Corriere 9.2.15
Shoah, ecco l’anno zero di Heidegger
Dopo i Quaderni neri. La pubblicazione dei testi dove lo sterminio dregli ebrei è definito un autoannientamento segna una svolta
Che rilancia la necessità di interrogare a fondo il pensiero del filosofoi, senza dividersi tra fan e avversari
di Donatella Di Cesare
Q ualcuno definisce già il 2014 l’anno zero di Heidegger. L’affermazione è azzardata. Ma certo l’uscita dei Quaderni neri segna nel confronto con il pensiero del filosofo tedesco una svolta la cui portata e i cui esiti non possono oggi essere previsti. Tanto più che la pubblicazione è ancora in corso e il prossimo volume, che va dal 1942 al 1948, è atteso in Germania ai primi di marzo. Proprio per questo è indispensabile evitare le reazioni emotive, i giudizi precipitosi e sommari. Per quanto sia estremamente difficile, occorre invece continuare a interrogarsi e, anzi, mantenere aperte le domande. Serve, insomma, l’esercizio della filosofia.
D’altronde qui non si parla di un dettaglio biografico né di un «errore politico». In tal senso la questione è ben diversa da quella sollevata da Victor Farías e, anni più tardi, da Emmanuel Faye. I Quaderni neri sono testi scritti da Heidegger che ne aveva progettato la pubblicazione. E per di più sono testi strettamente connessi con la sua opera. Il nodo è filosofico . Dissento perciò dalla dichiarazione che ha rilasciato Gianni Vattimo all’«Ansa», perché se Heidegger cede alla metafisica nel definire gli ebrei e l’ebraismo — come io stessa ho indicato nel mio libro — quel che dice nei Quaderni neri non può essere derubricato a dottrina, da tenere separata dalla filosofia. Non sarà più possibile nel futuro, per qualsiasi studio critico, far finta che quest’opera non esista.
Se oggi possiamo leggere i Quaderni neri è grazie anzitutto al lavoro editoriale di Peter Trawny e alle sue riflessioni contenute nel volume Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung (Heidegger e il mito del complotto ebraico), che sta per essere pubblicato da Klostermann nella terza edizione. Decisivo è stato il convegno Heidegger et les «juifs» organizzato a Parigi, tra il 22 e il 25 gennaio scorso, da Joseh Cohen e da Raphael Zagury-Orly, che sono riusciti nell’ardua impresa di far discutere filosofi molto diversi: da Peter Sloterdijk a Alain Finkielkraut, da Maurice Olender a Bernard-Henri Lévy. Al di là dei singoli importanti contributi, è emersa l’esigenza di proseguire la discussione critica senza cadere in preclusioni o chiusure affrettate.
Più frastagliato appare il panorama della filosofia tedesca, ancora profondamente segnata dalla rimozione del nazismo e meno disposta a parlare apertamente di Auschwitz e della «questione ebraica». Ma rifiutare d’improvviso Heidegger, come ha fatto di recente Günter Figal, dimettendosi dalla carica di presidente della Società Martin Heidegger, non vuol dire forse eludere il confronto con quel che è accaduto solo qualche decennio fa?
Se nei Quaderni neri che sono stati pubblicati (i volumi 94-96 delle opere complete) è venuto alla luce, in tutta la sua rilevanza, l’antisemitismo metafisico, nei quaderni che stanno per uscire (il volume 97) è cancellato per sempre il silenzio sulla Shoah. Nello sterminio — come ho sottolineato nell’articolo uscito ieri su «la Lettura» — Heidegger vede un autoannientamento degli ebrei. «Solo quando quel che è essenzialmente “ebraico”, in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell’autoannientamento nella storia».
In una delle sue lezioni talmudiche Emmanuel Lévinas, allievo di Heidegger a Friburgo, ha detto che si potrebbe perdonare «chi abbia parlato senza coscienza». Ma le cose stanno diversamente quando si tratta di un «geniale Rav», un maestro chiamato a un grande destino. «Si possono perdonare molti tedeschi, ma ci sono tedeschi a cui è difficile perdonare. È difficile perdonare Heidegger». Queste parole, che assumono ora un significato ancor più profondo, non esimono tuttavia dal compito di studiare attentamente le pagine di Heidegger e di guardare alla Shoah in una prospettiva inedita. Perché la Shoah non è solo una questione storica, ma è una questione filosofica che coinvolge direttamente la filosofia. Le responsabilità di una lunga tradizione di pensiero devono essere ancora accertate e discusse. Così come la storia dell’antisemitismo nella filosofia attende ancora di essere scritta. Si presume spesso di sapere che cosa sia l’antisemitismo, che cosa sia la Shoah. Soprattutto in Italia questo ha dato luogo a confusioni pericolose e a sterili polemiche, come quelle suscitate nel giorno della memoria. Certo che, come diceva già Primo Levi, ci sono state genocidi sia prima, sia dopo Auschwitz. Se i paragoni sono necessari, perché la Shoah fa parte della storia, occorre tuttavia guardare alle peculiarità di un annientamento che ancor oggi sfuggono. Nei campi di sterminio — che vanno distinti dai campi di concentramento o di lavoro — l’industria della morte lavorava giorno e notte per la «soluzione finale», cioè per eliminare il popolo ebraico dal pianeta. Le camere a gas sono state il luogo incancellabile di un progetto sistematico di «depurazione».
Ma lo sterminio è stato senza precedenti anche perché non era mai avvenuto che si uccidesse in una catena di montaggio. Il processo di industrializzazione della morte, che assunse la precisione quasi rituale della tecnica, trovò nell’uso del gas un cambiamento di qualità. Le gassazioni su scala industriale hanno introdotto l’anonimato dei carnefici di fronte alle vittime senza nome e hanno consentito la frantumazione della responsabilità. Non è un caso che l’etica sia stata uno dei grandi temi dopo la Shoah. I principi che la filosofia ha ritenuto validi non hanno retto alla prova di Auschwitz, dove il limite etico ha perso ogni senso di fronte alla degradazione dell’umano, alla privazione della dignità, non solo della vita, ma persino della morte.
Pensare dopo Auschwitz significa uscire da una sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, bensì verso una liberazione che, come quella dell’esodo, si realizza ogni volta con l’altro. L’esodo è il passo in fuori compiuto da un sé consapevole di essere sempre preceduto dall’altro che lo interroga, a cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, ma perché è in quel volgersi che si costituisce come io, senza altra possibilità di scelta. E come l’altro precede il sé, così la responsabilità precede la libertà. Questa inversione del cammino è la sovversione ebraica che ha segnato la rottura nell’asse dell’Essere.
Non è, dunque, neppure un caso che a rilanciare, nella seconda metà del Novecento, la questione della responsabilità siano stati i filosofi ebrei, da Hans Jonas a Hannah Arendt e a Günther Anders, da Emmanuel Lévinas a Jacques Derrida, tutti allievi diretti o indiretti di Heidegger. Come spiegarlo? E sarebbe immaginabile il loro contributo senza il suo pensiero? Queste domande restano aperte. Ma una precisazione è indispensabile. Leggere Heidegger, confrontarsi con le frasi inquietanti dei Quaderni neri , non significa aderire a quel che ha scritto. La filosofia non è — come alcuni credono — un match calcistico, la sfida di una squadra contro l’altra; non si riduce al pro e al contro. Chi filosofa sopporta la complessità e abita nel chiaroscuro della riflessione.
Corriere 9.2.15
Bibliografia
I taccuini postumi contengono la giustificazione dell’antisemitismo
Il passo in cui Martin Heidegger si riferisce alle persecuzioni naziste come a un «autoannientamento» ( Selbstvernichtung ) degli ebrei si trova nel quarto volume dei Quaderni neri , che sarà pubblicato all’inizio di marzo in Germania dall’editore Klostermann. Negli anni Settanta il filosofo consegnò all’Archivio di Letteratura tedesca di Marbach sul Neckar 34 quaderni rilegati con una tela cerata nera, disponendo che fossero pubblicati a conclusione delle sue Opere complete ( Gesamtausgabe ). Essi contengono riflessioni filosofiche annotate da Heidegger tra il 1931 (manca un quaderno risalente al 1930) e il 1969. Una prima parte di questi Quaderni neri , relativa al 1931-1941, è uscita lo scorso anno in Germania a cura di Peter Trawny, suscitando forti polemiche per alcuni brani antisemiti: si tratta dei volumi 94, 95 e 96 delle Opere complete . In Italia li sta traducendo Alessandra Iadicicco per Bompiani: un primo volume uscirà in settembre, gli altri due nel 2016, all’interno della collana «Il pensiero occidentale». Il volume in arrivo presso Klostermann, curato sempre da Trawny, è invece il 97 delle Opere complete e include i Quaderni neri dal 1942 al 1948. All’analisi dei primi tre volumi Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica e vicepresidente della Martin Heidegger Gesellschaft (Società Martin Heidegger), ha dedicato il saggio H eidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» , pubblicato nello scorso autunno da Bollati Boringhieri (pagine 352, e 17) . I contenuti del libro sono stati anticipati dall’autrice sulla «Lettura» del 2 novembre 2014. (a. car.)
Corriere 9.2.15
Tweet e condivisioniLo «choc» va in Rete Ma Vattimo lo difende
«Choc», «svolta»: dopo le rivelazioni sul pensiero di Martin Heidegger sono queste, sul web, le parole più ricorrenti. A suscitare reazioni è la tesi del filosofo secondo cui gli ebrei «si sono autoannientati», riportata ieri su «la Lettura», il supplemento del «Corriere», dalla studiosa Donatella Di Cesare. Rilanciata dal sito Corriere.it, la dichiarazione ha ottenuto grande popolarità in Rete (hashtag: #Heidegger ). Tra le reazioni quella del filosofo Gianni Vattimo che ha «difeso» Heidegger: «Ha sempre creduto di non essere corresponsabile con il nazismo». Per Vattimo ha sbagliato filosoficamente («un errore concettuale») ma non ci sono sufficienti ragioni per ritenerlo «un apologeta dello sterminio». (s.col.)
Il Messaggero 9.2.15
La polemica
Heidegger l’antisemita e i conti aperti con la Storia
di Massimo Adinolfi
Come ha dimostrato Donatella Di Cesare nel suo recente libro su Heidegger e gli ebrei, l'antisemitismo del filosofo di Messkirch e la sua adesione al nazismo non possono essere considerati semplici accidenti. Gli episodi pubblici, del resto, e il profilo biografico di Heidegger sono noti ormai da molto tempo e non lasciano adito a dubbi. Ma la pubblicazione dei Quaderni Neri (progettata dallo stesso filosofo) aggiunge altre tinte a un quadro già fosco e obbliga a riaprire la discussione. Nell'ultimo volume, che sta per vedere la luce in Germania, Heidegger parla infatti della Shoah come dell'«autoannientamento» degli ebrei. Finora Heidegger era stato attaccato per il suo silenzio sull'immane genocidio: ora siamo messi di fronte alle sue parole, e non è più possibile parlare di debolezze morali, di errori, pavidità o altro. Finora ci si chiedeva perché, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, Heidegger non avesse mai preso le distanze pubblicamente dal nazismo e dal suo passato. Ora sappiamo che non era soltanto il suo passato, neanche dopo il '45, e che quelle distanze non le ha prese perché, in fondo, non c'erano. Per lui, la colpa degli Alleati, che avevano vinto la guerra, era persino maggiore dei crimini nazisti. E il fatto che l'antisemitismo di Heidegger non poggiasse su basi razziali probabilmente non diminuisce ma aumenta la responsabilità del suo pensiero.
Ma un conto è domandarsi come sia possibile che uno dei più grandi filosofi del Novecento abbia potuto condividere il destino politico del nazionalsocialismo; un altro è invece concludere in maniera sbrigativa che Heidegger, se dunque fu nazista, non fu affatto quel gran filosofo che si dice, come se la sua compromissione col nazismo inficiasse anche l'intero suo itinerario filosofico. O come se fra un Heidegger e un Goebbels alla fin fine non ci fosse poi tanta differenza. E come nessuno si sogna di leggere quest'ultimo, se non per ragioni strettamente storiche, così nessuno dovrebbe più leggere Heidegger, per lo stesso motivo. Ovviamente non è così, e una polemica condotta in tal modo rischia persino di essere fuorviante. Il rapporto fra vita e pensiero è esso stesso un problema filosofico, e non basta inorridire dinanzi alla prima per ritrarsi anche dinanzi al secondo.
In certi casi ciò è evidente. Spesso ci si dimentica dell'antisemitismo di Gottlob Frege, uno dei padri della logica del '900, ma nessuno si sognerebbe di desumere dalle sue opinioni un giudizio sul suo lavoro di logico. Nel caso di Heidegger la faccenda è più complessa ed anche più scabrosa, non solo per il tempo in cui Heidegger ha vissuto e per i giudizi che ha reso, quanto piuttosto perché diversa è la modalità con cui si annodano nel suo pensiero il piano storico-esistenziale e quello concettuale. Ma purtroppo per sciogliere questo nodo non basta vedere quale funesta prova abbia dato di sé il pensatore della Foresta Nera.
Infine, il nazismo di Heidegger non è sufficiente nemmeno per dare un giudizio liquidatorio su quei versanti del pensiero europeo del dopoguerra che hanno largamente attinto alla sua lezione filosofica. In Italia Gianni Vattimo è stato tra i primi a discutere Heidegger, sdoganandolo - come si dice - a sinistra, e ora quasi si risente per tutte queste polemiche. Ma non c'è bisogno di minimizzare né di sentirsi chiamati in causa. È sufficiente invece far presente che, se fosse solo questione di cattivi maestri, forse non dovremmo più aprire alcun libro di filosofia, o quasi.
Il Mattino 9.2.15
Heidegger, nazista l’uomo non il filosofo
Vattimo e Severino giudicano i Quaderni neri in cui si sostiene che gli ebrei si sono autoannientati
di Guido Caserza
qui
Bergamo Sera 9.2.15
Heidegger: gli ebrei si sarebbero autosterminati
di Redazione
qui
Corriere 9.2.15
Rendina, il giornalista che combattè in montagna
Capo partigiano, è morto a Roma
Negli anni ‘50 guidava il Tg Rai: Tambroni non lo voleva, Moro lo salvò
di Antonio Carioti
Ai tempi della Resistenza, in Piemonte, si faceva chiamare Max il Giornalista, oppure Max Manara, perché da parte di madre tra i suoi antenati c’era l’eroe del Risorgimento Luciano Manara. Massimo Rendina, vicepresidente nazionale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, è scomparso all’età di 95 anni. Era un personaggio simbolo della lotta partigiana, sia perché aveva partecipato con coraggio alla lotta di Liberazione, sia perché poi, da giornalista, saggista e dirigente dell’Anpi, si era impegnato a difenderne e diffonderne i valori, con pubblicazioni come il Dizionario della Resistenza italiana (Editori Riuniti, 1995) e il saggio Italia 1943-45. Guerra civile o Resistenza? (Newton, 1995). Era stato anche direttore del Telegiornale Rai, all’epoca unico, tra il 1956 e il 1959.
Nato a Venezia il 4 gennaio 1920, Rendina era studente universitario a Bologna quando scoppiò la guerra. Richiamato alle armi, partecipò come sottotenente alla campagna di Russia. «Mi salvò il tifo petecchiale» avrebbe raccontato poi nel film documentario a lui dedicato «Il comandante Max», diretto dal regista Claudio Costa nel 2011: infatti la malattia, contratta in Urss, gli consentì di tornare in Italia nell’autunno del 1942, mentre il suo reparto venne annientato dai sovietici nel successivo dicembre. Alla caduta del regime mussoliniano, nel luglio 1943, lavorava al Resto del Carlino e dopo l’8 settembre rifiutò di collaborare con il direttore nominato dalle autorità fasciste della Rsi.
Trasferitosi in Piemonte, Rendina prese contatto con Corrado Bonfantini, futuro comandante delle brigate partigiane socialiste Matteotti, e organizzò una squadra armata di giovani, chiamata «La Barca». Quindi decise di salire in montagna, dove assunse un ruolo di primo piano nelle formazioni Garibaldi, legate al Partito comunista, come capo di stato maggiore della 19ª brigata Giambone e poi nella 103ªābrigata Nannetti, di cui fu comandante e in seguito capo di stato di maggiore. Nel frattempo suo zio, il colonnello Roberto Rendina, veniva ucciso dai nazisti nel massacro delle Fosse Ardeatine.
In prima fila nella liberazione di Torino al fianco di Giorgio Amendola, nel 1945 Rendina cominciò a lavorare come giornalista nell’edizione piemontese del quotidiano comunista l’Unità , ma poi abbandonò il Pci e si avvicinò al mondo cattolico organizzato e in particolare alla sinistra democristiana. Entrato alla Rai, direttore del Telegiornale, fu amico di Benigno Zaccagnini e di Aldo Moro, che gli venne in soccorso nel 1960 — raccontava — quando il capo del governo Fernando Tambroni cercò di escluderlo dal servizio radiotelevisivo pubblico.
Molto attivo nell’Anpi di Roma, Rendina ne aveva guidato per dodici anni il comitato provinciale, poi ne era rimasto presidente onorario. Tra gli ideatori della Casa della Memoria e della Storia, partecipava con assiduità agli incontri con i ragazzi nelle scuole. Lo ricordano con affetto e commozione il capo dello Stato Sergio Mattarella, la presidente della Camera Laura Boldrini, il sindaco della capitale Ignazio Marino, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, l’ex segretario del Pd Walter Veltroni, il presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Renzo Gattegna.
Corriere 9.2.15
Mussolini e Stalin, qualche affinità elettiva
risponde Sergio Romano
Chi è stato spettatore della plateale ostilità reciproca tra comunisti e fascisti negli Anni 50 e 60 sarebbe indotto a ritenere che i rapporti tra l’Italia del Ventennio e l’Urss siano stati pessimi. In realtà invece i rapporti tra Mussolini e Stalin non sono stati così brutti come si sarebbe potuto immaginare. Non so se si debba attribuire la precedenza nel riconoscimento dell’Unione Sovietica all’Italia, avvenuto il 7 febbraio 1924, che comportò la stipula di un trattato di commercio e navigazione, in quanto la Repubblica di Weimar aveva già stretto con il regime bolscevico il trattato di Rapallo del 16 aprile 1922, prima che il nuovo Stato avesse assunto il nome di Urss. Il riconoscimento di Francia ed Inghilterra avvenne successivamente a distanza di qualche mese. Dobbiamo attribuire il fatto a interesse economico o alla stima reciproca dei due dittatori ?
Antonio Fadda
Caro Fadda,
La Gran Bretagna riconobbe la Russia sovietica l’1 febbraio 1924 e precedette l’Italia di una settimana; mentre il riconoscimento francese venne più tardi, il 28 ottobre dello stesso anno. Ma è certamente vero che nei rapporti italo-sovietici vi furono da allora fasi molto positive come il patto di non aggressione del 2 settembre 1933. Quanto ai rapporti personali fra i due dittatori posso dirle che il giudizio di Mussolini su Stalin fu molto spesso rispettoso e alquanto diverso dalle sue opinioni sui partiti comunisti europei. Gli piaceva probabilmente la sua energia, l’abilità con cui aveva conquistato il potere; e provava una certa ammirazione per il modo in cui l’Urss, sotto la sua guida, aveva rovesciato le sorti della guerra.
Fra le note diffuse da «Corrispondenza Repubblicana» (l’agenzia del ministero della Cultura popolare di cui il capo della Repubblica sociale italiana si serviva per commentare i fatti della politica internazionale), ve n’è una del 5 febbraio 1944 in cui Mussolini commenta il discorso con cui Molotov, allora ministro degli Esteri, aveva annunciato una riforma federale dell’Urss. Le repubbliche sarebbero state indipendenti e ciascuna di esse avrebbe avuto il proprio esercito e le proprie rappresentanze diplomatiche.
Quelle promesse non vennero mantenute e ne rimase soltanto una traccia, più formale che sostanziale, nel seggio all’Onu che Stalin riuscì a conquistare, durante la conferenza di Yalta, per l’Ucraina e la Bielorussia. Ma a Mussolini servirono per elogiare il realismo di Stalin, «degno allievo del maestro Clausewitz», e per contrapporre la lungimiranza dell’Urss ai disegni conservatori delle democrazie anglosassoni. Sappiamo che Mussolini, nell’ultima fase della guerra, sperò che Germania e Italia facessero una pace separata con l’Unione Sovietica per meglio continuare a combattere contro le «odiate» democrazie. La nota diffusa da «Corrispondenza Repubblicana» era probabilmente uno dei segnali che il leader della Repubblica di Salò cercò di mandare a Mosca. Ma a Stalin, in quel momento, interessava soprattutto l’apertura di un secondo fronte: un desiderio che gli Alleati esaudiranno di lì a poco con lo sbarco in Normandia del giugno 1944.
La Stampa 9.2.15
Mio fratello Beppe, esiliato in casa
Tra affetto e nostalgia, la sorella dello scrittore rievoca gli scontri tra l’autore delPartigiano Johnny e la madre che lo avrebbe preferito impiegato
di Marisa Fenoglio
Nostra madre fu la donna che fece studiare i figli del macellaio. Aveva dato ascolto alle parole del maestro delle elementari: «Faccia studiare i suoi due figli» (io non ero ancora nata), le disse senza preamboli, entrando in negozio, «sono ragazzi intelligenti e dietro un banco di macellaio sarebbero sprecati!».
Erano gli Anni Trenta del secolo scorso, un periodo in cui andare controcorrente dal banco di una macelleria richiedeva forza d’animo e convinzione. Sapeva veder lontano, nostra madre, e per questa sua modernità noi figli facemmo il salto di una generazione. Già a noi si dischiusero le porte del liceo e dell’università. [...]
Il vento avverso
Dopoguerra, anni drammatici. In casa nostra soffiava un vento avverso, per l’incombere di una precarietà economica dovuta al calo di clientela, per un’ansia generale sulle serie crisi di salute di nostra madre e, soprattutto, per quello scarto, instauratosi tra lei e i figli, e sentito così dolorosamente, per quel salto sociale che a lei non era mancato il coraggio di fare, ma di cui ora doveva subire le conseguenze. Era lo spiazzamento a umiliarla, quel dover fare i conti con la cultura, con quella superiorità che ai suoi occhi automaticamente accompagnava chi aveva studiato, quel vedersi inadeguata al dialogo con i figli proprio per avergli messo in mano quell’arma contro cui lei si sentiva a priori perdente.
E allora il cuore le batteva tumultuosamente, si premeva una mano sul fegato, si graffiava le braccia, rosse come il fuoco per l’eczema...
Fu proprio in quei primi anni del dopoguerra che le vie, le aspirazioni, i traguardi dei miei due fratelli si divaricarono completamente.
Walter, bello, fascinoso, spavaldo, di grande intelligenza dialettica, dopo aver vinto un concorso alla Fiat percorse vittorioso le tante tappe della gerarchia di quell’azienda. Uscì presto dalla cerchia della famiglia, emancipato fisicamente e finanziariamente. Incarnava nel modo più fulgido i sogni di ascesa sociale e di sicurezza economica di nostra madre.
Beppe, invece, rimase in casa, chiuso in una sua fertile solitudine, in un creativo isolamento, ma da esiliato in famiglia. Ho visto Beppe avviarsi sulla via faticosa dello scrivere.
Infinita lontananza
I pasti a casa nostra erano sempre silenziosi. Nostro padre, dopo una giornata di lavoro in macelleria, li divorava, mentre mio fratello Beppe li vedeva soprattutto come occasioni di lettura… che noi ci guardavamo bene dal disturbare. Seduto al suo posto a tavola, di fronte a mia madre e a me, mangiava alla cieca perché teneva gli occhi fissi sul libro che di volta in volta leggeva, pescando a caso con la forchetta nel piatto che noi due tenevamo d’occhio fosse sempre pieno: preoccupate di garantirgli una nutrizione bastante e variata che sopperisse alla sua assoluta indifferenza al cibo. Mai che decantasse una pietanza, che rimembrasse una leccornia, che si stropicciasse le mani in vista di un buon pranzo…
E ti ho visto tornare a casa alla sera, Beppe, gravido di pensieri da mettere sulla carta, ritirarti nell’unica camera un po’ enucleata dal resto dell’alloggio, da cui giungevano quei tre segni della tua presenza in casa: il fumo delle sigarette, i colpi di tosse e il battere dei tasti della macchina da scrivere. Scrivevi, per ore, ininterrottamente, e nel cuore della notte quelle tue boccate avide e appagate di fumatore impenitente, più silenziose della tosse ma scandite come il battere dei tasti della macchina da scrivere, mi davano intera la sensazione della tua concentrazione, ma anche della tua infinita lontananza da casa nostra.
Scriveva e fumava
Beppe scriveva e Beppe fumava. Le due cose insieme erano più che sufficienti per far dire a nostra madre che Beppe conduceva vita dissoluta. Fumare costava, era un vizio esecrabile e quantificabile.
Per quelle 40 o 50 sigarette al giorno (ma quante erano in verità?) scoppiavano le liti più devastanti. Mio padre al loro annunciarsi chiudeva porte e finestre per via dei vicini, e se la svignava dal tabaccaio in piazza. Io restavo, in tumulto, tra loro due che si affrontavano in cucina come duellanti in un territorio prefissato. I soldi e il fumo ne erano lo spunto, ma erano scontri esistenziali tra due persone che parlavano lingue diverse.
A forze sfinite, a furia sfogata, tu, Beppe, abbandonavi il campo, prendevi per via Maestra, ritrovavi il bar Savona e non vedevi…
Ma nostra madre, dopo ognuna di quelle lotte, la casa muta dopo tutto quel fragore, restava seduta per ore su una sedia, a guardare davanti a sé, lei così attiva… come sfiancata da una fatica immensa. E poi… lo sai, a stento, dopo giorni, si ricominciava…
Uno sguardo di sfida
Avevi trovato un impiego alla ditta Marengo, produttrice di vermut e di spumante. Non fu una scelta tua (l’unica cosa che tu volevi veramente era scrivere!). Ma di lei, che ti voleva al sicuro, seduto dietro una scrivania, con precisi orari di ufficio. Convincerti non fu facile… e tu, nei primi mesi, al tuo rientro in casa alla sera, gliela facevi pagare cara… a modo tuo…
Avvicinandoti incrociavi uno sguardo di sfida con lei, ancora seduta alla cassa del negozio, poi ti infilavi nel portone, abbordavi le scale e salendo gridavi, mugolavi, inveivi, in un misto di rabbia, di rancore, di impotenza, altrimenti non esprimibili. Tutta la casa entrava in allarme. I vicini sparivano, in macelleria le clienti tenevano il fiato. Arrivava tutto anche a me, fin lassù, nell’alloggio dell’ultimo piano, dove spesso a quell’ora davo ripetizione di latino a una ragazza di poco più giovane di me, rimasta ad Alba dopo lo sfollamento da Torino. Facevamo finta di non sentire. Ma dentro di me ero sconvolta, e sapevo che in quello stato dovevo poi scendere le scale, bussare per entrare in casa… e fare come se niente fosse.
Beppe Fenoglio nacque ad Alba il 1º marzo 1922 e morì a Torino, per un tumore ai bronchi, il 18 febbraio ’63
Repubblica 9.2.15
Da “Duce mia Luce” all’odio antisemita la marcia su Facebook dei 150mila fascisti
L’ultimo caso sono gli insulti a Mattarella per la visita alle Fosse Ardeatine
Ecco i gruppi sul web in bilico tra nostalgia e illegalità, ma tollerati dal social network
di Carmine Saviano
ROMA Sono da poco passate le 16 del 31 gennaio scorso. Sotto il cielo grigio di Roma un corteo di automobili di Stato si appresta a entrare nel mausoleo che celebra i martiri della Fosse Ardeatine. Da una delle vetture scende Sergio Mattarella, eletto da poche ore dodicesimo presidente della Repubblica. Inizia il suo settennato così: ricordando chi è stato trucidato a sangue freddo dal nazismo e dal fascismo. Negli stessi istanti, sul web, va in scena una sfilata virtuale di insulti rivolti al nuovo Capo dello Stato, reo di iniziare il suo mandato dalla Resistenza: «È un partigiano, ho detto tutto», «ecco un altro mafioso ebreo». Gran parte di quelle offese provengono da una pagina Facebook, quella dei Giovani Fascisti Italiani. Sono in 134mila e si auto definiscono “Gruppo Fascista per la rinascita d’Italia”. La loro linea politica è sintetizzata da una citazione di Benito Mussolini, le parole d’ordine sono le solite: duce, rigore, potenza e così via sin dove quel vocabolario può giungere. Sono nati nel 2010, nel 2013 erano 60 mila e da subito non hanno coltivato solo nostalgia. Qui “guardano al futuro”, è un messianismo deformato e allucinato dove non si aspetta altro che «un nuovo capo», un «uomo forte», colui che sappia «restituirci l’onore»: «Dux Mea Lux, quando tornerai?».
E non sono i soli. La tana nera della rete è profonda. I social network ne sono solo l’ingresso, la punta visibile, quella più pervasiva. Per farsi un’idea basta cercare anche solo tra le “pagine amiche” che i Giovani Fascisti Italiani suggeriscono. Si va dai Camerati Italiani ai Fascisti del Terzo Millennio, dalla Falange Nera al Socialismo Mussoliniano. Poi il Movimento Fascismo e Libertà e il gruppo Dio, Patria, Famiglia. Ancora: Fiamma Nera, Orgoglio Fascista, Noi Fedelissimi dell’Italia e del Duce. Serbatoi di odio e rancore.
Perché Facebook consente la pubblicazione di questi contenuti che potrebbero prefigurare l’apologia di fascismo? «Siamo impegnati a mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone. Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all’odio o comunque contrari agli standard della nostra community», risponde un portavoce di Facebook Italia. Resta da capire come sia possibile non considerare incitamento all’odio frasi come «gli zingari devono essere integrati nel cemento».
Ma quanto è estesa questa Rete Nera? Gli ultimi censimenti — come quello contenuto in Web Nero, ricerca di Manuela Caiani e Linda Parenti edita da Il Mulino nel 2013 — quantificano in circa cento i principali siti attivi in Italia. E qui si esce fuori dal virtuale: perché si tratta di associazioni, riviste, piccole case editrici, nuclei di skinheads che declinano la loro ideologia in quei territori dove il disagio sociale è assoluto. Se ci si sposta sul terreno dei blog, dei forum, dei negozi online nei quali è possibile acquistare ogni tipo di feticcio fascista, il numero diventa vago ma sale in maniera esponenziale. Tutto “liquido”, naturalmente, con pagine e contenuti che appaiono e scompaiono. La Federazione delle Associazioni dei Partigiani d’Italia ne ha contati circa un migliaio. Ma era il 2002. Oggi un numero certo non c’è.
C’è di sicuro un enorme spazio virtuale in cui i simboli della storia del fascismo e del nazionalsocialismo vengono utilizzati come carte d’identità: immagini attraverso cui si da una precisa raffigurazione politica di se stessi, forme e colori intorno a cui ci si riconosce. La Croce Celtica, le teste rasate, il doppio 8 che simboleggia le due H dell’Hail Hitler. La tigre di Evola, le parole di Pound e innumerevoli rivoli del fiume sotterraneo dell’antisemitismo.
In definitiva la questione diventa se la libertà d’espressione possa essere invocata per tutelare l’incitamento all’odio e alla discriminazione. Una questione essenziale per la giurisprudenza al tempo di internet. Ci si muove su un terreno scivoloso «quando ci si trova al confine tra il libero pensiero e parole che possono diventare armi pericolose», dice Carlo Blengino, avvocato ed esperto proprio nel campo della connessione tra diritto e internet. Il punto è il grado di pericolosità delle parole e delle immagini che vengono diffuse: quel confine appare spesso ampiamente superato e quei comportamenti prefigurano l’apologia di fascismo, un reato previsto dal nostro ordinamento. E se è sotto gli occhi di tutti, visto il carattere della rete, che «possiamo trovare siti di frustrati che inneggiano al fascismo», continua Blengino, e che non vanno oltre il loro status di attivisti da tastiera, è altrettanto innegabile che simili comportamenti, «un domani possono tornare a essere realmente pericolosi».
Repubblica 9.2.15
Osservazioni di Togliatti sui rapporti con i partiti
di Mario Pirani
TRA le nostre carte abbiamo reperito due manoscritti di Togliatti, uno rappresenta delle considerazioni, in forma di domande e risposte, sulla politica dell’allora governo di Unità Nazionale e l’altro è interessante soprattutto dal punto di vista della propaganda del partito e dei suoi rapporti con la direzione del Pci. Chi non è abituato alla lettura degli scritti togliattiani, potrà avere un piccolo spaccato di una visione politica di chi aveva partecipato alla ricostruzione del nostro Paese dopo la guerra.
Il primo dei due documenti contiene risposte manoscritte a sei domande su fogli riciclati, dattiloscritti sul retro, firmati in calce e datati Venezia, 14 settembre 1946: Che cosa pensa della crisi ministeriale in corso dopo le dimissioni Corbino? (Corbino era uno dei capi del Partito Liberale allora Ministro del Tesoro, ndr) «Non v’è una vera e propria crisi ministeriale, mi pare. Si tratta di sostituire Corbino, e non mi pare sia poi cosa così difficile».
Quale dovrebbe essere secondo il P. C. la politica e l’azione del Ministero del Tesoro?
«Applicare il programma del governo, cioè essere disciplinato al governo stesso, e quindi agli interessi di tutto il paese e non a quelli dei gruppi plutocratici che, nella loro visione egoistica esclusiva, tentano con tutti i mezzi di sabotare la ricostruzione nazionale».
È favorevole o meno, il P. C., a una unificazione dei dicasteri Finanze e Tesoro? «Nel momento presente no. E non solo per ragioni di equilibrio del gabinetto attuale. Soprattutto perché la concentrazione dei portafogli, oggi, significa che i vari ministri diventano i direttori generali, il contabile generale dello Stato, uomini, cioè che non hanno responsabilità politiche di fronte al paese».
Quali gli attuali rapporti col Partito Socialista?
«Francamente cattivi. Il patto di unità d’azione, di fatto, da alcuni mesi non funziona. È questa del resto una delle cause per cui le classi lavoratrici hanno visto e vedono diminuire l’efficacia della loro azione».
Che cosa pensa sul movimento comunista d’Italia (dissidenti, internazionalisti)?
«Alla sommità, qualche piccolo gruppo di sbandati e di provocatori, che non possono giocare nessuna parte nella politica, a patto che i partiti operai sappiano restare uniti e adempiere alla loro funzione di guida delle masse nella lotta per la ricostruzione del Paese».
Rapporti con la D. C. sono suscettibili di miglioramento nell’ambito della collaborazione governativa?
«Mi pare di sì; ma occorre una cosa: che i dirigenti democristiani liquidino nell’animo loro e nell’ispirazione della loro condotta il preconcetto spirito anticomunista, che avvelena i rapporti tra noi e loro. Non si può stare al governo coi comunisti e in pari tempo pensare che i comunisti sono qualcosa come dei banditi, uomini politici senza fede, antinazionali ecc. O anticomunismo o feconda collaborazione coi comunisti nell’interesse del popolo, ai democristiani la scelta ».
Nel secondo manoscritto commenta una proposta di propaganda: «A me non piace ed è proprio il tipo di propaganda che non mi va. Troppa letteratura, impostazione impressionistica e non di ragionamento logico. Serve per i già convinti che avran voglia di leggerlo, ma ci faran fatica! Chi vorrà farsi un’idea delle cose dovrà andare a cercare gli argomenti col lanternino, in mezzo alla zeppa letteraria, e naturalmente ne ritrarrà la impressione che noi facciamo della letteratura perché abbiamo qualcosa da nascondere. Non capisco perché non si possa scrivere qualcosa di semplice, chiaro, in ordine cronologico, con gli argomenti ben elencati, come in un atto di accusa. Ma queste cose nessuno le sa più fare. Son tutti letterati!
Inoltre mi pare sbagliata anche la impostazione. Io non tratterei i fatti come una ritorsione per Spataro (segretario della Dc, ndr.) ad esempio, perché questa impostazione contiene già in sé qualcosa di difensivo. Li tratterei come un attacco della reazione dc alla organizzazione operaia, alla solidarietà ecc. Tutto sommato, farei rifare con altro criterio.
P. s. Forse le mie critiche investono un poco tutto il ns. modo di fare la propaganda. Lo riconosco. La mia aspirazione è che i ns. propagandisti scrivano per la gente semplice. Guardate come sono scritti gli opuscoli dc contro di noi!» La ricostruzione di un Paese in ginocchio e con forti tensioni sociali, il rapporto con gli altri partiti, il governo di unità nazionale, il rapporto con le masse che si rappresentavano, la propaganda, che oggi verrebbe definita “comunicazione” con il Paese, sono temi di nuovo sul tappeto, naturalmente in condizioni storiche e geopolitiche completamente diverse, con soluzioni che oggi devono necessariamente essere differenti e che una generazione nuova è chiamata a interpretare.
Sebbene quelle considerazioni facciano parte della preistoria di una parte del panorama politico attuale, gettate su foglietti di carta ingiallita e riciclata da documenti in disuso, ci fanno ragionare sul modo di pensare in politica di un’altra generazione. Si può buttare nel cestino o farne tesoro.
Repubblica 9.2.15
La forza dei diritti
di Nadia Urbinati
GLI istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.
Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».
Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.
Il paradosso nel quale la crisi ci ha catapultato è far apparire rivoluzionario il linguaggio dei diritti sociali. Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere alto che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto. La democrazia è, essa, radicale. I leader che la impersonano non devono far altro che ricordarlo. Un promemoria che ci tenga svegli, disposti ad accettare di mettere in soffitta il discorso dei diritti, aspettando tempi migliori. E chi stabilisce quando i tempi saranno migliori?
Rimuovere gli ostacoli alla nostra libertà e eguaglianza è un lavoro dell’oggi, non di un futuro indefinito. Da quando le società hanno deciso di rinunciare alla violenza e di immettersi nel cammino della persuasione, lo slogan di battaglia ha rivestito i panni dei diritti fondamentali e delle promesse costituzionali. Non ha perso radicalità, ne ha anzi acquistata se è vero che pronunciarli fa apparire radicale un moderato.
Repubblica 9.2.15
I ragazzi di Podemos
Sono nati quando Franco era già morto. L’era di Gonzalez l’hanno vissuta da bambini. Si sono formati nei movimenti no global
Hanno fra 30 e 40 anni. Gli uomini e le donne di Pablo Iglesias si preparano a conquistare la Spagna: ispirandosi anche a Games of Thrones
di Cocita De Gregorio
BARCELLONA SONO nati che il dittatore era già morto. Venuti al mondo, in Spagna, a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta. Pablo Iglesias aveva 4 anni quando nel 1982 Felipe Gonzalez è diventato per la prima volta Primo ministro in un’ondata ineguagliata di entusiasmo popolare. Sua madre Maria Luisa, sindacalista, gli leggeva per addormentarlo le storie di Salgari e di Giulio Verne. Andavano al nido, o all’asilo, negli anni della transizione democratica. Hanno avuto vent’anni nel Duemila. Sono stati al G8 di Genova e alle adunate no global di Puerto Alegre nel 2001. Hanno manifestato contro il disastro ambientale causato dalla petroliera Prestige, 2002, e contro l’intervento in Iraq. Poi contro le banche che toglievano la casa ai senza casa. Hanno creato gruppi come Gioventù senza futuro, Generazione precaria, Democrazia reale adesso! Decine di blog con nomi tipo Rebelion.org. Infine si sono indignati tutti quanti l’15M, 15 maggio del 2011, ed erano milioni. Giovani e vecchi, insegnanti e studenti, imprenditori sull’orlo del fallimento e lavoratori di quelle imprese.
Gli attuali dirigenti di Podemos — Possiamo. Yes, we can — sono cresciuti alla scuola dell’attivismo di piazza, hanno militato in organizzazioni antagoniste della sinistra radicale, a volte riformista. Sbaglia chi li paragona al movimento Cinquestelle: a parte l’uso della Rete e la radice grassroot , movimenti di cittadini di base, sono assai più le differenze sostanziali delle somiglianze apparenti. Piuttosto il loro specchio è quello di Syriza: soprattutto perché Tsipras ha vinto e come hanno detto gli spagnoli: «Con loro riconquisteremo l’Europa, quella dei diritti e della dignità». Perché Podemos è un movimento radicato nella sinistra politica, al contrario dei grillini siede nel gruppo della sinistra all’Europarlamento, i suoi leader sono docenti universitari con un lungo passato di militanza. Vengono dalla contro-informazione, dalla gioventù comunista. Poi sono andati all’Università, i ragazzi e le ragazze della nidiata di “El Coleta”, Codino — così chiamano Pablo Iglesias Turriòn, il leader — e si sono tutti, quasi tutti laureati in Scienze politiche o in Filosofia. La generazione che potrebbe presto governare la Spagna nasce dall’incubatrice della Facoltà di Filosofia della Complutense di Madrid, una culla di pensiero non molto diversa da quello che fu la Facoltà di Sociologia di Trento negli anni Sessanta-Settanta.
Tempi diversi, ovviamente, diverse conseguenze. Tuttavia non si riesce a mettere a fuoco lo strabiliante e rapidissimo successo di Podemos se non si legge la radice ideologica e culturale del movimento. Che nasce dalla sinistra, e dall’università. Tutti, quasi tutti i leader anche locali sono docenti plurilaureati e dottorati, per quanto spesso precari. Hanno fatto gavetta nelle rivoluzioni sociali dell’America Latina. Avrebbero militato nei partiti della sinistra tradizionale se solo li avessero lasciati entrare: invece il Psoe (a volte Izquierda Unida) li ha chiusi fuori dai circuiti delle decisioni, li ha mandati a fare minoranza nei consigli di quartiere o oltreoceano. Col movimento zapatista in Messico, nella guerra per l’acqua in Bolivia, coi caracazos in Venezuela. Chavez e Morales i loro riferimenti politici. In conclusione dell’oceanica assemblea di Vistalegre, il 18 ottobre scorso, hanno suonato “L’estaca” di Lluis Llach, inno anti-franchista catalano scritto nel maggio ‘68. Come se in Italia si chiudesse un’assemblea politica fitta di venti e trentenni con “I treni per Reggio Calabria” di Giovanna Marini. Del resto Antonio Gramsci, Ernesto Laclau, Toni Negri e Slavoj Zizek sono i testi nelle loro biblioteche. Questi i riferimenti di el Coleta, insieme naturalmente a Game of Thrones ( Il Trono di Spade, n.d.r.).
Podemos si è presentata in pubblico per la prima volta il 17 gennaio 2014. Dopo 128 giorni, il 25 maggio, ha preso alle europee un milione e duecentomila voti, 5 deputati eletti. 128 giorni, una cosa mai vista. Ha seminato panico e condivisa ostilità in tutti i partiti dell’arco costituzionale. A novembre, un mese dopo l’assemblea dell’inno anti-franchista, i sondaggi li davano al 27 per cento, primo partito di Spagna. Il 4 febbraio, a Madrid, hanno invaso la Puerta del Sol. L’ultima previsione di voto, tre giorni fa, li vede al 27.7. Ancora il calo il Pp di governo di Mariano Rajoy, al 20.9. In caduta libera il Psoe del bel Pedro Sanchez, al 18.3. Alle prossime elezioni generali di novembre 2015 se non si fermano vincono. «Non ci fermiamo. Non siamo qui per fare testimonianza ma per governare», dice Iglesias. Il manifesto del suo pensiero, da settimane bestseller, si intitola “Vincere o morire. Lezioni politiche in Game of Thrones”. E’ ispirato alla serie tv, avverte una nota, non ai libri. E’ scritto a molte mani dai principali dirigenti di Podemos. Professori e ricercatori di filosofia e scienze politiche, appunto. Per capirsi, i titoli di qualche capitolo. Juan Carlos Monedero firma il saggio “Innamorarsi di un camminante delle nevi ma sposare un Lannister”. Monedero, classe 1963, è l’anziano del gruppo: politologo alla Complutense ed editore, già assistente di Chavez, ora conduce il talk “La Tuerka”, una cosa come ‘giro di vite’ con la kappa a segnalare antagonismo: è il programma che ha reso celebre Iglesias il quale tuttora, qualche giorno, lo conduce. Altri capitoli del saggio. Ruben Martinez Dalmau: “Un uomo molto piccolo può proiettare un’ombra molto grande. La legittimità del potere del re in Game of Thrones”. Hector Meleiro: “Perché Ned Stark perde la testa?”. Nella lunga prefazione lo stesso Iglesias spiega la musa ispiratrice di Podemos sia Daenerys Targaryen, Madre dei Draghi e Distruttrice di Catene. La regina Khaleesi insegna — scrive — che «né lignaggio né diritti dinastici né stirpe bastano da soli a dare legittimità. Libera gli schiavi e dice loro: non sono io che vi ho liberato, la libertà è vostra». Un manifesto, in sostanza. «Serve in chi governa la connessione con azioni esemplari. I governanti invece si comportano come Joffrey, che pensa che gli basti stare seduto sul Trono di Ferro per essere riconosciuto come legittimo rappresentante del potere. Sono trincerati, barricati nei loro uffici dentro le loro macchine blindate ». L’odiata casta. «Come in GoT anche nella nostra società si sono rotti i patti che garantivano pace e stabilità. Il potere è contendibile. La sfiducia cresce a ritmo esponenziale e ciascuno ha ogni giorno meno ragioni per obbedire ». E’ questo un linguaggio, un esempio che chiunque in quella generazione capisce. A destra come a sinistra. Le analisi dei flussi elettorali mostrano che il 17 per cento degli elettori di Podemos viene dal Ppe. Del resto Iglesias dice che «la parola sinistra impedisce a chiunque abbia avuto un nonno fucilato dai rossi di votare per noi», e la esclude. A destra e sinistra si sono sostituite nuove parole chiave: quelli di sopra e quelli di sotto. Il «99 contro l’1 per cento», come negli slogan di Occupy. Egemonia, legittimazione. Non classe operaia ma precariato. Il nuovo soggetto politico. Le indagini pubblicate dalle migliori riviste — La Maleta de Portbou una di queste — mostrano come in sei anni, dal 2008 al 2014, sia aumentato di 12 punti il precariato dei 30-40enni di istruzione medio superiore. Una generazione che non ha altro da perdere se non la sfiducia. La colonna vertebrale di Podemos, il cui slogan è «Trasformare l’indignazione in cambiamento politico». In governo, insomma. Qualche biografia aiuta a capire. Pablo Iglesias, 1978. Un nonno condannato a morte dal franchismo, poi graziato, un altro fondatore dell’Ugt, sindacato paragonabile alla nostra Cgil. Prime esperienze nella gioventù comunista, movimento no global, Izquierda unida. Laurea in giurisprudenza e scienze politiche, master in comunicazione. Un anno all’università di Padova, in contatto con Luca Casarini. Fa carriera accademica e insieme conduce un programma in tv, La Tuerka, che lo lancia come leader. La sua compagna, Tania Sanchez Melero, 1979, è stata fino al 4 febbraio deputata per Izquierda Unida. Ha abbandonato il gruppo per «creare una nuova formazione politica», vedremo quale. Anche lei, come il compagno con la coda di cavallo, viene dai movimenti: ha un passato punk di cui il piercing al labbro re- sta testimone. Teresa Rodrigues, 1981, andalusa, è stata eletta all’Europarlamento dove indossa d’abitudine maglie Free Palestine. Laureata in filologia araba viene dal mondo delle proteste anti-Nato, attivista di Marea verde. Il suo film preferito è ‘Terra e libertà’ di Ken Loach. Il suo libro d’elezione la raccolta di scritti di David Franco Monthiel, classe 1976, una rassegna delle parole della protesta dalla morte di Carlo Giuliani ad oggi. Gemma Ubasart, candidata a guidare la formazione in Catalogna (le primarie si aprono oggi e si chiudono il 14 febbraio) è docente di Diritto all’università di Girona. Inigo Erregon, 1983, leader della campagna elettorale per le europee. Ricercatore in Scienze politiche alla Complutense, tesi di dottorato sulla politica dei Mas in Bolivia. Ha lavorato in Venezuela, era al G8 di Genova tra i manifestanti il giorno della morte di Giuliani. Poi c’è il gruppo dei filosofi. Daniel Iraberri Perez e Luis Alegre Zahonero, tra i tanti. Cresciuti nella contro-informazione, allievi di Carlos Fernandez Liria, 1959, ideologo del gruppo e stretto collaboratore di Hugo Chavez in Venezuela.
Sono queste le persone che hanno redatto il manifesto di Podemos. Nazionalizzazioni, equo sistema fiscale, più servizi pubcome blici, più partecipazione di base. «Un programma che qualunque democratico può votare», dice Iglesias. «E se la signora Merkel vuole governare il nostro paese venga a farsi eleggere qui. Quanto all’euro: no, non usciremo dall’euro in nessun caso». Si finanziano con il crowdfounding.
Qualche notevole donatore deve aver avuto la sua parte nella fase d’impulso. Si parla di Jaume Roures, imprenditore trotkista, già editore di Mediapro ( Publico, la Sexta ), oggi produttore cinematografico: “Comandante” di Oliver Stone.
Il problema, ora sull’onda del successo, è evitare di imbarcare cambiacasacca corrotti e arrivisti, dice Iglesias. Succede spesso, è successo in Italia a Di Pietro. «Ma noi abbiamo dalla nostra l’evidenza del saccheggio prodotto dalla politica arroccata al potere. La disillusione dei cittadini, la loro frustrazione è il motore del cambiamento. Siamo qui per trasformarla, attraverso le migliori competenze, in governo politico ». E’ «un utopista regressivo», dice Felipe Gonzalez di Iglesias. «Populisti», volta le spalle Pedro Sanchez il neo-segretario socialista. «Sovvertitori della democrazia », dicono i leader del Ppe. «Sovvertitori del potere», corregge Iglesias, che di nuovo cita la regina Khaleesi. «Il potere è scalabile. La legittimità è nella connessione col popolo. Il potere nasce dalla moralità di azioni esemplari. Poi serve un esercito». Da Game of Thrones alla conquista del Regno. Il giovane Re Felipe di Borbone di certo conosce la saga. Se non i libri, almeno la serie tv.
Repubblica 9.2.15
Il segreto del poeta matematico
Daniel Tammet ha la sindrome di Asperger. Nel suo ultimo libro racconta come grazie ai numeri riesce a pensare il mondo e a vivere le emozioni
di Piergiorgio Odifreddi
Daniel Tammet è uno scrittore britannico. Il suo ultimo libro è La poesia dei numeri (Zanichelli pagg. 320 euro 12,90)
L’autore vede in quelle che per noi sono aride successioni di cifre delle vere storie Anche “Guerra e Pace” è pieno di metafore ispirate a Tolstoj dal calcolo infinitesimale
IL 14 marzo 2004, giornata mondiale del pi greco, Daniel Tammet si esibì in pubblico al Museo di Storia della Scienza dell’Università di Oxford, recitando in cinque ore e nove minuti le prime 22.514 cifre decimali di pi greco, appunto, che iniziano con «uno quattro uno cinque nove due sei cinque tre cinque nove». Queste imprese, tipiche del Guinness dei Primati, in genere brillano solo per la loro futilità. Anche se, in fondo, neppure le lettere di un endecasillabo di Dante, come «enne e elle emme e zeta zeta o di e elle ci a emme emme i enne …», suonano poi tanto meglio delle undici cifre precedenti, se recitate in maniera simile. Naturalmente, dietro alle cifre di pi greco c’è una struttura ancora più sofisticata e complessa di quella che sta dietro le sillabe della Divina Commedia .
E i matematici l’hanno studiata per millenni. A partire dagli Egizi, che notarono come 64 monete uguali si possono disporre in un cerchio di diametro 9, e ne dedussero per pi greco un’approssimazione pari a 3,16. Già i Babilonesi si erano accorti che la prima cifra dopo la virgola è corretta, ma si dovette aspettare il genio di Archimede per scoprire che la seconda è sbagliata, e che l’approssimazione corretta a due decimali è il famoso 3,14 che impariamo fin dalle elementari.
Per arrivare a questo risultato Archimede usò due poligoni regolari di 96 lati, uno inscritto e l’altro circoscritto al cerchio. Metodi sempre più complicati furono necessari per andare oltre, e trovare via via un numero sempre più grande di cifre significative dopo la virgola. Calcolando a mano, nel corso dei secoli si arrivò fino a qualche centinaio di cifre, ma per procedere oltre furono necessarie dapprima le calcolatrici, e poi i calcolatori. Le migliaia di cifre declamate da Tammet nella sua esibizione pubblica vennero determinate soltanto nel 1961, benché oggi se ne conoscano ormai migliaia di miliardi.
Dietro l’apparente futilità dell’impresa mnemonica di Tammet si nasconde dunque la profondità delle ricerche matematiche, che lui presenta alla sua maniera nel gustoso libro La poesia dei numeri (Zanichelli, 2014), seguito del fortunato Nato in giorno azzurro (Rizzoli, 2008). Chi abbia letto quest’ultimo sa già che l’autore è affetto da sindrome di Asperger: una forma di autismo compatibile con l’abilità matematica, e portata a conoscenza del pubblico qualche anno fa dal grande successo di Mark Haddon Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (Einaudi, 2003). In precedenza già Oliver Sacks aveva attirato l’attenzione sul legame tra autismo e matematica: ad esempio, descrivendo in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello ( Adelphi, 1986) il caso di due gemelli autistici che giocavano a scambiarsi grandi numeri primi. E i sintomi della sindrome di Asperger sono tipici della caricatura dei matematici: più interessati alle cose che alle persone, poco comunicativi, ossessivi, asociali, maniacali, osservatori, classificatori e iper razionalisti. Ma anche di informatici come Bill Gates, dotati di un’eccezionale memoria infantile e usi a dondolarsi ipnoticamente sulla sedia.
Il primo libro di Tammet descriveva lo specifico della sua patologia. Ad esempio, la sinestesia alla quale allude appunto il titolo Nato in un giorno azzurro , che per la cronaca era un mercoledì. Per quanto riguarda i numeri, Tammet associa loro automaticamente colori, forme e altre qualità sensibili, che gli permettono di riconoscerne “a vista” proprietà astratte come l’essere primi o composti. E anche di vedere in quelle che per noi sono solo aride successioni di cifre delle vere e proprie storie, che egli può poi “raccontare” in esibizioni come quella dalla quale siamo partiti.
Come il protagonista del film Rain Man — L’uomo della pioggia , un ruolo da Oscar interpretato nel 1988 da Dustin Hoffmann, Tammet è anche in grado di calcolare mentalmente e visivamente con numeri enormi. Queste sono cose da idiot savant, come nota egli stesso, ma lui va oltre. Considera i numeri la sua prima lingua, quella in cui pensa e sente. Li associa agli oggetti e alle persone. E, soprattutto, li usa come mezzo per interiorizzare le emozioni: cosa altrimenti difficile per un autistico propenso alla solitudine e all’introversione, e colpito da una serie di malattie come l’epilessia, le vertigini e l’ipersensibilità alla luce.
Mentre nella maggior parte del primo libro Tammet si era dedicato all’autobiografia, nel secondo si concentra sull’aritmetica e ci racconta i numeri dal proprio singolare punto di vista. Che è sicuramente più interessante per i non addetti ai lavori di quello di un matematico professionista, perché egli presenta le cose in maniera estremamente intuitiva.
Per trovare le soluzioni di un’equazione, ad esempio, Tammet la traduce in parole, e invece di operare algebricamente cerca di intuire il risultato. Così, se deve risolvere x2+ 1 0 x=3 9 , non applica pedestremente la formula per le equazioni di secondo grado che si impara a scuola. Piuttosto, enumera dapprima i quadrati dei numeri: 1, 4, 9,... Poi enumera i multipli interi di dieci: 10, 20, 30,... Poi si accorge che 9 più 30 fa 39, come richiesto. E visto che 9 e 30 sono i terzi numeri delle due liste, ne deduce correttamente che la soluzione è 3.
Ma La poesia dei numeri riserva sorprese anche al matematico professionista, che dei numeri in genere non conosce il folclore umanistico: ad esempio, il fatto che Anna Bolena, seconda moglie di Enrico VIII, avesse undici dita. Il che dà lo spunto a Tammet per immaginare come gli uomini avrebbero contato se tutti ne avessero avute altrettante, invece che solo dieci: in particolare, poiché undici è un numero primo, sarebbe stato difficile sviluppare il concetto di “una metà”. Con dodici dita, invece, come ne ha il cubano Hernandez Garrito, il computo delle ore risulterebbe semplificato.
Ma di numeri non ci sono solo gli interi, e Tammet ci allerta a una sorprendente apparizione degli infinitesimi in Guerra e pace di Lev Tolstoj. Nella concezione dello scrittore russo, infatti, la storia non è fatta individualmente da pochi grandi uomini, bensì collettivamente dalla moltitudine dei piccoli. E nel corso del suo sterminato capolavoro egli usa a più riprese metafore tratte dal calcolo infinitesimale, probabilmente arrivategli all’orecchio tramite l’amico matematico Sergej Urusov.
Il titolo originale del libro di Tammet era Pensare con i numeri , ma la traduzione italiana non è fuorviante. A parte il richiamo metaforico a La poesia dei numeri , egli dedica infatti alcune pagine anche al significato letterale, cioè letterario, dell’espressione. Discute, ad esempio, il modo in cui i numeri intervengono nella struttura poetica: in particolare, nella sestina medievale e nell’ haiku giapponese. E cita Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, autrice di una poesia intitolata Pi greco che inizia così: «È degno di ammirazione il pi greco, tre virgola uno quattro uno».
Per i primi minuti della sua esibizione Tammet non aveva fatto altro che recitare questa poesia, purgata delle parole superflue inframezzate dalla poetessa fra le prime due dozzine di cifre di pi greco. E aveva continuato mille volte più a lungo di lei, cantando la poesia dei numeri in maniera ancora più pura e rarefatta della stessa poetessa.
il Fatto 9.2.15
Credenze rischiose
La malattia è un’illusione: parola di Christian Science
di Paola Porciello
La malattia è soltanto un’illusione, un errore della mente che va corretto con la preghiera. È quanto sosteneva la fondatrice della più famosa delle sette guaritrici: la Scienza Cristiana. Scriveva Mary Baker Eddy nel 1875: “L’unica vera realtà è Dio. Per guarire dalle malattie è sufficiente cogliere tale verità, mediante la preghiera”. Ancora oggi Scienza e salute è il testo di riferimento per gli adepti che rifiutano la teoria dei germi e di conseguenza le cure della medicina ufficiale. È per questo motivo che Val Kilmer, l’Iceman rivale di Tom Cruise in Top Gun, a quanto dicono amici e parenti, sta rifiutando di farsi curare per un tumore alla gola che l’ha costretto a un intervento alla fine di gennaio.
La sua fede per Christian Science gli impedirebbe di fatto di sottoporsi alle terapie, considerate dalla setta inutili, se non dannose. Oltre a Kilmer e il collega Robert Duvall, hanno fatto parte del movimento attori famosissimi come Joan Crawford, Doris Day, Mickey Rooney e Ginger Rogers.
Figli di genitori devoti alla Chiesa di Cristo sono stati Robin Williams, Elizabeth Taylor, Audrey Hepburn, Henry Fonda e molti altri.
All’alba del XXI Secolo
Christian Science appartiene alla famiglia “metafisica” dei nuovi movimenti religiosi. La sua missione dichiarata è quella di ripristinare il cristianesimo primitivo e il suo elemento perduto di guarigione: Gesù ha salvato non solo l’anima dal peccato ma anche il corpo dalla malattia. A conferma delle sue teorie, pubblica sul sito ufficiale – disponibile in 24 lingue diverse, compreso l’italiano
– centinaia di video con testimonianze di guarigioni avvenute semplicemente seguendo gli insegnamenti della Chiesa Scienti-sta. Con la preghiera – si legge – 80 mila persone hanno ritrovato la salute: Rick ha sconfitto il tumore, Sarah la depressione, Whitney addirittura ha recuperato la vista da un occhio danneggiato in un incidente. I video durano poco più di un minuto ciascuno, con primi piani che indugiano sui volti dei fedeli, presentati con il solo nome di battesimo. Una strategia di comunicazione efficace, semplice e diretta, senza imperfezioni. Un piccolo gioiello di marketing. Ma non finisce qui. È possibile partecipare ai servizi religiosi online o chiamando un numero verde, accorgimento per i più anziani, o per i poco avvezzi alle nuove tecnologie. A corredo di un simile impianto ci sono anche una rivista, The Christian Science Journal, il quotidiano Christian Science Monitor e una società editrice che stampa libri sul movimento e i suoi insegnamenti. Negli Stati Uniti sono disponibili 1200 reading rooms (stanze di lettura) gestite da volontari, aperte a chiunque abbia voglia di pregare o immergersi nella lettura dei testi religiosi.
Uno degli elementi alla base della teologia di Christian Science sarebbe l’evil thinking che la fondatrice chiamava anche “magnetismo animale malefico”. Tale forza, secondo Eddy, può far ammalare coloro che ne vengono colpiti. Ne fu vittima il marito, morto a causa di questo “mesmerismo” pochi mesi dopo il matrimonio, quando lei aveva solo 23 anni. In un’intervista di quel periodo al Daily BostonEddy raccontò che organizzava turni di ronde per proteggere la sua casa. A farne parte erano giovani studenti, noti anche come “lavoratori metafisici” che, con la loro attività mentale, cercavano di contrastare i pensieri malefici.
Dal 1936, anno di massima espansione, il movimento si è andato riducendo. Negli Stati Uniti ad oggi si contano circa 10mila sedi e 100mila seguaci negli Stati Uniti.
Genitori sotto processo
Il rifiuto delle cure mediche ha procurato non pochi guai agli Scienziati Cristiani. Si stima che dalla fine dell’Ottocento agli ultimi anni 90 almeno 50 persone tra genitori e “medici” del movimento siano state processate per altrettante morti di bambini e adulti con accuse che variavano dalla mancata assistenza all’omicidio. Intuttiicasieranostatenegate le cure mediche, anche per malattie perfettamente curabili. Nonostante le numerose battaglie intraprese dalle associazioni di medici e pediatri americani, rimangono tuttora vaste zone degli States in cui vigono esenzioni dalle leggi per i fedeli scientisti, ottenute grazie all’incessante lavoro della lobby di Christian Science che agisce invocando il primo emendamento e minacciando di sospendere i finanziamenti. Come risultato, nel 2014, ben 37 stati prevedevano ancora tali esenzioni nel loro codice civile.
Nel 1977 Matthew Swan, 16 mesi, morì per una meningite batterica a Detroit. I suoi genitori, che si lasciarono convincere a non rivolgersi ai medici, fondarono poi l’Associazione Children’s healthcare is a legal duty, che si batte proprio per contrastare i casi di mancato soccorso ai bambini per motivi etici e religiosi. Tra il 1980 e il 1990 sette coppie di genitori furono processate: quattro vennero condannate, per gli altri ci fu l’assoluzione in appello perché ritenuti in buona fede nelle loro decisioni.
La lotta di Val Kilmer
Nei giorni scorsi l’attore americano ha negato di avere un tumore e di essere stato operato. Il primo febbraio sulla sua pagina Facebook è comparso questo messaggio per rispondere alle preoccupazioni dei fan: “Di nuovo, nessun tumore, nessun intervento. Stiamo aspettando i risultati dei raggi-x e seguiremo i consigli del mio dottore, della mia famiglia e del practitioner di Christian Science quando avremo tutti i dati. Poi farò ciò che è meglio e tornerò prima che possiate buttare giù una colonna di gossip su un attore senza lavoro…”. È del giorno successivo invece il lungo sfogo contro Usa Today, colpevole di aver riportato le dichiarazioni della rappresentante della star Liz Rosenberg, che confermavano le voci sulla malattia. Accusando il quotidiano di fare gossip per vendere copie, l’attore ha smentito tutto, raccomandando ai suoi fan di fare riferimento alla pagina Facebook, unica fonte attendibile aggiornata da lui in persona.
Tornando al sito l’attenzione viene attirata da un titolo: “Ancora nessuna guarigione? Zittisci l’Anticristo! ”. Il link rimanda a una pagina che invita ad abbonarsi alla rivista online: 24 dollari al mese, con modalità di auto-rinnovo.
il Fatto 9.2.15
Anima e corpo
Quelle fedi che non credono nelle cure
di P. Po.
Numerose sette religiose tuttora in proliferazione in tutto il mondo vedono la medicina come una sfida alla volontà di Dio: se il malato deve guarire, lo farà anche senza terapie. Le cronache purtroppo sono piene di persone che hanno perso la vita o che hanno messo a repentaglio quella degli altri per aver rifiutato adeguate cure mediche: negli Stati Uniti, nel corso di un anno, almeno una dozzina di bambini perde la vita perché i loro genitori seguendo gli insegnamenti della loro fede rifiutano ogni supporto medico o scientifico. Nel maggio del 2013 i coniugi Schaible, appartenenti a una piccola comunità nota come “Chiesa del Vangelo del Primo Secolo”, furono condannati per omicidio del loro bambino di otto mesi, Brandon, che poteva essere salvato. “È molto chiaro che la libertà religiosa deve fermarsi laddove cominci la sicurezza di un bambino”, ha detto il giudice Carolyn Engel Temin per spiegare la decisione. Herbert e Catherine Schaible hanno altri sette figli, ora in affidamento temporaneo ad altre famiglie.
Tra le nuove realtà religiose spesso definite sette, Scientology è la più conosciuta grazie all’adesione di star di Hollywood del calibro di Tom Cruise e John Travolta. Fondata da L. Ron Hubbard nel 1954 si è da subito contraddistinta per la netta contrapposizione alla psichiatria. Il libro del 1950 del fondatore Dianetics: La forza del pensiero sul corpo è una sorta di manuale di psicologia fai da te, in cui viene stigmatizzato l’uso degli psicofarmaci, vietato difatti ai seguaci del movimento. Il testo, venduto in venti milioni di copie in tutto il mondo, è stato aspramente criticato per la totale mancanza di scientificità dalla comunità medica.
La Bibbia dice “Astenetevi dal sangue”; e così fanno i Testimoni di Geova che, pur accettando le terapie tradizionali, rifiutano le trasfusioni in quanto il sangue rappresenta la vita agli occhi di Dio (Levitico 17:14). Per poter curare queste persone sono state sviluppate molte tecniche chirurgiche “senza sangue” che cercano di ridurre al minimo le perdite ematiche. Chi non si attiene alla regola viene espulso dalla comunità senza appello, come è successo all’ex Vescovo che aveva autorizzato una trasfusione alla nipotina in fin di vita. In Italia la setta è riconosciuta dallo Stato ed è la Chiesa più importante dopo quella cattolica con 300mila appartenenti.
Gli Amish sono una comunità religiosa nata in Svizzera, stabilitasi negli Stati Uniti a partire dal Settecento. Famosi per il loro rifiuto della modernità in tutte le sue espressioni (comprese in molti casi la corrente elettrica, l’automobile e la radio) vivono come contadini e artigiani nelle campagne evitando le intrusioni della civilizzazione che possano minacciare i loro principi guida. Una famiglia Amish può preferire i rimedi casalinghi alle cure in ospedale, ma non esporrebbe mai i suoi membri a rischi in caso di emergenza.
La Chiesa universale del regno di Dio invece - nota in Italia come Comunità Cristiana dello Spirito Santo e fondata in Brasile nel 1977 - sostiene che la medicina ordinaria debba essere sostituita completamente dalla fede in Gesù. Per le guarigioni si serve di molti simboli come pezzi della croce e oli benedetti da cospargere sulle foto dei propri cari. Nell'ottobre 1995 contava quasi due milioni di adepti in Brasile, e 150mila fuori dal paese. Molti la considerano una setta con finalità economiche a causa della forte insistenza sul pagamento della “decima” dei fedeli.
La Comunità carismatica del Leone di Giuda fa parte del movimento di rinnovamento carismatico. Fondata nel 1973 in Francia lavora per guarire i malati attraverso il carisma: le guarigioni, in questo caso, sono ottenute attraverso un fenomeno di entusiasmo collettivo che moltiplica la forza della fede. Nel 2011 il fondatore Gerard Croissant finì nei guai insieme ad altri leader della setta per abusi sessuali. Tra le vittime c’erano anche alcune religiose della comunità e una minorenne. Il movimento, chiamato oggi Comunità delle Beatitudini, conta circa 1.500 membri ed è presente in 29 paesi.
Di derivazione Cristiana e spiritista è infine l’Antoinismo, fondato nel 1910 dal belga Louis Antoine. Per gli antoinisti, bisogna ritornare alla fede che dà il potere di guarire, tralasciando la scienza naturalistica, nella quale l’uomo moderno ripone troppa fede. Negli opuscoli diffusi dalla setta si legge che “il Culto non va sul terreno della scienza, ed in particolare non compie diagnosi, non consiglia né sconsiglia medicine e operazioni chirurgiche, non fa imposizioni di mani né predizioni del futuro”. Il fondatore Louis Antoine fu condannato nel 1901 per esercizio illegale della professione medica tant’è che oggi i suoi discepoli non parlano di vera e propria cura anche se la cerimonia del culto ("operazione") si svolge ancora.