizioni di grande sfavore.
In particolare, il settore più disastrato in termini di distruzione di posti di lavoro è quello delle costruzioni dal rilancio del quale, com’è intuitivo, ci sono le maggiori aspettative di ripresa.
Corriere 10.9.15
Embrioni congelati 19 anni fa, via libera all’impianto dopo la morte del marito
Accolto il ricorso di una 50enne ferrarese
Ora il Sant’Orsola dovrà provvedere immediatamente all’impianto degli embrioni
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Corriere 10.2.15
Prostituzione, il prefetto: zone rosse? È impossibile, sarebbero fuori legge
Giuseppe Pecoraro boccia la proposta del IX Municipio, e parzialmente sostenuta dalla giunta Marino, si istituire aree all’Eur in cui permettere alle prostitute di lavorare
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il Fatto 10.9.15
“I creditori siamo noi”
Perché Tsipras rilancia il contenzioso di guerra con la Germania
“Ci dovete 162 miliardi”
di Salvatore Cannavò
La richiesta di risarcimento per i danni di guerra, fatta da Alexis Tsipras alla Germania, può sembrare una battuta. Ma questa battuta è presente nel programma di Syriza fin dalla sua elaborazione a Salonicco nel settembre scorso. E vale circa 160 miliardi. Non è uno scherzo, insomma, se è vero che ieri il vice-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, ha voluto rispondere con nettezza alle pretese greche: non se ne parla nemmeno.
LA STORIA È VECCHIA quanto la Seconda guerra mondiale. La Grecia fu invasa dalla Germania nazista, che oltre alle morti e ai saccheggi, si fece “prestare” 3,5 miliardi di dollari dell'epoca che non sono mai stati rimborsati. Alla Conferenza di Parigi del 1946 fu inoltre previsto un indennizzo nei confronti di Atene di 7 miliardi di dollari. Entrambe le somme non sono mai state pagate dai governi tedeschi. Attualizzando queste cifre si arriva alla cifra di 162 miliardi di euro indicata da Syriza. Senza contare gli interessi.
Secondo uno studio del Comitato per l'annullamento del debito (Cadtm) se si calcolasse un interesse annuo del 3% si arriverebbe alla cifra enorme di mille miliardi di euro. Cifre stratosferiche che non sembrano rientrare nelle reali intenzioni del governo greco. Nei giorni scorsi, infatti, una speciale commissione presieduta dall’ex direttore generale del Tesoro, Panagiotis Karakousis, ha indicato il debito tedesco nei confronti della Grecia in 11 miliardi di euro. La cifra non contempla la voce riguardante le riparazioni per i danni subiti durante l’occupazione tedesca dal 1941 al 1944 che invece fa parte del conteggio
Per comprendere il contenzioso, però, occorre approfondire due altre vicende: la Conferenza di Londra del 1953, con la quale sono stati annullati gran parte dei debiti di guerra della Germania e il trattato di riunificazione della Germania del 1990 siglato a Mosca.
Nel primo grande appuntamento internazionale dopo la Seconda guerra mondiale, gli alleati occidentali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Belgio, Olanda e molti altri) decisero quello che oggi è impedito alla Grecia: una riduzione del 62,5% del debito tedesco.
QUESTO AMMONTAVA a 22,6 miliardi di marchi per la parte anteriore alla guerra e a 16,2 miliardi cumulato dopo la Seconda guerra mondiale. Fu ridotto a 14,5 miliardi e alla Germania furono garantiti altri benefici importanti: il rimborso in marchi, un tetto al rimborso annuo fissato al 5% dei redditi provenienti dalle esportazioni, un tasso di interesse oscillante tra lo zero e il 5%. Anche grazie a queste condizioni la Germania uscì dalla sconfitta disastrosa e divenne la potenza che è.
In quella conferenza, all’articolo 5 dell’accordo, si stabilì peraltro che “l’esame dei crediti scaturiti dalla Seconda mondiale dei Paesi in guerra con la Germania oppure occupati (…) saranno differiti fino al regolamento definitivo del problema delle Riparazioni”. Un rinvio sine die che impedì che la Grecia potesse beneficiare del rimborso dovuto.
Il sine die si è prolungato fino al 1990 quando si è verificata l’unificazione delle due Germanie e la vera fine geopolitica del periodo post-bellico. Il Trattato di Mosca del 1990, il cosiddetto trattato 4+2 (siglato dalla Repubblica federale e dalla Repubblica democratica di Germania insieme a Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Unione sovietica) non fa però alcuna menzione dei debiti di guerra e del capitolo delle Riparazioni. Ed è proprio su questo appiglio giuridico che si lega la posizione tedesca: non essendo menzionato il problema, si intende risolto. L’interpretazione è riportata nelle note all’accordo redatte dall’allora direttore degli affari politici del ministero degli Esteri francese, Bertrand Dufourcq: “Il trattato di Mosca non contiene tutte le clausole di un trattato di pace (…) in particolare non menziona il problema delle riparazioni”. Tuttavia, sottolinea ancora il diplomatico francese, il documento contiene “aspetti essenziali di un trattato di pace” ed è proprio “per il suo non-detto che mette davvero fine al periodo aperto nel 1945”.
IL CONTENZIOSO è molto raffinato e probabilmente non se ne farà nulla. Ma Atene ha deciso di tirare fuori la vicenda per avere più armi nella difficile trattativa con l’Europa. Il rapporto Karakousis, infatti, sarà girato al ministro degli Esteri il quale dovrà inviarlo all’Avvocatura di Stato. Inoltre, dovrebbe essere insediata una apposita commissione per consigliare il governo sulla strada da seguire. Per il momento, a giudicare dalle reazioni tedesche, la mossa di Tsipras ha ottenuto l'effetto di innervosire Berlino. E forse anche questo autorizza Tsipras alla dichiarazione fatta ieri dopo l’incontro con il collega austriaco: “È nell’interesse di tutti trovare una soluzione favorevole a tutti”, ha detto in previsione dell’incontro di domani a Bruxelles dei ministri dell’Eurozona: “Ecco perché sono molto ottimista. Finora non abbiamo sentito nessuna alternativa praticabile rispetto a quella che noi abbiamo proposto. Non vi è ragione per non raggiungere un accordo, a parte motivi politici”.
Corriere 10.9.15
Non solo l’Ucraina: la nuova leadership della Cancelliera
di Danilo Taino
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La Stampa 10.2.15
Israele, la Knesset specchio di una lotta all’ultimo voto in vista delle elezioni
Yizhak Herzog, leader del partito laburista che punta a strappare il governo a Likud, si aggira nell’area delle “stanze di partito”, per coordinare incontri di strategia elettorale
di Maurizio Molinari
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Corriere 10.2.15
Campagna anti Netanyahu
Soldi e consiglieri dagli Usa per i volontari porta a porta
TEL AVIV La mappa appesa al muro — le bandierine spillate sulle città israeliane — sembra quella di una campagna militare. Gli slogan e gli adesivi da appiccicare sul paraurti ricordano una campagna pubblicitaria. L’obiettivo è uno solo: scampare la rielezione di Benjamin Netanyahu, convincere gli elettori a non garantire il quarto mandato al primo ministro.
Il quartier generale sta su viale Rothschild in un palazzo circondato da case costruite agli inizi del Novecento, la città è nata e si è sviluppata partendo da questi incroci. E’ la parte giovane di Tel Aviv — almeno la notte, viverci costa sempre più caro — e giovani sono i fondatori del movimento che sta infastidendo il Likud più dell’opposizione ufficiale dei laburisti. Itamar Weizman ha 21 anni, è uno studente di storia e come ogni altro ragazzo israeliano ha già ideato un paio di start-up tecnologiche. Nimrod Dwek (32) la società digitale l’ha fondata, il profilo Linkedin lo definisce un «ninja del marketing».
Nella loro sfida a Netanyahu hanno importato le tecniche di mercato, lo studio dei big data e uno dei consiglieri di Barack Obama, lo stratega che ha pianificato la propaganda porta a porta — nel 2008 e quattro anni dopo — per la rielezione del presidente americano. Di porte Nimrod e Itamar vogliono riuscire a bussarne un milione: «Abbiamo già 4.500 volontari che girano per il Paese. Il messaggio non è contro Netanyahu, non lo nominiamo. Quello che diciamo è: andate a votare e scegliete il cambiamento. Non spingiamo nessun partito. Per questo ci chiamiamo semplicemente Victory 15, vogliamo vincere e vincere significa mandare a casa chi ci ha governato fino ad ora».
La formula senza bandiera non rilassa la destra, gli avvocati di Netanyahu hanno presentato una denuncia contro il gruppo, sostengono che l’attività sia illegale. I complottisti ci vedono un piano di Obama per vendicarsi del premier israeliano: nel 2012 aveva espresso in pubblico il sostegno per l’avversario repubblicano Mitt Romney. Fanno notare: dagli Stati Uniti non è arrivato solo un consigliere, scorrono anche i dollari messi a disposizione dal miliardario S. Daniel Abraham, che a 90 anni scommette su questi ragazzi. «Non sostengo nessun candidato — spiega al telegiornale del Canale 2 — sono un sionista e credo che Israele debba cambiare strada se vuole restare democratica e con una maggioranza ebraica». Abraham appoggia la soluzione dei due Stati, un accordo con i palestinesi. I volontari di Victory 15 sembrano più preoccupati dal costo della vita o da quanto costi mantenere le colonie in Cisgiordania.
La spaccatura con Washington era già profonda prima, riempita solo dai sospetti reciproci. Il premier resta ostinato nella decisione di parlare davanti al Congresso agli inizi di marzo. Anche se la Casa Bianca ha definito la procedura fuori protocollo (l’invito è arrivato dai leader repubblicani) e il vice presidente Joe Biden — considerato grande amico di Israele — ha già annunciato che non ci sarà. Obama ha spiegato ieri perché non incontrerà Netanyahu: «Sarebbe inappropriato a pochi giorni delle elezioni, significherebbe interferire nella politica interna di un Paese». E ha aggiunto sorridendo ad Angela Merkel, la cancelliera tedesca in conferenza stampa con lui: «Angela non l’avrebbe mai fatto, non l’avrebbe neppure chiesto».
Il Likud spera ancora di ottenere la messa al bando di Victory 15 — che ha risposto presentando una querela per istigazione alla violenza — prima del 17 marzo. Quel giorno Nimrod e Itamar contano di poter dispiegare davanti ai seggi almeno 15 mila attivisti: senza simboli di partito o nomi di politici esposti non devono rispettare le norme che impongono lo stop alla campagna durante le ore del voto. «Chiameremo di nuovo una a una le persone che abbiamo incontrato in questi mesi, al mattino presto, quando siamo ancora in tempo, e chiederemo loro di farci una promessa: andare alle urne».
Sanno che l’entusiasmo potrebbe non bastare. I sondaggi danno Netanyahu in crescita, vincerebbe con un paio di seggi di scarto e la destra avrebbe i numeri per formare una nuova coalizione .
Corriere 10.2.15
La scoperta
La prova del contattotra noi e i Neanderthal
Nei resti fossili trovati in una grotta di Israele la storia di quando vivevamo insieme
di Edoardo Boncinelli
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Corriere 10.2.15
Il comunismo sotto la lente di Venturi
di Giuseppe Galasso
Ora che il marxismo pare sepolto da ben più di tre giorni e si è quasi indotti a chiedersi «Marx, chi?», non è facile immaginare quel che Karl Marx e il marxismo significarono per un secolo e mezzo in ogni parte del mondo, soggiacendo poi all’alternanza del «servo encomio» (prima) e del «codardo oltraggio» (dopo) nelle grandi svolte storiche.
Lo ricorda con efficacia la pubblicazione di due inediti di Franco Venturi, Comunismo e socialismo. Storia di un’idea (Centro studi di storia dell’Università di Torino, pp. 176, e 14, disponibile presso il dipartimento di studi storici dell’ateneo, tel. 011.6703126). Il primo fu scritto, si ipotizza nell’introduzione, prima della firma nell’agosto 1939 del patto nazi-sovietico per la spartizione della Polonia, che poté indurre Venturi a desistere dall’idea di scrivere una storia dell’idea comunista «nella sua unità» originaria, comprensiva anche di socialismo e anarchismo. L’inedito ne era la prima parte, dedicata al «comunismo illuminista», seguito attraverso alcuni nuclei problematici fondamentali (l’utopismo, il rapporto ragione-natura, la questione del progresso) e, in specie, Diderot, Morelly, Rousseau. Il secondo inedito, del 1941-'42, è dedicato al socialismo «romantico» (Saint-Simon), ma giunge subito a Marx e al socialismo «moderno» (dopo Marx) e ad alcune riflessioni sulla natura e il destino del comunismo.
Non erano scritti di occasione. Come emerge anche dalla solida biografia di Adriano Viarengo ( Franco Venturi. Politica e storia del Novecento , Carocci, pagine 334, e 30), il problema del comunismo assillò Venturi fin dalla più giovane età. Egli aveva aderito, e restò sempre fedele, a Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Carlo Rosselli con l’idea di un «socialismo liberale», alternativo al comunismo marxista. Venturi ne ribadì le idee in un opuscolo del 1943, Il socialismo di oggi e di domani (ora incluso nei suoi scritti politici, pubblicati nel 1996 dall’editore Einaudi, a cura di Leonardo Casalino, con il titolo La lotta per la libertà ); e il confronto con Marx e col «socialismo reale» che a lui si rifaceva rimase poi sempre al centro del suo spirito, e non per suggestione di partito o di scuola. Nella scia di Rosselli, egli aveva ben capito che quella comunista era la grande sfida del secolo. Una sfida che non si prestava a dubbi sul punto della «libertà», alla quale il «socialismo reale» si era negato, ma che imponeva anche ai più liberali il problema della «giustizia», insegna di quel socialismo, che Rosselli aveva sentito ineludibile nella moderna società industriale.
Si capisce da ciò quale sia stato il giudizio di Venturi su Marx e sul comunismo sovietico. Un giudizio formato nel fuoco delle passioni politiche di quel tempo, che fecero di Marx e del comunismo l’oggetto di confronti ideali e materiali di una intensità poche volte raggiunta in altre epoche, ma commisurata a tutto ciò che in quei confronti era in gioco.
Pur attraverso la passione politica, la non comune intelligenza storica di Venturi emerge, tuttavia, nei due inediti, che la confermano, poiché si legano alle prime prove del grande storico che egli sempre più divenne. Ma, come dicono i curatori del volume (Manuela Albertone, Daniela Stella, Edoardo Tortarolo, Antonello Venturi), essi attestano pure gli «stimoli che Franco Venturi è ancora in grado di offrire». Alcuni punti da lui qui affermati, come le radici illuministiche del comunismo, il suo fondamento religioso, la sua soluzione economicistica del problema della giustizia, sono idee o spunti di idee non banali, né del tutto scontati. Anch’essi rinverdiscono, perciò, il ricordo di uno studioso di straordinario rigore e originalità, che fu pure un appassionato testimone del suo tempo e un fedele dell’idea di libertà come condizione anche di quella di giustizia.
Corriere 10.2.15
La giustizia sociale non è una chimera
di Arturo Colombo
Da quando Tommaso Moro pubblicò nel 1516 il suo capolavoro, «utopia» significa non-luogo, cioè qualcosa di inesistente. Adesso, però, il presidente del Centro universitario di studi utopici, il professor Arrigo Colombo, ha pubblicato un volume dal titolo La nuova utopia (Mursia, pagine 454, € 26), che dà al termine «utopia» un significato diverso, come progetto di una società che non c’è, almeno finora, ma che occorre impegnarci a rendere operante, se vogliamo farla finita con il sistema politico-sociale in cui tuttora viviamo, che si identifica in una società «stratificata, discriminata, di ricchi e poveri, di potenti e deboli, di sfruttatori e sfruttati».
Giustizia, libertà e eguaglianza costituiscono altrettanti «valori etico-politici» indispensabili per rendere possibile quello «Stato giusto», senza il quale non potremo mai rendere effettivo un ordinamento capace di fare della democrazia e del benessere una concreta realtà estesa dovunque. Certo, è un processo lungo e complicato; ma per Colombo questo è «il grande tema del nostro tempo», l’unico in grado di coinvolgere tutti per un futuro migliore.
La Stampa 10.2.15
È un “sacro vuoto” la libertà dell’Occidente
La nostra società ha prodotto un’integrazione senza differenze
Solo il rispetto delle identità religiose e sociali può condurre a un mondo pacifico
di Wael Farouq
Negli Anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011). Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà.
Tutto è effimero
Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine «post», anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente.
Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione.
L’uniformità
I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano – e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva.
Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il «diverso», operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la «diversità», poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé.
Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo?
Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una «società parallela», dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione.
Gli immigrati
L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero.
In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal «sacro nulla» al «nulla è sacro». Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine.
Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo.
(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)
La Stampa 10.9.15
Quando una pièce su Pio XII spaccò socialisti e democristiani
Compie 50 anniIl vicariodi Hochhuth, denuncia dei silenzi papali sull’Olocausto. L’Italia lo censurò e il centrosinistra rischiò di cadere
di Alberto Papuzzi
All’inizio era sembrato un caso di secondaria importanza. Uno dei tanti che negli Anni Sessanta agitavano le acque della borghesia intellettuale e alimentavano i pettegolezzi nel bel mondo romano. In realtà si rivelò un affare spinoso, con serie ripercussioni politiche, con denunce, provocazioni e accuse. Come sempre, nel nostro Paese, ci si ritrovò a fare i conti con quelli del sì e quelli del no, con il partito dei laici e quello dei credenti. Ci fu chi addirittura pronosticò beghe e rotture che avrebbero potuto mandare a carte quarantotto l’alleanza di centrosinistra, fra democristiani e socialisti, già per sé fragile; e si tornò a discutere circa l’interpretazione del primo articolo del Concordato del 1929.
Parliamo di un testo teatrale - Il Vicario del drammaturgo e scrittore tedesco Rolf Hochhuth - che cinquant’anni fa mise in scena i silenzi di Pio XII di fronte allo sterminio degli ebrei pianificato da Hitler.
Scritto nel 1963, in cinque atti, messa in scena nello stesso anno a Berlino e l’anno seguente a Londra, Il Vicario arrivò in Italia, agli inizi del 1965, accompagnato dagli echi di qualche inevitabile polemica, ma senza eccessivi imbarazzi. Soltanto Parigi aveva visto costituirsi due veri schieramenti, uno a favore, l’altro a biasimo, del lavoro di Hochhuth. Ma prima che su un palcoscenico, il testo era entrato nelle librerie, pubblicato da Feltrinelli nel 1964, con una prefazione dello scrittore e critico cattolico Carlo Bo. Come dramma teatrale finì nelle mani del regista Carlo Cecchi, con la compagnia di Gian Maria Volonté, attore di cui era arcinoto l’impegno politico. Attore popolare per gli spaghetti-western, però nel 1960 aveva fatto in teatro Sacco e Vanzetti, sul dubbio processo ai due anarchici, e nel 1962 aveva girato Un uomo da bruciare (storia d’un sindacalista assassinato dalla mafia).
Ma l’allestimento italiano del testo di Hochhuth fu oggetto di una censura che lo fece diventare un caso politico. Cecchi e Volonté riuscirono a organizzare soltanto una rappresentazione quasi clandestina nel retrobottega della Libreria Feltrinelli (11 febbraio 1965). Erano previsti successivi allestimenti in una cantina romana, ma furono vietati dalla Pubblica Sicurezza perché mancava il certificato di agibilità; quindi arrivò anche un decreto prefettizio che dichiarava l’opera di Hochhuth contraria alle norme del Concordato. Nel frattempo la polemica fra chi chiedeva rispetto per il Sommo Pontefice e chi difendeva strenuamente la libertà di espressione si era spostata anche a Firenze, dove teatranti e sostenitori si chiudono nel Teatro di Santa Apollonia, per mettere in scena (è il caso di dirlo) uno sciopero della fame. Sul quale si esercitò la satira di un settimanale di destra, Lo Specchio, che pubblicò fotografie di vassoi di salsicce destinate agli scioperanti. In altri ambienti, vicini al Vaticano, corsero invece voci sul coinvolgimento di agenti o ex, di servizi segreti dei Paesi dell’Est, che avrebbero fornito a Hochhuth materiali per costruire e far parlare il suo Vicario.
In realtà l’opera era la punta di un iceberg che osava affrontare in modo estremamente critico la figura, al tempo quasi sacrale, di Pio XII. «Per cinque lunghi anni assistette al sommarsi convulso degli addendi di un tragico quoziente di morti e distruzioni. Eppure non parlò mai», come scrisse Carlo Falconi, vaticanista dell’Espresso. Ma altrettanto impegnativi erano gli interventi a difesa del papa, alla morte del quale la statista israeliana Golda Meir riconobbe che aveva «levato la voce in difesa della vita».
Sul tema si registrano, fra gli altri, interventi di Mauriac e di Camus. Diversi personaggi pubblici, per esempio Alcide De Gasperi, hanno riconosciuto di aver trovato protezione nelle stanze vaticane. Hochhuth, che nel frattempo aveva scritto un altro testo polemico, Soldati, contro Winston Churchill (senza però destare scandali), chiuderà la sua carriera con la sceneggiatura di un opaco film di Costa Gavras, Amen.
Repubblica 10.2.15
Yalta
Dall’ordine mondiale al nuovo caos globale
Settant’anni fa i leader dei paesi vincitori con un tratto di penna ridisegnarono l’Europa Ora invece, con la Ue divisa e la crisi ucraina l’idea di una regia unica sembra tramontata
di Lucio Caracciolo
L’ORDINE mondiale è l’utopia di ieri. Sono passati settant’anni dalla conferenza di Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica. Fu la guerra fredda, a suo modo una pace fra i potenti pagata con l’oppressione all’Est e i conflitti alle periferie del pianeta, dalla Corea al Vietnam, dal Medio Oriente al Congo. Crollata l’Unione Sovietica, toccò a George Bush padre evocare l’alba di un “nuovo ordine mondiale” che si sarebbe retto sulla benigna egemonia di un solo paese, il suo. Lo chiamammo Washington consensus.
Ci pensò Bush figlio a sabotarlo, con la “guerra al terrorismo”, seguita dalla crisi del 2007 scoppiata nella pancia della finanza privata americana. E adesso?
Immaginiamo che i leader del pianeta si dessero di nuovo appuntamento a Palazzo Livadija, già residenza estiva degli zar presso Yalta, in Crimea, dove i Tre Grandi si internarono dal 4 all’11 febbraio 1945. Ordine del giorno: rimettere ordine in questo caos. Non si potrebbe scegliere luogo più simbolico della corrente incertezza geopodiscussione litica. La prima disputa scoppierebbe sulla proprietà del palazzo. Siamo in Ucraina oppure in Russia? In un concerto di nazioni ben temperato, la questione non si porrebbe, vigendo un catasto unico — ogni Stato con le sue proprietà riconosce i suoi omologhi con le loro. Oggi, come minimo, Kiev minaccerebbe di bloccare le vie di accesso alla Crimea (senza essere presa troppo sul serio) e Mosca di forzare il passaggio a mano armata, se necessario (venendo presa terribilmente sul serio). Ma ammettiamo che un impulso di retto pragmatismo induca tutti a “concordare di dissentire” sulla proprietà della monumentale villa con il suo vasto parco. E siccome il fatto prevale sul diritto, finché non diventa tale, la vigilanza sia affidata agli “uomini verdi”, cioè agli “specialisti” russi senza divisa che nel marzo scorso requisirono la Crimea formalmente ucraina. Potremmo a questo punto celebrare la nuova Yalta? C’è da dubitarne.
Il contenzioso successivo riguarderebbe la verifica dei poteri. In parole povere: chi è abilitato a negoziare il nuovo ordine? Nessuno obietterebbe sui titoli del presidente degli Stati Uniti né sulle credenziali del collega cinese. Quanto al leader russo, la potrebbe essere chiusa dalla regola di ospitalità per cui in ogni competizione internazionale i padroni di casa sono ammessi di diritto. Buona educazione potrebbe consentire ai responsabili di Giappone, Canada, India, Brasile e Sudafrica di accedere ai marmi bianchi di Livadija, mentre all’Australia verrebbe proposto di accontentarsi di un consigliere nella delegazione britannica. È infatti scontato che il Regno Unito pretenderebbe il seggio che fu di Churchill.
Eccoci al terzo, decisivo scontro: chi parla per l’Europa? La battaglia si disputerebbe in teatri paralleli. Pro forma a Bruxelles, dove presidente del Consiglio europeo e presidente della Commissione si adatterebbero infine a uno strapuntino per ciascuno. Pro substantia fra Berlino e Parigi, con Roma, Madrid e Varsavia a litigare sul numero dei rispettivi auditori. Economia, demografia e influenza internazionale inclinerebbero la bilancia verso la Merkel. Bomba atomica e residuo impero transcontinentale direbbero Francia. Eppoi Hollande non vorrebbe rinunciare alla soddisfazione di sedere lì dove non poté de Gaulle. Cinesi, americani e russi finirebbero per gentilmente imporci la formula due più due. Stringendosi un po’, Merkel e Hollande occuperebbero insieme un’ampia poltrona di prima fila, con Tusk e Juncker appollaiati sull’annesso divanetto di coda.
Benvenuti alla seconda Yalta, in formato 9 (Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone, Canada, India, Brasile, Sudafrica, Regno Unito) più 4 (Germania/Francia con l’appendice Ue/Commissione). Tredici a tavola, alla faccia della superstizione. Consesso comunque pletorico, considerando che i protagonisti dei due massimi tentativi di ordinamento del mondo in età moderna e contemporanea — Vienna 1815 e Yalta 1945 — vertevano su schieramenti rispettivamente a 5 e a 3. Esubero rivelatore: troppi sono i pretendenti al protagonismo. L’ordine fra diseguali presuppone ordinanti e ordinati. Abbiamo oggi un’abbondanza di aspiranti al primo status e una carenza di comparse disponibili a farsi comandare. Con una zavorra aggiuntiva: gli Stati di oggi non sono altrettanto autorevoli di quelli di ieri. Anche — o specialmente — quando sono autoritari.
Senza illusioni, ma in uno slancio di volontarismo, noi europei potremmo quanto meno contribuire a snellire il formato della Livadija bis. Basterebbe dare seguito alla retorica comunitaria, che ci vuole vocati a parlare “con una voce sola”. Quale migliore occasione di provarla vera? Allo stato della fisiologia e delle scienze biologiche attuali, disporre di una voce sola implica una condizione: avere un solo corpo, dotato di sano apparato fonatorio. Si pone dunque il dilemma di come ridurre i Ventotto a Uno. Tre possibilità, in teoria. La prima è l’Europa tedesca. Sembrerebbe la più ovvia. Ma è miraggio: la Germania non può e non vuole assumersi la responsabilità di armonizzare la cacofonia continentale. Non può perché ha sempre dimostrato, e continua a rivelare nel suo modo di concepire l’unione monetaria, di non sapere esercitare alcuna forma di egemonia, integrando parte degli interessi altrui nei propri calcoli strategici. Altrimenti non avrebbe tentato, con un certo provvisorio successo, di trasformare l’euro — la moneta concepita da francesi e italiani per abolire il marco — in un nuovo marco, a spese dei soci dell’eurozona. Non vuole perché la grande maggioranza dei tedeschi mira al proprio benessere e ai propri affari. Punkt. C’è molta “Grande Svizzera” nella “Grande Germania” che ossessiona i germanofobi. Almeno finché la maionese europea non finisce di impazzire.
La seconda soluzione è l’euronucleo, idea lanciata ventuno anni fa dall’attuale ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Una Confederazione Europea guidata da Berlino, con Parigi junior partner, più Benelux e qualche partner nordico o baltico, a cominciare dalla Polonia. Con noi italiani e altri periferici ridotti a satelliti, aggrappati alle Alpi per non affogare nel Mediterraneo. Oppure, nel caso più fortunato, con Roma riammessa in extremis nel club dell’Europa-Stato confederale, essendo finalmente riuscita a rimettere ordine in casa propria. Non riusciamo a concepire un’ipotesi più attraente per l’Italia e per il Vecchio Continente.
Infine, la guerra. L’ordinatore di ultima istanza, quando tutto il resto fallisce. Si obietterà che quasi nessun europeo (occidentale) ha voglia di farla, a differenza del 1914 e, in minor parte, del 1939. Eppure domenica scorsa, Hollande ha pronunciato la parola impronunciabile — “la guerre” — quale unica alternativa al fallimento dei negoziati sull’Ucraina. È bene che questo termine non sia più tabù. Perché fingendo che il pericolo, per quanto remoto, non esista, rischiamo di abbandonarci a una dolce deriva. Quasi che il disordine attuale possa prolungarsi impunemente all’infinito, senza suscitare gli spiriti animali che non cessano di abitare anche gli uomini di miglior volontà.
Repubblica 10.2.15
In quel febbraio del ’45 i veri sconfitti furono i sogni democratici dell’Est
Quando Stalin svelò il metodo “Contano solo i rapporti di forza”
di Massimo L. Salvadori
NEL corso della seconda guerra mondiale, quando ormai si profilava, dopo quella dell’Italia, la sconfitta della Germania e del Giappone, le potenze alleate — Usa, Gran Bretagna e Urss — si trovarono nella necessità di affrontare e risolvere non soltanto le questioni militari, ma anche i problemi relativi alla futura sistemazione politico-territoriale del mondo. Gli accordi tra le potenze non potevano non riflettere i rapporti di forza che andavano a mano a mano stabilendosi tra di esse. La conferenza di Yalta era stata preceduta da quella di Teheran fra il 28 novembre e il primo dicembre 1943, dove era già emersa la relativa posizione di secondo piano della Gran Bretagna. Qui era stato deciso che l’apertura del “secondo fronte” sarebbe avvenuta in Francia e non nei Balcani come invece chiedeva insistentemente Churchill e si erano delineate, seppure in maniera non ben definita, le sorti della Germania e della Polonia. Ancora precedente a Yalta era stato l’incontro nell’ottobre 1944 di Churchill con Stalin, in cui i due leader avevano siglato su un foglio le percentuali della loro influenza in Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Grecia, senza tener conto alcuno della volontà e degli orientamenti politici dei popoli coinvolti.
La conferenza di Yalta, che si svolse dal 4 all’11 febbraio 1945 e che come quella di Teheran vide riuniti Roosevelt, Churchill e Stalin, fu fortemente condizionata dalla marcia inarrestabile delle truppe sovietiche verso Occidente. L’orientamento del primo era di cercare un’intesa con i sovietici atta a garantire in futuro la pace internazionale; quello del secondo di salvare l’integrità dell’impero britannico; quello del terzo di assicurare al suo paese la piena sicurezza mediante il controllo sull’Europa orientale. Le principali decisioni prese furono: 1) la divisione della Germania, dopo la fine della guerra, in quattro zone di occupazione, una delle quali, assegnata alla Francia, sarebbe stata ricavata da quelle affidate alla Gran Bretagna e agli Usa; 2) la totale smilitarizzazione del paese vinto; 3) la sua denazificazione; 4) il pagamento di ingenti riparazioni, richiesto ai vinti con vigore dall’Urss, che era stata letteralmente devastata dagli occupanti tedeschi; 5) la definizione delle frontiere della Polonia e un accordo, rimasto nel vago e del tutto ambiguo, riguardante il governo provvisorio polacco, da formarsi con esponenti sia filosovietici sia filo-occidentali; 6) la congiunta dichiarazione (già clamorosamente smentita dagli accordi Churchill- Stalin dell’agosto 1944) che i paesi liberati avrebbero dato vita a governi “responsabili di fronte alla volontà popolare” e fondati su “libere elezioni” (Stalin commentò: «Possiamo eseguirla alla nostra maniera. Ciò che importa è il rapporto di forze»); 7) la dichiarazione che l’Organizzazione delle Nazioni Unite sarebbe stata retta da un Consiglio di sicurezza, composto, oltre che da Usa, Urss e Gran Bretagna (i “veri grandi”), anche da Francia e Cina (“grandi” unicamente per concessione dei primi) e che soltanto il loro unanime accordo avrebbe consentito l’applicazione delle decisioni. Il che rappresentò un punto di forza per l’Urss, sola di fronte alle quattro potenze a ordinamento politico e sociale diverso dal suo; 8) l’impegno dell’Urss a entrare in guerra con il Giappone entro due-tre mesi dopo la capitolazione della Germania.
La conferenza di Yalta pose per aspetti decisivi le premesse di quella successiva di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945), nella quale, avvenuta la resa tedesca, le potenze vincitrici sancirono quanto stabilito a Yalta circa la divisione della Germania in zone di occupazione (senza però dar seguito all’ipotesi presa in considerazione a Teheran di procedere alla formazione di più Stati tedeschi). Yalta e Potsdam da un lato costituirono un grande successo in particolare per l’Urss, che, nonostante futuri acuti contrasti con le potenze occidentali, fu in condizione di imporre il suo dominio imperiale sull’Europa Orientale; dall’altro segnarono la divisione sia della Germania sia dell’Europa in due sfere di influenza poste sotto gli ombrelli delle “superpotenze” americana e sovietica.
Repubblica 10.2.15
Yalta
di Henry Kissinger
D OPO la Conferenza di Yalta il giubilo fu generale. Riferendo al Congresso, Roosevelt sottolineò l’accordo raggiunto sulle Nazioni Unite, ma non le decisioni prese riguardo al futuro politico dell’Europa o dell’Asia. Quando la Conferenza di Yalta ebbe termine, si celebrò solo l’alleanza del tempo di guerra; le incrinature che in seguito l’avrebbero fatta crollare non erano ancora visibili. La speranza regnava ancora sovrana e “Zio Joe” (Stalin, ndr) veniva considerato come un socio che non creava complicazioni. Il tema che l’occupante del Cremlino fosse in cuor suo un moderato pacifico che aveva bisogno di aiuto per tenere a freno i suoi colleghi intransigenti fu per molto tempo una costante delle discussioni negli Stati Uniti. Ma Stalin era un maestro della Realpolitik, non un nobile cristiano. Questa guerra non assomiglia a quelle del passato; chiunque occupi un territorio impone anche il proprio sistema sociale.
Il Sole 10.2.15
È morto domenica a Roma, a 95 anni, il vicepresidente dell’Associazione Nazionale Partigiani
Massimo Rendina, partigiano della memoria
di Marco Mele
Bisogna evitare “l’interruzione della memoria”. Questa frase, pronunciata da Walter Veltroni alla Camera ardente in Campidoglio, in onore di Massimo Rendina, vicepresidente dell’Anpi nazionale, può rappresentare l’attività del Comandante Max, morto domenica a novantacinque anni. Fu proprio Rendina l’ideatore e l’anima della Casa della Memoria e della Storia in Trastevere.
Comandante partigiano - guidò la liberazione di Torino - e storico della Resistenza (scrisse il Dizionario della Resistenza Italiana nel 1995). Giornalista - dirige il Tg della rete nazionale della Rai dopo Vittorio Veltroni - e Docente di scienze delle comunicazioni. Per Massimo è stato fondamentale essere protagonista degli eventi senza esserne in balia ma, allo stesso tempo, analizzarli, comunicarli, affidarli al futuro, ai giovani.
Sempre coerente e intransigente sui valori della Resistenza e dell’antifascismo, non aveva certo paura di passare per eretico. Cristiano, entra nella Brigate Garibaldi e nel Pci. Salvo uscirne, «ma senza drammi, eravamo tutti amici. Decisero di espellermi, ma fu una cosa pacifica», perchè denuncia come il Partito fosse acquiescente verso l’Unione Sovietica. Non senza aver fatto in tempo a stampare a Torino la prima edizione dell’Unità clandestina, insieme a Giorgio Amendola.
Comincia a fare il giornalista al Resto del Carlino, a Bologna, insieme ad Enzo Biagi, conosciuto nel 1939. Inviato al fronte russo, rientra in Italia per malattia, entra nelle Brigate Garibaldi, dove diventa prima comandate di brigata e poi capo di stato maggiore; viene ferito gravemente.
Nell’immediato dopoguerra, con la vittoria della Dc nel 1948, fu tra gli organizzatori di alcune imprese vicino alla goliardia, «per recuperare la giovinezza perduta», ma anche per infrangere i tabù del conformismo. Tra queste, il rapimento della Secchia rapita da Modena, con tanto di processo e assoluzione e con ritorsione dei modenesi contro l’Università di Bologna. Giuseppe Dozza, “il sindaco”, costretto a intervenire per evitare il peggio. O la marcia per occupare San?Marino, in parte vestiti da garibaldini, in parte da antichi romani, bloccata dai carabinieri, tra le risate generali.
Alla Rai, Massimo Rendina è il secondo direttore del Telegiornale dopo Veltroni. Troppo indipendente, viene rimosso con il governo Tambroni. Dopo Piccioni sarà proprio Enzo Biagi a prenderne il posto. Odiava chi faceva la vittima: “non lo sono stato: mi hanno aumentato lo stipendio e nominato condirettore centrale”. Da responsabile delle tecnologie Rai lancia la ricerca e lo sviluppo di nuove modalità trasmissive, dal Televideo al satellite.
La piazza era la sua seconda casa e non solo il 25 aprile. Massimo Rendina non è mai stato uno che si chiudeva o che si poteva chiudere in una stanza, con una poltrona. Da giornalista partecipa all’attività della Federazione Nazionale della Stampa, si candida alle elezioni, va ai congressi, litiga e si batte contro ogni censura, per l’autonomia dell’informazione.
Va nelle scuole a raccontare la Resistenza e il dopoguerra, organizza eventi multimediali alla Casa della Memoria. Un piccolo ricordo personale: Rendina presenta, insieme a Marino Sinibaldi, nel 2001, il libro L’Ora del ritorno, di Stefano Tassinari, scrittore ferrarese, ma bolognese d’adozione, scomparso prematuramente. La storia di un partigiano tradito. Rendina viene e se va a piedi, e ha già più di ottant’anni. Continua a camminare, Massimo.
La Stampa 10.2.15
Depressione: un’utopia la risonanza magnetica
Le tecniche di imaging cerebrale funzionano
Impossibile però pensare di utilizzarle sempre per verificare l’effetto della psicoterapia
di Daniele Banfi
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