venerdì 27 febbraio 2015

il Sole 27.2.15
Il dibattito e le idee
L’apatia della democrazia
di Barbara Spinelli

deputato europeo dell’Altra Europa con Tsipras, Gue-Ngl

Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l’adozione di lì a poco dell’euro è significativa. La moneta unica nasce alla fine degli anni ’90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d’origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell’euro segnano l’avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.
Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l’apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
Oggi viviamo all’ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po’ come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L’efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.
Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell’apatia e nell’impotenza. È rivelatore anche l’uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all’immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)
Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l’essenza della democrazia costituzionale, e cioè l’obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.
Il prosciugamento della democrazia colpisce anche le istituzioni europee, indebolendo radicalmente la funzione dell’Unione, che dovrebbe servire da filtro fra politica e mercati, fra Stati sempre meno padroni di sé e finanza globale sempre più sregolata e invadente. L’approdo temuto da Habermas è il «federalismo degli esecutivi»: una rivoluzione dall’alto, compiuta su ambedue i piani, nazionale ed europeo. Il dato tecnico-contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando anche nell’Unione organi di controllo quali il Parlamento europeo o la Corte di giustizia.
Da pochi mesi sono deputato europeo, e constato come quotidianamente vengano disattese promesse, violati articoli del Trattato di Lisbona e soprattutto della Carta dei diritti fondamentali, che pure dovrebbe essere vincolante per i ventotto Stati membri. Ricordo la sostituzione di Mare Nostrum con la missione europea Triton: in pratica si è deciso di rinunciare alle operazioni di ricerca e soccorso in mare dei migranti, contravvenendo a precisi regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo emanati nel 2014, alla Carta dei diritti e perfino al diritto del mare.
Ma oltre a Triton, molti altri articoli della Carta sono violati: sempre parlando di migranti, la proibizione delle espulsioni collettive e in particolare del rimpatrio laddove esista un rischio serio di subire la pena di morte o la tortura (art. 19); il diritto di asilo ai rifugiati sulla base della convenzione di Ginevra del 1951 (art. 18); il diritto alla vita (art. 2). Quanto alla politica economica e sociale, sono calpestati i diritti europei che tutelano le azioni collettive in difesa dei propri interessi (compreso lo sciopero), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (articoli 28, 30, 31), oltre al diritto dei giovani ammessi al lavoro di beneficiare di «condizioni lavorative appropriate alla loro età» e di essere «protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione» (art. 32).
Lo stesso trattato di Lisbona è aggirato. Non è rispettato l’art. 2 che esige il rispetto delle minoranze (si pensi ai Rom). È tolta la garanzia contenuta nel preambolo di «attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell’integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori». Evapora anche l’impegno, ribadito nell’art. 3, a fare in modo che la competitività «miri alla piena occupazione e al progresso sociale» e si basi «su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente».
Questi e altri diritti sono sospesi, accampando come pretesto la crisi economica e le sue emergenze. È in questo quadro che il magistrato Giuseppe Bronzini parla di diritto emergenziale dell’Unione europea, divenuto cogente a seguito dell’introduzione di una serie di norme e accordi inter-statali stipulati sulla scia del dissesto economico del 2007-2008: un reticolato di leggi e normative che non si incardinano né nel diritto nazionale né in quello europeo, e che vengono così sottratte al controllo sia dei Parlamenti nazionali sia del Parlamento europeo. Sono state adottate dal direttorio degli esecutivi, gestite in comune da Commissione, Banca Centrale e l’organo estraneo all’Unione che è il Fondo monetario, e danno corpo, dentro l’Unione, a una zona di non-diritto. La Grecia è stata la vittima e lo spettacolare laboratorio della creazione deliberata di un limbo giuridico dentro l’Europa, tale da decostituzionalizzare al tempo stesso l’Unione che impone l’austerità e lo Stato membro che riceve l’ordine di applicarla. Lo ha ammesso il commissario Jyrki Katainen il 17 settembre 2014 in risposta a una domanda in merito agli effetti del programma di austerità sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta: «I documenti del programma non sono legge europea, ma strumenti concordati tra la Grecia e i suoi creditori: pertanto la Carta non può essere usata come riferimento, e spetta alla Grecia assicurare che i propri obblighi sui diritti fondamentali siano rispettati».
In Italia, l’acme è stato raggiunto con la lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto 2011. Essa conferma in pieno l’esistenza del diritto emergenziale: lo Stato membro è giudicato incapace di autogovernarsi e di ristabilire la fiducia degli investitori, ed è così che l’istituzione sovranazionale (in tal caso la Bce) interviene entrando nei dettagli di politiche che legalmente non dovrebbero pertenerle. È trasmodando che essa fissa non solo gli obiettivi ma anche le modalità per raggiungerli, reclamando: più efficienza del mercato del lavoro; piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, tramite privatizzazioni su larga scala; accordi a livello di impresa che soppiantino i contratti collettivi; revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti; interventi ulteriori nel sistema pensionistico; abbassamento significativo dei costi del pubblico impiego anche riducendo gli stipendi; tagli orizzontali alle spese pubbliche; uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). Per evitare lungaggini democratiche, ciascuna di queste misure va presa «il prima possibile per decreto legge». Abbiamo quindi ad opera dell’Unione una decostituzionalizzazione della democrazia, e contestualmente una sua deparlamentarizzazione.
Non sorprende che la lettera sia stata vissuta come un colpo di mano, se non di Stato, compiuto dalle oligarchie al comando in Europa. Non servono la presenza fisica della troika o i memorandum per imporre dall’alto un comando che agisce allo stesso modo. La cosa apparve evidente agli addetti ai lavori, e nei giorni in cui la Bce mandava la sua missiva Mario Monti scrisse che l’Italia era stata di fatto commissariata da un “podestà forestiero” (Corriere della sera, 7 agosto 2011).
Un discorso a parte merita la corruzione. La sua incidenza sullo sviluppo economico e sul debito pubblico è macroscopica. Ma è segno dei tempi che né il Fiscal Compact, né i memorandum, né le troike, né le lettere della Bce giudichino opportuno soffermarsi su quello che Alexis Tsipras ha chiamato il «patto fra cleptocrazie nazionali, mercati internazionali ed élite europee». È segno dei tempi che non figurino nelle raccomandazioni di queste élite la lotta all’evasione fiscale né quella alle mafie, come se non esistesse un rapporto fra finanza e malavita. Avendo ormai un raggio d’azione e poteri globali, corruzione e criminalità organizzata contribuiscono allo svuotamento delle democrazie europee. Giocano un ruolo essenziale, ma che sistematicamente viene occultato.
In un saggio del magistrato Roberto Scarpinato (La legalità materiale, Micromega, ottobre 2014) si denuncia la «decostruzione progressiva dello Stato liberal-democratico di diritto», e un «complesso processo di reingegnerizzazione del potere, che trasferisce le sedi decisionali strategiche fuori dai parlamenti e dagli esecutivi nazionali, prima trasmigrandole all’interno di organi sovranazionali non elettivi, privi di rappresentatività democratica – quali la Bce e la Commissione europea – e poi da questi in organizzazioni internazionali come la troika, proiezioni istituzionali delle oligarchie finanziarie globali». Asservire la giustizia, e renderla inerme di fronte a una criminalità mondializzata, fa parte di questa reingegnerizzazione.
Allo stesso modo ne fa parte la decisione di devitalizzare il welfare, piuttosto che l’evasione di massa facilitata da quella criminalità. Scrive in proposito Scarpinato: «La corruzione opera come selettore in negativo della qualità degli investimenti internazionali e veicolo di occulta colonizzazione a basso costo di larghi settori dell’economia nazionale da parte del capitale globale sovranazionale più spregiudicato». È opinione diffusa che gli investitori esteri siano scoraggiati dalle lentezze della giustizia italiana e dalla corruzione, ma «i più accreditati studi in materia evidenziano una realtà più complessa. Le aziende globali privilegiano per i loro investimenti i paesi la cui legalità debole non solo consente di minimizzare i costi di produzione (minori tutele per l’ambiente, per i diritti dei lavoratori, maggiori possibilità di evasione fiscale), ma anche di conquistare posizioni di vantaggio e di oligopolio in vari settori di mercato grazie alla permeabilità a pratiche corruttive dei ceti dirigenti locali, talora remunerati pronto cassa, talora cooptati come soci occulti».
Che fare, in simili circostanze? Dal momento che tornare alle sovranità nazionali assolute non si può (la sovranità è in larga parte e da tempo perduta, l’Europa dovrebbe servire a restaurarla), il compito consiste nel ricostituzionalizzare sia il livello nazionale che quello europeo. Consiste nel porsi il problema della sovranità, anziché eluderlo. Nell’espandere i diritti, piuttosto che ridurli. La ricetta è sempre quella di Tocqueville: uscire con più democrazia dalla crisi della democrazia.
Vorrei menzionare tre battaglie minime, da fare prima di accingersi alla grande opera di ricostituzionalizzazione. Primo: vanno estese le libertà e le tutele garantite dalle vecchie Costituzioni, adattandole a nuove figure di cittadinanza partecipativa come i whistleblower. È uno scandalo che persone come Edward Snowden o Hervé Falciani o come il giornalista tedesco Udo Ulfkotte siano descritte rispettivamente come spie, o ladri (di dati), o traditori dell’Occidente perché denunciano la sottomissione dei media a strategie di guerre illegali. Sono i cani da guardia di democrazie pericolanti, di giornali asserviti al potere. Ne abbiamo bisogno per divenire cittadini non apatici, ma informati. Urge uno statuto che aiuti i whistleblower a uscire allo scoperto in presenza di corruzione, di violazione di diritti, di disinformazione.
Seconda battaglia: evitare che l’accordo commerciale con gli Stati Uniti (il TTIP) sfoci in un collettivo atto di abiura europeo: in una consapevole ritrattazione giurata di norme che l’Unione si è data lungo i decenni a tutela della salute, dell’ambiente, del benessere dei propri cittadini, dell’autonomia delle proprie corti. È il plebiscito permanente dei mercati che, se non contrastato, ancora una volta ci schiaccia.
La terza battaglia porta sulla moltiplicazione degli strumenti di democrazia e di controllo. Il Trattato di Lisbona prescrive ad esempio, nell’articolo 6, che l’Unione aderisca alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma per salvaguardare le proprie competenze ed evitare incursioni nel proprio campo, la Corte europea di giustizia ha decretato nel dicembre scorso che le due Carte non sono “compatibili”. Nella sostanza, l’Unione europea si comporta come i vecchi sovrani assoluti: non riconosce autorità alcuna sopra la propria. Giunge sino all’assurdo di non accettare giudizi della Corte di Strasburgo, ossia del Consiglio d’Europa, in ambiti – la politica estera e di sicurezza, cioè la pace e la guerra – su cui lei stessa non ha, per trattato, diritto di parola.
Ecco l’Europa che abitiamo: un’Unione che infrange le regole che essa stessa si è data e ha la faccia tosta di vietare intrusioni di altre Convenzioni e altre Corti. Forse perché teme giudizi malevoli di nazioni europee ritenute inferiori, come la Russia. Di certo per scongiurare l’uscita dall'apatia – giuridica, politica, democratica – che è il principale dei nostri mali presenti.

il manifesto 27.2.15
La marcia trionfale dei ricchi globali
Una società divisa tra subalterni dentro lo Stato e plutocrati nei confini del loro potere globale
di Nadia Urbinati

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il manifesto 27.2.15
Democrazia per pochi
di Duccio Zola

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«quando i liberi gover­nano, oli­gar­chia quando gover­nano i ric­chi, ma accade che gli uni siano molti e gli altri pochi, per­ché i liberi sono molti e i ric­chi pochi» (Ari­sto­tele, Poli­tica, IV, 1290)
il manifesto 27.2.15
Corsi e ricorsi
di Carlo Donolo

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il Fatto 27.2.15
L’Anm: la politica ha deciso di normalizzarci

La politica vuole “normalizzare” la magistratura. Ed è a questo scopo che è stata fatta la riforma della responsabilità dei giudici, “non per tutelare meglio i cittadini”. Anzi: “i più deboli” di loro “saranno danneggiati” dalle nuove norme, soprattutto quando si troveranno in un processo una controparte forte, come un “boss mafioso”.
L'Associazione nazionale magistrati alza ancora il tiro sulla legge approvata dal Parlamento “con una compattezza che invece non trova analogie nella lotta alla corruzione” e che si è rivelata una delle “priorità” del programma del governo sulla giustizia, visto che “la maggior parte dei 12 punti indicati non è stata invece realizzata”. E in una conferenza stampa lancia la “sfida” alla politica, cui rimprovera “l'incapacità” di concretizzare interventi “seri” sulla giustizia, indicando dieci “buone riforme” da fare subito.

Il Sole 27.2.15
Giustizia. Anm all’attacco: la riforma danneggia i più deboli
I giudici: «Ci vogliono normalizzare»
di Donatella Stasio


ROMA Rodolfo Sabelli va subito dritto al punto: «La riforma della responsabilità civile ha un valore politico, il vero tema è il riequilibrio dei rapporti tra politica e magistratura. Da decenni si parla di riformare la responsabilità civile dei giudici e questa legge è il punto d’arrivo. Così si manda un messaggio simbolico». Quale? «La normalizzazione dei magistrati» risponde Maurizio Carbone. «Delegittimare la magistratura - aggiunge Valerio Savio -. L’equilibrio tra poteri si gioca sulla reciproca legittimazione ma questa legge è un attacco alla legittimazione dei magistrati davanti alla comunità».
Le parole del presidente, del segretario e del vicepresidente dell’Anm fanno impallidire quelle pronunciate quando governava Silvio Berlusconi e lo scontro politica-giustizia era conclamato. Tutt’altro che alle spalle, quello scontro si ripropone oggi in modo persino più acuto, come testimonia la conferenza stampa di ieri dei vertici Anm. Nelle stesse ore il premier Matteo Renzi twittava: «Responsabilità civile dei magistrati: una firma attesa da 28 anni. Un gesto di civiltà», scavando ancora di più il baratro che separa il suo governo dai magistrati. Non a caso, il ministro della Giustizia dice che la legge «tutelerà di più i cittadini» ma l’Anm ribatte che invece «li danneggerà», soprattutto «i più deboli». Tipico esempio di «travisamento del fatto», tanto per citare uno dei punti (critici) della legge, che chiamerebbe a risponderne per «colpa grave» l’uno o l’altro dei contendenti.
L’Anm non vuole «tirare per la giacca» il Capo dello Stato, al quale ha chiesto un incontro soprattutto per parlare della giustizia. Ricorda che il caso-Tortora, «doloroso e terribile», risale al vecchio Codice di procedura penale ma portò a modifiche della custodia cautelare e della legge sui pentiti «ben più importanti che risarcire gli errori». Accusa però il governo di mentire. Sull’Europa, perché «non è vero» che questa riforma l’ha voluta l’Ue; l’Europa è stata il «pretesto» per iniziare, «con slogan demagogici e delegittimanti, una «campagna propagandistica contro la magistratura» finalizzata alla sua «normalizzazione». «Non è vero» che la legge tutela i cittadini, perché la sua carica «intimidatoria» verso i magistrati potrebbe danneggiarli, specie «i più deboli», anche se «i magistrati non si faranno intimidire» e l’Anm vigilerà su «abusi» e «uso strumentale della legge». «Non è vero» neppure che il governo stia facendo buone riforme per la giustizia. «Aveva annunciato 12 punti, in gran parte non realizzati o indeboliti rispetto agli annunci». La legge sulla responsabilità civile è «la scappatoia» con cui il legislatore scarica sui magistrati «l’incapacità di varare interventi seri e concreti». Ecco allora «la sfida» al governo, un decalogo di 10 «buone riforme»: dalla cancellazione della ex Cirielli sulla prescrizione (con blocco dei termini dopo la condanna di primo grado) all’estensione alla corruzione degli strumenti investigativi previsti per la mafia, dal rafforzamento della lotta all’evasione all’assunzione di nuovi cancellieri («Orlando ne aveva annunciati mille, ma il bando non si è mai visto»). «Non è vero», infine, che l’eventuale azione risarcitoria scatterà solo dopo la sentenza definitiva, perché la riforma la prevede anche nella fase cautelare (arresti, sequestri nel penale; giudizi sommari e d’urgenza nel civile) e, spiega Sabelli, con l’eliminazione del filtro e l’introduzione del «travisamento del fatto e delle prove» molti magistrati saranno “costretti” ad affiancare (anche formalmente) l’Avvocatura dello Stato per tutta la durata del giudizio di responsabilità e dovranno quindi astenersi (o saranno ricusati) nel procedimento cautelare. Accadrà, quindi, il contrario di quanto la Consulta aveva detto nel 1990 promuovendo il filtro, e cioè che non bisognava lasciar spazio a qualunque azione per evitare il proliferare di astensioni e ricusazioni. «C’è il rischio - osserva Ezia Maccora, componente del Comitato direttivo centrale dell’Anm - che, per i cautelari più rilevanti, le conseguenze più pericolose dell’azione diretta contro i magistrati, uscite dalla porta, rientrino dalla finestra. In contrasto con la sentenza della Corte costituzionale del ’90».

il Fatto 27.2.15
Il magistrato Piercamillo Davigo
“Con questa legge addio indipendenza”
intervista di Silvia Truzzi

La bandierina della nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati è una foto di Enzo Tortora retwittata dal più social dei premer. Ci hanno detto: è l’Europa a chiederci di rivedere la legge Vassalli. Formuletta magica, leggenda metropolitana o meglio strumentale equivoco, come ha scritto Luigi Ferrarella sul Corriere: l’Europa chiedeva che fosse risarcibile anche l’errore commesso dalla Cassazione in violazione del diritto comunitario. Ma allora a cosa serve, e soprattutto a chi serve, questa legge? Lo abbiamo chiesto a Piercamillo Davigo, magistrato in Cassazione, uno dei fondatori della neonata corrente dell’Anm, Autonomia e indipendenza (che domani all’Aula Occorsio del Tribunale di Roma si costituirà ufficialmente). L’ex pm di Mani pulite comincia così: “In vent’anni ci sono state 400 cause sulla responsabilità dei magistrati, alcune dichiarate inammissibili, ma non è tanto questo che importa. Parliamo di venti cause all’anno. Vuol dire che la responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande”.
Ora aumenteranno di sicuro.
Si, ma per via di regole sbagliate e fumose, non perché c’è un danno da far valere. Per altri scopi: per farla pagare al giudice o per toglierselo dai piedi. La norma mette a rischio l’indipendenza del magistrato, la sua serenità.
C’è chi dice che la garanzia non è rappresentata dall’udienza filtro sull’ammissibilità, ma dal fatto che il procedimento cui si riferisce la domanda di risarcimento deve essere definito.
Il problema è che se non c’è il filtro d’ammissibilità, uno la causa la fa lo stesso, anche se il procedimento è in corso. Intanto l’Avvocatura dello Stato chiederà al magistrato una relazione, facendogli perdere tempo. Siccome non è detto che lo Stato si difenda bene, il magistrato che vede proporre la causa contro lo Stato probabilmente interverrà, per tutelarsi. Nel caso in cui lo Stato non si difenda bene, si difenderà lui. E quindi, se interviene nel giudizio, si deve astenere dal procedimento principale.
Così si può facilemente allontanare un giudice scomodo.
Certo. Non essendo previsto poi un argine minimo rispetto alle azioni temerarie, il giudice si trova esposto a tutte queste azioni. Si deve trovare un avvocato: può essere che alcuni magistrati si preoccuperanno prima di tutto di svicolare dalle grane. Pensando: ma chi me lo fa fare di adottare un provvedimento rischioso? Non sbagliato o ingiusto, un provvedimento che mi espone a rischi. Se dispongo un sequestro di milioni di euro a carico di soggetto potente, quello chiederà allo Stato danni spaventosi. Questa legge farà lievitare le polizze di assicurazione, il che equivarrà a una diminuzione del nostro stipendio. Il problema è che il magistrato deve decidere non pensando a sé, ma secondo verità e giustizia. Se comincio a pensare a me, può essere che io sia un po’ meno giusto.
La legge è uguale per tutti: sarà meno uguale per chi può permettersi uno stuolo di avvocati contro un giudice?
Sarà più difficile affrontare parti economicamente molto forti, a prescindere dalla fondatezza della domanda.
Parliamo del filtro di ammissibilità.
C’è poco da dire: la Corte costituzionale si era espressa nel senso di dichiarare incostituzionale l’assenza del filtro che costituisce una garanzia per la serenità del giudice.
Tra i casi di colpa grave c’è il “travisamento del fatto e delle prove”. Chi stabilisce che il fatto è stato travisato?
Come si a fa dire che il fatto è stato travisato, se sul punto non può esserci nemmeno una pronuncia definitiva? La giurisprudenza della Suprema corte è costante nel dire che non si può dedurre in Cassazione il travisamento del fatto: la Cassazione è giudice di legittimità e quindi non se ne occupa. Allora come si potrà mai dire che si può fare causa per travisamento del fatto, quando non è chiaro cosa sia travisamento del fatto perché su questo non c’è giurisprudenza di legittimità?
Lei ha detto: “Talora nelle cariche associative le scelte non avvenivano sulla base delle idee o di chi le sosteneva, ma sulla base della fedeltà a chi in quel momento comandava”.
È quello che accade nei partiti politici. Ho scelto di fare questo mestiere perché l’indipendenza ne è il tratto principale. L’indipendenza non è un privilegio, è una fatica: è molto più facile eseguire un ordine. Nella corrente dove stavo si era creato un atteggiamento per cui l’Anm sembrava il nemico. Anche altri gruppi non sono stati abbastanza fermi nel prendere posizioni contro iniziative governative. Ma non esistono governi amici, perché i magistrati devono controllare l’operato di tutti, compreso di chi governa. Il che non vuol dire che esistano governi nemici. Solo che non ci può essere corrispondenza d’intenti: un politico ragiona in termini di opportunità, un giudice in termini di verità e giustizia. Lord Bingham, giudice inglese, ha detto: esistono posti al mondo dove le decisioni delle corti incontrano sempre i favori dei governi, non sono i posti dove uno vorrebbe vivere.
Come si muoverà Autonomia e indipendenza?
Cambierà l’atteggiamento verso la Anm. Non siamo molte volte d’accordo, ma non possiamo considerarli un nemico. Si tratta di convincere l’Anm ad adottare difese più ferme. Questo governo e questa maggioranza parlamentare hanno fatto tre cose oltre molto sbagliate. Ci hanno ridotto le ferie senza nemmeno trattare: ci immaginiamo un datore di lavoro che fa la stessa cosa con i suoi dipendenti? Mandano a casa, prepensionandoli, 450 magistrati in una situazione di carenza d’organico già grave. Poi dicono che vogliono rendere più celere la giustizia? E questa cosa della responsabilità dei magistrati: una norma più che sbagliata, dannosa e pericolosa.

il Fatto 27.2.15
Nazareno tv, le otto risposte che Renzi deve ancora dare
Il premier sembra essersi opposto con decisione all’offerta di Berlusconi ma le sue dichiarazioni in realtà sono piene di aperture e ambiguità
di Giorgio Meletti


Matteo Renzi è uomo di umore e opinioni mutevoli. Due anni fa bollò così la nuova ferrovia Torino-Lione: “Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio: non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male”. Tre giorni fa a Parigi ha firmato con il presidente francese Francois Hollande l’accordo che dà il via all’opera, definendolo “un passaggio importante” ed esprimendo “soddisfazione”. Per evitare che anche sul caso Mediaset-Rai Way le parole le porti via il vento ed essere sicuri della fermezza delle opinioni espresse dal presidente del Consiglio in queste ore, gli rivolgiamo alcune domande.
1) IERI LEI HA ARRINGATO i giornalisti con un tono sprezzantemente pedagogico: “Credo che dovrete abituarvi a considerare le operazioni di mercato per quelle che sono, non operazioni politiche ma di mercato. Per questo, perché il mercato sia rispettato occorre libertà e il rispetto delle regole. Il governo ha messo delle regole su Rai Way che non intende modificare. Sono regole giuste, quelle sul 51per cento, la discussione è finita qui”. Stiamo parlando di un’operazione in cui un soggetto privato tenta di comprare un’azienda da un venditore pubblico, la Rai, guidata da un consiglio d’amministrazione in cui siedono ex dipendenti o ex consulenti del gruppo compratore, per di più designati dal suo proprietario in veste di leader politico. Alla luce di ciò, conferma che si tratti di una mera operazione di mercato? Sì o no?
2) PROPRIO per la particolare composizione del Cda Rai, e per il fatto che a voler comprare le sue antenne sia il principale concorrente della Rai, non crede che l’operazione, di mercato o meno che sia, sia pesantemente condizionata dal conflitto d'interessi di Silvio Berlusconi?
3) MEDIASET ha lanciato un’offerta sul 100 per cento delle azioni Rai Way, pur sapendo che le norme, da lei stesso ricordate, vietano alla Rai di cedere oltre il 49 per cento. Una strana operazione: un'offerta di acquisto che il venditore, stando a quanto lei dice, deve respingere per legge. Può confermare che la norma da lei fissata nell’ormai celebre Dpcm (decreto della presidenza del Consiglio dei ministri) è invalicabile? E se per caso la norma si rivelasse giuridicamente debole o aggirabile, il governo interverrà per consolidarne le basi? Sì o no?
4) DUE GIORNI FA nella prima nota di commento di palazzo Chigi si leggeva: “L’offerta pubblica per Rai Way conferma l’apprezzamento da parte del mercato della scelta compiuta a suo tempo dal governo di valorizzare la società delle torri Rai facendola uscire dall’immobilismo nel quale era confinata. La quotazione in Borsa si è rivelata un successo”. Dunque l’offerta di Mediaset dovrebbe renderla felice. Presidente Renzi, visto che vuole combattere l’immobilismo, possiamo stare tranquilli che nelle prossime settimane non cambierà idea anche sul 51 per cento di Rai Way come sul Tav? Sì o no?
5) LEI HA RICORDATO la regola del 51 per cento ma non ha detto niente sui progetti di Mediaset. I cittadini hanno il diritto di sapere che cosa pensa il premier dell’ipotesi che tutte le torri di trasmissione tv siano nelle mani di un solo editore televisivo in competizione con altri che usano le stesse antenne. A lei questa idea piace? Le sembra positiva per il progresso del Paese? Sì o no?
6) IL MERCATO DELLE TORRI di trasmissione tv non è regolato come quello della trasmissione di elettricità, della rete ferroviaria o delle telecomunicazioni. L’Antitrust dovrebbe vietare il monopolio risultante dalla fusione di EI Towers e Rai Way, anche se sottratto al controllo esclusivo di Mediaset e affidato a un condominio dei due giganti televisivi. Lei si opporrà al monopolio delle torri di trasmissione tv? C’è una forma di monopolio che è disposto ad ammettere, sotto determinate condizioni? Sì o no?
7) NELL'IPOTESI che Mediaset si rassegni al rispetto del limite del 51 per cento in mano pubblica e si accontenti di entrare in Rai Way fermandosi al 49 per cento delle azioni, lei sarebbe favorevole?
8) AL DI LÀ della contrapposizione tra operazione di mercato e operazione politica, evocata da lei e da organi e soggetti vicini a Mediaset, guardiamo le cose per quel che sono: un'azienda, Mediaset, fa un’offerta per comprare Rai Way, e un'altra azienda, la Rai, deve rispondere sì o no. Qui il governo è chiamato in causa non solo come arbitro che fa le regole, ma anche come azionista della Rai che deve prendere una decisione. Domanda: chi deciderà in ultima istanza, il cda Rai in scadenza o l’azionista, cioè il governo?

Il Sole 27.2.15
Urne in calo, e il Cavaliere cerca la riscossa con le aziende
di Lina Palmerini


Alla marginalità politica Berlusconi reagisce provando a rafforzare la centralità delle sue aziende. C’è qualcosa di curioso in quello che sta accadendo con le aziende di Berlusconi. Se nel ’94, più di vent’anni fa, il Cavaliere scese in campo per difendere i suoi interessi economici, adesso accade quasi il contrario.
Nel momento più basso della sua popolarità e del suo consenso in politica, lui cerca di rafforzare la posizione delle sue imprese. Prima Mondadori, ora Rai Way: l’offensiva del Cavaliere è molto più forte e ha molto più smalto verso le sue imprese che non per il suo partito lasciato, praticamente, allo sbando.
Matteo Renzi dice che bisogna imparare a ragionare di Mediaset in termini di mercato e basta, che un conto è la politica e altro è il mercato, ma questa frase può funzionare in tutti i settori tranne che in quello dell’editoria, della comunicazione e dell’informazione. C’è una specificità che lo distingue dagli altri anche per la capacità di intercettare la politica, di fare campagne e propagandare i messaggi e, infatti, non sono solo gli operatori finanziari ad accendere i riflettori sulla vicenda Mediaset. I soggetti politici sono ugualmente in prima fila nel guardare gli ultimi movimenti di Arcore, a sinistra ma soprattutto nel centro-destra.
Silvio Berlusconi alle scorse europee ha preso il 16% e i sondaggi per le prossime elezioni regionali in Veneto danno Forza Italia al 6%: una debolezza politica che in queste ore si è tradotta - invece - in uno scatto di reni sulle sue aziende. Un tentativo di rafforzarsi anche per mantenere una rendita di posizione in politica visto che non è più sostenuto dai voti del passato? Una domanda che legittimamente si pongono non solo a sinistra ma in Forza Italia. Mantenere una centralità nel mondo delle televisioni e dell’editoria crea un posizionamento forte anche in politica. In pratica, anche se il partito berlusconiano scende nei voti, quella marginalità politica può essere recuperata con la centralità delle sue imprese Tv.
Molti si chiedono se quello che è accaduto sull’offerta per Rai Way sia il frutto del patto del Nazareno. Anche se non fosse così il dilemma resta, pure a destra. Con un potere consolidato nel mondo delle televisioni, anche la successione al Cavaliere smette di essere un fatto puramente politico. Chiunque voglia candidarsi per sostituire Berlusconi deve fare i conti con una “potenza” mediatica (eventualmente rafforzata) con cui molti hanno già fatto i conti, a cominciare da Gianfranco Fini.
Sembra, insomma, che la mossa di Mediaset restituisca al Cavaliere una forza che non ha più alle urne. Una forza che non vale tanto per incrementare i consensi alle urne quanto per mantenere un potere negoziale in politica. Soprattutto mantenendo un ruolo chiave nella questione della successione che molti in Forza Italia vorrebbero gestire mettendo Berlusconi da parte. L’avviso è anche per loro, per i compagni di partito e per gli alleati.
Se per anni i politici del centro-destra hanno dovuto sostenere le battaglie delle aziende berlusconiane ricavandone alti profitti con posti in Parlamento e al Governo, adesso la difesa degli interessi economici del Cavaliere ha un utile più basso. Molto più basso. Per i parlamentari contano più i voti o le aziende Mediaset? Con il 16% di consensi quanti riusciranno a rientrare in Parlamento e a vivere di politica? È questa la domanda nuova che aleggia tra i politici di Forza Italia. Vale ancora la pena sostenere gli interessi economici del Cavaliere? O è meglio cercare una strada politica autonoma?

Il Sole 27.2.15
I dubbi degli operatori. Faro Consob sui movimenti
Le anomalie in Borsa di una «scalata» più politica che finanziaria
di Monica D’Ascenzo, Morya Longo


L’Opa ostile più strana del mondo, su una società dichiaratamente «non contendibile», lascia sul parterre di Piazza Affari uno stuolo di dubbi e di interrogativi. Tra chi sostiene che si tratti solo di «un’operazione politica per alzare un polverone sul Governo» e chi ritiene invece che «l’Opa possa servire per sedersi a un tavolo di trattativa», restano tra gli operatori di Borsa tante domande: come mai il titolo Ray Way in un paio di sedute (il 14 e il 22 gennaio) è stato scambiato in Borsa con volumi quadrupli rispetto alla norma? Qualcuno sapeva che stava per arrivare un’Opa e si è mosso in anticipo, o si tratta solo di casualità? Perché ieri, dopo che il Governo ha ribadito la non contendibilità di Ray Way, il titolo in Borsa non ha perso tutto il rialzo della vigilia? Significa che la Borsa in fondo crede nella possibilità di successo della scalata di Ei Towers, o quantomeno in un accordo?
Le anomalie in Borsa
Queste domande ieri erano sulla bocca di tanti operatori di Piazza Affari. E in un certo senso sono avvalorate anche dal fatto che la stessa Consob, come da routine in casi di operazioni di finanza straordinaria, ha aperto un’indagine per capire se ci sia qualcosa dietro i movimenti del titolo Ray Way. L’ipotesi da verificare è se qualcuno abbia approfittato di notizie riservate (cioè che Mediaset attraverso Ei Towers stava per lanciare un’Opa su Ray Way) per speculare in Borsa. L’Autorità guidata da Giuseppe Vegas (tra l’altro ex sottosegretario dell’ultimo Governo Berlusconi) sta valutando l’operatività degli intermediari nei giorni più “sospetti”. È ancora presto per capire come finiranno le indagini, ma sin da ora è possibile raccontare la storia borsistica di questa Opa a metà strada tra la politica e la finanza.
Le “anomalie” iniziano il 14 gennaio. Quel giorno il titolo ha chiuso la seduta invariato, ma in Borsa sono state scambiate 1,592 milioni di azioni: il 1.728% in più del giorno precedente. Le stranezze proseguono poi il 22 gennaio, quando le azioni sono balzate del 9,03% e i volumi sono stati pari a 1,3 milioni di azioni (contro una media precedente di 355mila a seduta). Possibile che si tratti solo di movimenti casuali. Tra l’altro l’ipotesi di un’operazione tra Ray Way e Ei Towers era da tempo sul tavolo di analisti e banchieri: già lo scorso settembre Equita Sim scriveva, in un report, che «l’integrazione sarebbe in grado di generare elevate efficienze». Ma la domanda è legittima: possibile che dietro questi due rialzi ci sia l’odore di insider trading? Sarà la Consob a stabilirlo.
Mission impossible?
Ma a colpire sono soprattutto le modalità con cui Mediaset ha “azzannato” la preda Rai Way. La società delle Torri Rai non è infatti scalabile per definizione. È lo stesso prospetto informativo, pubblicato quando Ray Way è stata collocata in Borsa, a metterlo nero su bianco a pagina 87: la società «continuerà ad essere controllata di diritto da parte della Rai, la cui partecipazione sarà tale da consentire la nomina della maggioranza degli amministratori». La domanda che si pongono in tanti è ovvia: perché Mediaset lancia un’Opa ostile, con l’obiettivo di raccogliere almeno il 66,67% del capitale di Rai Way, se non è possibile superare il 49%? Non si tratta di una domanda fuori luogo, perché proprio questa Opa - che sembra di impossibile successo - ha messo il turbo al titolo Rai Way in Borsa.
Ma gli addetti ai lavori sottolineano che il successo dell’Opa non è così impossibile come sembri. Per almeno due motivi. Il primo è che la stessa Ei Towers, nel comunicato di due giorni fa, scrive che l’Offerta sarà valida solo se sarà rilevato almeno il 66,67% di Rai Way, ma poi comunica che potrà «rinunciare» o «modificare» questa condizione. Questo significa che Mediaset potrebbe accettare un accordo e potrebbe accontentarsi di una quota inferiore di Rai Way. E forse questo è il vero obiettivo. Il secondo motivo è legato al fatto che il decreto con cui si impone a Rai Way di restare in maggioranza pubblica potrebbe essere modificato. Dunque la partita, per Mediaset, non è persa in partenza: il mercato non esclude che alla fine un accordo (industriale e politico insieme) possa essere raggiunto. Per questo ieri il titolo Rai Way, pur chiudendo in calo, non ha perso tutta l’euforia della vigilia.
La partita resta dunque aperta: sia sul tavolo politico, sia su quello industriale. Ma la strada di Ei Towers resta lastricata di incognite: se anche venisse raggiunto un accordo di “spartizione” di Rai Way, si porrebbero successivi problemi con l’Antitrust europeo che potrebbe contestare la «dominanza congiunta» tra Rai e Mediaset nel controllo delle risorse trasmissive del digitale terrestre. Insomma: l’Opa più strana del mondo non smetterà di stupire il mercato. E ovviamente la politica.

Il Sole 27.2.15
I lati oscuri
La trasparenza conta quanto lo spread
di Alessandro Plateroti


Sono trascorsi già due giorni dall’annuncio dell’Opa su Rai Way da parte di Ei Towers, ma il buio è ancora fitto su troppi aspetti che circondano la sfida lanciata al governo da Silvio Berlusconi. Banchieri, giuristi ed esperti di fusioni e acquisizioni sono infatti rimasti interdetti e spiazzati da un’operazione che - per ora apparentemente - è partita già con la prospettiva di essere respinta.
La società controllata dall’ex premier , il suo advisor JP Morgan, gli studi legali e i consulenti che hanno lavorato per più di un mese sull’offerta non sapevano forse già in partenza che la quota massima vendibile di Rai Way non poteva eccedere il 49%? E ancora: perchè mai è stato deciso di presentare l’Opa pur sapendo che sia il cda di Rai Way sia le assemblee ordinaria e straordinaria sono totalmente controllati dall’azionista Rai, società a sua volta controllata dal Ministero del Tesoro e quindi dal governo che ha fissato i paletti sul controllo? E infine: c’è forse stata una scelta precisa e consapevole - se non spregiudicata - dietro la decisione di annunciare l’Opa nello stesso giorno in cui il Governo ha annunciato (dopo la chiusura dei mercati) la cessione del 5,7% dell’Enel in un collocamento che ha portato la quota del Tesoro ad appena il 25,5% nel più importante gruppo energetico italiano? Quest’ultimo interrogativo è forse anche il più importante. Se qualcuno nell’entourage di Berlusconi - e quindi nel pool che ha lavorato all’Opa - era infatti a conoscenza del collocamento Enel, la contestualità delle due operazioni avrebbe una chiara spiegazione: costringere il Governo a chiarire su quali basi lo Stato può scendere ben al di sotto della soglia di controllo non solo in una società davvero strategica come l’Enel, ma anche nell’Eni (dove controlla il 30,1% attraverso il Mef e la Cdp)?ma non intende assolutamente farlo nel capitale di una società il cui unico scopo è quello di mantenere in efficienza la rete di torri su cui transitano dei segnali radio. Rai Way è forse più strategica delle due più importanti compagnie energetiche italiane, tanto da costringere il Governo a blindarne il 51% del capitale? Una risposta chiara sarebbe importante da entrambi i protagonisti di questa vicenda, Tesoro e Berlusconi: non solo ai fini di una giusta valutazione della logica dell’Opa e del secco rifiuto con cui è stata accolta, ma anche per evitare che gli investitori nazionali e internazionali finiscano per giudicare questa vicenda come l’ennesima dimostrazione di inquinamento politico del mercato italiano. Nel 1992, il Financial Times definì il mercato italiano come «murky water», acqua torbida: da allora, e non solo a Londra, ci sono stati riconosciuti enormi progressi sia nella governance delle imprese e della Borsa sia nella riduzione dell’ingerenza politica sul mercato. La vicenda delle Popolari - balzate in Borsa ben prima del decreto del Governo sulla loro trasformazione in spa - ha già allungato ombre e sospetti su fughe di notizie e possibili insider trading, su cui la Consob ha peraltro già avviato indagini. Altri scivoloni, o passi indietro di credibilità, non possiamo più permettercene.
Che aggiungere a tutto ciò? Certamente che i lati poco chiari non finiscono qui. Il primo riguarda il prospetto di quotazione di Rai Way: l’emittente avrebbe infatti dovuto specificare che il Consiglio dei ministri numero 34 del 23 ottobre 2014 mise nero su bianco il limite del 49% nella quota di capitale cedibile al mercato o a un operatore concorrente di Rai Way? Nel documento di quotazione approvato dalla Consob e recepito da Borsa Italiana non si parla infatti mai di tale vincolo azionario che esclude la contendibiltà di Rai Way: si parla solo di mantenimento del controllo della maggioranza del capitale anche dopo l’esercizio della «green shoe» e c’è solo un riferimento generico all’assenza di accordi su un eventuale cambio di proprietà. Su questa base, alcuni esperti ritengono che l’atto potrebbe essere contestato per falsa informativa al mercato: in tal caso, tanto la Consob quanto Rai Way e i suoi azionisti - la Rai e in ultima istanza il Tesoro - potrebbero essere chiamati direttamente in causa per aver omesso informazioni cruciali. È forse questa la provocazione di Berlusconi? Trascinare in tribunale il Governo e la Rai per esporli al pubblico ludibrio? Se fosse così, l’operazione di Ei Tower perderebbe davvero ogni apparenza di valore industriale e finanziario, meritandosi l’appellativo di operazione politica.
Un ultimo punto riguarda la Borsa. Non c’è dubbio che mani forti si siano posate sul titolo di Rai Way ben prima dell’annuncio dell’Opa, visto che da metà gennaio il titolo ha cominciato a correre senza motivi apparenti. Purtroppo, con le attuali norme che regolano le comunicazioni dei fondi sugli acquisti di partecipazioni in società quotate l’obbligo di notifica alla Consob scatta solo per gli acquisti dal 5% del capitale in su: tutto ciò che è al di sotto, rimane nascosto nell’ombra. L’unico modo per fare un pò di luce, è cercare tracce e informazioni sul sito della Sec americana se una delle parti è registrata sul mercato Usa (dove gli obblighi di comunicazione sono molto più stringenti e dettagliati di quelli italiani), o su una delle tante banche dati a pagamento che tracciano ogni mese le mosse di fondi ed emittenti. Non sarebbe il caso, anche in virtù dei dubbi sollevati dal caso-Popolari, di rivedere anche i nostri obblighi di comunicazione?
Per chiudere, c’è un ultimo interrogativo: è forse solo un caso il fatto che l’advisor di EiTower, JP Morgan, abbia dimezzato improvvisamente la posizione speculativa ribassista sul titolo Mediaset - di cui è advisor storico nonchè banca depositaria delle azioni sul mercato Usa - il 17 febbraio scorso, cioè pochi giorni prima dell’annuncio di un’Opa che ha spinto in rialzo anche ieri il titolo della più importante società di Silvio Berlusconi? E su quale base anche altri intermediari italiani si sono mossi nella stessa direzione o hanno addirittura alzato sia il target price sia il rating (a «buy») sia sui titoli di Mediaset sia su quelli di Rai Way proprio tra metà gennaio e pochi giorni fa?
Da circa un mese, insomma, sembra quasi che alcuni operatori abbiano letteralmente preparato il terreno al blitz di EiTower: alcuni si sono spinti oltre, rastrellando titoli a piene mani e incassando poi una cospicua plusvalenza. Non solo: pur essendo stata respinta da Rai Way e dallo stesso Governo, l’Opa totalitaria lanciata da EiTower continua a tenere banco negli scambi di Borsa: ieri il titolo di Rai Way ha perso solo il 2,8% dopo aver guadagnato più del 10% nella sola seduta di mercoledì sulla spinta dell’Opa, quello di EiTowers ha addirittura chiuso in rialzo e lo stesso ha fatto il titolo di Mediaset. Sembra quasi che il mercato non creda affatto nello stop del governo, puntando su sviluppi diversi. Nella vicenda delle Popolari tanto è bastato per scatenare la caccia all’insider e un polverone di polemiche: ancora una volta, risparmiatori, investitori e tutti coloro che credono in un mercato sano e trasparente contano sulla Consob per fare chiarezza. Senza contare che in questa fase delicata per i mercati e per l'Italia, la trasparenza è importante quanto lo spread.

Repubblica 27.2.15
Non basta quella quota per difendere la società
di Massimo Mucchetti


CARO direttore, la più importante notizia sull’Opa di Mediaset per le torri Rai l’ha data Camillo Rossotto, presidente di Rai Way, la società proprietaria dell’infrastruttura per le trasmissioni televisive, prima del consiglio di amministrazione di ieri. «Gli offerenti — ha rivelato — si sono fatti vivi solo martedì ». L’aver informato all’ultimo momento la società bersaglio qualifica come tecnicamente ostile l’Opa che Mediaset lancia per il tramite della sua controllata, Ei Towers. Uno Stato dignitoso, che tramite la Rai detiene il 65% di Rai Way, non può accettare di negoziare alcunché con un soggetto tanto inurbano. Peraltro, la decisione di lasciar cadere la proposta del Biscione può essere motivata anche in base al prezzo, al rischio regolatorio e all’interesse del Paese. E tuttavia, ieri, i consigli della Rai e di Rai Way si sono limitati a prendere atto della novità senza alcuna osservazione, almeno pubblica. Un po’ poco.
In una società per azioni i due livelli partecipativi più rilevanti sono il 50,1%, che dà il controllo di diritto dell’assemblea ordinaria, e il 66,7% che dà il controllo anche della straordinaria, dove si delibera con i due terzi dei voti, ovvero il 33,4% che costituisce la minoranza di blocco, sempre nella straordinaria. A lume di buon senso ci si domanda dove voglia arrivare Mediaset di fronte a una Rai che, in ogni caso, non potrebbe per legge scendere sotto il 51%. La mossa di Silvio Berlusconi rappresenta un unicum nella storia della finanza normale. Gli unici precedenti sono quelli dei vecchi speculatori alla Giribaldi che compravano una minoranza e poi contestavano l’azionista principale per farsela ricomprare a peso d’oro. Escluderei che questo possa essere sic et simpliciter l’obiettivo di Mediaset. E tuttavia, per quanto finora è stato detto dell’Opa, Mediaset si impegna a rilevare tutte le azioni Rai Way che le arrivassero oltre il 66,7%, ma si riserva anche di accontentarsi di quantità inferiori ove ne ravvisi l’utilità. Sarebbe dunque prudente se lo Stato rilevasse un 1,5% di Rai Way così da impedire a Mediaset di costituirsi in minoranza di blocco.
Ben peggio sarebbe se, di fronte a una Mediaset che comunque insiste, la Rai decidesse di scendere dal 65 al 51%. L’incasso di 170 milioni non giustificherebbe la scelta di portarsi in casa un concorrente ingigantendo il conflitto d’interessi che pure questo governo, in perfetta continuità con i precedenti, si rifiuta di affrontare, nonostante ampiamente lo consentano i numeri delle Camere.
Il prezzo dell’offerta dava ieri un premio del 10% sulle quotazioni correnti. Una miseria di fronte alla prospettiva che, con una simile cessione, Mediaset arriverebbe facilmente alla minoranza di blocco. L’insistenza del governo sul vincolo del 51%, anziché la proposizione di un diniego tout court, fanno temere che ci sia dell’altro: che quanto in pubblico appare un atto ostile, in qualche opaco conciliabolo sia stato invece considerato degno di essere accolto in una gestione fatalmente condominiale dell’infrastruttura di rete. Se così fosse, e voglio pensare di sbagliarmi, tutto riacquisterebbe una logica dal punto di vista di Mediaset: sia nel caso Berlusconi punti a proteggere la sua tv legandola ancor più alle sorti della tv pubblica sia, all’opposto, se si voglia preparare a vendere a un prezzo migliore una Ei Towers con le mani in pasta anche in Rai Way quale secondo passo nella liquidazione del suo impero, dopo la cessione dell’8% di Mediaset eccedente il controllo di fatto. Ma che c’azzecca una simile prospettiva con gli interessi del gruppo Rai? E che cosa ci guadagnerebbe il Paese dall’ennesima rappresentazione dell’ormai stanco duopolio Rai-Mediaset, così contrario alla concorrenza? Temo nulla.
(L’autore è senatore del Partito democratico)

il Fatto 27.2.15
La giornalista Milena Gabanelli
“Nomine Rai, non è il governo che deve scegliere i migliori”
di Antonello Caporale


Ai piani alti c’è il potere. In quelli bassi i telespettatori e i lettori. Milena Gabanelli – giornalista investigativa tra le più apprezzate – esamina le ragioni di una questione cruciale della democrazia: perchè l’informazione fa così spesso rima con la manipolazione. Perché spesso si avventura a trasformare la realtà fino ad erigerne una di comodo, adeguata ai bisogni del momento.
Il piano Gubitosi è stato approvato. Un’unica newsroom, telegiornali tematici. Meno dirigenti in Rai, meno burocrazia. Ora ti tocca esultare.
È auspicabile che in futuro ci sia un’unica newsroom, per il momento è un passaggio intermedio che a mio parere è giusto perseguire. Prima di esultare aspettiamo di vedere quali saranno i direttori. Il nodo cruciale è soprattutto lì.
La Rai non è la Bbc e forse non lo sarà mai. Ma non ho mai capito se è la politica, padrona della tv, ad allontanare i giornalisti dalle notizie insidiose oppure siamo noi cronisti che appena scorgiamo un filino di carriera all’orizzonte perdiamo la testa e anche il taccuino dalla tasca.
Posso parlare per me: in tanti anni sono stata spesso sollecitata a non approfondire troppo, ma non avendo frequentazioni politiche non mi è stato difficile continuare sulla mia strada, e devo anche aggiungere che nessuno mi ha fermato. Vorrà pur dire qualcosa!
La Tv dei partiti sembra avviata al cimitero. Si prospetta la Tv del governo. È un cambiamento che in qualche modo rincuora o rattrista?
L’abbiamo già vissuta una Tv del governo, mi pare. Credo che abbiamo anticorpi per tutto, e comunque se per Tv del governo si intende un modello dove viene definita una “carta” di requisiti non raggirabili per il reclutamento della governance, senza toccare la missione del servizio pubblico, ben venga.
Già la chiamano teleRenzi. Mettiamo invece che il premier voglia stupire e seguire alla lettera anche le tue proposte che ieri hai pubblicato sul Corriere. Mettiamo che dica: i migliori devono dirigere la Rai. Gabanelli, faccia la presidente.
a) Accetti
b) La proposta ti fai venire il mal di testa e dici no grazie, ho le mie inchieste da seguire
c) Inizi a prospettare persone più in gamba di te nella speranza di farla franca.
Sono lusingata, ma se è Renzi a scegliere “i migliori”, siamo fuori strada. Vuol dire che non ha letto come funziona il modello a cui tutti dicono di volersi ispirare.
Cos’è l’imparzialità? Chi racconta deve naturalmente tener conto dei diversi protagonisti del fatto che narra. Ma il suo punto di vista, l’angolazione da cui riprende, il dettaglio dal quale inizia la storia conterà pure qualcosa?
Intanto il punto di vista deve partire da un fatto oggettivo e non da un pregiudizio, dopodiché si argomenta, come è giusto che sia. Però è difficile parlare in astratto, dipende da quale argomento si affronta. Se il tema è la corruzione dentro al Mose con i corrotti che hanno patteggiato non è che bisogna andare tanto per il sottile. A fare la differenza alla fine è comunque la buona o cattiva fede con cui il giornalista racconta la notizia... e questo è difficile da occultare.
Non esistono, tranne singolari situazioni, aziende editoriali senza padroni. E non esistono padroni senza interessi e senza relazioni di potere. Dal primo marzo però esisterà il job act: mi può piacere il tuo lavoro ma anche no. E se non mi garba posso sciogliere il contratto che mi lega a te. Il giornalista di domani, che sarà pur sempre un lavoratore dipendente, difenderà la verità fino al licenziamento?
Mi risulta che per ora molte redazioni pullulino di giornalisti che incassano lo stipendio ma non lavorano, proprio perché non piacciono al loro direttore o editore. Non piacere a qualcuno è nella natura delle cose. Mi piace immaginare un mondo del lavoro dove non sono costretta a poltrire, sono io ad andarmene in un altro posto dove mi trovo meglio, e quel posto sul mercato c’è. Si chiama ‘dinamicità’.
Chi fa inchiesta dà spesso brutte notizie. Sembra che il lettore, o il telespettatore, abbia meno resistenza a farvi fronte, meno capacità a indignarsi.
Brutte notizie a colazione, pranzo e cena... alla fine è evidente che non ne puoi più. Non ne posso più nemmeno io! La denuncia fine a se stessa ti fa venire voglia di sbattere la testa al muro, specialmente quando non produce risultati, sembra un muro di gomma. Lo sforzo da fare è quello di cercare una via d’uscita e provare a indicarla... è faticoso trovarla, ma c’è sempre un’alternativa possibile, e l’utilità del nostro lavoro è anche in questo.
Il successo di Renzi è dato anche dal fatto che non pare esserci alternativa credibile. Secondo te è aperta una questione democratica oppure dobbiamo essere più prudenti con i giudizi. Saper osservare, aspettare.
Il giudizio per definizione si dovrebbe dare alla fine; se il nostro è un lavoro da cane da guardia, e non da combattimento, dobbiamo sorvegliare, vigilare, e abbaiare per farci sentire, vale per un governo, un’impresa, un’istituzione. Sembrano banalità, ma se i giornalisti la mettessero in pratica con la dovuta puntualità, non resterebbero tanti margini per fare proprio quello che si vuole senza render conto.
Ah, dimenticavo. Forse Berlusconi comprerà le antenne della Rai. Diverrà padrone o almeno comproprietario. Come se Italo acquistasse la rete ferroviaria. Tutto normale?
Nemmeno la BBC è proprietaria delle antenne e del satellite con cui trasmette in tutto il mondo, ma è un Fondo se non ricordo male. Certo che se un pezzo di Rai dovesse finire interamente nelle mani del concorrente, anche da un punto di vista estetico... non si può guardare!

Corriere 27.2.15
Servizio pubblico e lottizzazione
Le trincee inutili
di Pierluigi Battista

qui

Corriere 27.2.15
La riforma della scuola
Il governo apre alle scuole private
Sgravi fiscali per chi le sceglie
Il sottosegretario Toccafondi: detrazioni sulle rette. I timori dei ricorsi dei precari
di Valentina Santarpia, Claudia Voltattorni

qui

Il Sole 27.2.15
Istruzione. Ieri il vertice Renzi-Giannini a Palazzo Chigi
Scuola, resta il nodo degli indennizzi Concorso per 60mila
di Eugenio Bruno, Claudio Tucci


ROMA Di vertice in vertice le nubi sul decreto Scuola si diradano. E anche i numeri della maxi-operazione precari cominciano ad assumere un contorno più preciso. Sia nella loro composizione totale (120mila unità) che nelle varie categorie di stabilizzandi interessati (Gae, iscritti in seconda fascia, idonei dell’ultima selezione targata Profumo). Così come appare ormai chiaro che dal 2016 nella scuola si entrerà solo per concorso. Dovrebbero essere infatti 60mila i posti messi a bando per il prossimo triennio, in base al turn-over previsto.
Di tutto questo si è parlato ieri pomeriggio a palazzo Chigi in un summit tra il premier Matteo Renzi, il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, e il sottosegretario Davide Faraone. Nel corso della riunione sono stati esaminati (ma non ancora sciolti del tutto) anche i nodi che ancora avvolgono la riforma. A cominciare dal maxi-indennizzo (su cui si veda Il Sole Ore del 24 febbraio) per i supplenti con contratto a termine superiore ai 36 mesi (e a forte rischio contenzioso dopo la sentenza Ue del 26 novembre).
L’indennità (nella versione 2,5 mensilità, 6 mensilità addirittura 10 mensilità, per i “super precari”) avrebbe superato il vaglio politico. Ma resta quello tecnico visti anche i rilievi sulle coperture posti mercoledì sera dai tecnici del Mef che hanno espressamente chiesto al Miur di indicare la platea esatta dei potenziali beneficiari del risarcimento e l’onere finanziario che in ogni caso, trapela da Via XX Settembre, dovrà essere a carico del bilancio dell’Istruzione.
La dote complessiva per la «Buona Scuola» è stata fissata nella legge di stabilità: 1 miliardo per il 2015 e 3 miliardi a regime. E oltre questi importi (mai stanziati finora per la scuola) non si potrà andare.
Soldi che dovranno servire soprattutto per il maxi-piano di stabilizzazione di precari. Da quanto si apprende, alla quota di 120mila si arriverebbe assumendo i 12mila tra vincitori e idonei del “concorsone” Profumo del 2012, a cui si aggiungerebbero gli 80/90mila precari storici inseriti nelle Gae e altri 20mila circa tra i supplenti annuali delle Graduatorie d’istituto. L’operazione dovrebbe costare poco meno di 700 milioni nel 2015 (i docenti in più sul sostegno sono finanziati dal decreto Carrozza) e un paio di miliardi a regime.
Le risorse restanti serviranno per il nuovo concorso da bandire quest’anno per 60mila posti da spalmare nel triennio 2016-2019. Inoltre 40 milioni sono impegnati per il potenziamento dei laboratori (a livello territoriale) e altri 50 milioni per la formazione dei docenti. Per i professori - l’ha confermato ieri il ministro Giannini - cambierà la carriera: gli aumenti stipendiali saranno per il 70% legati al merito(l’anzianità di servizio peserà per il restante 30% mentre oggi vale il 100%).
Il decreto scuola conterrà pure un rafforzamento di alcune materie. Si parte dalla musica, che potrebbe guadagnare un’ora in quarta e quinta elementare. E, passando per l’educazione fisica e l’utilizzo di un docente «esperto» (un laureato in scienze della formazione primaria con l’abilitazione in educazione motoria), si arriva alle lingue straniere. Che significano soprattutto adozione della metodologia Clil per insegnare in lingua inglese le altre discipline. E ciò per due ore a settimana in quinta elementare dall’anno scolastico 2015/2016 e poi anche in quarta dal 2016/2017. Queste misure prese nel loro complesso porterebbero a un ripristino (almeno di fatto) della compresenza abolita dalle riforma Gelmini. A cui si sommerà il potenziamento di storia dell’arte, diritto ed economia nelle scuole secondarie di II grado.
Confermato anche il rafforzamento della scuola-lavoro. Due le novità principali contenute nel testo. Da un lato, l’estensione ai licei dei periodi di formazione on the job fino a un massimo di 200 ore. Contemporaneamente negli istituti tecnici e professionali si passerà dalle 100 ore attuali a 400 nel triennio (e non 600). Con la possibilità, nei territori a bassa industrializzazione, di svolgerle nelle Pa che sottoscriveranno una convenzione ad hoc.

Il Sole 27.2.15
Conti pubblici
Regioni, tagli alla sanità per 2,6 miliardi
Preintesa Governatori-esecutivo sulla spending review da 5,2 miliardi prevista dalla manovra
di Roberto Turno


ROMA La sanità, il Fondo per lo sviluppo e la coesione, il patto verticale incentivato con i comuni, e tante altre incognite da risolvere tra fine marzo e giugno. Il grande rebus delle addzionali dietro l’angolo. Dopo un lungo e complicato tira e molla, Governo e regioni hanno raggiunto ieri l’intesa (o pre-intesa) sui maxi tagli (lineari) da 5,2 mld sui bilanci locali inferti per 4 mld dalla legge di stabilità 2015 e di altri 1,2 mld ereditati da precedenti manovre in sospeso. Ad essere colpita più pesantemente dai tagli in arrivo sarà la spesa sanitaria, che perde più dell’intero aumento inizialmente previsto dei fondi 2015: 2,35 mld in tutto tra regioni ordinarie e speciali, con l’aggiunta di una potatura di altri 285 mln delle risorse in conto capitale destinate all’edilizia sanitaria. Un colpo da 2,63 mld in totale sul bilanci della salute pubblica, il settore politicamente e socialmente più delicato, tanto per il Governo quanto per le regioni, che in sette a maggio vanno al voto.
Tanto delicato toccare il filo spinato della sanità, che non a caso palazzo Chigi e governatori hanno scelto ieri di prendere ancora un mese di tempo per indicare gli obiettivi specifici del risparmio: soltanto a fine marzo, infatti, sarà scritto nero su bianco in quali settori e per quale entità di cifre si taglieranno i conti di asl e ospedali. La parola d’ordine è quasi uno slogan: razionalizzazione e messa in efficienza della spesa Ssn a tutti i livelli, anche rafforzando il check sui risparmi attesi dalla riorganizzazione negli ospedali con tanto di abbandono di reparti doppione, e non solo. Fatto sta che oltre agli obiettivi del risparmio in cantiere, le regioni potranno scegliere di aggredire anche altri settori della spesa sanitaria, non solo quelli che verranno individuati a fine marzo. Sui farmaci c’è una forte resistenza della ministra Lorenzin e di palazzo Chigi, quando inizialmente i governatori avevano invece indicato un taglio da 482 mln. Nel mirino resteranno l’acquisto di beni e servizi – tra prezzi di riferimento, standard ospedalieri, dispositivi medici e monitoraggio della Consip e dell’Anticorruzione – così come le prestazioni acquistate dai privati. Mentre sui farmaci le regioni chiedono certezze a parte per i farmaci destinati all'epatite C, oltreché per il finanziamento dei maggiori costi derivanti dai nuovi Lea, quando saranno ratificati, che varrebbero almeno 414 mln in più.
Senza scordare che i tagli della pre-intesa di ieri, quando arriveranno, potranno avere effetti ben che vada in sette otto mesi dell’anno, se non meno in quelle regioni dove si voterà, soprattutto se ci saranno cambi di maggioranza. Il che fa aumentare il rischio di nuove addizionali regionali in corso d’anno. Tutto questo mentre uno studio presentato proprio ieri dalla Fiaso (federazione di manager di asl e ospedali) e condotto col Crea di Tor Vergata, ha certificato l’esistenza di sprechi diffusi in parecchie regioni, a partire dai criteri assurdi, spesso basati sulla spesa storica, e dalle modalità di attribuzione dei fondi alla aziende sanitarie. Intanto il Veneto non ha partecipato all’incontro di ieri col Governo e rilancia il ricorso alla Consulta contro la manovra, così come ha annunciato la Lombardia, mentre la Cgil parla dei tagli alla salute come di «una sciagura».
Partita non affatto chiusa, insomma, sulla sanità. Ma non solo. Anche perché le altre voci di spesa tagliate non sono di modesto impatto. Riguardano 1,8 mld di riduzione del Fondo per lo sviluppo e la coesione, ma anche riduzione di 285 mln in termini di indebitamento netto e utilizzo di risorse per 802 mln per il patto verticale incentivato con i comuni. Su altri 365 mln di tagli ci sarà incertezza fino a tutto giugno: se le regioni non provvederanno ciascuna in casa propria, deciderà d’imperio via XX Settembre con tagli lineari dei trasferimenti. Ma non sulla sanità, almeno stavolta.

il Fatto 27.2.15
Toscana, tutela del paesaggio con truffa
Il piano approvato in Regione è una deregulation in piena regola
Il presidente Rossi promette correzioni
di Elisabetta Reguitti


Come farsi male da soli. Ci sta provando la giunta toscana del governatore Enrico Rossi rimaneggiando il nuovo Piano Paesaggistico regionale partorito proprio in casa Pd dopo ben quattro anni di co-gestazione con il ministero dei Beni culturali. L’orizzonte peggiore, per la regione del premier Renzi, potrebbe portare piscine in spiaggia, estrazioni libere e ampliamenti a piacere di aziende che lavorano negli alvei fluviali: un bel biglietto da visita anche in vista dell’Expo. Tutto ciò ha innescato la sollevazione unitaria delle maggiori associazioni ambientaliste tra cui Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Lipu.
E pensare che il Piano era nato a gennaio 2014 sotto i migliori auspici: progetto pilota, lavoro di ampio respiro e di lungimiranza politica del territorio in quanto - sulla carta - teneva conto della complessità della geomorfologia e dei vari ecosistemi. Ma colpo di scena: una settimana fa viene presentato un maxi emendamento peggiorativo che tre giorni dopo tuttavia viene ritirato. Masochismo democratico visto che tutte le correzioni presentate dai Dem - in maggioranza - a pochi giorni dal voto del Consiglio ammorbidirebbero sensibilmente le strette indicazioni del piano stesso. E ora? Lavori in corso prima dell’approvazione prevista per il 10 marzo.
Marco Parini presidente nazionale di Italia Nostra parla di una contraddizione inaccettabile. “A me piace definirlo Piano generale del territorio non paesaggistico - precisa -. E chiediamo che venga approvato così come è stato licenziato. Diversamente proporremo allo stesso ministero di opporsi”. Da sottolineare inoltre, che la “deregulation” ai Comuni potrebbe avere ricadute negative sui litorali, le colline e i fiumi dell’intera Toscana.
NON SI TRATTA quindi esclusivamente di dire “no”, spiegano i rappresentanti delle associazioni che indicano alcuni “gravi cedimenti” di scelte nelle politiche di governo del territorio. Il Piano, che doveva essere un autentico strumento di salvaguardia, potrebbe addirittura rivelarsi un autentico lasciapassare al peggio.
Il governatore Enrico Rossi sembra intenzionato a trovare la via di mezzo. “Aspettiamo i risultati”, ammonisce Fausto Ferruzza di Legambiente Toscana che tenta di abbozzare quelli che potrebbero essere i punti di mediazione di Rossi.
Fra questi in particolare la definizione di “nuova cava” e le relative procedure di autorizzazione. Di certo sembrano scongiurate le pessime conseguenze del maxi - emendamento ritirato anche e “sicuramente per la mobilitazione congiunta delle realtà associative”, afferma Nicola Caracciolo di Italia Nostra, strenuo sostenitore della teoria che sia ormai scaduto il tempo della disgregazione anche e soprattutto nelle associazioni ambientaliste.

Corriere 27.2.15
Condoni edilizi, una beffa lunga 30 anni
Lo Stato in 30 anni di condoni edilizi ha speso il triplo di quanto ha incassato
Ha incassato 15 miliardi. Ma ne ha spesi 45 per risanare il territorio
Ogni «furbetto» ha sborsato solo 2 mila euro
di Gian Antonio Stella


Un bidone. Nel trentesimo anniversario del primo dei condoni edilizi, varato nel febbraio ’85, i numeri dicono tutto: per incassare in totale poco più di 15 miliardi di euro d’oggi, lo Stato ha poi dovuto spenderne 45 in oneri d’urbanizzazione. Il triplo. Un suicidio economico, urbanistico, morale. Segnato da impegni solennemente ridicoli: «È la fine dell’abusivismo edilizio». Sì, ciao...
Va riletta, l’ Ansa del 21 febbraio 1985. Entusiasta per l’approvazione del Parlamento, Bettino Craxi dettava da Palazzo Chigi una nota esprimendo soddisfazione per la sanatoria e spiegando che avrebbe portato nelle casse statali «circa cinquemila miliardi di lire» e che le misure avrebbero concorso «con efficacia a porre fine al fenomeno dell’abusivismo edilizio, che era divenuto dilagante». Che fosse ormai dilagante è vero: secondo il Cresme (Centro Ricerche Economiche Sociali Mercato Edilizia) l’effetto annuncio di quel primo condono «avrebbe provocato l’insorgere, nel solo biennio 1983/4, di 230.000 manufatti abusivi». Ovvio: i primi proclami furono fatti dal ministro dei Lavori Pubblici Franco Nicolazzi, con la comica minaccia che chi non avesse sanato avrebbe visto apparire le ruspe, nell’ottobre dell’83. «Perché non approfittarne per tirar su una casa nuova da spacciare per già esistente?», si chiesero decine di migliaia di furbi. E cominciarono a costruire.
Nel ‘94, dopo l’annuncio del nuovo condono, di Silvio Berlusconi, replay. Al punto che il sindaco Enzo Bianco, a Catania, ordinò che chi voleva la sanatoria portasse la foto dell’abuso commesso. Molti non l’avevano: la casa abusiva da sanare non esisteva ancora. Del resto, quale rischio correvano gli imbroglioni? Tre anni dopo, avrebbe certificato Legambiente, dei 18.402 casi di abusivismo dichiarati «non sanabili» e quindi da abbattere (3.309 in parchi e riserve, 12.899 in aree protette, 2.194 in territorio demaniale), gli edifici effettivamente abbattuti erano stati 446. Dei quali solo 66 in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, le «regioni canaglia» dell’abusivismo. Sintesi: chi avesse costruito un condominio davanti ai faraglioni di Capri o sulle rovine di Selinunte aveva, dopo l’ordinanza di demolizione (e già quella, campa cavallo!), lo 0,97% di probabilità che arrivasse davvero la ruspa.
E così sarebbe andata anche col terzo condono, quello berlusconiano del 2003. Quando ad esempio, contando sull’ormai accertata e cronica incapacità dello Stato di abbattere le case abusive, Annapia Greco tirò su in poche notti di febbrile lavoro in piena estate, pensando di spacciarla per un vecchio abuso, una villa intera sull’Appia Antica a pochi passi dalla tomba di Cecilia Metella. Finita la villa in prima pagina sul Corriere , la signora parve non capacitarsi di tanto scandalo. Era abusiva? E vabbè... L’avevano già diffidata? E vabbè... Aveva fatto la furba in una delle aree archeologiche più protette del mondo? E vabbè... «Tutta questa pubblicità! Queste cattiverie! Ce l’avete coi ricchi? E che ho fatto mai? Ci ho provato, d’accordo, è andata male, pazienza. Che, me volete crocifigge ?». A farla corta: non solo tutti ma proprio tutti i condoni criminogeni hanno incassato molto meno di quanto pomposamente annunciato, ma hanno contribuito, storicamente, a spingere centinaia di migliaia di imbroglioni a compiere abusi non ancora commessi. Col risultato che nel solo periodo 1982/1997 furono costruite (dati Cresme) 970.000 abitazioni totalmente abusive. E l’andazzo è andato avanti, nella prospettiva che «un giorno o l’altro un altro condono arriverà», al ritmo di almeno 26.000 case abusive l’anno. Con una percentuale di demolizioni (alla fine di un calvario giudiziario) del 10,2%.
Un esempio? Ne scrive nel suo libro appena uscito Le città fallite , l’urbanista Paolo Berdini: «Il 20 ottobre 2009 a Giugliano, comune del Napoletano, la Guardia di Finanza ha sequestrato 98 case e un albergo completamente abusivo localizzato in via Ripuaria, a due passi dalla via Domiziana che conserva ancora basoli romani, in un’area sottoposta a vincoli di natura archeologica. La Finanza scopre foto aeree ritoccate, bollettini postali con date falsate, documenti di pratiche di condono aperti prima della costruzione degli immobili. Un affare da 20 milioni di euro in mano alla camorra legata ai clan Rea, Mallardo e Nuvoletta. Malavita organizzata che usufruirà del provvidenziale quarto condono edilizio. Che, naturalmente, sarà l’ultimo. Come sempre».
Quale «quarto condono»? Quello che sarà varato dopo mille tentativi dalla Regione Campania con la legge 16 del 2014 (impugnata dal governo) per consentire ai furbi di riaprire le antiche pratiche rimaste bloccate dei condoni dell’85 e del ‘94, allargando la sanatoria ad aree ad alto rischio come la zona rossa del Vesuvio.
Valeva la pena di avallare la distruzione di tanta parte del nostro territorio o addirittura di spingere a nuovi abusi tanti italiani sottoposti alla tentazione di violare la legge con la promessa di folli «premi»? E per quale paradossale coincidenza, quel 1985 che vide la prima delle scellerate sanatorie fu anche l’anno del battesimo della legge Galasso, la prima a introdurre una serie di tutele sui beni paesaggistici e ambientali?
Sono i temi sul tavolo, stamattina, di un convegno alla Camera, nell’Auletta dei Gruppi, con alcuni dei massimi esperti di ambiente, territorio, difesa del patrimonio storico e artistico. Da Paolo Maddalena a Salvatore Settis, da Vezio De Lucia a Tomaso Montanari, dagli urbanisti Paolo Pileri e Paolo Berdini a parlamentari impegnati su questi temi come Mario Catania, Ermete Realacci, Claudia Mannino, Massimo De Rosa...
Un dato, comunque, pare ormai assodato. I condoni, finanziariamente, sono stati un harakiri . Basti dire che, grazie alle leggi che generalmente spinsero i furbi a pagare troppo spesso solo i primi acconti (per bloccare le inchieste giudiziarie e gli appiattimenti) gli 8 milioni di italiani che vivono negli oltre due milioni di case interamente abusive hanno pagato di sanzione una pipa di tabacco. Per capirci, se è vero che l’incasso ufficiale complessivo è stato, secondo Legambiente, di 15 miliardi e 334 milioni di euro attuali, ogni furbetto ha pagato mediamente meno di 2.000 euro. Niente, rispetto ai costi caricati sui Comuni.
«Il territorio urbanizzato dall’abusivismo (la cui densità è più bassa delle aree di normale lottizzazione) è pari a circa 50 mila ettari», spiega Berdini. «Per urbanizzare ogni ettaro con le opere indispensabili (fognature, acquedotti, strade, reti elettriche e telefoniche) ci vogliono in media 600 mila euro. Più le spese per le opere di urbanizzazione “sociali”, cioè scuole, sanità e così via, che costano altri 300 mila euro ad ettaro». Totale: 900 mila euro ad ettaro completamente urbanizzato a spese dello Stato.
Insomma, per sistemare il territorio agli abusivi abbiamo speso 45 miliardi di euro. Caricati sulle spalle di quella grande maggioranza di cittadini che quegli abusi non li hanno mai fatti.

il Fatto 27.2.15
Serra, il finanziere vicino a Renzi punta sull’Etruria
Il Fondo Algebris vuole comprarsi i crediti a rischio della Banca popolare
di Marco Franchi


Dalle Popolari, al business delle sofferenze bancarie passando per la cosiddetta bad bank. Laddove c’è un provvedimento approvato o messo in cantiere da Matteo Renzi su questioni che riguardano da vicino il mondo della finanza ecco che spunta il fondatore di Algebris, Davide Serra, a fare business cavalcando la furia rottamatrice del premier. Coincidenze, sicuramente. Che però hanno fatto discutere. Soprattutto per i movimenti anomali dei titoli delle banche Popolari su cui hanno acceso i riflettori sia la Consob sia la Procura di Roma.
ALL’INIZIO DI FEBBRAIO lo stesso Renzi era stato molto chiaro nel salotto a Porta a Porta: “Se qualcuno, chiunque sia, ha utilizzato informazioni riservate, sono il primo a chiedere le indagini più rigorose e chi ha fatto il furbo deve pagare fino all’ultimo giorno”, aveva detto a Bruno Vespa. Parole che sono suonate a molti osservatori come una presa di distanza dalle mosse del suo finanziatore di campagne elettorali. Serra ha precisato che Algebris non ha mai effettuato investimenti nella Popolare dell'Etruria e che l'unica operazione, per altro in perdita, è stata in quel periodo la dismissione di 5,2 milioni di azioni del Banco Popolare.
L’affare potrebbe, però, essere un altro. Secondo quanto scritto ieri dal quotidiano MF-Milano Finanza, tra i fondi che si sono affacciati per acquisire asset, e nel caso specifico non performing loan (crediti dalla riscossione incerta), della Popolare dell’Etruria commissariata l'11 febbraio, c'è anche Algebris Npl Fund 1. Ovvero il fondo di Serra riservato a investitori istituzionali lanciato a ottobre 2014 che si era posto come obiettivo di raccolta 400 milioni di euro e ne ha invece raccolti
440. Al business delle sofferenze bancarie è inoltre connesso il progetto di bad bank al vaglio del governo la cui novità principale sarà proprio l’introduzione di strumenti atti a facilitare l’escussione della garanzia immobiliare alle famiglie in difficoltà nel pagare le rate del mutuo.
Il finanziere ha spesso avuto un ottimo fiuto. Prendiamo Mps, nel cui capitale potrebbe entrare a luglio il Tesoro se non si farà avanti un nuovo partner finanziario portando in dote la liquidità necessaria per rimborsare gli interessi sui Monti bond. Ad aprile 2014 in un’intervista a Radio 24, Serra illustra la sua tesi sull’istituto senese: “Altro che aumento da tre miliardi, per il Monte dei Paschi ne servono almeno il doppio”, dice puntando il dito sui tassi di copertura delle sofferenze e crediti incagliati in vista degli stress test europei che qualche mese dopo avrebbero bocciato proprio Mps e Carige. Dando pienamente ragione a Serra che su Siena aveva visto giusto considerando anche che il Monte è dovuto tornare a chiedere altri soldi al mercato con il nuovo aumento di capitale da varare entro giugno).
QUALCHE SETTIMANA prima di intervenire in radio il finanziere aveva comunicato alla Consob la sua decisione di vendere allo scoperto l’1 per cento del capitale del Monte “perché il prezzo attuale non ha senso, è altissimo rispetto ad altre banche”. Non solo. A fine ottobre dell’anno scorso un articolo del Sole 24 Ore citava Algebris tra gli investitori attivi sulla due diligence (esame preventivo) del pacchetto di 1,2 miliardi di crediti dubbi del Monte dei Paschi.
Non sempre però Serra ha puntato sul cavallo giusto. In un suo ritratto apparso mercoledì scorso sul Blog di Beppe Grillo si ripercorre la carriera del finanziere, comprese le scommesse sbagliate. Fra cui quella su Lehman Brothers: “Nel giugno 2008, Serra si spese su giornali e tv a favore del management della banca, e in particolare di Richard Fuld, capo azienda di Lehman, dopo aver investito nella banca svariate decine di milioni di dollari. Di nuovo una tempistica eccellente visto il fallimento di Lehman pochi mesi dopo“, scrive l’anonimo autore del profilo sul blog grillino.
Siamo andati a verificare ed effettivamente nell’estate del 2008 Algebris era diventato azionista di Lehman Brothers. Il fondo aveva investito nella banca d’investimento americana poco meno di 90 milioni di dollari. Secondo quanto emerge da un documento depositato presso la Sec (la Consob Usa), nel corso del secondo trimestre del 2008 il fondo britannico guidato da Serra aveva comprato 4,4 milioni di azioni ordinarie pari a circa lo 0,8 per cento del capitale del gruppo guidato dada Fuld, già in forte difficoltà a causa della crisi dei mutui subprime. Il 15 settembre dello stesso anno il colosso americano fa il crac che sconvolgerà l’economia di tutto il mondo.

La Stampa 27.2.15
Bersani dichiara guerra e non va al summit, caos nel Pd
Renzi prepara il blitz
Nel mirino del segretario il capogruppo Speranza
di Carlo Bertini

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Corriere 27.2.15
Lo schiaffo a Renzi
Bersani: «All’incontro non vado, il Jobs act è incostituzionale»
L’ex segretario Pd attacca il premier e sull’incontro di venerdì spiega: «Non ci penso proprio ad andarci, che gli organismi dirigenti diventino figuranti di un film non ci sto»

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il Fatto 27.2.15
Bersani diserta il Nazareno e l’Italicum
“Così le riforme non le voto”


Pier Luigi Bersani non sarà oggi all’appuntamento che il Partito democratico, di cui è stato segretario fino all’aprile 2013, ha organizzato al Nazareno per far discutere i propri parlamentari di Scuola (dalle 14 alle 15), Rai (dalle 15 alle 16), Ambiente dalle 16 alle 17) e Fisco (dalle 17 alle 18). La convocazione aveva già indispettito prima gli invitati e poi chi li invitava. I primi non avevano gradito che i gruppi parlamentari fossero chiamati a discutere con una scaletta rigida e limitata. I secondi si erano adontati perchè l’invito a discutere era stato accolto di malo modo. Fatto sta che in un’intervista sul quotidiano dei Paolini l’Avvenire, Pier Luigi Bersani rompe gli indugi e dà tre avvisi al governo: non andrà al Nazareno oggi, non voterà l’Italicum alla Camera senza modifiche e ritiene anche che il Jobs Act sia incostituzionale. Sul primo punto qualifica la sua scelta: “Non ci penso proprio. Perché io m’inchino alle esigenze della comunicazione, ma che gli organismi dirigenti debbano diventare figuranti di un film non ci sto”. Su Riforme e Italicum chiarisce: “Il combinato disposto rompe l’equilibrio democratico. Se la riforma della Costituzione va avanti così io non accetterò mai di votare la legge elettorale”. Sulle nuove norme in tema di lavoro “mette il lavoratore in un rapporto di forze pre-anni ‘70” e per qusto motivo si pone “fuori dall’ordinamento costituzionale”.
BERSANI NON È IL SOLO a disertare l’assise nazarena. Anche Gianni Cuperlo, nella minoranza, ritiene che sia meglio non partecipare. E Stefano Fassina chiede se è uno scherzo (e non si presenterà neanche lui”. E anche diversi senatori Pd preferiscono starne fuori. Luisa Bossa risponde alla convocazione con una lettera: “Tu dici che ci proponi la riunione per confrontarci ‘con sempre maggiore coinvolgimento anche nelle fasi preparatorie dei passaggi parlamentari’. Dandoci un’ora per ognuno di questi temi monumentali? Un’ora da dividere per circa 300 parlamentari? Se volessimo parlare tutti sarebbero 12 secondi a testa. Io in dodici secondi riesco a dire solo buonasera a tutti. Tu?”.
Lo stato maggiore del Pd, da Lorenzo Guerini a Matteo Orfini si dice incredulo. Matteo Renzi, come nello stile della casa, invece attacca: “Il nostro popolo, quello che ci vota alle primarie e che, dopo tante sconfitte, ci ha dato il 41% per cambiare l’Europa e l’Italia, non si merita polemiche ingiustificate persino sugli orari e sulle modalità di convocazione di questi incontri informali. Sul piano esterno, abbiamo delicati dossier aperti, a cominciare dalla crisi libica. Sul piano interno, proprio mentre costruiamo le condizioni della ripresa, una nuova destra di stampo populista europeo prova a sfidare il Pd. Non abbiamo tempo da perdere, non sprechiamo neanche un minuto in polemiche sterili. Al lavoro, per ridare speranza e fiducia all’Italia”.

La Stampa 27.2.15
Il chiarimento nel Pd sarà duro più del previsto
di Marcello Sorgi


Il chiarimento chiesto da Renzi ai gruppi parlamentari del Pd si annuncia più duro del previsto. Bersani e Fassina hanno annunciato che non parteciperanno all’assemblea convocata da Renzi per oggi. E in un’intervista l’ex segretario ha detto che non ci sta a fare il «figurante» e non condivide le ultime mosse del premier, il varo dei decreti del Jobs Act senza tenere conto delle riserve emerse nel dibattito alla Camera e il modo in cui ha fatto votare la riforma del Senato. La questione, nuda e cruda, è questa: il Pd può - o deve - trasformarsi nel partito del Presidente? La minoranza bersaniana è entrata in agitazione, anche perché la convocazione da Palazzo Chigi è arrivata insieme con un serrato ordine del giorno dell’assemblea e con la raccomandazione a fornire al dibattito contributi brevi ed espressi in linguaggio chiaro. Un messaggio considerato sfottente, al quale Bersani e i suoi intendono reagire ponendo il problema dell’eccessivo uso di decreti da parte del governo e della velocità con cui Renzi pretende sia portato a termine l’esame dei testi.
Parola più, parola meno è ciò che le opposizioni di destra e di sinistra sono andate a dire al Quirinale dopo il duro confronto sulla riforma del Senato alla Camera, che ha portato il premier a chiedere la seduta fiume e il contingentamento dei tempi per battere l’ostruzionismo del largo fronte - da Forza Italia ai 5 stelle - che ha finito per mettere in scena l’Aventino, cioè a costringere la maggioranza ad approvarsi da sola la riforma in un’aula rimasta vuota a metà.
Porre lo stesso tipo di obiezione è ovviamente più complicato per il Pd, dato che Renzi sostiene che la pressione del governo sul Parlamento, soprattutto sulla Camera, dove sulla carta può disporre di numeri più forti, è causata dal fatto che l’opposizione, invece di confrontarsi, sceglie troppo spesso l’ostruzionismo. Ma Bersani e i suoi intendono farlo egualmente e senza dirlo si rivolgono anche a Mattarella. Ad alimentare l’inquietudine della minoranza è anche un movimento di truppe nei gruppi che ha visto la creazione di una corrente renziana, a cui hanno lavorato il sottosegretario Graziano Delrio e Matteo Richetti, aperta a diverse componenti interne e con l’obiettivo di ridurre l’influenza della minoranza tra deputati e senatori. Alla vigilia di scadenze importanti come la legge elettorale e adesso anche la riforma della regolamentazione delle tv, il rapporto tra Renzi e le sue truppe parlamentari necessita insomma di un tagliando che tuttavia non sarà tanto facile.

Corriere 27.2.15
Sfida per le chiavi della Ditta
Dopo la vittoria alle primarie e quella alle Europee, Renzi vuole vincere anche dentro il partito
Portando via a Bersani e a quelli che guidavano il Pd prima di lui le chiavi della Ditta
di Maria Teresa Meli


Così il premier controllerà il Pd in Aula Ma ora Bersani gli dà l’ultimatum
Oggi il forfait dell’ex segretario: non voterò l’Italicum, Jobs act incostituzionale
ROMA Matteo Renzi si prepara all’ultimo scontro nel Pd. Quello definitivo. In cui toglierà per sempre le chiavi della «Ditta» (insolita espressione con cui gli ex Pci chiamano il partito, qualsiasi esso sia) dalle mani di chi le ha conservate religiosamente, pensando che prima o poi il Pd sarebbe tornato ai «veri» proprietari.
Vinte le primarie, vinte le Europee, al premier manca solo un ultimo importantissimo tassello per mandare in porto i provvedimenti all’esame del Parlamento, i suoi progetti futuri e continuare la navigazione fino al 2018. Per questa ragione ha deciso che a maggio riorganizzerà i gruppi parlamentari e le commissioni. Perché è proprio alla Camera e al Senato che i parlamentari bersaniani, eletti grazie al Porcellum dall’allora segretario, gli danno del filo da torcere.
Come è noto, a metà legislatura, vengono votati nuovamente, per deciderne la riconferma o meno, i presidenti delle Commissioni e i capigruppo. Ebbene, il disegno di Renzi è proprio quello di agire su questo piano. Cambiando alcuni esponenti della minoranza interna che occupano dei posti chiave: «Del resto, ho vinto le primarie con il 68 per cento».
Ed è questo il motivo per cui la minoranza è entrata in ebollizione. Ufficialmente, l’oggetto del contendere è il Jobs act o la troppo frettolosa convocazione per oggi dei parlamentari. In realtà l’opposizione interna ha capito che il leader sta giocando la sua ultima vera battaglia. Ecco perché Bersani annuncia all’ Avvenire che non andrà a quell’appuntamento: «Non ci sto a fare il figurante». E ancora: «Il Jobs act si pone fuori dell’ordinamento costituzionale». Infine: «Non voterò mai la legge elettorale».
Peccato che non siano questi i veri terreni di scontro. Ma è solo l’ultima rendita di posizione rimasta alla «Ditta» che viene difesa. In modo molto agguerrito. Basta sentire Nico Stumpo: «Se uno decide di fare il Califfo, poi deve essere pronto a a vedersi rispondere con le armi del califfato».
Una vera e propria dichiarazione di guerra, di quelle pesanti, alla quale aderiscono tutti quelli che oggi non parteciperanno alla riunione, da Cuperlo a Zoggia. «Non è un problema se non vengono», è la reazione a botta calda di Renzi, che resta però «sconcertato» per le «pesantissime dichiarazioni» di Bersani. E ai suoi dice: «È chiaro che questi vogliono lo scontro, ma se pensano che io abbia paura, si sbagliano di grosso».
Il clima è incandescente anche perché la sera prima c’è stato il battesimo di «Spazio democratico», la «non corrente» dei renziani che non fanno parte del cosiddetto «giglio magico», organizzata da Richetti e Rughetti. Sono i renziani dialoganti, quelli che stanno attirando pezzi della minoranza. All’iniziativa presenziavano anche Delrio, Guerini e Lotti. Come a dire che c’era il bollo ufficiale del «capo».
La qual cosa ha innervosito vieppiù la minoranza interna. «Stanno capendo che ci stiamo muovendo per portargli via un po’ di gente in vista di una migliore articolazione della vita del gruppo parlamentare della Camera», spiega un esponente di «Spazio democratico». E questo allora spiega anche lo Speranza che da mite diventa duro. Anche lui, come Bersani, non si sta battendo per il Jobs act ma per le posizioni che la «Ditta» rischia di perdere, inclusa quella del capogruppo.
A sera, quando Renzi si è calmato — e non dice più: «Ma questi invece di ringraziarmi per averli portati al 41 per cento hanno la faccia tosta di attaccarmi» — arriva una dichiarazione più meditata: «Non capisco la polemica per la riunione di domani ( oggi per chi legge ndr ). È un momento di confronto perché nessuno vuole ricominciare con i caminetti ristretti vecchia maniera. Perciò stupisce chi gioca la carta della polemica interna. Il nostro popolo non se la merita. E abbiamo tante, troppe cose da fare: non possiamo sprecare nemmeno un minuto in polemiche sterili. Mettiamoci al lavoro per ridare speranza all’Italia».

Repubblica 27.2.15
Pd, lo strappo di Bersani: "Io non sono un figurante". Renzi: "Stupito da polemiche, noi per il confronto"
Con parole di fuoco, l'ex segretario fa sapere che non parteciperà alla riunione dei gruppi parlamentari dem convocata dal premier
Attacca Jobs act, riforma costituzionale e Italicum. Anche minoranza dem pronta a disertare
di Tommaso Ciriaco

qui

Repubblica 27.2.15
Pd, l’ira di Renzi: Bersani come Bertinotti, ma non ha i voti
La reazione del premier all'attacco dell'ex segretario
di Goffredo De Marchis

qui

Repubblica 27.2.15
Davide Zoggia, minoranza Pd
“Io torno a Venezia alla fine per Matteo sarà una riunione flop”
“Non è credibile parlare di fisco in quattrocento in una sola ora. La verità è che il segretario non vuole davvero discutere“
intervista di T. Ci.


ROMA Il deputato Davide Zoggia, esponente della minoranza dem. Uno dei duecento che oggi diserterà la riunione convocata dal segretario Matteo Renzi. «Io non vado». Troppo poco, sostiene, il tempo previsto per gli interventi.
Non parteciperà, onorevole?
«No».
Perché?
«Ho le primarie a Venezia».
Ma c’è naturalmente anche una motivazione politica?
«Sì».
Pensate che sia un problema di metodo?
«Parlare un’ora di fisco in quattrocento... Poniamo il caso che vogliono parlare tutti, come si fa in un’ora?» Lei dice: per assurdo, un parlamentare ogni sette secondi scarsi. Eppure non le sembra normale rispondere comunque all’invito del segretario a confrontarsi?
«Significa che non vuoi discutere. Ora, io non contesto tanto che Renzi assuma un’iniziativa, ci mancherebbe: ci sono le iniziative parlamentari assunte dai capigruppo e quelle politiche assunte dai leader di partito. Ma se vuoi farlo, dedica il tempo necessario agli approfondimenti. E poi...».
Dica.
«E poi non si capisce anche il fatto che la prima parte della lettera che lui ha mandato riguarda essenzialmente la riunione della corrente di mercoledì (quella di Delrio, ndr). Se hai bisogno di stoppare le correnti, cosa legittima, coinvolgi e non metti in mezzo tutto, compresa questa storia della riunione del gruppo. Se la vuoi fare, falla bene, altrimenti corri il rischio di far irritare le persone».
Proviamo una stima: oggi mezzo gruppo diserterà?
«Come minoranza, come Area riformista non è che abbiamo fatto chissà che. Non abbiamo fatto partire telefonate, per intenderci. Ognuno fa quello che vuole. Se è pieno non è che ce ne freghi, anzi va bene. Ma la mia sensazione è che la partecipazione sarà bassa».
Voi comunque non avete fatto nulla perché sia un successone, diciamo...
Sorride. «Esatto». (t. ci.)

Il Sole 27.2.15
L’emarginazione delle Camere
I furti di legislazione con destrezza e il ruolo del Colle
di Montesquieu


Puntuali, i casi di emarginazione delle camere all’interno di procedimenti legislativi si sono verificati senza troppo aspettare. Addirittura due, di spessore non comune: l’uno bell’e servito – la normazione delegata in tema del così chiamato jobs act –; l’altro per il momento solo evocato – nientemeno che la possibile riforma del servizio pubblico radiotelevisivo con decreto legge – ma già tale da produrre un inevitabile fragore. Il quadro si completa – e gli esempi si susseguono con regolare frequenza – con la trasmissione di leggi compiute dalle sedi del governo alle camere, praticamente solo da votare, con voto unico e palese con il quale, ignorando l’argomento dell'intervento legislativo, si ribadisce la fiducia al governo da parte di un ramo del parlamento.
Il fenomeno complessivo ricorda un po’, fatte le debite differenze e proporzioni, quello dell’etichettatura postuma con la quale si attribuisce il prestigio del “made in Italy” a prodotti confezionati fuori dei confini nazionali : le leggi figurano “made in parlamento”, ma sono in realtà stipate di merci pigiate a forza dall'esterno.
Così i decreti legge, che l’art. 77 della Costituzione consente al governo in casi di necessità ed urgenza, diventano pienamente legittimi quando, a torto o a ragione, il governo ha fretta di intervenire, magari su un problema vecchio di anni o di legislature. Così, altrettanto, le deleghe legislative che le camere concedono al governo sempre più frequentemente contengono criteri e princìpi talmente labili ed ambigui da fare della facoltà concessa all’esecutivo dall’art. 76 della Costituzione l’emblema di un furto di legislazione con l’aggravante della destrezza.
Tutto discende, o quasi, dai vizi contratti in un tempo lontano chiamato prima Repubblica, quando l’anomalia di una collocazione intangibile dei due grandi partiti, democrazia cristiana e partito comunista – l’uno sempre al governo, l’altro perennemente all’opposizione – veniva ripagata con la sostanziale rinunzia dell’esecutivo a imprimere del proprio segno la legislazione, perché contenesse il sigillo di due filosofie spesso contrapposte. Vizi che nel secondo tempo della Repubblica, congenitamente insofferente all’abbraccio parlamentare dei quarant’anni precedenti e forte del muro di Berlino da poco abbattuto, ci si è adoperati a liquidare : lasciando peraltro inalterata – per pigrizia, pragmatismo da disinteresse istituzionale, impotenza rovesciamenti improvvisi di tavolo o altro – la lettera della carta costituzionale. Con il risultato di allargare, oltre la normale soglia di tolleranza, il solco tra la costituzione formale e quella materiale, realmente in uso.
Si potrebbe dire che da quasi sessant’anni il sistema politico e istituzionale è alla ricerca di un virtuoso equilibrio, nel nome della separazione dei poteri, tra governo e parlamento, avendo fin qui sperimentato e subìto dapprima un esecutivo parassita delle camere, lungo una quarantina d’anni; quindi un parlamento parassita del governo nei successivi venti. Della separazione delle funzioni, corollario mai posto in discussione da alcuno, almeno formalmente, nemmeno l’ombra: la relazione tra i due organi costituzionali da più di mezzo secolo, a parti invertite, ricorda un grande viluppo,a parti cangianti.
Soprattutto negli ultimi vent’anni – quelli in cui ci si è più allontanati, nella materia,da quanto scritto in Costituzione – i tre capi dello Stato hanno fatto il possibile per venire in soccorso al soggetto esautorato, con le armi consentite dai provvisori controlli preventivi e successivi previsti in costituzione: autorizzazione alla presentazione, verifica dei presupposti, rinvio alle camere, e poco d’altro. E ha fatto il possibile la Corte costituzionale, in modo quantitativamente più circoscritto, ovviamente, ma con poteri più penetranti. Entrambi gli organi attirandosi accuse, più velate nei confronti del primo, più veementi verso la seconda, di partigianeria politica, ma soprattutto di acquiescenza al presunto vero potere, quello giudiziario, divenuto per alcuni soggetto politico inattaccabile e irresponsabile, e al tempo dotato di armi pressoché letali nei confronti degli impropri avversari.
Il nuovo presidente della Repubblica eredita dal predecessore, accanto a questo quadro di disfunzioni e rattoppi, un processo riformatore in via di conclusione, soprattutto proprio con riguardo alla funzione legislativa. Che il governo vuole legittimamente e doverosamente più sincronica con le esigenze del paese, quelle dei cittadini e quelle legate alle relazioni istituzionali, al punto da occhieggiare con cupidigia alla possibilità di fare della decretazione d’urgenza uno strumento di legislazione (quasi) ordinaria ; e da vedere la delegazione legislativa come la fuga da ogni controllo delle camere. Fin da oggi, a costituzione invariata.
Proprio il capo dello Stato, che entra in scena oggi senza alcun condizionamento, può favorire il ripristino, attraverso l’introduzione di un bicameralismo non più paritario, di una legislazione che, nel dare al governo un respiro più ampio, liberi il sistema dei maxiemendamenti, delle fiducie che suonano sfiducia, dei decreti legge fondati sull’impazienza e delle leggi di delega a campo aperto. Delle invasioni di campo, in sintesi.
Diversamente una domanda si impone, a fronte di questa situazione: perché gli insofferenti al sistema parlamentare, almeno sotto il profilo dei poteri del parlamento nella legislazione, da vent’anni a questa parte preferiscono il furto di legislazione con destrezza anziché promuovere la legalizzazione dello stesso, con i necessari annessi e connessi?

Repubblica 27.2.15
L’ultima finestra per la Ditta dopo lo schiaffo del Jobs Act
Ora il premier ha tre strade: o rivive il Nazareno, o lo aiutano i dissidenti di Fi e M5S, oppure tratta con Bersani
di Stefano Folli


IL FUOCO nel Pd covava sotto la cenere ormai da giorni, ma l’attacco di Bersani al premier- segretario è ugualmente clamoroso. Non tanto per la mancata partecipazione del leader della minoranza alla riunione di Renzi con i gruppi parlamentari, quanto per l’annuncio che una fetta del partito, con alla testa lo stesso Bersani, non voterà la riforma elettorale se non sarà modificato l’impianto della legge costituzionale che trasforma il Senato in una sorta di Camera delle autonomie.
In pratica significa che il 30 per cento del Pd ha scelto la strada dello scontro frontale. E l’offensiva riguarda entrambi i gioielli della corona, le due riforme che sono essenziali nella logica renziana. L’Italicum rappresenta per Renzi la pietra angolare di una strategia volta al pieno controllo del gruppo parlamentare nella prossima legislatura, quando si presume che il sistema sarà monocamerale. E il Senato deve appunto cambiare pelle: viene reso non elettivo e destinato a compiti diversi rispetto alla Camera, soprattutto non voterà più la fiducia ai governi. Una riforma non ha senso senza l’altra: camminano insieme e di fatto devono essere approvate all’interno della medesima logica. Perciò, quando l’ex segretario Bersani chiede in modo perentorio di riaprire il tavolo delle trattative sul Senato e mette in discussione il voto sull’Italicum, accende un contenzioso molto pericoloso per il presidente del Consiglio.
Fino a qualche settimana fa il patto del Nazareno metteva Renzi al riparo degli sgambetti che potevano venirgli dai ranghi del suo partito. Lo si è visto quando l’Italicum è passato a Palazzo Madama, giusto alla vigilia dell’elezione del capo dello Stato, con i voti di Forza Italia. Voti che non furono decisivi sul piano dei numeri, ma lo furono senz’altro sul piano politico. Poi, nei giorni del Quirinale, Renzi rovesciò lo schema: preferì salvaguardare l’unità del Pd a scapito dell’intesa con Berlusconi. Si poteva immaginare che avesse sottoscritto un’intesa di legislatura con la minoranza interna, non potendo più contare — almeno in apparenza — sul sostegno di Forza Italia. Ma neanche questa era tutta la verità.
Sulla riforma del lavoro, il cosiddetto Jobs act, le tesi della sinistra del partito sono rimaste inascoltate: nessun compromesso e avanti tutta, secondo la filosofia tipica del renzismo. Nel frattempo si è andata delineando una riforma della Rai che potrebbe prendere forma nella cornice di un decreto legge, mentre sullo sfondo non tutto è chiaro sulla questione Rai Way. Nasce così l’attacco di Bersani. Se l’ex segretario si porterà dietro tutta la minoranza o solo una parte, lo vedremo presto. Quel che è certo, Renzi non è in grado di far approvare le due riforme così come sono, se alla rivolta dei bersaniani si accompagna la persistente fronda di Berlusconi.
E a questo punto le ipotesi sono tre. O il patto del Nazareno risorge in qualche forma, oppure prende forma un soccorso bianco formato da parlamentari dissidenti di Forza Italia e movimento Cinque Stelle. In mancanza di una di queste opzioni, a Renzi resterebbe solo la terza strada: aprire un tavolo con Bersani e la minoranza interna sia sulla legge elettorale sia sul nodo del Senato. Sarebbe la smentita di una strategia politica a lungo coltivata, la fine del mito del «decisionista di sinistra ». Il che porta a concludere che Bersani è passato all’offensiva non solo e non tanto per il Jobs act, quanto perché ha capito che stava per chiudersi l’ultima finestra utile. Vale a dire l’ultima opportunità di impedire il consolidamento del potere renziano e la definitiva scomparsa del vecchio Pd. La «ditta» del buon tempo antico, al centro come in periferia.

Repubblica 27.2.15
Pd in Campania
Le primarie del sospetto
di Francesco Merlo


È MEGLIO bloccarle prima o annullarle dopo? In Campania le primarie del Pd le governa la “destra neo melodica” del senatore Vincenzo D’Anna che tra il bassoliniano Andrea Cozzolino di Napoli e l’ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca «non ho ancora fatto la mia scelta» ha detto.
EHA spiegato al cronista: «Tanto sono io la pomata che sgonfia i mali del Pd». D’Anna «parla paramedico », come dicono a Napoli, «perché è biologo laureato», signore dei laboratori privati, soprattutto nel Casertano. Per lui, sia Cozzolino sia De Luca, che in queste primarie del Pd stanno spendendo moltissimo denaro, non sono soltanto la riedizione della stucchevole competizione tra Napoli e Salerno, ma sono «i cani di razza che fiutano gli umori grassi della gente», sono il Pd del territorio, i notabili che Renzi non è riuscito a rottamare. E queste primarie sono la prima vera rivincita dell’ ancien régime non solo sul renzismo ma anche sul bersanismo e sul veltronismo.
Cozzolino e De Luca sono l’eternità dei capibastone che marcano il territorio da Capua a Battipaglia “poltrona per poltrona”, uno spazio epico cartografato: banche, Camere di Commercio, autorità portuali, ospedali, ambulanze, sindaci, province, industrie… e poi mogli, fratelli, figli, consuoceri, ex compagni di scuola. E infatti De Luca e Cozzolino hanno festeggiato insieme la fuga di Gennaro Migliore. «Se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato» ha detto De Luca che si autodefinisce «togliattiano, ma anche gobettiano ». L’ex di Sel era stato mandato allo sbaraglio da Roma a mortificarsi nella Napoli dov’è nato ma che non ri-conosce e che non lo conosce. Trascinato anche lui nel folclore si faceva fotografare in curva sud, con gli ambulanti, girava su un pulmino rosso-hippie con la scritta di Pino Daniele “vai mò”. Nella città del sottosopra populista di De Magistris pareva la caricatura di Vendola: «Sto cercando i fili d’erba da coltivare, quelli che parlano del futuro». E ancora: «La mia candidatura non è individuale ma collettiva». E capisco che il suo renuntio vobis possa far sorridere e che anzi si possa ridere delle primarie a Napoli se non ci fosse, in tutto questo divertirsi, la smorfia dolorosa del Sud, l’ennesimo fallimento dell’utopia dello sviluppo.
E infatti a nulla è valso rinviare per ben quattro volte queste sospettatissime primarie che, programmate nel dicembre scorso sono adesso previste domenica come sfida finale tra Cozzolino e De Luca appunto: «Noi abbiamo i voti, voi la faccia tosta».
De Luca, che è stato condannato e ha dovuto lasciare la poltrona di sindaco, butta fumo dalle narici, si paragona a Maradona: «Non c’è amministratore che non abbia una condanna. Chi non ce l’ha è una chiavica». E rivendica i successi (veri) nella sua Salerno che è diventata una delle più ordinate città del Sud, con un waterfront moderno, belle strade, grandi architetti… Ma il successo gli ha dato alla testa e ha prevalso la sua natura di campiere. Anche da ministro si atteggiava a mammasantissima, è stato il primo prodotto a sinistra del plebeismo carismatico alla Achille Lauro, lo sceriffo padrone che sottomette la città alla sua legge e non obbedisce neppure ai giudici.
Adesso De Luca è favorito pure su Cozzolino, che fu il fidatissimo assessore di Bassolino alle politiche agricole e alle attività produttive e ora è il candidato degli imprenditori, anche per interessi di famiglia, ma è soprattutto il vincitore di quelle primarie che nel 2011 Bersani annullò per brogli, una ferita aperta nel corpo della sinistra, l’epifania della faccia oscura e persino camorrista di quel modello di democrazia importato dagli Usa e subito andato a male.
È la stessa degenerazione che si è rivista a Ercolano, dove si vota anche per il sindaco, e dove gli iscritti, due settimane fa, sono passati da trecento a milleduecento, tutti folgorati dal Pd: la nostra Conchita Sannino ha contato 36 cognomi di camorra.
E poiché la storia non è maestra di vita i fotoreporter sono già appostati per sorprendere domenica le carovane di cinesi, pakistani e nordafricani, la schiuma del voto comprato appunto, ma soprattutto gli incappucciati della destra: fittiani, cosentiniani, berlusconiani, alfaniani, francescapascaliani e caldoriani. Abbiamo qui sul tavolo una mappa delle primarie a rischio, paese per paese, seggio per seggio. La zona rossa comprende Secondigliano, Giuliano, Ercolano, Torre del Greco, Barra, Pianura, San Carlo all’Arena, San Pietro a Patierno… E poiché non c’è festival senza contro festival sono già stati stampati migliaia di moduli per i ricorsi. Tutto è già scritto, anche la redenzione.
Certo, Renzi ci aveva provato, ma troppo poco e troppo male. Prima con Pina Picierno, che era il pittoresco di laboratorio, il folclore senza radici, lo stile sciuè sciuè in versione easy, ed è infatti crollata per eccesso di gaffe veraci: «la lista della spesa per 2 settimane» con i famosi 80 euro, le accuse alla Camusso di «tessere false e piazze riempite con i pullman pagati», la politica dei due forni che divenne «la politica del dolce forno». Dunque la Picierno, che pure aveva organizzato “la Fonderia” chiamandola “la Leopolda del Sud”, non è stata candidata. Poi i renziani ci hanno provato con lo scienziato Luigi Nicolais, presidente del Cnr, amico di Napolitano, anche lui senza terra: «lei, caro professore non ha le giunture forti e il petto largo dell’uomo di mano». E infatti qualche anno fa aveva perso il confronto per la Provincia con il famoso Giggino ‘a purpetta. Poteva competere con Cozzolino e De Luca?
E non ce l’ha fatta, neppure nel ruolo di comparsa, Guglielmo Vaccaro, un economista legato a Enrico Letta che, tornato a Napoli da Bruxelles dove si occupava di «programmi di sviluppo», si è subito riconvertito alla tammurriata. Ha scelto come logo il Vesuvio in eruzione e come hashtag #resto ribelle. E ha pure occupato la sede del Pd di Salerno, chiudendosi dentro al grido: «Salerno è fuori dalla civiltà democratica». Infine, quando Migliore ha rinunziato, Vaccaro ha dichiarato: «Alle elezioni voterò Caldoro » che è il governatore di centrodestra.
Ma l’intenso sapore sudamericano a queste primarie lo dà anche quel seggio del Pd che a San Lorenzo Vicaria è previsto nella sede di una associazione di… Fratelli d’Italia. E poi ci sono le foto e i selfie di Cozzolino con i capibastone della destra che i guaglioni di De Luca hanno segnalato al Mattino due minuti prima che i guaglioni di Cozzolino segnalassero alle stesso Mattino le foto e i selfie di De Luca con i capibastone della destra.
Dunque ha ragione il senatore D’Anna: è la destra «la pomata che si sta spalmando » sulle primarie del Pd. D’Anna, che ha portato a Fitto a Roma ben sette pullman di attivisti, non ha perdonato a Berlusconi il tradimento di Nick Cosentino «abbandonato in galera come un cane». Lui invece va in carcere a trovarlo, gli ha portato pure una copia di “Capitano mio capitano” e ai colleghi che in Senato votavano l’Italicum ha gridato: «A forza di fare inchini vi si vede il culo». Ecco, è straziante che un cacicco della destra, per giunta spiantato, decida le sorti del Pd in Campania.
E certo sono state truccate e taroccate altre primarie, da ultimo in Liguria, ma è qui, nella terra dei diavoli, che il moderno e l’arcaico si saldano in una ganga compattissima. È qui che il sogno delle primarie diventa un’epica malandrina, quella del guappo democratico.

il Fatto 27.2.15
Salvini a Roma. Preoccupa ancora l’ordine pubblico

L’incrocio di manifestazioni previsto per domani a Roma metterà alla prova il dispositivo di sicurezza in una città già provata dalle violenze degli hooligans. Il problema è costituito dal comizio del leader della Lega Matteo Salvini contro il premier Matteo Renzi in piazza del Popolo . Si attende qualche migliaia di persone, tra leghisti ed esponenti di CasaPound, centro sociale di destra. Praticamente in contemporanea, dalle 14 in poi, un corteo della sinistra movimentista “Mai con Salvini” partirà da piazza Vittorio per concludersi in una zona vicina al Senato (non lontano da Piazza del Popolo), ma la questura non ha ancora ufficializzato il percorso. Preoccupa anche il presidio che la stessa CasaPound intende tenere in mattinata proprio in piazza Vittorio, dove ha sede. Il rischio è di contatti e infiltrazioni tra i due schieramenti. Non bastasse, uno spezzone di destra chiamato “Movimento sociale via Ottaviano 9”, (di destra e anti leghista) sarà in sit-in in piazza Cola di Rienzo (non lontano da Piazza del Popolo) per i 40 anni dall’uccisione del giovane militante greco Mikis Mantakas.

Corriere 27.2.15
Sabato. La manifestazione leghista
Le paure che sfilano nella capitale
La Lega non vuole più abbattere Roma: ora il suo nemico è l’Europa
di Aldo Cazzullo

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Repubblica 27.2.15
La rabbia dei medici: “Fine vita, subito la legge lo Stato ci lascia soli”
L’Ordine e le associazioni in campo dopo l’intervista a Repubblica sull’“eutanasia silenziosa” al Careggi. “Servono regole nuove”
di Michele Bocci

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Repubblica 27.2.15
Una battaglia di civiltà da vincere
di Umberto Veronesi


LA BELLISSIMA testimonianza di Michele pubblicata coraggiosamente ieri su queste pagine ci ha dato un’immagine concreta di cosa avviene in un reparto dove medici, malati e familiari incontrano quotidianamente la fine della vita, ma soprattutto ci ha dato la misura dell’assurdità della situazione legislativa del nostro Paese, che mostra un vuoto preoccupante su questo tema. È giusto tenere in vita una persona che scivola in una vita artificiale simile a quella di un vegetale, senza udito, vista, gusto, tatto e senza coscienza?
È giusto prolungare di qualche giorno, settimana o mese, un’esistenza che è soltanto una serie di interminabili minuti di dolore a causa di una malattia terminale? A queste domande non c’è risposta di principio, e il peso dell’inevitabile agire — spesso nel corso di un‘emergenza — ricade dunque interamente sulla coscienza etica del medico. Ma quale etica? C’è un’etica cattolica, una materialista, una laica. Allora esiste un solo ago della bussola che può orientarci in questo smarrimento ed è la volontà della persona. Questa volontà può essere espressa innanzitutto attraverso il testamento biologico, che è la dichiarazione scritta anticipata delle cure che si desidera o non si desidera ricevere — in particolare se si sceglie di essere mantenuti artificialmente in vita — da utilizzare in caso di sopravvenuta impossibilità di intendere e di volere. Per intenderci, è il caso Eluana Englaro, che restò in coma vegetativo permanente per quasi vent’anni, finché il padre Beppe riuscì ad ottenere l’interruzione della vita artificiale. Oppure la propria volontà si può esprimere lucidamente e consapevolmente nel caso in cui una malattia senza alcuna speranza renda la vita insopportabile per il dolore fisico e la sofferenza psicologica. Allora parliamo di eutanasia. In entrambe le situazioni, però, la volontà va tutelata da una legge, perché esprime un diritto civile fondamentale: il diritto all’autodeterminazione.
In Italia dopo decine di disegni di legge e un dibattito acceso a seguito appunto della battaglia personale di Beppe Englaro nel 2009, l’iter di una legge sul testamento biologico si è completamente arenato. Certo, nessuna legge è meglio di una cattiva legge (come era l’ultima in discussione in Parlamento), ma il risultato finale è che i cittadini non conoscono per lo più l’esistenza e il significato del testamento biologico, e i medici non hanno alcuna certezza giuridica circa la sua eventuale applicazione. Per l’eutanasia siamo ancora più in alto mare perché il dibattito su una legge non è neppure approdato al Parlamento, malgrado l’appello di molti movimenti di cittadini e addirittura del nostro ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Ma dell’incertezza politica chi fa le spese è la persona sofferente: questo ci insegnano le storie di Michele e di tanti altri. In assenza di regole viene calpestato in Italia il sacrosanto diritto di non soffrire.

La Stampa 27.2.15
Su Internet l’Italia corre come una lumaca
La nostra copertura è al livello dell’Uruguay, soltanto i cellulari si salvano
di Bruno Ruffilli

qui

Corriere 27.2.15
Internet, Usa neutrali e noi fermi alla banda stretta
di Massimo Sideri


In questi giorni Matteo Renzi dovrà affrontare l’eterno dilemma degli ultimi 6 governi: la banda larga (o stretta) in Italia.
L’equazione economica è ormai nota: il prodotto interno lordo passa per la banda larga, ma la banda larga finisce nell’imbuto degli investimenti delle società di telecomunicazione che sono in difficoltà e, dunque, il cerchio si chiude sempre con lo Stato imprenditore. Keynes insegna, anche nel 2015. Dopo l’intervento del premier sulle Popolari questo sarà anche il primo vero banco di prova del governo sulla politica industriale del Paese, eterna assente dal dibattito pubblico, perché dietro il piano per la banda larga, che dovrebbe arrivare al Consiglio dei ministri martedì, si nasconde il litigioso mondo delle telecomunicazioni.
Sulla carta la linea del premier appare scontata: Renzi, come più giovane premier della storia repubblicana e come sostenitore della trasformazione dei follower in voti, ha in Internet — per il quale proprio ieri la Commissione federale per le comunicazioni americana ha sdoganato il principio di neutralità — uno dei suoi naturali campi di gioco. Già nel suo programma del 2012 aveva scritto che il Paese ha bisogno di una rete moderna e pubblica che porti Internet nelle case degli italiani — possibilmente, si commentò, una fibra spenta.
Una rete spenta è un tecnicismo che da sempre, per contrappasso, accende i dibattiti. Una rete spenta, per esempio, è quella di Metroweb a Milano, dove qualunque operatore può collegarsi senza, in sostanza, pagare l’affitto all’ex monopolista Telecom Italia. Tema spinosissimo, come ricorda Romano Prodi, visto che sulla questione «scorporo della rete» aveva perso il suo consulente di fiducia a Palazzo Chigi, Angelo Rovati, poi scomparso.
La posizione di Renzi potrebbe anche essere desunta dalla selezione di Raffaele Tiscar come suo consulente per seguire il dossier insieme al sottosegretario Graziano Delrio e ad Andrea Guerra. Tiscar anni addietro si era scontrato con Telecom proprio per l’ affaire rete. Il contrappeso degli scontri fa comprendere come se per Renzi la direzione sembri naturale, il risultato non sarà scontato: di mezzo c’è più della politica. Con 65 mila dipendenti, Telecom è ancora uno dei grandi bacini occupazionali in Italia e non è un mistero che la rete, unico vero asset della società, sia anche la garanzia dei debiti Telecom e il polmone che produce il 90% della cassa ( free cash flow ). Non a caso Telecom vuole controllare il 51% della ipotetica società con Metroweb.
I tassisti, a Firenze, amano raccontare che l’ex sindaco non si fa vedere spesso nelle strade della sua città perché aveva promesso, senza riuscirci, di chiuderne tutti i buchi. Ora si tratta, da premier, di rattoppare quelli della Rete: il Renzi 2.0 (o «0.2») dipenderà dalla capacità di districarsi da un doppino di rame di cui si discute da dieci anni.

Il Sole 27.2.15
L’Italia ora al 25° posto nella Ue
Solo il 51% delle famiglie ha un abbonamento a banda larga fissa contro il 70% della media europea
di Andrea Biondi


È il punto dal quale si è partiti e si parte che non lascia spazio all’impegno sul fronte della digitalizzazione del Paese.
I dati che hanno accompagnato il lavoro sul Piano Banda ultralarga fotografano nitidamente quanto sia ancora distante un Rinascimento hi-tech per il Paese che invece arranca e guarda dal basso i vicini europei. L’ultima bacchettata è arrivata qualche giorno fa da Bruxelles, con la diffusione di uno studio su tutti i Paesi dell’Ue, messi in fila sulla base di un indicatore sintetico (l’indice Desi - Digital economy and society index). L’Italia è 25esima. Peggio fanno solo Grecia, Bulgaria, Romania. L’indice riprende - e nella maggior parte dei casi aggiorna - indicatori che perlopiù non danno affatto segnali di risveglio.
È vero che in banda larga (2 Mbps di velocità) è stato ormai coperta la totalità delle famiglie italiane. Ma il Paese ha «il livello di copertura più basso dell’Ue» per le connessioni internet veloci a banda ultralarga (quelle superiori a 30 Mbps sono accessibili solo al 21% delle famiglie contro il 62% di media Ue) e sul fronte degli abbonamenti a banda larga fissa (il 51% contro il 70% di media Ue). Sempre sulla banda ultralarga, il 2,2% degli abbonamenti rispetto al totale degli abbonati a banda larga fissa è ben lontano dal 22% di media Ue.
Problema solo di infrastrutture? No verrebbe da dire guardando ad altri dati emersi dall’indagine europea. Poco meno di un terzo degli italiani, infatti, non ha mai navigato su internet, mentre solo il 59% è utente abituale, tra i valori peggiori dell’Ue. E-government e e-commerce poi sono sostanzialmente al palo. Appena il 18% degli italiani usa servizi di e-government (contro il 33% di media Ue) e solo il 5% delle piccole e medie imprese è approdato in rete e vende online rispetto al 15% delle Pmi europee. Inoltre shopping online e home banking sono aumentati, ma la percentuale resta «ancora scarsa» (42% e 35%).
Insomma, il messaggio che sembrano far capire i dati provenienti dalla Commissione Ue è che c’è da lavorare su infrastrutture, ma anche sulla domanda.
Certo, sul fronte delle infrastrutture nulla si può fare senza l’intervento economico degli operatori che dall’ultimo Piano Caio in poi sono stati chiamati sempre di più a uscire allo scoperto. Telecom da ultima ha rivisto al rialzo gli impegni nel suo piano 2015-2017: saranno pari a circa 10 miliardi di euro, di cui circa 5 miliardi dedicati esclusivamente alla componente innovativa (Ngan, Lte). Alla fine del 2017 Telecom Italia raggiungerà il 75% della popolazione con fibra ottica e oltre il 95% della popolazione con la rete mobile 4G. Vodafone ha il suo piano Spring di investimento da 3,6 miliardi (e nei giorni scorsi anche l’ambasciatore del Regno Unito in Italia Christopher Prentice, visitando il quartier generale di Milano ha dato la sua benedizione alla «disponibilità di Vodafone Italia a offrire il proprio contributo per il raggiungimento degli obiettivi dell’agenda digitale». Fastweb ha fatto endorsement per l’architettura Fttc (misto fibra-rame) grazie al vectoring e a soluzioni offerte da Alcatel Lucent in grado di far volare la velocità anche del rame. Un puzzle che può dare sofddisfazione, se ogni tessera va al suo posto.

Il Sole 27.2.15
Nuovo richiamo di Bruxelles: il tempo sta per scadere


Piano Romani, rapporto Caio, primo Piano banda ultralarga, cabine di regia e comitati interministeriali vari, fino all’Agenda digitale. La storia dei tentativi italiani di colmare un clamoroso ritardo sulla digitalizzazione è soprattutto un racconto di grandi obiettivi e di progetti, più o meno lasciati incompiuti, vuoi per l’esiguità di risorse vuoi per qualche veto incrociato. Come non ricordare, ad esempio, che l’eterna questione della rete Telecom (scorporo sì scorporo no) ha ciclicamente diviso la politica e fatto litigare i concorrenti del ricco mercato telefonico. L’impasse generale ha prodotto il gap ormai noto e certificato dalle principali statistiche internazionali. Non è solo un caso, forse, che a pochi giorni dal Consiglio dei ministri che potrebbe far decollare il Piano messo in consultazione pubblica dal governo Renzi, la Commissione europea abbia riservato allo stato della banda larga un significativo passaggio del Rapporto annuale sulle politiche economiche e strutturali dell’Italia nel quadro della strategia Europa 2020. «Le reti a banda larga di nuova generazione, le competenze digitali e l’uso dell’It da parte di aziende, famiglie e Pubblica amministrazione non sono adeguati rispetto ai bisogni della moderna società della conoscenza»: una sentenza durissima. Anche per questo si comprende l’urgenza con la quale un’ampia task force coordinata da Palazzo Chigi sta lavorando agli ultimi dettagli del piano. C’è sul tavolo anche l’opzione di accompagnare alla strategia generale delle norme precise, attraverso un decreto legge, ma al di là del veicolo che si vorrà utilizzare preme davvero che le intenzioni e le slide con gli obiettivi pluriennali diventino azioni. Comprensibile anche la cautela che avvolge le grandi manovre su Metroweb, che di tutto il progetto potrebbe diventare il «pivot». Ma le carte sono tutte sul tavolo, e non da oggi, a disposizione per trovare una buona soluzione di sistema. Senza perdere altro terreno.

l’Espresso
Vaticano, è battaglia per il tesoro
Riesplode VatiLeaks: l'Espresso pubblica i documenti riservatissimi in cui i cardinali si insultano e litigano tra loro per la gestione del potere e di affari milionari. Tutti contro George Pell, il nuovo zar delle finanze chiamato da Bergoglio. Il camerlengo: «Siamo in una fase di "sovietizzazione"». A rischio le riforme di Francesco
di Emiliano Fittipaldi

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La Stampa 27.2.15
Proteste violente ad Atene contro il governo Tsipras
Scontri tra polizia e manifestanti di estrema sinistra: vetrine sfondate, auto in fiamme e molotov

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Repubblica 27.2.15
Banksy nella Striscia racconta l’orrore con nuovi graffiti

«GRANDE abbondanza di spazio per ristrutturare»: è questo il tono, profondamente ironico, usato da Banksy per presentare online la sua ultima impresa: un viaggio a Gaza, dove ha lasciato i suoi murales. Da lì l’anonimo artista inglese è tornato con un documentario che chiede attenzione sulla situazione dei palestinesi a sei mesi dalla fine della guerra. «Che dire dei nostri bambini?» dice una delle frasi in sovraimpressione, mentre un’altra commenta, aspra: «I locali amano così tanto il luogo che non lo lasciano mai». Il video inizia fingendo di proporre una nuova meta turistica: «Fa di questo anno quello in cui scoprirai una nuova destinazione», annuncia. L’artista si filma in prima persona mentre entra a Gaza passando attraverso i tunnel sotterranei che collegano la Striscia all’Egitto. Dopo una serie di immagini che illustrano la situazione di Gaza, il documentario finisce con una frase che Banksy ha scritto su un muro segnato dai fori dei proiettili: «Se ci laviamo le mani del conflitto fra potenti e oppressi, stiamo dalla parte dei potenti: non stiamo rimanendo neutrali».

Repubblica 27.2.15
L’appello
Riconoscere la Palestina, liberare Israele
il testo dell’appello promosso dalla Fondazione Basso e già sottoscritto da Dacia Maraini, Moni Ovadia, Michela Murgia, Loredana Lipperini, Salvatore Senese, Franco Ippolito, Francesca Comencini, Luigi Ferrajoli, Marinella Perroni, Andrea Segre, Sandro Portelli, Roberta de Monticelli e Vladimiro Zagrebelsky

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Per sottoscrizioni, scrivere a: nicolettadentico@fondazionebasso.it

Repubblica 27.2.15
Parlamento italiano
La minoranza attacca
Palestina, oggi la mozione Il Pd sempre diviso si tenta una mediazione
di A. Cuz.


ROMA «Se nella nostra non ci sarà scritto chiaramente “Stato della Palestina” voterò la mozione di Sel». Alle sei di ieri sera, il sentire della minoranza pd — già provato dal braccio di ferro sull’incontro del Nazareno — era un po’ questo. Ma il capogruppo democratico Roberto Speranza ha lavorato a una mediazione insieme al responsabile Esteri del partito Enzo Amendola, e la mozione sul riconoscimento della Palestina che si voterà oggi — dopo una di linea generale sulla politica estera — dovrebbe riuscire a scongiurare ulteriori divisioni.
«È un testo che spinge sulla riapertura del negoziato e sull’idea di due popoli due Stati », spiega chi ci ha lavorato. «Apriamo al riconoscimento anche sulla base di una sollecitazione che è arrivata dal Parlamento europeo il 27 dicembre». La settimana scorsa, prima che la votazione fosse rinviata, 32 deputati del Pd avevano sottoscritto la mozione della socialista Pia Locatelli in polemica con quella considerata troppo morbida del loro partito. Ce n’erano poi una di Sel, una molto dura con Israele del Movimento 5 Stelle, e quelle di visione opposta del centrodestra. Il voto era slittato per la fiducia sul milleproroghe, e nel dibattito era intervenuta anche l’ambasciata di Israele secondo cui il riconoscimento «sarebbe un passo prematuro che non farebbe che allontanare la pace». Ora, Pia Locatelli è diventata la seconda firmataria della mozione Speranza, il che dovrebbe facilitare l’adesione di tutto il Pd e richiamare, forse, anche i voti di Sel. Non sembrano invece intenzionati ad appoggiare il documento gli alleati dell’Ncd, in questo senso più vicini a Forza Italia che con Daniele Capezzone dice: «I negoziati non sono in una fase positiva e le organizzazioni terroristiche hanno tuttora un peso in Palestina. Non si capisce perché il governo dovrebbe compiere atti diretti o indiretti anche simbolici che accelerino il riconoscimento». ( a. cuz.)

il manifesto 27.2.15
Una colata di cemento attende la Cisgiordania e Gerusalemme Est
Israele conta di costruire decine di migliaia di case per coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est
di Michele Giorgio

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Repubblica 27.2.15
L'atto d'accusa dell'agenzia Onu per i rifugiati: muoiono i bambini
Gaza, il mondo non ha mantenuto le sue promesse sulla sua ricostruzione e chi ne soffre di più sono i bambini
di Chriss Guinness

portavoce dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente UNRWA
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Repubblica 27.2.15
Gaza
Tra i bambini senza casa “Ora li uccide anche il freddo”
A sei mesi dal cessate il fuoco la ricostruzione non è ancora ripartita, fermata dai timori di un nuovo conflitto
di Fabio Scuto


GAZA OMAR se ne torna dalla scuola dell’Unrwa di Shejaia con uno zainetto stinto sulle spalle, come tutti i ragazzini del mondo alla fine delle lezioni. Cammina con la testa bassa, deve traversare mezzo di questo quartiere fatto adesso di collinette alte otto-dieci metri, sono le macerie delle case distrutte nella guerra di questa estate. I ragazzini di questa zona, li riconosci subito. Portano le scarpe senza calzini, anche se la temperatura sfiora appena i sei gradi. Dalle rovine di casa sono state strappate coperte e poco altro. Calze niente, perché non sono una priorità. La notte la temperatura è gelida, i neonati sono quelli che spesso pagano il prezzo più alto. Si moltiplicano i casi di polmonite, ma anche di congelamento. «È diventato blu», dice con dura semplicità Munir Khassi, il nonno di un bimbo di 5 mesi morto nel sonno nel gelo notturno della sua casa sventrata a Khan Younis.
Dieci anni e già veterano di quattro guerre, Omar non ha più nemmeno un libro, un gioco. La sua famiglia — i Fodil — vive dalla scorsa estate fra le rovine della loro casa. La madre cucina con un fuoco fatto di legni sul pavimento di quello che era il soggiorno. La sera a Shejaia si sente l’odore di legna bruciata. I fuochi che si intravedono fra le macerie sono l’unica fonte di luce e di calore in questo quartiere un tempo di 60.000 persone. Nella guerra sono state distrutte 96.000 case. Dei 130 mila sfollati in pochi hanno trovato ospitalità nei container o nelle tende, in ventimila vivono ancora nelle scuole dell’Unrwa adibite a rifugio ma la maggior parte sopravvive fra le macerie della sua casa. La ricostruzione sei mesi dopo il cessate il fuoco è appena accennata, e a questo ritmo ci vorranno 100 anni — ha stimato Oxfam — per ricostruire ciò che è stato distrutto dalle bombe in 50 giorni di guerra, mentre i miliziani di Hamas erano occupati a lanciare 4.500 razzi verso Israele. Una scia di sangue di 2.200 palestinesi morti, 10.000 feriti, 72 israeliani uccisi, 1.500 i feriti.
L’Unrwa, l’Agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi, ha finito i suoi fondi interrompendo il suo programma di assistenza in dena- ro per sostenere dove possibile i lavori di riparazione nelle abitazioni o per l’affitto di locali o magazzini per ospitare gli sfollati. Gli impegni miliardari assunti al vertice internazionale del Cairo non sono stati rispettati e gli islamisti di Hamas, che controllano questo fazzoletto di terra, si rifiutano di allentare la presa. Anzi si preparano di nuovo alla guerra. Sparano missili in mare per testare la gittata, addestrano i ragazzi delle scuole superiori alle armi per formare anche un esercito di minorenni.
«Le modeste speranze di un futuro migliore sono state spazzate via da questa ultima guerra e dalla paralisi politica», dice Robert Turner capo delle operazioni dell’Unrwa a Gaza, «i palestinesi sono intrappolati nella Striscia senza nessuna speranza di cambiamento. Migliaia di famiglie sono in attesa di aiuti, ma noi — l’Unrwa — non abbiamo più soldi. Se non siamo più in grado di riavviare l’erogazione dei sussi- di, la gente compresa quella che ha lasciato le nostre scuole e trovato soluzioni alternative, sarà costretta a tornare».
Una delle ragioni per la mancata erogazione di fondi da parte dei Paesi donatori, e di Israele di far passare materiali da ricostruzione, è che il cemento potrebbe essere usato da Hamas per i bunker sottoterra dove vivono i suoi leader e per i tunnel, l’acciaio per costruire missili. I leader islamisti sono stati abili dopo la guerra ad annunciare di voler cedere molte responsabilità di governo a Gaza, ma certo non il potere. I loro uomini esercitano ancora il controllo sui tre “valichi” con Israele e l’Egitto. La polizia islamica controlla le città e i miliziani del braccio armato Ezzedin al Qassam sono pronti a uscire dai loro rifugi sottoterra. Anche i giornalisti che entrano a Gaza, sempre di meno per le minacce di rapimento che vengono dai gruppi filo-salafiti, ricevono il benestare all’ingresso da Hamas. Gli islamisti che considerano Hamas troppo moderato guadagnano consensi, la propaganda filo-Is fa proseliti. Sono stati loro a far saltare in aria il Centro Culturale francese. In un mese sono stati fatti esplodere 4 bancomat e nessuno sa chi possa essere stato. Esplodono anche le automobili nelle notti buie di Gaza, quattro in due settimane. La “voce della strada” dice che si tratta di una escalation delle varie fazioni in lotta. Perché in questa lingua di sabbia straziata dalla guerra ci sono almeno altri due conflitti armati: quello tra Hamas e i salafiti che acclamano il Califfato, e quella tra i fedeli — sempre meno — del presidente Abu Mazen e quelli dell’ex delfino di Arafat Mohammed Dahlan che sta cercando di mettere in piedi Fatah 2.0 per far fuori la vecchia guardia.
La Pesca è praticamente ferma, gli agricoltori hanno avuto campi devastati dalle bombe e le fabbriche di Gaza sono state colpite. Come la Pioneer che inscatolava pelati, o la Al-Awda che produceva gelati, patatine e biscotti. Alla Al-Awda — danni per 24 milioni di dollari — il lavoro è parzialmente ripreso ma solo per i biscotti. Potrebbero fare di più se Israele consentisse di far passare dei pezzi di ricambio e nuovi macchinari per sostituire quelli ridotti a rottami. Ma per ora niente. «il gelato dovrà aspettare » dice sconsolato il direttore Manil Hassan.
Gaza è una metafora di tutto ciò che è sbagliato.

La Stampa 27.2.15
Sgarbi, insulti e sgambetti
La guerra Netanyahu-Usa
Martedì sarà a Washington e accusa: date la Bomba agli ayatollah
La replica di Kerry: ci ha spinto a invadere l’Iraq, visto com’è finita?
di Paolo Mastrolilli


Secondo la consigliera per la sicurezza nazionale del presidente Obama, Susan Rice, la visita che il premier israeliano Netanyahu farà a Washington il 3 marzo sarà «distruttiva». Lui risponde che gli Stati Uniti «hanno rinunciato» a impedire che l’Iran costruisca la bomba atomica. Intanto il capo della diplomazia americana, John Kerry, ricorda al Congresso che «durante l’amministrazione Bush, Netanyahu spinse molto per l’intervento in Iraq, e sappiamo come è finito».
Relazioni ai minimi
Le relazioni fra Usa e Israele non sono mai scese così in basso, e stiamo parlando solo delle accuse che si sono scambiati in pubblico. Il motivo di lungo termine del contrasto è l’Iran, ma nell’immediato ci sono le elezioni del 17 marzo nello Stato ebraico, e la speranza neppure velata dell’amministrazione Usa che il premier ne esca sconfitto.
I rapporti fra Barack e Bibi non sono mai stati facili, per ragioni caratteriali e ideologiche. Obama non ha creduto alla sincerità di Netanyahu nei tentativi di trovare un’intesa con i palestinesi, e il fallimento della mediazione cercata da Kerry è stato visto come la conferma di questo pregiudizio. Netanyahu probabilmente pensa che Obama nel migliore dei casi non ha una strategia per il Medio Oriente, e nel peggiore ne ha una che mette a rischio la sopravvivenza di Israele.
Così, dopo le incomprensioni sulla Primavera araba, il flirt con i Fratelli Musulmani in Egitto, il ritiro frettoloso dall’Iraq, il mancato intervento contro Assad e il gelo con l’Arabia Saudita, si è arrivati allo scontro quasi aperto sul programma nucleare iraniano. Obama ritiene che potrebbe rappresentare la sua eredità storica in Medio Oriente, chiudendo un conflitto durato quasi quarant’anni, e aprendo la porta a un nuovo equilibrio nella regione capace di soffocare anche il terrorismo. Netanyahu pensa invece che il capo della Casa Bianca stia concedendo l’atomica agli ayatollah, mettendo a rischio la sopravvivenza di Israele. In mezzo ai due si è inserito il Congresso a maggioranza repubblicana, che per fare uno sgarbo al presidente ha invitato il premier a parlare in aula, senza informarlo.
Colpo basso sul Mossad
La lotta ormai è senza esclusioni di colpi, al punto che qualcuno sospetta che gli «Spy cables» resi pubblici dalla televisione Al Jazeera siano arrivati proprio dall’amministrazione Usa. Imbarazzano Bibi, mostrando che il Mossad non condivide appieno le sue analisi e i suoi allarmi sul livello di preparazione degli iraniani nella realizzazione della bomba. E la persona che ha gestito il negoziato per conto del dipartimento all’Energia è un ex agente della Cia, che sa al millimetro quali garanzie servono da Teheran per avere la certezza che non possa costruire armi.
La disputa ora riguarda piuttosto la «sunset clause», ossia l’idea che i vincoli imposti all’Iran dall’accordo scadano dopo 10 o 15 anni, consentendo a quel punto agli ayatollah di riprendere in pieno l’attività atomica a scopi civili. Secondo Israele, questo significa solo ritardare la costruzione della bomba, mentre gli Usa puntano sul fatto che fra dieci anni il 76enne Khamenei probabilmente non ci sarà più, e si potrà discutere su nuove basi con una leadership illuminata.
Nel frattempo, però, la disputa ha un orizzonte immediato nelle elezioni. L’organizzazione V-2015 che lavora per la sconfitta di Netanyahu è guidata da cinque americani fra cui Jeremy Bird, ex direttore nazionale della campagna presidenziale di Obama. Bibi invece ha giocato la carta del Congresso, e sente che sta guadagnando punti in casa, proprio per la reazione di Barack. Se vincerà, poi potrà smettere di trattare con Obama e aspettare la prossima amministrazione.

La Stampa 27.2.15
Usa e Israele, mai così lontani
di Maurizio Molinari


Il tentativo di Barack Obama di impedire il discorso di Benjamin Netanyahu in programma martedì davanti al Congresso di Washington segna il punto più basso nelle relazioni fra Stati Uniti e Israele perché evidenzia qualcosa di più profondo dei disaccordi politici fra i due alleati: una divergente visione strategica dei rapporti con l’Iran e dunque sul futuro assetto dell’intero Medio Oriente.
A dispetto di un rapporto di alleanza granitico, i rapporti fra Stati Uniti e Israele sono stati segnati da momenti difficili. Quando il 14 maggio 1948 il presidente americano Harry Truman decide di riconoscere l’appena nato Stato di Israele deve imporsi in un epico scontro sul proprio Segretario di Stato George Marshall che, coadiuvato da gran parte dell’establishment di Washington, teme che gli arabi di conseguenza finiscano nelle braccia dell’Urss. Otto anni dopo il presidente Dwight Eisenhower ricorre ad un ultimatum sulla fine degli aiuti militari per ottenere da David Ben Gurion il ritiro delle forze dal Canale di Suez. Nel 1973 il Segretario di Stato Henry Kissinger considera «irragionevoli» le richieste israeliane all’Egitto sull’armistizio dal Sinai e ordina, con il consenso del presidente Gerald Ford, di mettere Israele «all’ultimo posto» nella lista dei Paesi che ricevono aiuti. Nel 1981 il presidente Ronald Reagan - ricordato come il più vicino a Israele - vota all’Onu contro il raid di Tzahal che distrugge il reattore atomico di Saddam Hussein, punendo Israele con la sospensione delle forniture di F-16. George W. Bush è a tal punto irritato con Yitzhak Shamir per gli insediamenti in Cisgiordania da mandargli a dire dal fido James Baker: «Il telefono della Casa Bianca è 1-202-456-1414, quando sarete seri sulla pace, chiamateci». E la convivenza fra Obama e Netanyahu - arrivati a guidare i rispettivi Paesi a distanza di pochi mesi - è stata disseminata di sgarbi personali, scintille verbali e disaccordi politici.
Ma adesso il corto circuito fra i due leader va oltre tali precedenti. Come riassume Aaron David Miller, ex negoziatore sul Medio Oriente degli ultimi tre presidenti Usa, «non vi è mai stato un peggior rapporto fra i leader di Israele e Stati Uniti». Il motivo è la sovrapposizione fra il duello politico personale e lo scontro fra opposte visioni strategiche. Il duello è velenoso perché entrambi i leader invadono il campo dell’altro. Obama vuole far perdere a Netanyahu le elezioni del 17 marzo, ha inviato il proprio «Data Manager» Jeremy Bird a Tel Aviv per affiancare la campagna del centrosinistra ed è convinto che il «fattore-America» potrà spingere molti elettori ad abbandonare il Likud mentre il premier israeliano, accettando l’invito dei repubblicani di John Boehner a parlare al Congresso, ha scelto di preferire Capitol Hill alla Casa Bianca come interlocutore. Mettendo il dito nella ferita di Obama, un Presidente «anatra zoppa» in evidente difficoltà a governare con un Congresso di colore opposto.
Sono incursioni politiche in territorio altrui che vengono da lontano. Obama, cresciuto politicamente fra gli ebrei liberal di Chicago ostili al Likud, è convinto di conoscere gli israeliani meglio di Netanyahu perché i sondaggi gli dicono che, negli Stati Uniti, la maggioranza degli ebrei continua a sostenere il partito democratico ed anche la sua opposizione agli insediamenti in Cisgiordania. Netanyahu, a proprio agio dentro la Beltway come nessun altro leader non-americano, è convinto di poter prevalere a Washington a dispetto di Obama perché nel partito repubblicano - che ha vinto a valanga le elezioni di Midterm e controlla entrambi i rami del Congresso - il sostegno a Israele ha raggiunto un livello senza precedenti: 83 per cento.
La conseguenza è che Obama e Netanyahu duellano in Israele e negli Stati Uniti come se si trattasse di un unico spazio politico. Questo è già un fatto senza precedenti nelle tensioni bilaterali ma a renderlo incandescente è la sfida sulla «legacy» - l’eredità politica - perché si gioca per entrambi sull’Iran, dove il disaccordo è netto. Obama punta ad un’intesa sul nucleare per trasformare l’Iran nel perno di una nuova stabilità in Medio Oriente e dunque è disposto anche a compromessi come l’attuale proposta di congelare per dieci anni la capacità iraniana di arricchimento dell’uranio - ovvero il possesso di 19 mila centrifughe - mentre Netanyahu ritiene che si tratti di una violazione lampante di 6 risoluzioni Onu che prevedono l’obbligo per Teheran di smantellare il programma nucleare. Con il risultato di trasformare l’Iran in una potenza nucleare innescando una «bomba ad orologeria» capace di minacciare l’esistenza di Israele. La «legacy» che Obama persegue è la pacificazione con lo Stato più ostile agli Usa in Medio Oriente mentre quella a cui Netanyahu tiene è evitare un’altra Shoah: l’incompatibilità è nella sostanza.
Ma c’è dell’altro. I governi di Stati Uniti e Israele, sebbene legati dall’appartenenza alla comunità delle democrazie, sentono in questa fase di avere meno bisogno l’uno dell’altro. Per l’amministrazione Obama il Medio Oriente non è stata una priorità e il boom energetico nazionale rafforza la tendenza al distacco mentre per il Netanyahu il boom dell’hi-tech ha aperto gli orizzonti di un interscambio commerciale con l’Asia che, nel 2014, ha superato quello con gli Usa. Senza contare che Tim Cook, ceo di Apple, nel bel mezzo della crisi Obama-Netanyahu è entrato nell’ufficio privato del presidente Reuven Rivlin salutandolo così: «Non siete solo il più importante alleato dell’America ma anche uno dei nostri migliori partner». Come dire, la Silicon Valley guarda agli start up di Gerusalemme a prescindere da ciò che avviene a Washington.

La Stampa 27.2.15
Nuovo orrore in Messico
Dopo gli alunni, i docenti
di Enrico Caporale


Dopo gli studenti, i professori. In Messico è di nuovo angoscia. Questa volta per la scomparsa di 12 docenti, denunciata dai colleghi che con loro avevano partecipato a una marcia di protesta. Sembra la replica della sparizione di 43 studenti lo scorso settembre a Iguala. Questa volta è successo ad Acapulco, al centro delle manifestazioni degli insegnanti per le condizioni delle scuole.
La protesta era stata organizzata martedì dagli insegnanti del Coordinamento dei lavoratori della pubblica istruzione dello Stato di Guerrero per chiedere migliori condizioni di lavoro e giustizia per i 43 studenti mai più ritrovati e probabilmente uccisi dai narcos. La manifestazione è degenerata in violenti scontri con la polizia quando gli insegnanti hanno cercato di dirigersi verso l’aeroporto. Centinaia di persone sono state arrestate, picchiate, un ex professore di 65 anni, Claudio Pena, è rimasto ucciso. E quattro docenti hanno denunciato di essere state stuprate da alcuni agenti.
Il ruolo dei narcos
«Ora non ci sono solo i 43 ragazzi scomparsi nel nulla - ha dichiarato un portavoce degli insegnanti alla radio -. Dodici colleghi sono irreperibili da martedì, non sono a casa e non risultano agli arresti». La stessa fonte ha raccontato che le donne «sono state arrestate, fatte salire dagli agenti su una camionetta e poi violentate per ore. Una di loro - ha aggiunto- è ancora ricoverata in ospedale per le violenze subite».
Gli episodi di sparizioni sono una piaga del Messico devastato dalla guerra fra cartelli di narcotrafficanti e forze di sicurezza. Sono oltre 13mila i casi riconosciuti ufficialmente di persone scomparse, compresi anziani, donne e bambini.

La Stampa 27.2.15
La Storia vittima del fanatismo
Perché il bassorilievo di un toro antropomorfo del primo millennio assiro fa paura al califfato?
di Domenico Quirico


Perché statue della meravigliosa arenaria di Mosul spaventano lo stato islamico, occupano i suoi sgherri come i bombardamenti americani: tanto che li fanno a pezzi, si accaniscono sudando nella polvere, li gettano al suolo sbriciolati come se fossero nemici armati o ribelli? Perché la Storia è il principale avversario dello stato totalitario, di ogni Stato totalitario: come gli uomini, più degli uomini. Per il califfato c’è, infatti, una Storia impura come ci sono uomini impuri: ed è tutto quello che è esistito prima della linea tracciata sul passato, il nostro e il loro.
Le pietre, le statue, i templi parlano. Tutti li possono leggere. Parlano più dei sermoni e dei discorsi: sono lì, esistono per smentire chi vuole semplificare, annullare, maledire: chi esige un passato senza sfumature periodi svolte. Allora bisogna ucciderle, quelle pietre, polverizzarla per affermare che la Storia è stata scritta di nuovo e definitivamente. Altrimenti l’impalcatura della finzione cade, l’avvento islamista diventa arbitrario, incerto, una parentesi che finirà, prima o poi.
Per questo in Iraq, come prima in Afghanistan, e poi per i libri e le tombe di Timbuctu, la storia e l’archeologia sono diventate ostaggi e vittime: come gli uomini, anche loro sono finite nella lista di ciò che contamina la società perfetta. Che è solo quella omologata da questa sterminata ubriacatura di fanatismo che, come la peste, marcia dall’oriente verso occidente.
Hanno scelto male il luogo del loro primo califfato, gli uomini di Daesh: hanno scelto proprio la terra tra i due fiumi dove la Storia è nata, si è composta e scomposta mille volte, ha cancellato imperi e città, invasori e vittime nutrendosi delle pietre dove passavano il vento e la sabbia, ne ha consumato le brevi glorie per trasformarsi e costruire di nuovo. Continuamente. Intarsiata come le opere della partica Hatra, ieri distrutte, di innumerevoli vibrazioni interne. Altre civiltà, altri mondi, altri uomini.
Per secoli, qui, sul ciglio del deserto e delle montagne dove si annidavano i nomadi, gli invasori, affacciata sul verde come sul mare, la civiltà ha ordito il tempo mai omogeneo dell’uomo. Dietro, il deserto; come riserva inesauribile di fame di sete di morte. In mezzo il fiume con le città, la scrittura, i templi di dei sempre diversi, le palme, i canali per l’irrigazione, la vita. E poi il verde dell’altra riva e poi, subito dopo, come un bastione, l’altro deserto, quello degli arabi invasori. Senza questo spazio fisico non si può leggere ciò che nei millenni è stato costruito, ricostruito, copiato. Gli scalpellini assiri rinettavano i blocchi di materia non ancora incompiuti. Sembra di udire il suono argentino di quei colpi minuti levarsi nell’aria come il frullare delle ali di uccelli. I raggi del sole come zagaglie sembrano scheggiare ancora la pietra arrostita dolcemente, cotta e ricotta e poi mielata. Quei raggi sembrano ancora sfiorare, dopo secoli, la materia di quei tori giganteschi che, all’ingresso del Palazzo, scandivano magiche formule di buona fortuna e di benevolenza degli dei.
Erano divinità crudeli, spietatamente immanenti sugli uomini come il dio che, illecitamente arruolato, muove il trapano iconoclasta di questi lanzichenecchi che credono di essere santi.
Ancora, come per le infami esecuzioni degli ostaggi, non siamo noi i destinatari di questi delitti. Sono gli altri musulmani. Sono loro che devono imparare il brusco messaggio: la Storia non esiste più, è iniziata la Storia nuova, assoluta e unica, che è quella dello Stato islamista.
Forse i fanatici possono cacciare e uccidere tutti i cristiani, gli alauiti, gli yazidi, i musulmani tiepidi. Ma la Storia è troppo grande per essere uccisa. Ogni qualvolta, grattando la terra come accade in Siria e in Iraq, spunta un frammento di argilla o di arenaria, grida la irrevocabile complessità del Tempo dell’uomo.

Repubblica 27.2.15
Barbari a Ninive
Uno sfregio più grave dei Buddha di Bamiyan
di Paolo Matthiae


ORMAI si è superato ogni limite. Un agghiacciante video del-l’Is documenta la distruzione sistematica delle sculture assire e partiche di Ninive e di Hatra conservate nel Museo Archeologico di Mosul in Iraq, e dei monumentali tori androcefali dei grandi palazzi reali della cittadella di Ninive, Parco archeologico allestito fin dagli Anni ‘70 del secolo scorso nella periferia orientale della stessa Mosul. Opere di incalcolabile valore storico ed artistico degli anni della massima fioritura dell’impero d’Assiria del VII secolo a. C. e del maggiore centro del mondo partico dell’Iraq settentrionale sono state abbattute e poi polverizzate a colpi di mazza.
La nuovissima barbarie che infierisce spietatamente contro il patrimonio culturale dell’Iraq e dell’intera umanità sta andando al di là di ogni più tetra previsione. Dopo la distruzione di parti delle splendide mura di Ninive dell’età di Sennacherib (704-680 a. C.), sono oggi le eccezionali testimonianze scultoree di una delle massime espressioni artistiche del mondo preclassico che sono oggi definitivamente perdute. Chi pensava che la distruzione dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan fosse un limite insuperabile deve oggi angosciosamente ricredersi: ora è la volta di capolavori dell’arte assira di Sennacherib e di Assurbanipal a essere ridotti in polvere.
Intellettuali iracheni hanno detto giustamente che una simile barbarie non si era mai vista in quella straordinaria terra di civiltà che è la Mesopotamia da quando i Mongoli di Hulagu, conquistando Bagdad capitale dell’impero abbaside nel 1258, come dissero testimoni attoniti, fecero tingere il Tigri di rosso per il sangue di decine di migliaia di abitanti della sventurata città e di nero per l’inchiostro di migliaia di codici distrutti delle biblioteche di una delle più dotte città del Medioevo. La storia tristemente si ripete in ogni senso perché altre notizie riferiscono della distruzione recente di manoscritti antichi di ogni tipo, arabi, siriaci, greci, della Biblioteca di Mosul. Sono eventi spaventosi e irrimediabili che lasciano senza parole. L’Unesco, come in altri casi, si sta prodigando perché il patrimonio culturale di Siria e di Iraq non venga disperso da scavi clandestini forsennati e organizzati per alimentare il voracissimo mercato internazionale di antichità, ma ormai la misura è colma.
Deve essere l’Onu a proclamare solennemente che distruzioni intenzionali di questo genere non sono tollerabili e deve condannare queste azioni orrende come un crimine contro l’umanità, perché è la memoria della civiltà umana universale ad essere umiliata ed annientata.
(L’autore, archeologo del Vicino Oriente antico, ha scoperto Ebla, uno dei più importanti ritrovamenti del secolo scorso)

Repubblica 27.2.15
Quell’odio cieco che vuole cancellare anche la Storia
di Adriano Sofri


ECCO i nuovi cinque minuti di video che i vanitosi farabutti del sedicente Stato Islamico hanno messo in rete: mostrano la fatica meticolosa con cui distruggono a colpi di mazza e rifiniture di martello pneumatico e trapano le sculture custodite in un museo di Mosul. Pezzi sumeri, assiri, babilonesi. I teppisti non hanno uniformi, sono dilettanti radunati per la buona azione comune, in camicioni bianchi o in tute nere, o in borghese maglietta e pantaloni. Si sono divisi il lavoro: alcuni spaccano e sbriciolano, altri riprendono e fotografano. Addestrati a farlo con gli umani inermi, sanno ripeterlo con le statue sacrilegamente umane e altrettanto inermi: non trovano colli cedevoli alle lame, dunque le decapitano, dopo averle atterrate, a colpi di mazza.
Hanno montato accanto, nello stesso video, la vecchia veduta del primo ritrovamento ottocentesco della Porta dedicata al dio Nergal, col filmato della distruzione di una delle due statue colossali raffiguranti un toro alato dalla testa umana, che decoravano il portale cerimoniale di accesso alla città più grande e splendida del suo tempo, 2.800 anni fa, la Ninive assira di Sennacherib e di Assurbanipal.
I musei, come questo di Mosul, e le biblioteche, come quella centrale di Mosul preziosa di 100 mila volumi e ottomila manoscritti antichi, dalla quale gli stessi energumeni hanno tratto i libri con cui celebrare il loro rogo a cielo aperto, sono fatti per ricordare la gloria che passò: i monumenti che uomini costruirono e fecero costruire perché sopravvivessero loro, e la rovina che avrebbe coperto umani e monumenti, fino a che le generazioni a venire le riportassero alla luce. L’Iraq ha dodicimila siti archeologici di rango, il territorio occupato dall’Is ne ha 1.800. Una delle sue prime imprese fu la distruzione della moschea-mausoleo del profeta Giona. L’abbiamo fatto anche noi, qualcuno ammonirà, abbiamo decapitato il re di Francia e le statue dei re di Notre Dame. Ma questi non sono repubblicani, e decapitano ad altezza d’uomo e di donna qualunque. Dopo gli stati canaglia, le canaglie che si fanno Stato.
Questi teppisti del Califfato, fieri di barbe e ciabatte, fingono di vendicare un loro Dio oltraggiato da figure di umani e di animali, ma sono compiaciuti di odiare il passato e di vivere nel presente immutabile del loro profeta. Non vogliono restaurare un’epoca insidiata e profanata dalla modernità: stanno in un loro tempo istantaneo e sospeso che non ha bisogno di durata e lecca la mano della morte. Sono emuli della creazione dal nulla all’altro capo della cosa: l’annientamento di tutto ciò che è stato lentamente costruito e sedimentato. Ammazzano, umani di carne e ossa e umani di pietra, e aspettano, ubriachi di sé, d’essere ammazzati. La storia, grandiosa com’è stata, non era meno crudele, e Sennacherib fece incidere a perpetua memoria: «Gli abitanti di Babilonia, giovani e vecchi, io non li risparmiai, e dei loro cadaveri riempii le strade della città». Teneva alla memoria, lo incideva nella pietra. Anche lui, il grande signore, non calcolò abbastanza il suo tempo, e quando i figli lo uccisero le grandi sculture della porta di Nergal restarono non finite nei dettagli, e le hanno finite ora gli imbestialiti dell’Is. Questi bruciano il tempo, si fanno il selfie appena prima della macelleria di ostaggi, della strage suicida. La domanda è: quanto dureranno ancora? Quanto ancora il resto del mondo, il mondo dei premurosi scavi archeologici, di musei, delle biblioteche, della cura del passato e della nostalgia di futuro, starà a guardare i loro video?

Corriere 27.2.15
L’idolatria e il divieto che viene dal Corano
Ma questi jihadisti mirano alle nostre tv
di Roberto Tottoli


Le immagini delle statue distrutte a Mosul ricordano la furia contro i Buddha di Bamiyan. In quel caso, più di dieci anni fa, furono i talebani in Afghanistan a decapitare statue. Oggi i militanti del califfato ne imitano le gesta e prendono a picconate reperti e oggetti millenari. La proibizione è la stessa delle immagini e ancora più forte: la paura è che riproduzioni tridimensionali di esseri viventi e soprattutto uomini possano indurre all’idolatria. E l’idolatria fu il grande avversario del monoteismo coranico predicato da Maometto. Il Corano, come la tradizione ebraica, descrive il patriarca Abramo distruggere idoli. Quando riconquistò la Mecca, Maometto fece immediatamente abbattere idoli e mai concesse alle tribù che a lui si sottomisero di conservare statue e oggetti che li riproducevano. La tradizione più tarda ha rafforzato e specificato i termini della proibizione. Con le consuete differenti interpretazioni. Per alcuni giuristi o esperti di tradizione islamica statue senza testa sono ammissibili, così come giochi e oggetti per bimbi che riproducono il corpo umano. Oggetti d’arte o antichi reperti raccolgono pareri diversi, ma nei secoli passati, che ce li hanno tramandati fino a oggi, vi è stata tolleranza. Il fermo divieto religioso ha piuttosto riguardato la realizzazione di nuove statue e busti, anche di personaggi eminenti, che l’Islam tradizionale ha sempre visto con sospetto, ancor più di immagini e illustrazioni nei libri. La proibizione di riprodurre esseri animati ha dato così vita a una delle peculiarità più importanti dell’arte islamica: l’aniconismo e la stilizzazione che trovano la massima espressione nei virtuosismi calligrafici.
Se l’Islam medievale ha conservato punti di vista diversi e tolleranza verso reperti antichi, forme di tradizionalismo più radicale hanno invece condannato senza mezzi termini statue e riproduzioni. Il wahhabismo nacque nella penisola araba proprio lanciando violente campagne e promuovendo distruzioni di pietre o altri manufatti in odore di essere utilizzati simbolicamente da uomini. La repulsione per idolatria e costruzioni monumentali li ha spinti ad abbattere anche quel che vi era sulla tomba di Maometto a Medina. Il salafismo contemporaneo ne segue le orme e abbraccia le interpretazioni più restrittive, guardando con sospetto a ogni riproduzione tridimensionale del corpo umano. Ogni statua non può che essere abbattuta e rigettata perché anti-islamica. Gli efferati atti dell’Isis cercano spasmodicamente l’effetto mediatico. Le martellate alle statue di Mosul vogliono scioccare come le esecuzioni e colpire l’immaginario occidentale. Usano però argomenti tradizionali sensibili e sfidano concezioni musulmane diffuse e centrali nella storia islamica. Come i talebani a Bamiyan, l’Isis lancia la sfida al mondo e vuole dire agli altri musulmani che il suo credo è netto e non conosce mediazioni.

il manifesto 27.2.15
Cina, l’apporto teorico di Xi: i quattro complessivi
di Simone Pieranni

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il manifesto 27.2.15
La Cina: «Siamo1 miliardo e 367,8 milioni»
di Simone Pieranni

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La Stampa 27.2.15
Antonio Giolitti, la Resistenza dal buco della serratura
di Mirella Serri


Ritrovato dalla figlia Rosa, esce il Diario partigiano del futuro leader socialista scritto in Francia “con le lagrime agli occhi”, mentre era costretto a letto per un incidente stradale che lo tenne lontano dai mesi cruciali della battaglia

Butta giù di getto queste linee guida del suo successivo operato: «Se lasciamo “agli altri” il compito di fare politica si avrà il fascismo: dato che questi “altri” non domandano di meglio, sono coloro che hanno privilegi da difendere e da moltiplicare e che, grazie a questi stessi privilegi, sono piazzati più vicini alle leve del potere». Quando rientra in Italia non ha più dubbi, non spezza la penna perché continuerà a redigere memorie e saggi, ma decide di entrare in lizza e diventare un politico a tutto campo. Si è convinto che «non bastano le parole ma servono le azioni».

Antonio Giolitti, nato nel 1915 a Roma, dove è morto nel 2010, era nipote dello statista liberale piemontese Giovanni Giolitti. Dopo la giovanile militanza comunista (membro della Costituente e poi deputato), lasciò il Pci nel ’56 in seguito ai fatti d’Ungheria per passare al Psi. Più volte ministro, è stato dal 1977 al 1985 commissario Cee per le Politiche regionali

Il compagno «Petralia» è irruento e generoso. Il «Naviga» è bel tipo ardimentoso e un po’ scapestrato, «Zi’ Peppe» brontola ma è il vero padre del gruppo che in Piemonte sfida i nazifascisti. Sembra di stare in un romanzo di Italo Calvino, ma sono esistiti veramente il muscoloso «Carnera», il «Moretta» uomo-ciclone e il comunista Battistini. Ora li conosciamo e li apprezziamo perché sono entrati a far parte del bel racconto di Antonio Giolitti Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-45), a cura di Rosa Giolitti e Mariuccia Salvati (Donzelli editore, pp. 130, € 18). Di recente la figlia Rosa, frugando tra carte e faldoni, ha trovato tre quadernetti di Giolitti che ne ripercorrono i ricordi di battaglia a partire dall’8 settembre 1943.
È una narrazione epica e favolosa della Resistenza, questa del futuro deputato e ministro. Ma lo scontro con camicie nere e brune viene vissuto come un’avventura «dimezzata», alla maniera del celebre Visconte, per dirla ancora con Calvino.
Nelle Brigate Garibaldi
Il giovane combattente, il 19 settembre 1944, per via di un incidente stradale deve abbandonare l’agone. Grande è lo sconforto e anche il rimpianto per i giorni dello scontro. Infatti ha condiviso solo per un anno con i suoi compagni la vicenda resistenziale. Una parte di questi quaderni - sul modello delle Lettere a Marta. il libro di ricordi e riflessioni dedicati alla nipote, pubblicato da Giolitti nel 1992 - include anche riflessioni di natura politica e esistenziale rivolte all’amatissima moglie Elena D’Amico.
Nato a Roma, il capo dei partigiani piemontesi che diventerà uno dei principali esponenti della politica riformista nel dopoguerra, si sente più sabaudo che capitolino. A Cavour, in provincia di Torino, dove c’è la casa di famiglia, dà vita ai primi nuclei della Brigate Garibaldi. Intellettuale prestato alla politica, collaboratore della casa editrice Einaudi, Giolitti, mentre sta rientrando da una spedizione armata, ha uno scontro frontale con un camion da cui esce vivo ma a pezzi, in senso letterale. Trova ospitalità a Aix-les-Bains, dove è costretto a un soggiorno forzato di molti mesi. Dal suo letto rimpiange i bivacchi all’aria aperta, il piglio scanzonato, l’amicizia e la solidarietà tra i combattenti: «Che nostalgia la bella vita partigiana di un anno fa… tutto mi legava a quella terra, la sola dove avrei lasciato quasi senza rimpianto le mie ossa».
Il bel partigiano
Queste intense annotazioni sono anche il resoconto del percorso culturale del nipote del ministro liberale Giovanni Giolitti, che è diventato comunista cimentandosi con le critiche di Benedetto Croce a Marx. Decisiva nella presa di distanza dal fascismo sarà la frequentazione della casa delle vacanze dei D’Amico a Castiglioncello, in cui si riunisce un raffinato cenacolo di artisti e scrittori e dove incontra la futura moglie. Importante per la maturazione della coscienza anti-mussoliniana è anche il rapporto con l’ebreo e scrittore Paolo Milano, costretto all’esilio, e soprattutto la partecipazione al gruppo dei comunisti romani. Per questo viene arrestato e processato nell’estate del 1941.
Il bel partigiano che sarà uno dei deputati più glamour del Parlamento italiano - così lo descrive anche Guido Morselli nel Comunista - nella stanza della clinica francese in cui si sente separato dal resto del mondo legge Tolstoj e Colette, le opere di Balzac e i saggi di Baudelaire, e elabora le riflessioni che poi saranno il cuore della sua vita politica negli anni successivi. Le infermiere sono «soffici e profumate… piene di premure, cioccolato, sigarette, grog», le cure che riceve sono attente, ma percepisce lo stesso un clima ostile: si accorge che gli italiani, ancorché antifascisti, oltralpe sono malvisti. Sono considerati traditori e doppiogiochisti.
«Non bastano le parole»
Giolitti ragiona così sulle manchevolezze dei connazionali che durante il fascismo si sono abituati al furto, alla truffa e alla corruzione. Annota, per esempio, che quando il regime conoscerà la parola fine bisognerà elaborare iniziative politiche per rinnovare un contesto sociale così inquinato e corrotto. Il militante comunista che nel 1957, dopo l’invasione dell’Ungheria, abbandonerà con gran clamore mediatico il Pci (seguito da Calvino), il ministro del Bilancio negli anni Sessanta e Settanta, il brillante ispiratore della programmazione economica, il commissario Cee a Bruxelles, alla fine di aprile 1945 prova una nuova, prepotente delusione. Ascolta la radio «con le lagrime agli occhi» e, mentre l’Italia chiude la sua partita con Mussolini, i gerarchi e la guerra, si sente uno che deve «assistere ai più entusiasmanti episodi della nostra Liberazione attraverso il buco della serratura».

Corriere 27.2.15
Erasmo per la dignità umana. Sfida a Lutero e Machiavelli
carlo Ossolabparla del suo saggio edito da Vita e Pensiero sull’eredità dell’umanista olandese
di Paolo Di Stefano


È la biografia stessa di Erasmo da Rotterdam, prima ancora della sua visione intellettuale, a farne l’incarnazione dello spirito europeo. Nato in Olanda tra il 1466 e il 1469, studente a Parigi, precettore a Londra, laureatosi dottore a Torino, ospite di Manuzio a Venezia dove perfeziona il suo greco, viaggiatore a Roma e nel Sud Italia, prima di tornare in Inghilterra presso l’amico Thomas More, poi insegnante a Cambridge e ancora in viaggio, questa volta verso Lovanio e infine a Basilea, dove morirà nel 1536. Erasmo non ispira mezze misure: chi lo ama senza riserve e chi lo respinge con nettezza. In Erasmo nel notturno d’Europa (Vita e Pensiero, pp. 136, e 13), Carlo Ossola, che insegna al Collège de France Letterature moderne dell’Europa neolatina, ha seguito le eredità e le ragioni degli opposti sentimenti nati, nei secoli, dalla lettura di un pensatore che si scopre straordinariamente «contemporaneo». Lo fa mettendo a fuoco nodi storici finora poco indagati.
Professor Ossola, lei vede una doppia opposizione: Erasmo contro Machiavelli ed Erasmo contro Lutero. In cosa si distingue il pensiero erasmiano da quello dei suoi contemporanei?
«Il punto di rottura più grave, che deciderà della coscienza europea moderna, è la polemica con Lutero: da una parte il “libero arbitrio” (Erasmo) dall’altra il “servo arbitrio” (Lutero). L’elogio della libertà umana, di un operare nutrito da retta volontà e non soltanto dall’imperscrutabile dono della Grazia divina, è il fulcro di ogni filosofia e visione storica che creda nella dignitas hominis . La distanza da Machiavelli è relativa, soprattutto, alla visione del principe: per Machiavelli necessitato a “tenere” ad ogni costo lo Stato, per Erasmo un “accrescitore” del bene comune (concetto classico che sarà ripreso da Rabelais). Machiavelli, nondimeno, trarrà dagli Adagia di Erasmo la celebre formula del “pigliare la golpe e il lione”: per Machiavelli è necessario “sapere bene usare la bestia”, per Erasmo — come per Cicerone — l’uno e l’altro strumento paiono alieni dalla dignità umana».
La «funzione Erasmo» nella cultura europea ha vissuto parecchi momenti di oblio: a cosa si deve?
«Erasmo è stato poco amato da una parte non piccola del cattolicesimo romano per la sua pungente riprovazione dei costumi mondani della Chiesa e ancor meno gradito alla tradizione riformata per la sua “fedeltà critica” alla confessione cattolica. Erasmo stesso illustra la propria posizione nella diatriba contro Lutero: “Sopporto questa Chiesa, in attesa che divenga migliore, dal momento che anch’essa è costretta a sopportare me, in attesa che io divenga migliore”. Rimane luminosa la chiosa dello storico francese della letteratura Marcel Bataillon, se più abbia giovato “un Lutero che ha modificato la mappa del cattolicesimo settentrionale, introducendovi macule di religione di Stato, o un Erasmo che ha seminato, un po’ dappertutto, nel seno della cattolicità, la sollecitudine di sapere che cosa significa essere cristiani”. I secoli delle certezze esibite (Seicento e Ottocento soprattutto) l’hanno messo da parte, i secoli che hanno avuto bisogno di testimoni di libertà (in specie il XX) hanno trovato in lui un saldo modello».
Pierre de Nolhac ne fece un paladino cosmopolita della pace in un momento in cui l’Europa era dilaniata dalla guerra, un saggio e un credente privo di fanatismo in un mondo governato dalla follia. Anche in questa chiave si può leggere l’attualità di Erasmo?
«Coloro che hanno creduto nella libertà, contro i totalitarismi che li hanno perseguitati (penso soprattutto a Johan Huizinga e, in Italia, a Benedetto Croce e Tommaso Fiore) sono stati attivi paladini di Erasmo. Ed oggi nulla ha più unito l’Europa che gli scambi di percorsi universitari Erasmus: coscienza plurale delle tradizioni, degli studi, l’Europa come patria comune, il sapere della memoria quale patrimonio da raccogliere e far crescere. E anche: gusto dell’ironia, critica e autocritica, illustrata nell’esemplare dialogo di Voltaire, Luciano, Erasmo e Rabelais nei Campi Elisi , ove vengono raggiunti infine da Swift, in un apologo sorridente, contro ogni fanatismo, e pieno di utopia. E infine: elogio della pace, primato della pace, che Erasmo ha tessuto in celebri saggi».
C’è un tratto comune che ci conduce da François Rabelais allo storico olandese Huizinga e allo scrittore Stefan Zweig, per citare alcuni dei grandi difensori dell’eredità di Erasmo?
«È comune a tutti il primato della interiorità e della libertà di coscienza: per Rabelais essa è rappresentata dalla figura dei Sileni di Alcibiade (tratta dagli Adagia di Erasmo): “Dipinti all’esterno con figure allegre e scherzose, quali arpie, satiri, paperi imbrigliati” e all’interno gelosamente depositari di “ingredienti rari, come balsamo, ambra grigia, zibetto, pietre preziose”. Nell’immagine insomma ciò che è veramente essenziale ha dimora all’interno di ciascuno di noi. Nel Novecento, Huizinga ha difeso tale principio non solo nella sua biografia di Erasmo, ma soprattutto nella sua testimonianza, serena e ferma, contro il nazismo, dapprima in Homo ludens , e poi nella sua stessa vita: morirà prigioniero in un campo di “contenimento” nazista. Lo storico Lucien Febvre lo ricorderà commosso nella sua prefazione all’edizione francese dell’ Erasmo di Huizinga. Zweig non solo nel suo Erasmo , ma anche nel suo profilo che oppone Calvino a Sebastiano Castellione, è difensore strenuo della libertà umana contro ogni Incipit Hitler . Morirà tragicamente in Brasile, Zweig, ma non senza aver ricordato per Erasmo e per sé un dovere e un lascito: “Conviene morire libero come ho vissuto! (...) Libero come tutti i solitari, solitario come tutti i liberi”».
Nella postfazione, lei si sofferma sulla sfortuna italiana di Erasmo nel Novecento, che ha il suo fulcro nell’ipoteca «politica» di Delio Cantimori. Una condanna che nasce sotto il segno dell’Einaudi. Come si spiega?
«Cantimori è il celebre autore di Eretici italiani del Cinquecento (1939), saggio sul quale si sono formate generazioni di studiosi del dissenso religioso in Italia lungo il XVI secolo. In questa sua prospettiva, egli scrive, “l’interesse per la personalità di Erasmo e per le sue opere rappresenta solo un episodio della storia culturale e spirituale italiana”. Più critico nei confronti degli interpreti “liberali” di Erasmo (in specie Huizinga), egli non mancherà di ribadire queste posizioni anche dopo la Seconda guerra mondiale. Nella mia Postfazione ripercorro le sue prese di posizione (contro Adorno, contro Braudel, e persino contro la traduzione di Musil) documentate ampiamente nei Verbali einaudiani; avversioni che, dal campo opposto e con pari e acritica adesione, già emergono dal volume, curato da Luisa Mangoni, che raccoglie gli scritti politici di Cantimori (1927-1942), nel periodo del suo attivo consenso al fascismo. L’opposizione a Minima moralia di Adorno è tale che il Consiglio Einaudi decide di affidare, in seconda lettura, il libro — difeso da Renato Solmi e da Massimo Mila — a Norberto Bobbio. I due libri saranno, naturalmente, entrambi pubblicati da Einaudi. Le posizioni politiche di Cantimori sono state molto dibattute e chiarite, con definitive ragioni storiche, dal lucido bilancio critico che Luciano Canfora ha pubblicato sul “Corriere della Sera” circa il carteggio tra Cantimori e Gastone Manacorda. Liberi da ipoteche, si può oggi riprendere un cammino erasmiano per l’Europa nei termini che Lucio Villari propone ripubblicando Lo scempio del mondo di Huizinga. Nel definirlo uno storico del futuro, egli conclude: “Così, mentre in Italia si combatteva, in mesi di angoscia e di disperazione, una guerra di armi e di ideologie, il libro di Huizinga riemergeva come un segno di pace e di civiltà”».

Corriere 27.2.15
La magia di Gauguin a Tahiti, tra indigene e arte antica
a Basilea 50 dipinti e sculture da 13 Paesi
di Sebastiano Grasso


Dipingere a Tahiti, ma guardando alle civiltà europee, africane e asiatiche. Quando nel 1891 Paul Gauguin (1848-1903) raggiunge l’isola della Polinesia, si porta dietro una sorta di museo immaginario: riproduzioni di affreschi tebani, stampe giapponesi, dipinti francesi contemporanei e italiani del Rinascimento. Ma se la sua ispirazione è subito riconoscibile (armonia, proporzioni, ritmi, ieratismo), la composizione finale — talvolta complessa — è totalmente sua.
Il mercato , del 1892, ne è un esempio lampante. Gauguin attinge a un affresco egizio riprodotto su una tomba a Tebe, ma la postura delle cinque donne in primo piano, e delle figure che si muovono sullo sfondo, è quella del Paese dei faraoni. Lo stupore, invece, appartiene alla gente di Tahiti, al loro primitivismo. Viceversa, quando Gauguin torna a Parigi, le immagini di cui si serve in pittura sono tahitiane: vesti, atteggiamenti, vegetazione, arte popolare e modi di vita. Come nel dipinto Dolce fantasticare , del 1894.
Entrambe le opere fanno parte della mostra che la Fondazione Beyeler di Riehen (Basilea, sino al 28 giugno) dedica al maestro francese: 50 fra dipinti e sculture (1888-1903), provenienti da tredici Paesi. Tahiti, ma anche la Bretagna. In entrambi i luoghi, Gauguin ricerca una vita primitiva: «Mi sono fatto crescere i capelli e vado in giro come un selvaggio, senza far niente — scriverà, nel settembre del 1890, da Le Pouldu, all’amico e discepolo Émile Bernard. Ho fabbricato alcune frecce e mi esercito a scagliarle sulla sabbia».
Prec edenti esperienze? Allievo-ufficiale in Marina, agente di Borsa, impiegato delle Ferrovie e persino agente segreto al servizio dell’ex ministro monarchico spagnolo Manuel Ruiz Zorrilla. Poi Gauguin decide di darsi alla tavolozza. Autodidatta. Della Bretagna ama arte e leggende popolari: le sculture lignee delle chiese (che gli ispirano Il Cristo giallo e Il Cristo verde , entrambi del 1889); i Calvari di pietra sparsi per i villaggi; gli enormi campi simili a scacchiere. Gli piace anche stuzzicare l’ingenuità degli abitanti: li terrorizza, coprendosi con un lenzuolo bianco e scorrazzando sulla riva, come un fantasma, fra le donne che vanno a lavare i panni.
Attorno all’artista si raccoglie un gruppo di giovani pittori, i quali, come lui, amano la vita semplice e guardano alla pittura rinascimentale. Addirittura, a Le Pouldu, Gauguin decora la sua stanza con la riproduzione dell’ Annunciata del Beato Angelico e della Nascita di Venere del Botticelli.
I soggetti di questo periodo? Paesaggi, mietitori, raccoglitori di alghe, lavandaie, nature morte, nudi. E tracciate a memoria, semplificate con pennellate piatte, colori dominanti. Una sorta di anticipazione della pittura di espressionisti tedeschi, cubisti, nabis e fauves.
Una volta deciso a trasferirsi a Tahiti, scrive ad Odilon Redon: «Spero di finire lì i miei giorni. Ritengo che la mia arte, che voi amate, non sia che un seme e spero laggiù di coltivarlo per me stesso alla stato primitivo selvaggio».
A Tahiti arriva nel giugno del 1891: «Mi sembra che il tumulto della vita europea non esista più e che sarà sempre così (…). Qui gli uomini hanno inventato una parola, “No atou”. Significa: “Me ne infischio”, frase che qui è di una perfetta naturalezza e tranquillità. La uso parecchio». Gauguin ferma sulla tavolozza indigeni e animali ( Gioco ), tahitiane immobili su fondi sontuosi ( Giochi deliziosi , 1894), l’ Autoritratto con tavolozza .
Nel nuovo «paradiso», Gauguin subisce il fascino delle antiche divinità ( Lo spirito dei morti vigila , 1892), e si adegua ai costumi locali. Sposa anche una ragazzina. Racconta in Noa Noa : «Mi aggiro sulla costa orientale poco frequentata dagli europei. A Faaone un indigeno mi interpella: “Ehi, uomo che fa uomini (sa che sono pittore), vieni a mangiare con noi”. Entro in una casa con uomini, donne e bambini, seduti per terra. “Dove vai?” mi chiede una bella maori sulla quarantina. “A Hitia”. “A fare che?”. Non so che cosa mi sia passato per la testa; le risposi: “A cercare una moglie. Hitia ne ha molte e belle”. “Ne vuoi una?”. “Sì”. “Se vuoi ti darò mia figlia”. “È giovane?”. “Sì”. “È bella?”. “Sì”. “È sana?”. “Sì”. “Vai a prenderla”. Ritornò accompagnata da una ragazza alta. Attraverso l’abito di mussolina rosa molto trasparente, spuntavano i capezzoli sodi. Aveva circa tredici anni, mi affascinava e mi spaventava. E quel contratto così rapidamente concepito e concluso, io, quasi un vecchio, esitavo per pudore a firmarlo».

Corriere 27.2.15
Visti da Pansa: un repertorio delle destre
di Dino Messina


Dichiararsi di destra all’indomani della Seconda guerra mondiale era un po’ come ammettere di essere fascista. È anche questo uno dei motivi per cui in Italia un grande partito dichiaratamente conservatore non è mai nato, almeno fino alla «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, e l’identità di destra ha per mezzo secolo costituito un fiume carsico che non è mai davvero venuto allo scoperto. Un mondo ricco di personalità anche straordinarie che ci viene restituito nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, La destra siamo noi. Una controstoria italiana da Scelba a Salvini , da poco edito da Rizzoli (pp. 411, e 19,90).
L’uso della prima persona plurale nel titolo la dice lunga sulla scelta di Pansa di raccontare un mondo più ampio di quello che si immagini, in cui uno scrittore di genio come Giovannino Guareschi, il deportato che seppe dire di no ai nazisti, che inventò gli slogan più feroci contro il Fronte democratico delle sinistre (ribattezzato Frode), può stare al fianco dell’avvocato galantuomo Giorgio Ambrosoli, di simpatie monarchiche come l’autore di Mondo Piccolo , ucciso dai sicari di Michele Sindona perché aveva scelto di fare fino in fondo il proprio dovere. E dire a suo modo dei «no».
Un libro complesso questo La destra siamo noi , che in 41 capitoli, quarantuno e più vicende umane, racconta come eravamo e come siamo diventati. La destra politica, quella che combatte nelle piazze e in Parlamento si può riassumere nella parabola del siciliano Mario Scelba, democristiano e antifascista con la schiena dritta ingiustamente ricordato solo per i caroselli dei suoi celerini, al populista Matteo Salvini, il post-leghista ribattezzato senza simpatia «il bomber» dall’immaginifico autore.
Pansa in questa nuova fatica mostra le sue tre anime, o i suoi tre percorsi professionali: quella del cronista di razza che ha inventato neologismi come «la balena bianca» per descrivere la Dc, e ha conosciuto tutto il pantheon della Prima Repubblica: così da giornalista ci regala ritratti al vetriolo di Amintore Fanfani (e della sua caricatura «fanfascista»), del «barbaro» Eugenio Cefis, il capo dell’Eni e della Montedison che del professore di Arezzo fu forse il più influente estimatore, di Edgardo Sogno, antifascista che lottò tutta la vita contro il comunismo, dell’ideologo eversore Franco Freda e di tutta una serie di personaggi, anche minori, che in una certa stagione ebbero ruoli di primo piano, come «lo squalo» Vittorio Sbardella o l’imprenditore, con una certa propensione a ostentare il saluto romano, Giuseppe Ciarrapico.
Il «secondo Pansa» è lo storico che si rivelò con una straordinaria tesi di laurea, Guerra partigiana tra Genova e il Po (Laterza), e che nel 2003 con Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer) ebbe il coraggio di saltare il fosso ideologico e raccontare i delitti commessi dai partigiani. Non a caso in questo La destra siamo noi l’autore dedica un omaggio a Giorgio Pisanò, il giornalista neofascista che dedicò la sua vita professionale alla storia della «guerra civile» quando questo termine non si poteva usare.
Il «terzo Pansa» è il narratore che introduce nel racconto un personaggio di fantasia per dare un andamento dialogico alle sue pagine. È il Pansa più fantasioso, che ama raccontare di amori proibiti, particolari pruriginosi ma anche di vicende personali, come il suo «no» a Giorgio Fattori e Cesare Romiti quando nel 1987 gli offrirono la vicedirezione del «Corriere della Sera».
Nel pantheon della destra non manca naturalmente Indro Montanelli, che alla fine della carriera, pur non rinnegando il proprio credo, realizzò il capolavoro di farsi applaudire dalla sinistra postcomunista.

Corriere 27.2.15
Russia e Germania, fra matrimoni e divorzi
risponde Sergio Romano


In risposta a un lettore lei ha descritto le relazioni tra la Russia e la Grecia che hanno, oltre ad affinità culturali, anche motivazioni di carattere religioso che hanno origine in tempi lontani. Tra la Germania e la Russia i rapporti sono di contrasto e annoverano un passato di guerre molto sanguinose. La Germania è nata nel 1871, ma anche tra la Prussia e la Russia le relazioni non sono state sempre pacifiche. Oltre alle due guerre mondiali, in cui le due nazioni si sono trovate su fronti opposti, ancora oggi la politica di Angela Merkel a favore dell’Ucraina riveste un carattere di ostilità verso la Russia, che pure non ha più il regime che aveva l’Urss. Potrebbe illustrare questi rapporti difficili che coinvolgono anche gli altri Stati della Ue?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Nel 1938, quando i rapporti dell’Unione Sovietica con la Germania nazista erano pessimi, Stalin dette a un grande regista cinematografico, Sergej Ejzenshtein, l’incarico di rievocare in un film la figura del principe Aleksandr Nevskij, l’eroe russo che aveva sconfitto i cavalieri teutonici nella memorabile battaglia del Lago ghiacciato nel 1242. Il film avrebbe dimostrato ai cittadini sovietici che la Germania era un nemico secolare del popolo russo, che il partito nazista era il naturale successore dell’Ordine teutonico. Il film fu accolto trionfalmente e suscitò una ondata di patriottismo slavo. Un anno dopo, a Mosca, Molotov e Ribbentrop, ministri degli Esteri dell’Unione Sovietica e del Terzo Reich, firmarono alla presenza di Stalin un Trattato di non aggressione e un protocollo segreto per la spartizione dell’Europa centro-orientale.
Questo è soltanto un esempio della continua oscillazione fra ostilità e amicizia che ha caratterizzato la storia dei rapporti russo-tedeschi. L’albero genealogico dei Romanov, zar di Russia dagli inizi del XVII secolo, è un lingua sfilata di principesse tedesche, da Sofia Federica Augusta di Anhalt-Zerbst, meglio nota al mondo come la Grande Caterina, a Alessandra di Hesse-Darmstadt, moglie dell’ultimo zar e santa della Chiesa Ortodossa.
Per molti anni, sino alla rivoluzione bolscevica, la Germania fu il luogo a cui la Russia attingeva per modernizzare il suo sistema educativo, i suoi ospedali, le sue accademie scientifiche, il suo apparato burocratico, le sue industrie. Vi furono guerre in cui i due popoli combatterono in campi opposti, ma Prussia e Russia furono alleate nella fase decisiva delle guerre napoleoniche. Dopo essersi affrontate dal 1914 al 1918, Germania e Russia uscirono entrambe sconfitte dalla guerra e nel 1922 approfittarono della conferenza di Genova per firmare a Rapallo, con grande dispetto degli Alleati occidentali, un trattato di cooperazione economica. Negli anni Venti le autorità militari tedesche e sovietiche stipularono un accordo segreto che avrebbe permesso alla Germania di eludere le restrizioni imposte dal Trattato di Versailles. Più tardi, quando Stalin lanciò il primo piano quinquennale, il contributo dell’industria tedesca alla modernizzazione dell’Unione Sovietica fu decisivo.
Non dimentico la Seconda guerra mondiale, caro Fadda, ma le ricordo che non passò molto tempo, dopo la fine del conflitto, prima che la Germania divenisse nuovamente il maggiore partner economico dell’Unione Sovietica. Quanto alla politica di Angela Merkel verso la Russia di Putin, non credo che si possa parlare di ostilità. Credo piuttosto che la cancelliera tedesca stia facendo del suo meglio per evitare una irreparabile rottura dei rapporti delle democrazie occidentali con Mosca.

Repubblica 27.2.15
Dove emigrano le luci rosse
di Guido Ceronetti


APPICCICOSA come il sesso, la metafora “a luci rosse”. Storicamente usavano come insegne di bordelli, la lanterna rossa sul portone indicava le tane del vizio. A Parigi certamente; a Roma non saprei, ne dubito; chi si sarebbe aspettato di vederne comparire nel più asettico dei quartieri di Roma, la fascistissima EUR? Il Messaggero dell’undici febbraio scorso ha pubblicato la mappa delle vie eurine riservate alla prostituzione femminile, una zona molto estesa che la Giunta Marino, tra calorosi consensi, voleva trasformare in un Eros Center davvero degno di una destinazione olimpica. La zona lucirosseggiante comprende ben diciotto strade, dove ti domandi: ma dov’è questo vizio, le lanterne rosse, le vie buie e strette, le basse vie Volta ferraresi, i velluti di Corso Magenta? I viali dell’EUR sono enormi spazi asfaltati, chilometri sterminati, piste da Formula Uno; luoghi penitenziali, viziosi evitateli. Grazie all’EUR e alla faccia incantevole di Monica Vitti, Antonioni di una trama noiosa fece un capolavoro, L’Eclisse , ne scoprì l’essenza di fantasma, l’irrealtà demente di inumazione urbanizzata affrettata, molto simile alle sue storie d’amore di spegnimento.
Confesso che, proprio per questo, quando abitavo a Roma, quei luoghi di Roma extra moenia , naturalmente di notte, mi attiravano. Non ci conoscevo nessuno, eccetto un amore irrealizzato e defunto, degno della toponomastica. Ai piedi di una chiesa idiota dall’altare incongruo c’era un pezzo di strada intitolata a un fulano che pochi anni prima era stato umbratile sindaco dell’Urbe democristiana: Tupini. Via Tupini all’EUR! Ecco cosa resta dell’anatomia provvisoria di uno del quale mai Puccini avrebbe messo in musica l’esclamazione di Tosca: “E innanzi a lui tremava tutta Roma!”.
Così, tra gli anni 60 e 70, per i deserti silenziosi, le statue esterrefatte della Civiltà Romana, senza temere l’aggressività umana, vagabondavo. Restavo là fino all’autobus di mezzanotte, meditando su Tupini e su Giulio Cesare e a come finalmente tradurre l’imprendibile Sunt lacrymae rerum ( ci riuscii alla fine del secolo) di Virgilio, Eneide I, 462. Era un nobile oziare e mai avrei potuto immaginare i luoghi dell’Eclisse, in cui l’immagine violenta della città tuffata nei gas di scarico, nel nitore geometrico di un suburbio inconcepibile in qualsiasi altro tempo, assumeva una nudità allucinatoria, venisse invasa da gas di scarico supplementari, contrattazioni tra un finestrino e una strada, corpi femminili in offerta multilingue, tacchi filiformi, minigonna, biancheria nereggiante. La Mappa rivela una toponomastica delle più erotiche: oltre a Tupini, ecco Viale dei Primati Sportivi, Via Indonesia, Largo del Ciclismo, Viale dell’Agricoltura, Viale Romolo Murri (chi mai sarà stato? Ho un suo dotto volume tra i miei libri di storia medica), Piazzale Parri (caro collega: Parri si chiamava Ferruccio, tu me lo collochi Francesco), e perfino (attenti a Tsunami) Viale dell’Oceano Pacifico...! Questa immane naumachìa del Piacere, questa gigantesca fiera di slot-machines carnali, hanno cominciato a preoccupare il Sindaco degli espianti e la sua giunta, e dalle Mura Vaticane severe deplorazioni hanno cannoneggiato il Campidoglio, liberando Tupini, Parri, Gandhi, l’Oceano Pacifico e i Primati Sportivi da un traffico indecente, inadatto alle passeggiate solitarie del Portico stoico e del su e giù degli Aristotelici.
Le mie pallide informazioni di mediocre (troppi i migliori di me, rallentato da velleità filosofiche) giornalista, arrivano fino a mercoledì Undici Febbraio; chissà poi il suk del Sesso, infaticabile, inesauribile, trionfante sempre, pensa, al di là del Circo Massimo, a defluire?