mercoledì 11 febbraio 2015

Corriere 11.2.15
Perché è giusto introdurre il reato di negazionismo
di Donatella Di Cesare


È in discussione al Senato il provvedimento che, modificando la legge del 1975 contro i crimini di genocidio, introduce il reato di negazionismo della Shoah. L’Italia sarà così in linea con la direttiva dell’Unione europea che risale al 2008.
Numerose sono state le modifiche apportate al provvedimento nel corso di un dibattito che si è sviluppato in questi ultimi anni, mentre il fenomeno è andato assumendo proporzioni sempre più inquietanti. Finora ha prevalso in Italia un indubbio ottimismo. I singoli episodi sono stati letti come spiacevoli incidenti, dovuti a ignoranza e disinformazione. E d’altronde non c’è dubbio che educazione e cultura siano le risposte più consone. Come non concordare?
Ma chi nega, non ignora. Che dire se, come è già avvenuto, a negare sono insegnanti di liceo o docenti universitari? Con quali mezzi reagire? Soprattutto non si capisce perché dovrebbe esserci un’alternativa tra risposta culturale e intervento politico; sarebbe anzi auspicabile una sinergia. Come tutelare altrimenti il diritto dei più giovani nelle scuole, nelle università, ma anche nella rete?
In tal senso si deve sperare che venga preso in considerazione anche il cyber crime . Perché proprio nei social network , dove reale e virtuale, prova e rumore, ragionevole e assurdo vengono equiparati, i negazionisti trovano spazio per rendere attuali e concreti i loro fantasmi. Gli insulti antisemiti si mescolano con la negazione fino allo scherno e all’oltraggio delle vittime.
È comprensibile la preoccupazione degli storici per la libertà di ricerca, la cui necessità va anzi ribadita, proprio al fine di conoscere meglio lo sterminio. Ma come alcuni storici hanno convenuto, il negazionismo non è un’opinione come un’altra. Piuttosto è una dichiarazione politica.
Non deve sfuggire il nesso di complicità che lega la negazione di oggi all’annientamento di ieri. Coloro che negano le camere a gas vogliono annientare il fondamento stesso da cui è sorta la democrazia in Europa. Solo se si tutela il dialogo che fonda la democrazia, si consente una polifonia di interpretazioni. Questo è il compito della legge.

Corriere 11.2.15
Ma chi uccide la memoria non si batte in tribunale
di Pierluigi Battista


Il grande storico Pierre Vidal-Naquet non era d’accordo con chi voleva mettere in galera il negazionista Robert Faurisson. Ma scrisse un formidabile libro sugli «assassini della memoria» che rivelò l’abisso di sconcezza, di impostura storiografica, di ignoranza, di pregiudizio nazistoide in cui sprofondava chi negava la stessa esistenza di Auschwitz. Non bisogna fargliela passare liscia, agli «assassini della memoria». Ma con i libri, i fatti, gli argomenti, i documenti, le testimonianze. Non con i poliziotti e i magistrati. In Francia c’è da tempo una legge che considera reato il negazionismo, ma ogni anno aumenta il numero delle aggressioni contro gli ebrei. In Austria, qualche anno fa, hanno tenuto in prigione David Irving, ma nessun movimento antisemita è risultato indebolito. Senza considerare le occasioni di arbitrio, le omissioni, i silenzi diplomatici, i doppiopesismi.
In Iran nei giorni scorsi hanno indetto un concorso per la miglior vignetta contro gli ebrei: nessuno ha chiesto la chiusura dei rapporti diplomatici con Teheran, dove al tempo dell’allora presidente Ahmadinejad venne addirittura convocato un convegno internazionale per negare l’esistenza delle camere a gas. Una legge che impedisce di dire è una legge liberticida, anche se animata dalle migliori intenzioni.
È la cultura che deve disarmare il negazionismo, non un provvedimento dei magistrati. Si capisce il dolore di chi vede negata l’evidenza storica della Shoah, ma non è con i magistrati che necessariamente interpretano una legge che si vince la battaglia contro gli assassini della memoria. Nemmeno con l’indifferenza. E anzi, è il compito di una società civile impedire che le menzogne circolino indisturbate. E di insistere, ribadire, ricordare. Mai dandogliela vinta ai manipolatori criptonazisti camuffati da storici. Si può fare, anche senza leggi ambigue e pericolose.

Il Sussidiario 11.2.15
Heidegger
I Quaderni neri? Appunti di un piccolo borghese assillato dal destino
di Eugenio Mazzarella

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La Stampa 11.2.15
Strage di migranti a Lampedusa, i superstiti: “Oltre 200 morti”
Il racconto di nove profughi arrivati all’alba di oggi a bordo di un rimorchiatore


Nuova tragedia del mare nel Canale di Sicilia. A raccontarla ai mediatori culturali sono i nove profughi arrivati all’alba di oggi a Lampedusa a bordo di un rimorchiatore. Si tratta di due superstiti del gommone su cui si trovavano i 29 immigrati morti per assideramento e i 76 tratti in salvo e che oggi sono ospiti del Centro d’accoglienza dell’isola di Lampedusa. 
Altri sette immigrati si trovavano invece su un secondo gommone, con a bordo, secondo il loro racconto, 107 persone. Ai mediatori culturali hanno raccontato, in queste ore, con il terrore ancora negli occhi, che il gommone su cui si trovavano si è sgonfiato ed è affondato nel Canale di Sicilia, trascinando nel mare almeno 200 profughi. «Abbiamo visto morire tante tante persone che erano a bordo del nostro gommone», hanno raccontato tra le lacrime.

La Stampa 11.2.15
Odissea Mediterraneo

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La Stampa 11.2.15
Triton non ferma le stragi dei migranti, ipotesi Mare nostrum 2
di Flavia Amabile

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il Fatto 11.2.15
Rendina, partigiano e gentiluomo

risponde Furio Colombo

Caro Furio Colombo
ho visto tante celebrazioni di Massimo Rendina, bravo giornalista e brava persona, che merita certamente un buon ricordo. Ma poi arriva la celebrazione partigiana e io non posso fare a meno di dire: ma neppure i garibaldini dello sbarco dei Mille sono stati ricordati e ri-celebrati così a lungo. A parte le doti della persona, non è scaduto il tempo?
Francesca

NON CREDO CHE sia scaduto il tempo e provo a darle alcune ragioni. Due o tre sere fa, la polizia è dovuta intervenire perché un intero condominio di Milano era disturbato da schiamazzi notturni. La polizia ha accertato che il rock a tutto volume veniva dalla casa del senatore e vicepresidente del Senato, Ignazio La Russa. Appena richiesto di smettere il disturbo, lo statista ha dichiarato alla polizia: “Ma a voi vi mandano le zecche comuniste!”. Negli stessi giorni, Isabella Rauti, figlia di Pino Rauti e moglie dell’ex sindaco di Roma Alemanno, ha convocato un po’ di nostalgici e di ex fascisti al Teatro Adriano per mettere insieme una ennesima aggregazione di “nuova destra”. La “nuova destra italiana”, come dimostra l’intera costellazione di gruppi del genere (da Casa Pound a Fratelli d’Italia a Forza Nuova, ma la lista è molto più lunga) non è “nuova destra”, come si ama dire (e anche i media stanno al gioco) ma vecchio fascismo. È intatto il razzismo contro “negri” e stranieri, intatto il disprezzo per “il nemico” (“le zecche comuniste”) anche se il nemico non esiste più, intatta l’ossessione di armi, confini e pugnali, tutto sacro perché il fascismo è una religione. E intatta è la persuasione che la nostra Costituzione sia partigiana e comunista. La triste morale della favola balza fuori facilmente da questa Italia: il fascismo non ha smesso un momento di essere fascista, come se non fosse stato spazzato via dall’unico vero conflitto di civiltà: mondo libero contro nazifascismo. Perché, quando esistono (quando sono esistiti) personaggi come Massimo Rendina, che hanno rischiato, combattuto, comandato, giocandosi sempre la vita per liberare il futuro dell’Italia dal morbo fascista, perché non dovremmo onorarli in vita e ricordarli da morti con immensa gratitudine? Se i fascisti sono ancora fascisti, perché fingere di non vedere e smettere di essere antifascisti? Per questo un Paese civile sceglie per forza Rendina, lo ricorda con amore e gli dedica l’onore che si è meritato di un liberatore del Paese. Non è fuori luogo ricordare ai veterofascisti, a cui piace chiamarsi “nuova destra”, che sono stati fortunati. Ha vinto Rendina. Se avessero vinto coloro che essi ancora celebrano, il loro destino sarebbe stato di fare, a tempo pieno, e per sempre, i guardiani dei campi di sterminio.

La Stampa 11.2.15
Il Nazareno è finito ma solo un po’
di Federico Geremicca


Poiché, come si dice, anche l’occhio vuole la sua parte, la nuova vita di Forza Italia come partito di «opposizione integrale» è cominciata ieri in Parlamento in maniera un po’ così... Alla Camera, in particolare, sul testo di riforma del Senato, qualche voto contro la legge, qualche altro a favore, qualcun altro chissà.
Del resto, perfino in politica - a volte - non è cosa proprio agevole dirsi improvvisamente contrari a cose sulle quali fino al giorno prima si eran stretti patti e fatti accordi.
Comunque sia, con le dimissioni del co-relatore della riforma (Sisto) e l’intervento del capogruppo Brunetta, il cosiddetto Patto del Nazareno può dirsi pubblicamente, ufficialmente e parlamentarmente rotto. Il partito di Berlusconi annuncia ora un’opposizione «selettiva» (si capirà col tempo cosa significhi) e rivendica la libertà «di non esser scontento». Si vedrà in fretta quali effetti sortirà sul quadro politico la fine della discussa intesa tra Pd e Forza Italia: è certo, però, che in passato la rottura di «patti» politici importanti ha prodotto effetti tutt’altro che irrilevanti...
Patti, per altro, mai interamente rispettati e sempre traditi da qualcuno dei contraenti. Il «patto della staffetta», che prevedeva che Bettino Craxi cedesse a Ciriaco De Mita la guida del governo nella seconda fase della legislatura, fu rotto dal leader socialista nel febbraio del 1987 addirittura con una intervista tv a Gianni Minoli: dopo arrivarono le elezioni anticipate. E il relativamente più recente «patto della crostata» (giugno 1997) siglato in materia di Grandi Riforme a casa di Gianni Letta tra le coppie D’Alema-Marini e Berlusconi-Fini, fu infranto d’un colpo da Berlusconi, quando ritenne di averne tratto il massimo utile.
Anche in quel caso - proprio come per il Patto del Nazareno - si sussurrò di accordi inconfessabili tra D’Alema e Berlusconi: il sostegno del Cavaliere alle riforme istituzionali in cambio dello stop a leggi in materia di tv (che avrebbero danneggiato Mediaset) e ad un colpo di freni circa la regolamentazione del conflitto di interessi. D’Alema pagò un prezzo pesante - nacque allora il Dalemoni... - all’intesa con Berlusconi: la rottura di quel patto portò prima alla fine della Bicamerale (e del processo di riforme) e qualche tempo dopo alla crisi del governo di Romano Prodi...
Patti infranti e terremoti politici, insomma. Ma il presidente del Consiglio si dice convinto che stavolta non sarà così. La previsione del premier-segretario si fonda su due elementi di fatto difficilmente contestabili: il primo, i rapporti di forza concretamente in campo; il secondo, l’invincibile istinto di sopravvivenza di un Parlamento che, a torto o a ragione, vede farsi più concreta la prospettiva di una legislatura che arrivi fino alla sua scadenza naturale (2018). Vedremo se la previsione si rivelerà esatta. Certo, alcuni elementi sembrano avvalorarla.
Il più evidente è quello del possibile o presunto ingresso in gioco dei cosiddetti «responsabili» o «stabilizzatori» parlamentari (soprattutto senatori) pronti, si dice, a correre in soccorso della maggioranza. Il fenomeno - una sorta di movimento lento - è già perfettamente visibile. Ai fini pratici (sostegno al governo che perde i voti di Forza Italia sulle Grandi Riforme) l’effetto non cambia: ma la sensazione è che più che ad una «campagna acquisiti» del Pd, quel movimento sia il frutto del solito e italianissimo «salto sul carro del vincitore». A testimonianza di tradizioni, chiamiamole così, durissime a morire...
Se le cose stanno così, allora non è difficile capire le ragioni dell’ottimismo - un ottimismo quasi irridente - di Matteo Renzi: «Berlusconi oggi segue Brunetta e la Rossi, non più Letta e Verdini... Tornerà? Non credo. Ma l’importante è che torni la crescita, non che torni lui»...

Corriere 11.2.15
Le ombre del Nazareno sopravvivono alla rottura
di Massimo Franco


Per quanto ufficialmente archiviato, il patto del Nazareno non smette di proiettare la sua ombra sui rapporti politici. Anzi, le sue ombre, a dare retta a quanti hanno sempre contrastato quello che veniva accreditato come asse istituzionale tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi; e che invece, secondo gli avversari, conteneva clausole riservate e non sempre chiare. La rottura tra premier e capo di FI dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale ha smentito un’intesa su quel voto. Ha spinto Berlusconi verso l’abbraccio con la Lega e portato al ridimensionamento di Denis Verdini, uomo-cerniera tra Palazzo Chigi e FI.
Ma i sospetti non sono finiti. Soprattutto il Carroccio, che sembra voler dettare le regole per un ritorno all’alleanza con FI alle prossime Regionali, alimenta la vulgata di un patto inconfessabile e dai contorni torbidi. Berlusconi non l’avrebbe disdetto prima perché «Renzi l’ha fregato», è la tesi dell’ex leader dei lumbard Umberto Bossi. «Uno spera fino alla fine di cavarsela, soprattutto se è sotto ricatto». In realtà, prove del presunto ricatto non ne ha, come ammette. «Però diciamo che Berlusconi era ben tenuto». La contraddittorietà con la quale FI sta costruendo il suo profilo d’opposizione conferma i sospetti di chi considera l’asse danneggiato ma non spezzato.
Come se l’ex Cavaliere avesse ancora bisogno del governo, per motivi personali e aziendali; e sapesse bene che lo scontro frontale con Renzi può danneggiarlo molto più che ridargli forza politica. L’atteggiamento guardingo della minoranza del Pd riflette il timore di una resurrezione del patto del Nazareno. Il Consiglio dei ministri affronterà presto la questione del decreto che depenalizza la frode fiscale sotto la soglia del 3 per cento del reddito imponibile: una misura affiorata per caso a gennaio, e che fece parlare di uno scambio inconfessabile tra Renzi e Berlusconi in vista della corsa al Quirinale.
Il premier difese quella scelta, ma decise di congelare tutto fino al 20 febbraio per fugare qualunque illazione. Ebbene, ieri l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha lasciato capire che se il provvedimento fosse confermato, potrebbero esserci problemi. «Il governo sta riflettendo. Altrimenti, quando arriverà in aula...», ha detto. E il Movimento 5 Stelle approfitta di questa ambiguità per additare un patto vivo e vegeto. Forza Italia «continua a sostenere queste riforme. Possono dimettersi, fare scena», accusa il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, «ma questo è un patto che esiste da vent’anni».
In realtà, non è chiaro che cosa stia accadendo. L’unico elemento vistoso è lo sbandamento berlusconiano, che si riflette sui comportamenti del partito. Gli uomini di Renzi ironizzano sulle «poche idee ma confuse» di FI; su votazioni nelle quali il centrodestra si divide e si contraddice. «Nazareno o non Nazareno», fa osservare Matteo Richetti, renziano della prima ora, «si può votare contro ciò che si è sostenuto in commissione?». Ma in mezzo c’è stato il Quirinale. E magari altri fatti per ora misteriosi, dei quali si capirà qualcosa solo tra un po’ di tempo.

il manifesto 11.2.15
Le radici profonde del Nazareno
Democrack. Prima Napolitano con Craxi, poi Renzi con Berlusconi
La separazione tra il "politico" e il "corruttore" è il sottofondo della vicenda italiana dove i vizi privati diventan
o pubbliche virtù
di Paolo Favilli
qui

Repubblica 11.2.15
L’opposizione “totale” alle riforme contraddice la linea istituzionale e fa perdere credibilità
I maldipancia di Forza Italia per la svolta dell’ex Cavaliere
Berlusconi però si tiene ancora un margine di ambiguità
Molti azzurri non vogliono cedere a Renzi il ruolo di unico uomo responsabile
di Stefano Folli


NELLE parole con cui il relatore Sisto, di Forza Italia, ha annunciato il suo ritiro dall’incarico di relatore per la riforma costituzionale del Senato si avvertiva un certo travaglio intimo. E quel riferirsi all’appartenenza politica come a un imperativo ineludibile cui va sacrificato il resto, ricordava la celebre sentenza di Gladstone: «fra la propria coscienza e il proprio partito un gentiluomo sceglie sempre il partito».
Anche Sisto ha scelto con correttezza il partito, ma ieri a Montecitorio era difficile sfuggire alla sensazione che in tanti all’interno di Forza Italia sono sconcertatati e dubbiosi. Berlusconi ha imposto la sua scelta (o meglio, quella che al momento appare la sua scelta) e in apparenza tutti si adeguano. Ma dietro le quinte l’inquietudine è grande. Si chiede al centrodestra di votare contro leggi e riforme che fino a ieri erano state sostenute e votate. Si pretende di denunciare una «deriva autoritaria» e persino dittatoriale del governo non per il merito di queste riforme, ché altrimenti non avrebbero dovuto essere approvate anche a destra, ma per la linea seguita da Renzi nella scelta del capo dello Stato. L’argomento non è molto convincente. In sintesi, Sergio Mattarella merita tutto il rispetto — lo ha ribadito Brunetta — ma il metodo seguito per la sua elezione apre la strada a uno scenario autoritario e illiberale. Addirittura giustifica che il centrodestra cambi posizione rispetto a una riforma costituzionale a cui aveva contribuito in notevole misura. Tanto è vero che Sisto, lasciando intravedere la sua lacerazione interiore, dice che «per un giurista non c’è niente di più esaltante che riformare la Costituzione».
Certo, per gli avversari interni del patto del Nazareno, fra cui lo stesso Brunetta, questa è una vittoria politica da non lasciarsi scappare. C’è sempre il rischio che Berlusconi torni sui suoi passi, senza troppo preoccuparsi di salvare le apparenze, ma per ora si può lavorare a costruire un muro fra il centrodestra neo-oppositore e la maggioranza di Renzi. Partendo dal fatto che non tutto é chiaro nella scelta del leader storico. Egli stesso alimenta una certa ambiguità, come quando afferma all’incirca: «ci sono riforme o parti di esse che sosterremo perché le giudichiamo positive, non perché discendono da un accordo con il premier ».
E quindi l’opposizione «a tutto campo» finisce per scontrarsi con la logica. Una forza guidata da un ex presidente del Consiglio, quali siano st ate le sue traversie, che sceglie fino a ieri una linea di responsabilità istituzionale e oggi la capovolge per una vendetta, perde di credibilità. È questo che preoccupa gli esponenti di Forza Italia che in queste ore tacciono o parlano il meno possibile. Si avverte un profondo turbamento che non sfocia in un’opposizione aperta, salvo l’area facente capo a Fitto, ma nemmeno nel sostegno entusiasta con cui fino al recente passato venivano salutate le intuizioni tattiche — e talvolta anche strategiche — del leader.
Oggi molto è cambiato. Il meno che si possa dire è che la nuova linea annunciata in modo repentino da Berlusconi deve ancora essere spiegata ai quadri e agli stessi parlamentari. A breve può servire, ma non è sicuro, a ricompattare il partito e a non perdere contatto con Salvini: ossia il personaggio da cui Berlusconi è stato più volte insultato, ma che oggi, ai suoi occhi, appare trasfigurato dall’aureola del successo. Alla lunga però diventa incompatibile con il sentimento profondo di una larga fascia di parlamentari che non vogliono essere isolati o tagliati fuori dal processo riformatore. E che soprattutto non intendono regalare a Renzi la patente di uomo responsabile, il solo che lavora nell’interesse del paese e non della fazione.

La Stampa 11.2.15
I rischi del dopo Berlusconi
Gli esercizi di «berlusconologia», non c’è dubbio, possono venire a noia
di Giovanni Orsina


Tanto più che son vent’anni che li facciamo – e tanto più che si tratta di una scienza quanto mai inesatta. Se da ultimo tanti commentatori sono tornati a consultare i manuali di questa scienza, tuttavia, una ragione c’è.
Non è possibile comprendere che cos’è oggi la politica italiana, né che cosa sarà nel prossimo futuro, se non la si guarda attraverso il prisma del berlusconismo. Vale dunque la pena analizzare quel che è accaduto a destra nei giorni scorsi – cercando magari di collocare gli eventi in una prospettiva più ampia.
Se vogliamo capire la situazione attuale dobbiamo tenere presenti tre caratteri del berlusconismo «storico». In primo luogo, la sua centralità. Dal 1994 al 2011 Berlusconi è stato l’«astro» intorno al quale ha ruotato la politica italiana: la dicotomia fra berlusconismo e antiberlusconismo ha rappresentato la struttura portante (ancorché disfunzionale) del nostro spazio pubblico. In secondo luogo, la sua «impoliticità». Il berlusconismo è stato senz’altro un fenomeno politico, e politico è stato il rapporto che Berlusconi ha avuto con i suoi elettori. Le origini della sua forza, tuttavia, erano nella sua storia imprenditoriale, che lui sfruttava anche come arma propagandistica per distinguersi dal «teatrino della politica» e dai suoi teatranti professionisti. Questa sua indipendenza relativa da risorse politiche, in terzo luogo, ha consentito a Berlusconi di demolire le tradizioni repubblicane, che erano divenute ormai obsolete, trasformando lo spazio pubblico italiano in una sorta di «ground zero».
Nel compiere quest’opera, tuttavia, Berlusconi ha finito per distruggere anche se stesso, perdendo irrimediabilmente la posizione centrale che aveva occupato dal 1994. Se n’è accorto? A giudicare dalle sue mosse, in parte sì e in parte no. Sì, perché continua a cercare dei punti d’appoggio esterni – prima Renzi, ora Salvini –, mostrando di aver compreso di non poter più stare in piedi da solo. Là dove per quasi vent’anni non soltanto non ha avuto bisogno di nessuno, ma erano gli altri, semmai, ad appoggiarsi a lui. No, perché sembra credere di poter controllare quelli ai quali si aggrappa – come se fosse sempre lui al centro, come se la sua debolezza fosse transitoria.
Questa irreversibile perdita di centralità si collega ad almeno tre fenomeni ulteriori. Il successo di Berlusconi è stato dovuto anche alla sua straordinaria capacità di tenere insieme pezzi apparentemente incompatibili di politica e di società – la Lega e Alleanza nazionale, Nord e Sud, liberismo e statalismo, destra e centro destra, moderati e inviperiti. Quest’ambiguità, che era un punto di forza perché lui la interpretava da una posizione di forza, adesso che è debole si è trasformata in una fonte aggiuntiva di debolezza. La rottura con Renzi e l’alleanza con Salvini, così, altro non sono che l’ennesima delle oscillazioni fra il Berlusconi di governo e quello di lotta alle quali assistiamo almeno dall’estate del 2013. Stando ai retroscena, sembra che i berlusconiani siano convinti che gli elettori non si curino di questi ondeggiamenti. Non ne sarei troppo sicuro.
La crisi del berlusconismo, in secondo luogo, segna con ogni probabilità anche la fine dell’«invasione» della politica da parte di logiche e soggetti non politici – imprenditori, professori, «gente qualunque». Con Renzi, ma anche con Salvini, stiamo assistendo all’ascesa di figure puramente politiche. Mentre sul versante dell’antipolitica Scelta Civica tramonta ancor più rapidamente del berlusconismo, e il grillismo non se la passa troppo bene. Alla buon’ora, vien da dire, a ciascuno il suo mestiere: gli imprenditori intraprendano, i professori professino, la gente qualunque faccia cose qualunque – e i politici facciano politica. Renzi e Salvini tuttavia – questa la terza considerazione – non riportano affatto l’orologio politico indietro a vent’anni fa. Nel bene e nel male, sono figli dell’opera di desertificazione compiuta da Berlusconi: è una politica forse peggiore, di certo del tutto nuova.
Avrebbe bisogno l’Italia di un’area di centro destra ampia e solida che si opponga a Renzi e magari si allei alla Lega, ma da posizioni di forza? Altroché. È probabile che quest’area prenda forma nei prossimi mesi o anni? Avendo osservato il comportamento che ha tenuto negli ultimi anni, mesi e soprattutto settimane chi si muove in quest’area, la risposta è: quanto mai improbabile. L’uscita dal ventennio berlusconiano non può che essere caotica: lo è stata per l’Italia, che non per caso da più di tre anni non ha un governo eletto, lo sarà per la destra italiana. Sarà molto difficile che nasca in tempi brevi o anche medi una terza opzione vitale fra le due sole che ci sono oggi – quella di Renzi e quella di Salvini.
Nell’immediato, perciò, non resta che sperare che l’operazione politica compiuta da Renzi con l’elezione di Mattarella non si ritorca contro di lui (e noi): che la crisi del centro destra non faccia saltare le riforme elettorale e costituzionale, mandando l’Italia al voto con la proporzionale – ossia tenendola immersa nella palude trasformistica in cui si trova adesso.

Il Sole 11.2.15
Lo strappo sul Patto e le regionali
di Lina Palmerini


Lo strappo sul patto del Nazareno peserà sul voto per le riforme ma nella campagna elettorale che sta per cominciare conterà meno di zero. Conta a Roma, certo, ma in una regione come la Campania, per esempio, con il 22% di disoccupazione, difficile che si faranno comizi su quel patto.
Non sarà tema di propaganda quello che è successo ieri nell’Aula di Montecitorio, l’ostruzionismo di Forza Italia sulla riforma del Senato, i rischi del Pd, la conta su ogni votazione. La campagna elettorale per le regionali sarà tutt’altro e non sarà facile. Perché la primavera si porterà dietro gli strascichi della crisi economica senza aver ancora inglobato quei primi segnali positivi che si affacciano. Ieri il Governatore della Banca d’Italia Visco ha parlato di cose che vanno «n’anticchia meglio»: un’unità di misura che Matteo Renzi nei comizi tradurrà come una svolta e che l’altro Matteo (Salvini) denuncerà come il fallimento del Governo. Dunque, sarà questo il campo di battaglia, le polemiche sui numeri e sui risultati dei governi locali mentre il patto del Nazareno non riuscirà a varcare i confini di Montecitorio. Lo strappo servirà molto poco a Silvio Berlusconi per rianimare i consensi elettorali del suo partito.
Peraltro la vera competizione si giocherà su alcune Regioni che mostreranno come, ormai, i duellanti siano i due Matteo, non più il Cavaliere. In Veneto, per esempio, dove alle scorse europee il balzo del Pd è stato impressionante: dal 20,34% delle regionali 2010 al 37,52% del maggio 2014. Un risultato migliore della Lega alle regionali di cinque anni fa quando arrivò a 35,16% sopra al Pdl di 10 punti, portando Luca Zaia alla guida della Regione. È quel 37% l’asticella di Renzi ma è anche l’asticella di Salvini che arriva dopo Umberto Bossi alla prima vera prova.
In Veneto si torna alle urne dopo cinque anni di centro-destra, in cui la disoccupazione è cresciuta, il Pil diminuito così come la produzione industriale. Dal 4,4% di senza lavoro nel 2011 si è passati al 7,3% del novembre 2014: anche se il dato è in leggera ripresa - così come quello sul Pil - la crisi ha lasciato i segni perfino in quel Nord Est che era felix e che è stato governato dalla Lega.
Sarà una verifica per il governo del Carroccio e una verifica per il premier che a maggio aveva solo messo in campo gli 80 euro del bonus fiscale e che a primavera avrà più di un anno di Governo alle spalle. Insomma, si vedrà se quell’apertura di credito delle europee verrà confermata. E se le piccole e medie imprese ragionano come fa Sergio Marchionne che ieri ha promosso Renzi - «sta facendo cose che nessuno ha mai fatto in anni» - ma ha anche aggiunto «lasciamolo lavorare, non abbiamo scelta».
In Veneto si parlerà di riforma del lavoro più che di patto del Nazareno vivo o morto. Conterà più la delega fiscale o l’Irap che non quello che mette in scena Forza Italia all’Aula della Camera. È questo il punto, che gli slogan di Salvini hanno già portato consensi mentre quelli di Forza Italia non esistono. È una campagna elettorale tutta da inventare e da costruire tra le mille divisioni del partito che si rifletteranno sui territori. In Liguria come in Puglia, dove Raffaele Fitto conduce la sua battaglia anti-Cav. O anche in Campania dove governa il centro-destra e dove la crisi è stata più feroce che altrove: 22% di disoccupazione, 45% di quella giovanile contro una media italiana del 23 per cento. Un divario in termini di Pil per abitante con le regioni del Nord che è quasi la metà: il 36,3% in Lombardia, il 17% in Campania. Di patto del Nazareno non ne vorrà sentir parlare nessuno.

Il Sole 11.2.15
Ddl anticorruzione. Tutto rinviato per l’assemblea dei parlamentari di Forza Italia con Berlusconi - Ancora stallo sulla soglia di punibilità
Colpo di freno sul falso in bilancio «Non c’è accordo di maggioranza»
di D. St.


ROMA Nulla di fatto su anticorruzione e falso in bilancio. Se ne riparla la prossima settimana visto che oggi tutte le sedute delle commissioni di Camera e Senato sono state sconvocate per una riunione di deputati e senatori di Forza Italia presieduta da Silvio Berlusconi. D’altra parte, nessun testo sul falso in bilancio era stato ancora messo a punto dal governo fino alle 16,36, quando è arrivata la comunicazione del rinvio. Si continua a discutere se lasciare comunque una soglia minima di non punibilità, o di punibilità attenuata, oppure se eliminarla tout court, rendendo tutto punibile con la pena da 2 a 6 anni ma fatte salve le alterazioni non sensibili, ovvero gli errori «lievi». «Quel che è certo è che al momento non c’è alcun accordo» dice David Ermini, responsabile giustizia del Pd, facendo capire che nessuno può accreditare accordi già fatti di cui il responsabile Giustizia del Pd non sia stato «reso partecipe».
Nel pomeriggio era infatti girata la voce che i due capigruppo Pd e Ncd in commissione Giustizia del Senato, Giuseppe Lumia e Nico D’Ascola, avessero concordato un testo senza alcuna soglia e con pena da 2 a 6 anni, sempre che vi sia stata «una alterazione sensibile» della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria. Un accordo che sarebbe dovuto passare al vaglio del ministro della Giustizia Andrea Orlando, tendenzialmente favorevole, invece, a mantenere una soglia per le imprese medie e piccole. La soluzione Lumia-D’Ascola viene sostenuta per evitare «paradossi». «Se si introduce una soglia del 5% al di sotto della quale la pena è attenuata, per esempio da 1 a 4 anni - spiega il sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa, Ncd - può accadere che il falso che abbia alterato il bilancio del 5% sia punito con il massimo della pena prevista, cioè 4 anni, mentre un falso che abbia comportato una variazione del 5,1% sarebbe presumibilmente punito con il minimo della pena, cioè 2 anni. È un evidente paradosso, che si può evitare eliminando la soglia e lasciando soltanto la clausola dell’“alterazione sensibile” per escludere la punibilità».
Ma nel pomeriggio Lumia sembrava più possibilista sul mantenimento della soglia (il testo del governo la prevede al 5%) al di sotto della quale scatterebbe, non la non punibilità, ma una pena più bassa. «Si sta discutendo solo in relazione all’estensione delle pene - diceva dopo un incontro in via Arenula -. L’intenzione è salvaguardare le piccole e medie imprese su due possibili soluzioni: da un lato confermare la soglia del 5%, prevedendo però pene più lievi (per esempio da 1 a 4 anni, ndr), dall’altro eliminarla del tutto introducendo però un principio di “tenuità” per gli errori lievi». Se ne continuerà a parlare nei prossimi giorni, visto lo slittamento della seduta di commissione, che fa così allungare ulteriormente i tempi. Oggi, invece, dovrebbe svolgersi la riunione tra governo e maggioranza sulla prescrizione, in vista della presentazione degli emendamenti in commissione Giustizia, alla Camera (il termine scade domani).
Ma è sul falso in bilancio che si concentravano le maggiori aspettative visto che la riforma aspetta da quasi due anni. Dopo il vertice di maggioranza della scorsa settimana, Orlando aveva detto che «la corsia preferenziale è nei fatti», poiché entro oggi sarebbe stato presentato e votato l’emendamento frutto dell’intesa. Che invece - a prescindere dal rinvio - continua ad essere incagliata su soglia/sì, soglia/no. «Non mettere nessuna soglia - osserva Ermini - significa lasciare alla discrezionalità del magistrato la valutazione sull’eventuale non offensività del falso in bilancio, e questo va bene purché ci siano almeno dei paletti. Perciò, o mettiamo dei criteri oggettivi oppure è meglio prevedere una soglia».
Il rinvio scatena i 5 Stelle: «Mentre la Corte dei Conti tuona contro la corruzione, il governo, nonostante gli annunci in pompa magna fatti da Orlando solo qualche giorno fa, non si è ancora degnato di far conoscere al Parlamento i termini del presunto accordo che la maggioranza avrebbe raggiunto proprio sulla questione delle soglie di punibilità per il falso in bilancio. Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo appreso che le votazioni che si sarebbero dovute avere domani (oggi per chi legge, ndr) in Commissione slittano alla prossima settimana, dunque un ulteriore rinvio per un testo fermo in Commissione Giustizia al Senato ormai da circa nove mesi. La verità è che questa maggioranza non è in condizioni di trovare un accordo sul tema della corruzione».

il manifesto 11.2.15
Il giorno del ricordo a uso e consumo della Terza Repubblica
di Davide Conti

qui

Repubblica 11.2.15
La vittoria di Darwin
di Alessandra Longo

IL 12 febbraio 1809 nasceva Charles Darwin e domani anche in Italia, come nel resto del mondo, la data sarà commemorata con incontri e dibattiti promossi dalla Uaar, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Tra gli appuntamenti da segnalare quello di Udine, con il sindaco Furio Honsell, che è un matematico. Titolo: «Il complesso di Copernico ». A Verona, lo scienziato sarà ricordato da Massimo Delledonne, ordinario di genetica, con un evento di divulgazione scientifica che si chiama «My beautiful genome». Che clima diverso. Ricordate ai tempi del governo Berlusconi 2001-2006 quando ministro dell’Istruzione era Letizia Moratti? Scoppiò il giallo dell’abolizione dell’insegnamento della teoria dell’evoluzione biologica dai programmi scolastici. Centinaia di scienziati firmarono un appello indignato. Alla fine “vinse” Darwin ma furono momenti di vero oscurantismo. Almeno in questo ci siamo evoluti.

Corriere 11.2.15
Il marito è morto, sì all’impianto di embrioni
Congelati 19 anni fa, l’uomo è scomparso nel 2011. Via libera dei giudici a Bologna
Remno Bodei: «Se tecnicamente è possibile farlo allora non è contrario alla natura»
di Elvira Serra


Il filosofo Remo Bodei non è troppo sorpreso. «C’è già stato un caso, in California, e destò molto clamore: era il 1999 e Gaby Vernoff aveva appena partorito una bambina concepita con lo sperma del marito morto».
Non solo: il liquido seminale era stato estratto 30 ore dopo il decesso dell’uomo e congelato per 15 mesi prima della fecondazione in vitro.
«Insomma, l’idea della procreazione postuma non è nuova».
A lei quali pensieri suggerisce?
«Dal punto di vista della immaginazione, c’è qualcosa di spettrale nell’idea stessa. Soprattutto se pensiamo che gli embrioni sui quali si sono pronunciati i giudici di Bologna hanno 19 anni».
Fuori tempo massimo?
«Dovrebbe dirlo un esperto. Di sicuro, dal punto di vista etico l’idea di mantenere una continuità biologica e affettiva con il proprio partner è comprensibile. Il problema, semmai, è tecnico».
Cosa intende?
«Che sebbene il principio stabilito dal Tribunale di Bologna possa essere giusto in generale, nel caso particolare rischia di essere inutile perché è alta la probabilità di aborto».
E non le sembra contro natura l’idea della gravidanza postuma?
«Il fatto stesso che sia possibile far nascere dei bambini con questa tecnica significa che si stanno seguendo leggi di natura. Certo, con strumenti nuovi».
Neppure l’età della madre, cinquantenne, le sembra un ostacolo?
«L’elemento più incerto è l’età dell’embrione. Della madre non mi preoccuperei: l’età media delle donne si è allungata, l’ultima ricerca Istat dice che chi vive nella provincia di Nuoro ha l’aspettativa di vita più alta, fino a 88,5 anni; se diventa madre a 59 anni può immaginare di accompagnare il figlio per quasi trent’anni».
C’è chi parla di «metodi Frankenstein». Lei cosa dice?
«Mi sembra terroristico usare questi termini. Bisogna tener conto di come sono fatti gli esseri umani, dei loro bisogni e desideri. Resta il problema della prudenza, intesa in senso latino, della saggezza. La questione non è tanto se una certa cosa sia vietata o permessa, ma se sia consigliabile».
E lei cosa consiglia?
«Io penso che non bisognerebbe fare carte false per avere bambini, sarebbe meglio adottarli. Ma non è illogico, né condannabile, desiderare di averli a tutti i costi».

Corriere 11.2.15
L’abbraccio greco non convince Renzi e l’effetto Tsipras divide la sinistra Pd


«Sulla Grecia la nostra linea qual è?». La domanda della sinistra pd ha rincorso Matteo Renzi per diversi giorni. Ieri il segretario ha risposto: ne parliamo lunedì in direzione. Dopo tanto tempo un tema internazionale — le politiche di austerità in Europa —, e l’atteggiamento verso un governo di sinistra di un altro Paese che le rifiuta, saranno al centro di una discussione. Torna perfino un termine, «la linea del partito», che appartiene ai riti antichi della sinistra quando «l’analisi della situazione internazionale» era imprescindibile. Difficile che Renzi segua schemi già visti, e se anche lo volesse qualcuno nel suo partito, non c’è il tempo: sull’asse Atene-Bruxelles-Berlino questi sono giorni decisivi.
   Finito il tempo delle congratulazioni per la vittoria elettorale, passato anche quello del primo incontro a Roma con scambio di doni e battute (era il 3 febbraio), ora per Matteo Renzi si tratta di decidere: fare di Tsipras un proprio alleato in Europa, come gli chiede la sinistra, o esercitare un certo distacco verso il tentativo del premier greco e del suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, considerando quella trattativa, pur simbolica, un affare principalmente greco.
   I segnali vanno nella seconda direzione: nei giorni scorsi il premier ha invitato Atene a rispettare il programma della troika e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha rivendicato la «visione comune» con la signora Merkel, rifiutando di fatto l’«abbraccio» greco. Qualcosa sta cambiando rispetto all’effetto-novità iniziale, per questo la minoranza pd ha chiesto a Renzi di «chiarire» e la piazza italiana pro Tsipras tornerà a mobilitarsi (sabato a Roma, aderisce anche la Fiom di Landini). Sopito per qualche tempo, si avvicina un nuovo scontro a sinistra e anche Beppe Grillo ha fiutato l’aria: «È ora di chiamare la gente in piazza per sostenere Atene, ci vuole un fronte comune».

il manifesto 11.2.15
Crisi greca, la posta in gioco non è solo il debito
Tsipras. La mobilitazione a favore del governo greco può e deve coinvolgere l’Europa intera
di Guido Viale

qui

Repubblica 11.2.15
E Atene chiede alla Germania 160 miliardi come danni di guerra. La replica: caso chiuso dal ‘90
di Ettore Livini


MILANO La guerra dei debiti tra Grecia e Germania ha aperto ufficialmente un nuovo, caldissimo fronte: quello dei danni di guerra e dei prestiti forzosi imposti dal regime nazista (e dall’Italia fascista) ad Atene. Un mondo capovolto rispetto a quello di oggi dove è Berlino che deve – o dovrebbe – una valanga di quattrini ad Atene. Ma si rifiuta di pagarli. Ad accendere la miccia è stato Alexis Tsipras: «Abbiamo l’obbligo storico di chiedere indietro i nostri soldi – ha detto presentando il programma del governo in Parlamento –. È un dovere morale nei confronti del nostro popolo, della storia e degli europei che hanno versato sangue per combattere Hitler». La risposta è arrivata secca secca da Sigmar Gabriel, il vice-cancelliere tedesco: «Il caso è chiuso da anni – il suo messaggio al premier ellenico –. Le possibilità di riaprirlo sono uguali a zero».
La questione del rimborso dei 476 milioni di Reichsmark prelevati dai nazisti dai forzieri della Banca di Grecia nel 1942 è una delle ferite mai davvero rimarginate nel paese. E Tsipras, in questo caso, raccoglie il testimone da Antonis Samaras che nel 2013 aveva annunciato la creazione (in realtà mai avvenuta) di una commissione per riaprire la pratica dei danni di guerra. La richiesta è tutt’altro che simbolica: la cifra del prestito forzoso di allora – ponderata con i capricci del Reichsmark, l’inflazione e gli interessi – «vale oggi 13 miliardi di euro», calcola uno studio di prossima pubblicazione dell’ex ministro dell’Economia ellenico Nikos Christodoulakis. Se si aggiungono i risarcimenti per i familiari delle vittime di eccidi come quello di Distomo (58 miliardi per gli standard internazionali) e per i danni alle infrastrutture durante l’occupazione del terzo reich, il totale sale a tre cifre. Più o meno un saldo finale di 162 miliardi secondo un rapporto interno dell’esecutivo Samaras.
«Ho qui in tasca la richiesta di rimborso», ha detto ieri il ministro degli Esteri ellenico Nikos Kotzias in visita a Berlino. «Il conto l’abbiamo già pagato », gli ha risposto gelido Franz Walter Stenmeier. Atene ha ricevuto dalla Germania nel 1960 un assegno da 115 milioni di marchi – «un acconto» dicono sotto il Partenone – concordato nella Conferenza di Londra del ’53, quella dove era stato cancellato il 62% del debito bellico tedesco. E i tedeschi sono convinti, giuridicamente parlando, che l’intesa di Mosca del 1990 – (“Trattato per la regolamentazione finale delle intese con la Germania”) – sia l’accordo di pace che pone fine a qualsiasi rivendicazione legata al secondo conflitto mondiale. E quell’intesa, firmata dalla Grecia, non fa cenno al tema dei danni di guerra.
«Storie, recuperare quei soldi è per noi un dovere morale e politico», ripete in questi giorni anche Manolis Glezos, novantenne icona di Syriza, l’uomo che nel maggio ’41, appena diciottenne, si è arrampicato sulle rocce dell’Acropoli per ammainare la bandiera con la croce uncinata, dando il via alla Resistenza ellenica e che due anni fa è stato coinvolto in scontri di piazza con la polizia. Atene ha ignorato per quasi tre decenni i suoi appelli. A frenare le pretese elleniche nel Dopoguerra sono stati gli alleati, convinti che non si potesse umiliare Berlino e si dovesse dare al paese la possibilità di risorgere dalle macerie belliche. Quando la Germania è ripartita, a gettare acqua sul fuoco ci ha pensato proprio lei, minacciando la Grecia di chiudere le frontiere agli immigrati ellenici se avesse avanzato richieste sui danni di guerra.
Il percorso legale del resto è molto complesso. Un tribunale di Firenze, per dire, ha assegnato nel 2008 come risarcimento ai familiari delle 218 vittime dei nazisti nella strage di Distomo una villa di Menaggio di proprietà di una organizzazione no-profit tedesca. Berlino però si è appellata alla Corte dei diritti umani che ha ribaltato la decisione, sostenendo che i singoli non possono sostituirsi allo Stato in queste richieste. E stessa fine rischiano di fare nuove azioni elleniche in tribunale.
Atene però non si è mai data davvero per vinta. A perorare la causa dei risarcimenti è stato qualche tempo fa il presidente Karolos Papoulias, un altro eroe della lotta contro l’occupazione tedesca, chiedendo al suo omologo Joachim Glauck di riaprire il dossier: «Sai che posso darti una sola risposta – gli ha risposto il presidente tedesco –. La strada legale per ottenerli è chiusa». I debiti della Grecia sono l’unica cosa di cui si parlerà oggi all’Eurogruppo. Ma quelli di guerra della Germania, come un spettro del passato che non vuol saperne di sparire, saranno ben presenti sul tavolo dei negoziati.

La Stampa 11.2.15
La doppia morale di Tsipras
di Alberto Mingardi

Ci sono diversi modi per raccontare la crisi greca. Uno, molto semplice, punta l’attenzione su un dato di fatto. Per certo, sappiamo che una delle parti in trattativa è il governo, piaccia o non piaccia, democraticamente eletto (quand’anche con poco più di un terzo dei suffragi) dal popolo greco. Chi sia la controparte è meno chiaro. C’è la Banca centrale europea, monumento di sapienza tecnocratica che suscita sospetto e diffidenza.
C’è il Fondo monetario internazionale. E poi la Commissione europea: non c’è un solo europeo che si senta «rappresentato» da questo esecutivo continentale, che non si capisce bene cosa faccia né tantomeno a chi risponda. Sono della partita anche i governi nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la porta a soluzioni «creative» del problema greco, non prima di aver regalato una cravatta ad Alexis Tsipras. I governi nazionali temono una Grecia insolvente, perché essi stessi le hanno prestato quattrini. Sui giornali, sono apparse le simulazioni del costo pro capite di un default di Atene, per gli altri cittadini europei. La gente, però, presta poca attenzione. Sono decisioni che sente lontane. Alzi la mano chi, alle scorse elezioni europee, ha votato pensando non a vaghi ragionamenti sulla «austerità», ma alle concrete modalità di funzionamento dei meccanismi anti-crisi.
La narrazione, lo storytelling, democrazia contro tecnocrazia è appassionante. Ecco perché ci sta investendo proprio Tsipras, il cui motto è «democrazia dappertutto». Nel suo discorso al Parlamento, ha rinnovato gli impegni elettorali: aumenterà il salario minimo, fermerà le privatizzazioni, alzerà la soglia della no tax area. Un programma centrato su un aumento di spesa pubblica, senz’altro non bilanciato dalla riduzione del 50% del parco macchine blu e neppure dalle sforbiciate ai costi della politica o dalla lotta all’evasione. Auguri ai greci, ma almeno in Italia sembra il solito libro dei sogni delle coperture.
Secondo Tsipras, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo ma lo ha privato del diritto di decidere». Decidere, ma coi soldi di chi? Nello storytelling democrazia contro tecnocrazia, il «diritto di decidere» viene sottratto ai popoli per la vendetta di entità misteriose, i «mercati», che si divertirebbero a calpestarne le prerogative. A questi «mercati», gli Stati, fra cui la Grecia, hanno per anni chiesto prestiti: che per definizione a un bel momento devono essere ripagati. Questi prestiti li hanno chiesti per «decidere», direbbe Tsipras. Decidere stanziamenti, programmi, sussidi.
Indebitarsi non è mai stato obbligatorio. Se uno Stato vuole fare più cose, può sempre aumentare le tasse. In questo caso, la popolazione si accorge immediatamente del costo di «solidarietà», «investimenti» e «Stato sociale». Accorgendosene, potrebbe pensare che è meglio vivere in un Paese dove la spesa pubblica è un po’ meno generosa, ma le persone possono decidere da sé che fare di una quota maggiore dei propri redditi. Se lo Stato s’indebita, il problema non si pone: qualcuno un bel giorno il conto lo dovrà pagare, ma non gli elettori che votano alle prossime elezioni. La classe politica promette allegramente: nel lungo periodo, saremo tutti morti.
Non ha torto chi ricorda che gli Stati hanno sempre disposto dei loro debiti in modo diverso dalle famiglie o dai comuni cittadini: cioè che hanno sempre evitato, quando possibile, di onorarli. Il ricorso alla svalutazione li aiutava a diluirne il peso. Grazie all’odiata Troika, la Grecia di Tsipras oggi ha un avanzo primario e potrebbe, nel breve, continuare a pagare gli stipendi. Nel medio periodo, farebbe fatica a chiedere nuovi prestiti, come qualsiasi debitore insolvente.
Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno».
La questione è tutta qui. E’ giusto che ci sia una «doppia morale»? Gli Stati già fanno cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze.
E’ auspicabile che gli Stati possano considerare i loro debiti carta straccia?
Se così fosse, non si capirebbe perché qualcuno debba prestar loro dei soldi: e non solo alla Grecia. Tanto peggiore è la reputazione dei governi, tanto più alti sono gli interessi che dovranno corrispondere, per avere credito. E perché di uno Stato che non paga i suoi debiti i cittadini dovrebbero fidarsi quando promette loro la pensione, quando giura che non abuserà dei dati confidenziali in suo possesso, quando dice la sua verità alle famiglie delle vittime di un dirottamento aereo? Dove passa il confine fra le bugie lecite e quelle illecite?
Per «decidere» Tsipras intende: scegliere senza subire le conseguenze delle proprie scelte. E’ un diritto che tutti sogniamo, ma che nessuno dovrebbe avere.

Il Sole 11.2.15
Putin più pericoloso di Milosevic
di Alberto Negri

Putin è un Milosevic più pericoloso e potente mentre l’Ucraina è una sorta di super-Jugoslavia. Il parallelo tracciato da chi vuole armare l’Ucraina di Kiev contro i ribelli dell’Est appoggiati da Mosca può sembrare calzante. Simili persino gli echi della propaganda che portarono alla pulizia etnica dei Balcani. In Ucraina si riflettono nell’evocare le complicità delle milizie locali coi nazisti o i massacri dell’Armata Rossa (per non parlare dei 200mila ebrei uccisi in Volinia e delle stragi tra ucraini e polacchi), così come durante le ultime guerre balcaniche risorse tra i serbi la mitologia dei cetnici e tra i croati quella degli ustascia fascisti.
Allora si trattava di liquidare l’eredità di Tito e di una Jugoslavia dove convivevano popoli e nazioni diverse.
La storia, soprattutto quando si parla di stati semifalliti, anche finanziariamente, si presta a infinite distorsioni e diventa nemica della tolleranza come ricordava Milovan Gilas, il braccio destro di Tito che trattò con Stalin per evitare un’invasione societica, il quale poco prima di morire ricordava che nell’ex Jugoslavia «si stavano regolando i conti della seconda guerra mondiale».
La balcanizzazione è evidente fin dall’inizio. Il secessionismo lo spettro che si aggira in Ucraina in barba a ogni soluzione federale: perché è questo che vogliono Putin e i ribelli dell’Est rendendo il Paese ingovernabile. Fu proprio Putin, all’indomani dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, ad affermare: «Questo è un precedente orribile che si ritorcerà contro gli occidentali».
Mosca ha puntualmente applicato il diritto del Kosovo all’autodeterminazione per giustificare la protezione delle minoranze russe e l’intervento in Crimea dove il Kosovo è stato richiamato esplicitamente per aderire alla Federazione russa. Vale la pena ricordare che nel ’99 a Pristina, dopo i bombardamenti, prima delle truppe Nato arrivarono quelle russe, accolte dai serbi in festa, mentre lo sbarco anglo-americano era stato rallentato dall’ostruzionismo della Grecia. Tensioni mai sopite, anche adesso che la Serbia è candidata all’ingresso nell’Unione. Al punto che a novembre in Vojvodina si è svolta una manovra militare congiunta Serbia-Russia, la prima per Mosca in uno stato non appartenente alla sfera dell’ex Urss.
Ma altri aspetti rendono più distante il parallelo Ucraina-Balcani. La disintegrazione jugoslava fu un conflitto devastante ma circoscritto e dopo l’intervento in Bosnia guidato dagli americani si andò avanti a trattare con Milosevic. La Russia allora fu spettatrice non protagonista. Quella in Ucraina è una guerra per procura tra Stati, viene percepito non soltanto come un conflitto da miliziani ma tra Mosca, gli americani, la Nato e una costellazione di ex membri dell’Urss o del Patto di Varsavia.
Visti i precedenti i russi non credono all’Occidente: Bush senior promise a Gorbaciov nel ’91 che la riunificazione tedesca non avrebbe portato la Nato oltre la vecchia cortina di ferro. L’Occidente non crede che Putin, come Milosevic, rispetterà i patti. Ma se i Balcani per un decennio sono stati la guerra alla porta di casa, che per i suoi effetti economici e politici si poteva cinicamente ignorare, l’Ucraina è già la guerra dentro l’Europa.

Corriere 11.2.15
Nozze gay
In Alabama vincono i nuovi diritti civili


La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, che ha legittimato i matrimoni tra persone dello stesso sesso, costringe l’Alabama, uno Stato conservatore del Sud, a prendere atto della riforma, pur in presenza di una accanita resistenza dell’ establishment locale. Le nozze gay, divenute legittime in 38 Stati su cinquanta, si sono diffuse soprattutto durante la presidenza di Barack Obama, che dal 2011 ha giudicato discriminanti le leggi statali proibizioniste e si è personalmente dichiarato a favore del diritto personale, sollecitando una pronunzia della Corte suprema. Sono stati quindi i giudici costituzionali a dare lo scossone agli Stati tradizionalisti, indisponibili a trascrivere i matrimoni gay degli Stati permissivi, e a forzare le diverse procedure amministrative statali.
La legittimazione dei matrimoni gay in Alabama acquista un significato più generale nella lotta per i diritti civili, e nella interpretazione di alcuni nodi del sistema politico-costituzionale americano. Lo Stato del Sud, oggi richiamato all’ordine costituzionale, è lo stesso che negli anni Sessanta ha resistito alla desegregazione dei neri sotto la guida del governatore George Wallace, che tentò di impedire l’ingresso di due studenti neri all’università dell’Alabama fino all’intervento della Guardia nazionale mobilitata dal ministro della giustizia Robert Kennedy.
L’attuale divaricazione tra Stati permissivi e liberali è la stessa che negli anni Cinquanta-Sessanta si ebbe sui diritti civili dei neri, e che registra l’esistenza tra gli americani di una profonda diversità culturale, per non dire antropologica, che si traduce in una opposta visione della democrazia e dei diritti delle minoranze.
Torna dunque d’attualità nell’America del Duemila la questione della distribuzione dei diritti e dei poteri tra l’Unione e gli Stati, e tra le assemblee legislative e le corti giudiziarie, una questione che risale alla guerra civile del 1860 tra Washington e i «confederati». Gli Stati conservatori del Sud e dell’Ovest sostengono che sulle materie «non federali» come il matrimonio devono prevalere le costituzioni e le legislazioni statali (come nel caso dell’Alabama che ha chiamato in causa il Defense of Marriage Act del 1996 che affida agli Stati il diritto di riconoscere i matrimoni e fa divieto di quelli tra coppie dello stesso sesso), e che le autorità federali non devono avere alcuna voce in capitolo. In maniera opposta, le minoranze d’ogni tipo, oggi i gay e ieri i neri, si appellano ai principi costitu-zionali del Bill of Rights che prevede i diritti individuali e l’ habeas corpus per tutti i cittadini.
Sulla scena pubblica americana è, dunque, in gioco il dilemma che scuote gli ordinamenti dell’Occidente: il contrasto tra la maggioranza democratica e i diritti delle mino-ranze. Gran parte degli elettori dell’Alabama si è pronunziata contro i matrimoni gay (così come per il mantenimento della pena di morte), mentre la Corte federale ha invocato il principio di non discriminazione per dichiarare illegittimi gli ostacoli posti ai matrimoni dello stesso sesso.
Si può infine concludere che ancora una volta negli Stati Uniti i diritti di libertà hanno avuto la meglio sulla maggioranza della popolazione di uno Stato, secondo le direttive della Corte suprema che in materia esercita non solo una rigorosa vigilanza, ma anche un potere legislativo di chiara intonazione liberale.
Nel 1954 una sentenza della Corte sulla desegregazione scolastica, Brown vs. Board of Education, fu la scintilla che mise in moto il movimento per i diritti civili, dapprima guidato al Sud dai pastori delle chiese nere tra cui Martin Luther King, e poi approdato a Washington con le leggi federali volute dai presidenti democratici. Oggi, la legittimazione dei matrimoni gay, che per una diecina di anni è stata prerogativa di alcuni Stati più liberali, è stata estesa alla maggior parte del Paese non già per via legislativa ma con decisioni costituzionali a tutela delle minoranze .

Corriere 11.2.15
La Cina ha paura della Rivoluzione «colorata»

Racconta Gideon Rachman sul Financial Times di un recente editto dall’antico sapore maoista, emesso dal ministero dell’Educazione cinese, contro i «libri di testo che promuovono i valori occidentali». Un nuovo segnale del giro di vite che ha colpito le università, i blogger e i programmi tv e che «rivela un sorprendente senso di insicurezza» e la «paranoia» del governo nei confronti della «minaccia di una rivoluzione colorata che potrebbe sfidare il monopolio del Partito comunista», come avvenuto in Egitto nel 2011 con la «Facebook revolution».

Repubblica 11.2.15
Wang Jianlin
Il magnate di Wanda Group è il secondo uomo più ricco di Cina ha un passato di dirigente di partito e manager pubblico Tocca a lui realizzare i piani calcistici del presidente Xi Jinping
Il capitalista di Stato che ama Marx e Picasso dal business del cemento alla conquista dello sport
di Giampaolo Visetti


PECHINOLa Cina vuole diventare una super- potenza anche nel calcio e Wang Jianlin è il miliardario di Stato scelto dal presidente Xi Jinping per conquistare il soft-power globale di sport e spettacolo. Il magnate di Wanda Group non è un «nuovo ricco» e neppure un giovane rampante. L’uomo deciso a “cinesizzare” il football per trasformarlo nello show industriale del secolo ha 60 anni, è nato nel Sichuan ed è figlio di un alto funzionario del partito comunista, spedito da Mao in Tibet per colonizzare la «regione ribelle». Ha servito per quindici anni nell’esercito popolare di liberazione, si è laureato a Liaoning, si è iscritto al partito nel 1976 e ne è stato a sua volta dirigente, cominciando la carriera a Dalian. Il salto dallo Stato al privato risale al 1989, anno-chiave della strage di piazza Tiananmen. Anche l’era di Deng Xiaoping sta per chiudersi, la Cina si apre a commercio e finanza, l’urbanizzazione fa esplodere il mercato immobiliare. Wang Jianlin è già un manager di successo e nel giro di quattro anni diventa direttore generale e presidente del colosso edilizio Dalian Wanda. La sua fortuna grazie alla fedeltà al partito-Stato cresce in modo vertiginoso. Oggi Wanda Group non è solo il primo gruppo dell’immobiliare cinese, con affari in tutto il mondo e 159 shopping center e 71 hotel di lusso solo in patria. Considerando maturo il business del cemento, colui che i 90 mila dipendenti chiamano semplicemente “il Presidente” ha diversificato nelle bevande, in una dozzina di mega- parchi dei divertimenti per fare concorrenza alla Disney, in centinaia di karaoke, e quasi 900 cinema Imax e 3D. Wang Jianlin, membro della Conferenza consultiva del popolo e di tutte le associazioni cinesi degli imprenditori, è così il proprietario con più sale cinematografiche al mondo, sta scalando le più storiche case produttrici di Hollywood e ha ingaggiato una sfida personale con Jack Ma, tycoon di Alibaba, per il controllo anche dell’e-commerce. Il suo impero, grazie alla svendita dei terreni pubblici da parte dei funzionari locali, resta saldamente ancorato all’immobiliare. Con l’ascesa di Xi Jinping al potere, profeta del “sogno cinese”, si è orientato però sempre più verso l’intrattenimento, per ragioni sia di business che politiche. Parchi dei divertimenti, karaoke, cinema, web e ora sport gli hanno consentito di fondere cemento e comunicazione, commercio e cultura, la Cina con il resto del mondo, fino a oscill are tra i primi tre miliardari del Paese. Forbes e Hurun lo accreditano oggi del secondo posto, con un patrimonio di 28,1 miliardi di dollari, 26° uomo più ricco del pianeta. Davanti a lui, da poche settimane, in patria c’è il nuovo imperatore dei pannelli solari, Li Hejiun del gruppo Henergy, subito dietro proprio Jack Ma, che sconta un calo delle azioni di Alibaba dopo la quotazione record a Wall Street. I collaboratori raccontano che Wang Jianlin dirige il suo impero come fosse la sua vecchia caserma: mai un ritardo, giacca e cravatta obbligatorie, pianificazione maniacale, lavoro 24 ore su 24 ogni giorno della settimana, concorrenti considerati come nemici, meno di cento manager ammessi a partecipazioni azionarie. Rispetto ai primi capitalisti post-rivoluzionari, non ha scelto il profilo basso: esibisce denaro, lusso e belle donne, si circonda di registi e star dello spettacolo, investe all’estero e non nasconde di essere uno dei più prodighi collezionisti d’arte dell’Asia. Due anni fa ha acquistato un’opera di Picasso per 28,2 milioni di dollari (base d’asta un terzo) e ha costruito uno spettacolare museo a Shanghai per esibire la sua collezione di moderni e contemporanei. Solo la passione sportiva è recente, ispirata dagli appelli del calciatore Xi Jinping, ritratto più volte a tirare calci ad un pallone. A fine gennaio, dopo aver rilevato varie immobiliari in Spagna, ha investito 45 milioni di euro per il 20% dell’Atletico Madrid. Ieri l’ufficializzazione di Infront, per 1 miliardo e 50 milioni di euro. Se oligarchi russi ed emiri arabi accettano di farsi spennare per esibire club storici e trofei, i turbo capital-comunisti cinesi puntano al contrario, anche in Europa, a guadagnare. Per ora non acquistano squadre, ma diritti tivù, merchandising e licenze per costruire stadi-centri commerciali. Due le missioni di Wang Jianlin. Quella personale è conquistare la polpa universale del pallone, da unire al cinema per trasformarsi nel re dello spettacolo globale. Quella per conto della leadership rossa è invece proiettare la Cina ai vertici mondiali dell’industria sportiva, ritenuta l’arma più formidabile per assicurare a Pechino il soft-power del secolo. Xi Jinping vuole che la Cina si trasformi entro il decennio in una potenza calcistica e sportiva, aprendo a imprese e sponsor del settore un mercato colossale. Il “nuovo Mao” ha ordinato alla nazione di tornare a qualificarsi per la fase finale dei Mondiali, poi di ospitare un’edizione dei campionati e infine di vincere la sua prima Coppa. Lo scorso anno Beckham è stato nominato ambasciatore del calcio cinese, i club nazionali stanno facendo razzia di allenatori e giocatori stranieri. Il governo ha stanziato 2 miliardi di euro per lanciare 200 campus e 20 mila scuole di calcio, selezionando 100 mila aspiranti campioni entro tre anni, mentre il calcio sta per diventare obbligatorio addirittura a scuola. La Cina autoritaria del Duemila sostituisce gli Usa democratici del Novecento: il presidente Xi Jinping è il suo leader, il mandarino Wang Jianlin il suo profeta. Cultore del “Capitale” di Marx, che dona ai suoi ospiti, si è limitato ieri a commentare: «Più le persone diventano ricche, più cambiano le cose a cui danno valore». E questa volta, compagni, tocca al calcio.

il manifesto 11.2.15
Al via boicottaggio sei industrie israeliane
Cisgiordania Occupata. Da oggi i commercianti palestinesi dovranno boicottare i prodotti di sei importanti industrie alimentari israeliane
E' la risposta dell'Anp al blocco di oltre 200 milioni di dollari palestinesi da parte del governo Netanyahu
Sul boicottaggio di Israele scontro in rete tra due fenomeni del rock anni 70, Roger Waters e Alan Parsons
di Michele Giorgio

qui

Corriere 11.2.15
Califfato, la barbarie invisibile che vuole renderci tutti sudditi
Un saggio di Domenico Quirico sulla misteriosa insurrezione jihadista
di Elisabetta Rosaspina


Sulla copertina del libro, una mappa mostra i confini del Grande Califfato . Per dimensioni, più che per disposizione geografica, ricorda l’insaziabile espansionismo transcontinentale di imperi scomparsi, come l’ottomano o, ancor prima, quello romano. Una chiazza nera dilaga compatta dalla Spagna all’Asia, inglobando i Balcani e il Medio Oriente e scendendo ben più a sud della penisola araba, come una mantella nera che copre la metà superiore dell’Africa. Ne fa parte tutto il Mediterraneo, con l’esclusione — magari soltanto provvisoria — delle coste francesi e italiane.
Agli occhi di un medico potrebbe apparire forse come una radiografia, con le ombre scure di una diffusa metastasi. Agli occhi di un giornalista, come Domenico Quirico, quella è la fetta di mondo che il «califfo» sogna di rendere invisibile. Invisibile e impenetrabile agli «infedeli impuri», cioè più o meno al resto del pianeta. Un delirio? In parte, è un progetto già realizzato: «Ci sono Paesi come la Siria, la Libia, parte dell’Iraq, ma anche l’Afghanistan, il Nord della Nigeria o del Mali, dove non sappiamo più che cosa stia accadendo, semplicemente perché i giornalisti indipendenti non vi hanno accesso» osserva Quirico, l’inviato speciale de «La Stampa» per cinque mesi prigioniero di Jabhat al-Nusra e di altri gruppi armati in Siria, nel 2013.
Fu in quel periodo che il reporter italiano sentì parlare, per la prima volta, di quell’ipotetico regno del tiranno islamico che allietava le menti dei suoi carcerieri e aguzzini: Il Grande Califfato . Che dà il titolo al suo nuovo libro, pubblicato in queste settimane da Neri Pozza. Quirico raccontò ciò che aveva udito appena rimise piede in Italia, dopo la sua liberazione, ma le sue informazioni furono accolte da increduli sorrisi: come si poteva prendere sul serio, negli anni Duemila, lo sproposito di restaurare un «Califfato»? Un territorio governato da una specie di sultano, magari come quello di Iznogoud (in italiano Gran Bailam), il gran visir da fumetto inventato da René Goscinny, con il sogno di «essere califfo al posto del califfo».
Un anno e mezzo più tardi, però, riesce difficile ironizzare sulle metastasi della barbarie che apre e chiude, a suo piacimento, le finestre del terrore. «Da quelle aree ormai le uniche notizie che arrivano — commenta Quirico — sono voci incontrollate e incontrollabili oppure i video della pura propaganda autoprodotta. Mi piacerebbe poter andare a Mossul, nel Nord dell’Iraq, a vedere e raccontare come vive la gente ai tempi del Califfato. Come è cambiata la vita quotidiana dei suoi abitanti sotto il regime dell’Isis. Non se ne sa nulla».
Non si sa nulla della società civile siriana, che in qualche modo sta cercando di sopravvivere allo scempio di ogni speranza di libertà: «Sì, forse, il poco che ne rimane. Non so se esistano ancora luoghi sociali in Siria e comunque non si può andare lì ad ascoltare. L’obiettivo del Califfato è abolire gli Stati. Il problema di uno Stato palestinese, che ha mobilitato l’Islam per più di mezzo secolo, scomparirà, perché lo scopo della jihad è di renderci tutti sudditi del sultano».
Si sa poco anche dell’autoproclamato «emiro» e del suo stato maggiore: «Abu Bakr al-Baghdadi? Non sappiamo con sicurezza nemmeno quando è nato né come si sia sviluppata la sua biografia. I comandanti sono figure quasi completamente ignote. Sappiamo soltanto che, per loro, noi siamo animali da sgozzare».
L’autore non lascia spiragli di speranza nelle 234 pagine in cui descrive quel che ha potuto vedere, intravedere o intuire, negli ultimi anni, dell’avanzata di queste truppe disumane, dove si mescolano etnie, lingue, culture diverse, dai somali ai ceceni, dai nigeriani di Boko Haram agli specialisti iracheni rodati da Saddam Hussein, dai salafiti tunisini fino agli europei, fuoriusciti dalla civiltà per vincere la loro jihad oppure morire. È un viaggio, con una macchina fotografica dentro la mente, per catturare e conservare ogni prezioso particolare dagli abissi del fanatismo. Così ricorrente, nella sua ottusa crudeltà, a qualunque latitudine dove prosperi chi crede davvero che Dio possa ordinare di uccidere.

Repubblica 11.2.15
Limpida, ironica Szymborska
I segreti di una poetessa popolare senza mai volerlo
La sua convinzione è che in ogni esperienza, anche piccola, si nascondano un enigma e un miracolo
di Franco Marcoaldi


ERA da C’aspettarselo ed è accaduto: il sentimento di ammirazione suscitato dai versi di Wislawa Szymborska, esce ulteriormente rafforzato dalla lettura della sua biografia — Cianfrusaglie del passato ( Adelphi). Perché vi ritroviamo la stessa adorabile tonalità “in minore”, la stessa discrezione e sense of humour — oltre a quel paradossale e disperato incanto che traspare dalle sue poesie.
Le autrici, Anna Bikont e Joanna Szczesna, devono aver sudato sette camicie per convincerla a diventare «materia prima» del libro, essendo la Szymborska ritrosa e gelosa della propria intimità. Le due hanno lavorato di uncinetto, per cucire le mille pezzature di una coperta dai mille colori: attendendo con pazienza le sue laconiche risposte alle domande, interpolando il testo con citazioni dai (pochi) discorsi in pubblico o dalle sue spiritosissime prose giornalistiche, affidandosi alle testimonianze degli amici. Sì che alla fine emerge un patchwork o collage — forma espressiva peraltro molto cara al premio Nobel polacco del 1996 — che disegna una silhouette poetico- esistenziale simile a quella che ci eravamo immaginati. Di donna misurata, elegante, fedele nelle amicizie, parsimoniosa nelle parole, avversa a piagnistei e autocommiserazioni. E dotata di uno formidabile talento — intimamente refrattaria ai rischi, sempre presenti in poesia, della retorica e della solennità.
D’altronde, in gioventù, anche Szymborska paga come (quasi) tutti il proprio dazio poetico al totalitarismo staliniano, ma esce vaccinata da quella tabe originaria. E difatti mai più si troverà a fare banda, foss’anche per la più nobile delle cause: il singolare ha cancellato il collettivo, il frammento la visione sistematica, il dubbio ogni certezza. Questo non significa che Szymborska si rifugi nella poetica di minuzie quotidiane autosufficienti, come pure una lettura superficiale dei suoi versi potrebbe far pensare. La sua convinzione è che in ogni esperienza personale, anche la più apparentemente insignificante, siano nascosti un enigma e un miracolo. Ovunque «sonnecchiano forze segrete» e la poesia «con l’aiuto di parole opportunamente scelte riuscirà a risvegliarle». Facendo comunque attenzione ad abbordare di sbieco le questioni ultime dell’esistenza, come dimostra la celebre e meravigliosa poesia sulla morte del compagno di una vita, Konrad Filipowicz, vista attraverso gli occhi del suo gatto.
«Non so», così Szymborska esordisce nel discorso di investitura al Nobel. E proprio tale socratica ignoranza la spinge a farsi domande senza trovare mai risposta. Il suo maestro filosofico è Montaigne, il suo nume pittorico Vermeer, il suo fratello d’umorismo Woody Allen, che prova verso di lei un’ammirazione sconfinata. «In realtà l’umorismo è una grande tristezza che riesce a cogliere il ridicolo delle cose», scrive. Non per caso è maestra di limerick e nonsense, suo passatempo preferito quando si trova in viaggio.
Szymborska ha raggiunto un pubblico vastissimo, impensabile per la poesia. Anche in Italia — dove rimase leggendaria una sua lettura del 2009, nell’Università di Bologna, davanti a millecinquecento persone. Quella star involontaria era la stessa che all’editore — pronto a ristampare un suo libro dopo che le prime due edizioni si erano bruciate nel giro di pochi giorni — disse: evitiamo, «il mercato è già saturo».
IL LIBRO Anna Bikont e Joanna Szczesna, Cianfrusaglie del passato ( Adelphi, pagg. 528, euro 28 a cura di Andrea Ceccherelli)

il manifesto 11.2.15
Per Walter Benjamin la cattura dell’attenzione è una questione di stile
di Fabrizio Denunzio

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La Stampa 11.2.15
Hawking&Turing, quando le lacrime sommergono i neuroni
Riusciranno i due film a ispirare le nuove generazioni di scienziati?
di Massimiano Bucchi


Due tra i film più importanti di questa stagione vedono come protagonisti scienziati: «La Teoria del Tutto», dedicato al fisico Stephen Hawking, e «The Imitation Game», centrato su quella del matematico Alan Turing. Che cosa ci dice sulla figura e sul ruolo pubblico dello scienziato questa attenzione da parte del cinema? E che cosa è cambiato rispetto al passato?
Fenomeno «biopic»
Il fenomeno delle cosiddette «celebrità scientifiche» non è una novità. Già la fine dell’Ottocento vede affermarsi figure scientifiche di straordinario rilievo pubblico, come quella del chimico e biologo Louis Pasteur. Le sue scoperte nel campo della vaccinazione, il suo carisma e la sua grande abilità comunicativa lo fanno entrare a pieno titolo nella cultura popolare: gli vengono dedicati brani musicali e perfino figurine da collezione. Nei primi decenni del Novecento, poi, biografie popolari come quella di Paul de Kruif, «Cacciatori di microbi», dedicata a scienziati come lo stesso Pasteur e a Koch, definiscono con il loro successo il canone della figura pubblica dello scienziato come benefattore dell’umanità. Numerosi medici e scienziati, tra cui Albert Sabin che in seguito sviluppò il vaccino contro la polio, hanno dichiarato di aver trovato proprio in quel libro, da ragazzi, l’impulso per la propria carriera nel mondo della ricerca. E proprio una produzione hollywoodiana dedicata a Pasteur, «La vita del dottor Pasteur» del 1936, è considerata la «madre» dei «biopic» - i biographical film - con protagonisti scienziati. Prodotta dalla Warner, con al centro un Pasteur in lotta contro il dogmatismo dei colleghi per affermare le proprie teorie, la pellicola vinse tre premi Oscar ed ebbe un grande successo di pubblico.
La sua fortuna aprì la strada a una serie di «biopic» con protagonisti scienziati come il Premio Nobel Marie Curie. Secondo David Kirby dell’Università di Manchester, tra i maggiori studiosi del rapporto tra scienza e cinema, «in quel periodo l’approccio di Hollywood alle vite degli scienziati può essere riassunto in due parole: miracolo e tragedia». Imprese straordinarie che attraversano vite spesso segnate da tragedie personali e collettive. Un approccio che non sembra troppo diverso da quello odierno, se si pensa a «The Imitation Game», dove il ruolo delle intuizioni di Turing nella Seconda guerra mondiale si intreccia con la sua drammatica vicenda personale. Senza contare che le ricerche più recenti ci confermano come personaggi e contenuti della fiction di taglio o argomento scientifico continuino ad avere un impatto significativo sulle nuove generazioni. Secondo il centro ricerche Observa-Science in Society, oltre il 20% degli studenti italiani che scelgono studi ad indirizzo scientifico riconoscono di essere stati influenzati nella scelta da film e serie tv come «Csi» o «Numb3rs».
Pubblico e privato
Non mancano, tuttavia, elementi di discontinuità. Il più rilevante appare la crescente fusione di dimensione pubblica e privata che caratterizza l’immagine pubblica degli scienziati più visibili. Il caso di Hawking in questo senso è esemplare. Tre anni fa, quando concesse una lunga intervista in occasione del suo 70° compleanno, i media di tutto il mondo ripresero soprattutto la sua risposta alla domanda su quale tema occupi maggiormente i suoi pensieri («Le donne: sono un completo mistero»). Allo stesso modo, più che sui contenuti della ricerca di Hawking, «La Teoria del Tutto» si sofferma su suoi anni giovanili e sull’incontro e il rapporto con la prima moglie Jane.
Resta da vedere se anche questi film, come i predecessori, riusciranno ad ispirare le vocazioni dei futuri scienziati. O perlomeno ad incentivare la lettura del celebre bestseller di Hawking, «Dal Big Bang ai buchi neri», da anni «in cima alle liste dei libri comperati e mai finiti di leggere», secondo la rivista «New Scientist».

Corriere 11.2.15
Wenders: viaggio nella psiche in 3D
Il regista con James Franco racconta la rinascita di uno scrittore
«La vita è dolore ma si guarisce»
di Valerio Cappelli


DAL NOSTRO INVIATO BERLINO Wim Wenders, il poeta sopra Berlino, ci ricorda che dietro ogni perdita c’è una rinascita. «Questo è un film sul senso di colpa e sul perdono, che non è un tema soltanto tedesco ma riguarda ogni essere umano. È anche un film sulla guarigione, che di rado viene affrontata nel cinema, in genere si preferisce parlare di ferite».
Alla Berlinale, dove prenderà l’Orso d’oro alla carriera, il regista ha mostrato fuori concorso Every thing will be fine , in formato 3D. Il protagonista è James Franco, nei panni di uno scrittore che alla guida della sua auto investirà un bambino, uccidendolo. «Nessuno ha una grande colpa, ma tutti ne sono coinvolti», dice il regista, 70 anni in agosto, uno dei maestri del«nuovo cinema tedesco».
È buio, nella campagna canadese innevata, il fratellino maggiore viene giù con lo slittino, assieme al più piccolo, e taglia la strada alla macchina. I primi due romanzi dello scrittore erano passati inosservati. Il terzo, scritto dopo l’incidente, sprigiona la sua creatività: ha a che fare con il dolore degli altri. Mentre la sua storia sentimentale con Rachel McAdams, già altalenante, si chiude, egli diventa un autore affermato, «grazie» alla sofferenza che ha involontariamente causato a Charlotte Gainsbourg, nei panni della madre del bambino, una persona che era per lui una perfetta estranea.
La sceneggiatura è del norvegese Bjorn Olaf Johannessen, che Wenders aveva incoraggiato al Sundance. Dopo il film sulla coreografa Pina Bausch, Wenders scoprì che il 3D aveva potenzialità anche sulla sponda drammatica, esaltando l’anima e i dettagli dei sentimenti più estremi, non solo gli effetti speciali dei blockbuster.
Il titolo, Every thing will be fine , secondo il regista sintetizza il tocco della storia, «un po’ fiaba e allo stesso tempo realistica, perché parliamo di qualcosa di reale, come si guarisce da un trauma».
Recitando per sottrazione, James Franco dà una lettura «tutta interiorizzata» del suo personaggio. Wenders dice che gli scrittori da lui conosciuti, Handke, Auster, Shepard, sono così, «persone enigmatiche e solitarie» in cerca delle parole. Solo che il «nostro» scrittore deve reagire a un dramma…
«James — dice Wenders — ha un approccio molto moderno, il contrario degli attori degli Anni 70, che recitavano se stessi. Da allora il mondo è cambiato, la Germania non ha più nulla a che fare con quegli anni, era un Paese perso, pieno di dolore e melanconia. Una terra di nessuno nel cuore dell’Europa».
Wenders vive il cinema come «un’avventura dello spirito», dice che solo dal suo quarto film, Alice nella città , si considera un regista, «prima imitavo ora Cassavetes ora Hitchcock». Il cielo sopra Berlino è più azzurro.

Corriere 11.2.15
Un melodramma «tecnologico» che scivola nel banale
di Paolo Mereghetti


Il ritorno di Wenders ai film di finzione (l’ultimo era Palermo Shooting , nel 2008, il penultimo Million Dollar Hotel nel 2000: in mezzo solo documentari) avviene nel nome del film-saggio: Every thing will be fine (Andrà tutto bene) è metà melodramma raggelato, metà riflessione sulla creatività al lavoro. Dove l’uno — il dolore e la sua esperienza — diventa motore dell’altro. Succede così a Tomas (James Franco) che investe senza gran colpa la slitta di due bambini. Uno sopravvive, l’altro muore. Lui entra in una depressione che lo spinge al suicidio ma quando ne esce la sua scrittura (è un autore all’inizio della carriera) risulta più forte. Nei dodici anni in cui si dipana, il film vorrebbe dimostrare che Tomas ha saputo far tesoro delle tragiche esperienze di cui è stato protagonista, ma questo «messaggio» rischia di sembrare velleitario: Wenders gioca con la luce e il 3D, evita molti snodi narrativi e «silenzia» dialoghi che potrebbero spiegare molto, in nome di un cinema fatto di suggestioni e non-detti. Ma rischia di scivolare nel generico se non addirittura nel banale.

Repubblica 11.2.15
Il concorso
“Romanae Disputationes” la sfida di filosofia per 800 studenti italiani

ROMA Sarà Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, a inaugurare i lavori delle Romanae Disputationes . Da domani per tre giorni ottocento studenti delle scuole secondarie superiori provenienti da tutta Italia si daranno appuntamento alla Pontificia Università Urbaniana per il concorso-convegno nato per risvegliare l’interesse nei confronti della filosofia.
“Liberta va cercando, ch’è`sì cara” L’esperienza della libertà , è il tema dell’edizione del 2015 che, prendendo in prestito un verso dantesco, ha coinvolto gli studenti in varie prove che saranno poi esaminate e premiate durante la tre giorni, dal 12 al 14 febbraio, tra lezioni, seminari e laboratori intorno all’argomento. Il programma è consultabile sul sito romanaedisputationes. com.

La Stampa 11.2.15
Orologio biologico e malattie psichiatriche
di Rosalba Miceli

qui

Corriere 11.2.15
Psicologia
Le 18 fobie più assurde di cui soffre la gente

Un’inspiegabile e persistente repulsione nei confronti di determinate situazioni, oggetti, attività e creature viventi (animali o umane): è la fobia, ovvero quella paura estrema e sproporzionata per qualcosa che, pur non rappresentando di per sé una reale minaccia, scatena invece comportamenti irrazionali da parte di chi ne soffre, che tende così a lasciarsi sopraffare dal terrore senza un’apparente ragione. Insomma, che siano gli spazi chiusi o i ragni, le altezze o il buio, c’è una paura per tutto, come conferma l’elenco stilato su phobialist.com per dare un nome ad ogni fobia, non importa quanto assurda e stravagante possa sembrare. E se non ci credete, ecco 18 esempi di questi irragionevoli e altrettanto bizzarri terrori.
di Simona Marchetti
da qui