Repubblica 28.2.15
Landini apre la piazza ai movimenti
Il leader offre alla “coalizione sociale” l’appuntamento del 28 marzo a Roma: il battesimo dell’alleanza anti-Renzi
“Palazzo Chigi attua il programma di Confindustria”
I dubbi di Camusso: “Ma noi non facciamo politica”
“Il governo mette a rischio la tenuta democratica”
“Nessuno pensi che lo sto facendo per fini personali: non ci starei”
di Roberto Mania
CERVIA Maurizio Landini, leader della Fiom, lancia la “coalizione sociale” e offre al dissenso di sinistra la piazza dei metalmeccanici: il 28 marzo a Roma. Sarà nei fatti l’esordio di quel progetto di rassemblement che il segretario dei metalmeccanici ha disegnato ieri a Cervia all’assemblea dei delegati di fabbrica della Fiom. Un progetto politico («facciamo politica da 114 anni, cioè da quando è nata la Fiom», rivendica), ma non partitico, che punta a mettere insieme l’associazionismo, che va da Libera di Don Ciotti a Emergency di Gino Strada, i movimenti di base sui beni comuni, le associazioni a difesa della Costituzione, la Rete degli studenti, e tutto ciò che si muove nella sinistra che non si riconosce più nel Pd renziano. Un cantiere che si apre, con la Fiom, appunto, nel ruolo di aggregatore con al centro il lavoro, i diritti di chi lavora. Nel quale il sindacato – è del tutto evidente - non fa più solo il sindacato, tanto che da Bologna Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, è costretta a sottolineare: «La Cgil non diventa una coalizione di associazioni o di movimenti perché la nostra funzione sociale, e quindi politica, parte dal rappresentare il lavoro». Landini ha scelto di andare oltre, senza uscire dal sindacato. Gli si incrina la voce e si commuove quando respinge l’accusa di perseguire con questa iniziativa un obiettivo personale: «C’è un solo fatto che potrebbe crearmi qualche problema: se ci fosse un solo iscritto alla Fiom con il dubbio che io faccio quel che sto facendo a fini personali io non ci starei». È il suo “non ci sto”, tra gli applausi dei delegati. È la sua risposta al presidente del Consiglio Matteo Renzi secondo il quale Landini si butterebbe in politica dopo essere stato sconfitto nel sindacato. «Bassezze», dice nel corso del suo intervento. Ed è anche la sua sfida alle politiche del governo guidato da chi, una volta, è «quel fenomeno di Firenze » e, l’altra, «il genio di Firenze ».
Perché è Renzi l’avversario, con le sue politiche che pedissequamente – sostiene Landini – realizza le indicazioni della Bce e il programma della Confindustria. È Renzi che «mette a rischio la tenuta democratica», lui, non eletto direttamente dal popolo, che «cancella» lo Statuto dei lavoratori. «Chi gli ha detto di farlo? Quando?». Una «svolta epocale». «Che – aggiunge Landini – cambia la piramide democratica su cui si regge la nostra Costituzione». Landini la chiama la «centralità dell’esecutivo» che, non a caso, ignora i pareri delle Commissioni parlamentari sul Jobs act. L’atto che assume la fisionomia di uno spartiacque tra le anime della sinistra, dentro e fuori il Partito democratico.
Il leader della Fiom ricorre addirittura ai liberali del Settecento per ricordare che già allora si riconosceva «il diritto di coalizione». Coalizzarsi, intanto, per raccogliere le firme per una legge di iniziativa popolare per un Nuovo Statuto dei lavoratori, come ha proposto la Cgil, e poi arrivare al referendum abrogativo di parti della nuova legge sul lavoro. Perché – secondo Landini – è come se si fosse tornati agli anni Settanta, quando il sindacato era protagonista delle battaglie sociali dentro e fuori le fabbriche, per il diritto alla casa e per i diritti sindacali. Nella coalizione sociale a trazione fiommina c’è chi ripropone – come ha fatto Sergio Cofferati nei giorni scorsi – l’esperienza delle associazioni del mutuo soccorso di mazziniana memoria. Si arriva per questa strada al modello Syriza di Alexis Tsipras, che ha costruito anche su un welfare di sussidiarietà il suo successo, e poi a Podemos di Pablo Iglesias che supera sì le categorie della destra e della sinistra ma poi non esita a richiamarsi alla lotta contro il franchismo. Con entrambi Landini ha ormai un filo diretto.
La Fiom resta ancorata alla versione originale della Costituzione repubblicana, tanto che all’origine del progetto c’è l’appello (“La via maestra”) di Landini e alcuni intellettuali a difesa della Carta che Renzi sta cambiando. Vecchi e nuovi simboli si mescolano nel progetto landiniano: dal 19 ottobre una settimana di mobilitazioni territoriali con quattro ore di sciopero con assemblee; il 28 marzo a Roma; il 21 marzo a Bologna insieme a “Libera”. Poi il 25 aprile, nel settantesimo anniversario della Liberazione, fare della tradizionale manifestazione milanese qualcosa di più di una ricorrenza: «Decidiamo lì una presenza della Fiom, e non solo, per valorizzare la giornata delle nostre radici». Oggi voteranno i delegati. E non ci saranno sorprese.
il manifesto 28.2.15
Landini: «Sì, voglio fare politica»
Ecco la rete oltre il lavoro
di Antonio Sciotto,
qui
il Fatto 28.2.15
Landini: “Il 28 marzo in piazza per la nuova primavera del lavoro e dei diritti”
Una manifestazione nazionale a Roma, il 28 marzo, per lanciare la “nuova primavera del lavoro, della democrazia e dell’unità nei diritti” . E’ quanto ha annunciato all’Assemblea nazionale dei delegati Fiom a Cervia il leader Maurizio Landini, al termine del suo discorso iniziale. Ma non solo. L’evento del 28, ha spiegato, sarà preceduto da un pacchetto di 4 ore di “scioperi per fare assemblee” per contestare le riforme messe in campo dal governo sul terreno del lavoro. “Oggi è a rischio la tenuta democratica del Paese – ha detto Landini dal palco, andando all’attacco diretto del premier Renzi – perché le modifiche sul mercato del lavoro non sono stati ottenute con normali rapporti di forza tra lavoratori e politica ma da un governo che nessuno ha mai eletto. Quando mai i cittadini italiani hanno votato un programma politico per cambiare lo Statuto dei lavoratori?” di Giulia Zaccariello
il Fatto 28.2.15
Landini schiera le truppe “In piazza contro Renzi”
di Salvatore Cannavò
IL 28 MARZO LA PRIMA MOSSA DELLA “COALIZIONE SOCIALE” CHE RACCOGLIE L’OPPOSIZIONE AL GOVERNO: “IL PREMIER RISPONDE AGLI ORDINI DELLA BCE”
Renzi, non abbiamo nulla da perdere”. Maurizio Landini sintetizza così, al termine di due ore di intervento, l’iniziativa della Fiom a Cervia (Ravenna). Senza nascondere la sconfitta subita dal sindacato sul Jobs Act, il segretario della Fiom propone all’assemblea dei delegati della sua organizzazione un piano di battaglia che culminerà il 28 marzo in una grande manifestazione a Roma. Una “primavera dei diritti” che avrà un obiettivo preciso: Renzi e il suo governo. Una iniziativa politica tipica di un sindacato che, come ha ricordato lo stesso Landini, “fa politica da 114 anni”. Una giornata che rappresenterà le prime mosse di quella “coalizione sociale” proposta nei giorni scorsi e ieri rilanciata con molta nettezza. Quasi un' ora del discorso è stato dedicato al premier definito “il fenomeno di Firenze” e “l’uomo nuovo agli ordini della Bce”. “Si sta mettendo in discussione la piramide democratica costruita sulla Costituzione” dice Landini e il programma di Renzi “è quello di Confindustria”. Quanto fatto dal governo è “qualcosa che non era mai avvenuto nel dopoguerra, lo stravolgimento delle relazioni sindacali”. Tra i diritti azzoppati, spiega il segretario della Fiom, c’è quello alla “coalizione”, al mettersi insieme da parte dei lavoratori che invece vengono messi l’uno contro l’altro. Qui sta il “cambio epocale”: “Per la prima volta nella mia vita sindacale tratterò senza avere l’articolo 18” esemplifica Landini.
RENZI, DUNQUE, è il nemico. Il suo governo non fa che applicare “la lettera della Bce del 2011”, la stessa imposta allora a Berlusconi e poi realizzata dai governi Monti e Letta. A questo attacco epocale, dunque, la proposta che fa la Fiom, per spezzare l’isolamento, è la “coalizione sociale”. Un’iniziativa “innanzitutto sindacale”, dice, perché dobbiamo evitare la contrapposizione tra chi lavora, tra i più deboli. Ma anche politica perché “non c’è una rappresentanza politica degli interessi che ci stanno a cuore”. All’accusa di voler fare politica, Landini risponde che “sì, faccio politica” ma “non un partito”. Anzi, nel finale, con un po’ di commozione, aggiunge: “Se anche un solo iscritto pensa che quello che facciamo abbia finalità personali allora non ci sto più”. L’assemblea lo inonda di applausi. Del resto, è loro che è venuto a rassicurare e a convincere della bontà della proposta. Che, probabilmente, delude chi lo vorrebbe subito a capo di un partito della sinistra – e ce ne sono anche in Fiom – ma conforta chi non gradirebbe avventure politiche o giravolte incomprensibili. Che non ci saranno. Ci sarà, invece, un percorso più complesso, poco ortodosso, che ha come obiettivo quello di “ricostruire”, di “rimettere insieme le basi di una rappresentanza”. La coalizione, dunque, sarà una “rete di soggetti diversi” basata sulla Costituzione e sull’idea di un diverso modello sociale e, nelle intenzioni del segretario Fiom, è un modo per allargare il consenso, per non farsi mettere all’angolo, per impostare una battaglia efficace. Cosa diventerà in futuro, si vedrà. Oggi c’è da raccogliere le forze, non farsi imbrigliare da Renzi o dalle logiche dei vari partitini della sinistra. La manifestazione del 28 marzo costituirà un primo test anche se, per quella data, la coalizione “non sarà ancora pronta”. Assieme alla Cgil, però, si lavorerà a una legge popolare per un “nuovo statuto dei lavoratori” ma anche a un referendum abrogativo del Jobs Act. “È rischioso” ammette Landini, “ma lo è anche non fare nulla”. Su questo punto ci sono le maggiori perplessità tra i delegati. Pesa il ricordo della sconfitta subita nel 1985 sulla scala mobile e la paura di perdere ancora o, peggio, di non raggiungere il quorum.
NEL CORSO della relazione, oltre a un omaggio al Papa, “l’unico a sinistra in Italia”, c’è il tempo per una disamina della situazione sindacale. La Fiom è pronta ad accogliere l’appello della Uilm per una piattaforma unitaria per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Alla Fiat, invece, si ricorda che è vero che ci sono le assunzioni di Melfi ma, spiega Landini, quei “mille operai produrranno uno sgravio contributivo per l’azienda di 24 milioni in tre anni”. Nessuna accusa agli altri sindacati, se non la richiesta di “maggior rispetto” per la Fiom ma anche la riproposizione di una sfida: tra poche settimane si voteranno i delegati alla sicurezza “e lì ci conteremo”. Intanto si farà la manifestazione del 28. Ma prima, il 21 marzo, un’iniziativa a Bologna con Libera e poi, il 25 aprile, il 70° anniversario della Liberazione che quest'anno “non deve essere rituale”.
il Fatto 28.2.15
La due giorni di LeG a Firenze: “Minacce per la democrazia”
“LA DEMOCRAZIA minacciata”. Da ieri e fino a stasera l’associazione “Libertà e Giustizia” ne discute nella città di Matteo Renzi tra l’Auditorium di Sant’Apollonia e l’Aula Battilani, quella della rivolta dei Ciompi. Ieri ha aperto la due giorni il presidente onorario Gustavo Zagrebelsky , la cui intervista potete leggere in questa pagina, seguito tra gli altri dagli interventi dell’eurodeputata della Lista Tsipras Barbara Spinelli e dal professor Stefano Rodotà. Oggi, invece, è il turno di Nando dalla Chiesa, della costituzionalista Lorenza Carlassare, del politologo Alberto Vannucci e pure del nostro direttore Marco Travaglio. Tra i relatori dei seminari c’è anche lo storico Paul Ginsborg, che più di un decennio fa animò i girotondi per la democrazia: “L’Italia ha un tallone d’Achille, la ricerca e il desiderio dell’uomo forte - ha detto ieri al dorso fiorentino de la Repubblica - L’Italia ha dato al resto dell’Europa il fascismo come modello. Con Berlusconi la spinta all’autoritarismo ritorna e Renzi segue in questa tradizione”. Anche le riforme costituzionali del premier sono tra le minacce alla democrazia di cui LeG discute fino a stasera a Firenze.
il Fatto 28.2.15
Jobs Act. “Incostituzionale. Il Quirinale non firmi”
Un invito a non firmare i decreti attuativi del Jobs Act è rivolto da una fitta schiera di giuristi e avvocati del lavoro al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il motivo, scrivono tra gli altri Umberto Romagnoli, Alberto Piccinini e Carlo Guglielmi (dell’associazione Giuristi Democratici), riguarda i vari “profili di incostituzionalità tali da indurci a rivolgerLe la preghiera di voler esercitare il potere, a Lei spettante in analogia a quanto previsto dalla Carta per la promulgazione delle leggi, di stimolare il governo ad opportuni ripensamenti”. La questione è se si possa accettare che, a parità di lavoro, di retribuzione, di mansioni, di collocamento, si possano godere diritti diversi. Inoltre, si contestano gli “eccessi di delega” che hanno introdotto nel decreto “previsioni normative non riconducibili ai principi ed ai criteri direttivi enucleati dal Parlamento”. La lettera è stata inviata al presidente Mattarella e in pochi sperano che possa sortire effetti. Ma costituisce una delle forme con cui sarà continuata la lotta contro il Jobs Act.
S. Can.
il Fatto 28.2.15
Gustavo Zagrebelsky. Comandano gli affari
“La politica è finita e la stampa è prona a qualsiasi governo”
“La svolta autoritaria non è il manganello, ma l’esecutivo che ignora il Parlamento perché lo ritiene dannoso”
“L’èra degli esecutivi esecutori. Gli ordini ormai li danno altri”
intervista di Silvia Truzzi
Potremmo cominciare questa conversazione con Gustavo Zagrebelsky così: a che punto stiamo? Non è un particolare che la chiacchierata avvenga su un Frecciarossa, treno ad alta velocità, simbolo della politica futurista dei rottamatori. Non è un particolare che si sia diretti a Firenze, la neocapitale del potere. E, aggiunge il professore, “nemmeno che il vagone più lussuoso si chiami executive. Subito dopo c’è la carrozza business. Esecutivo e affari sono una bella simbiosi”. Su Repubblica qualche giorno fa è apparso uno stralcio dell’intervento di Zagrebelsky che oggi (ieri per chi legge) inaugura la due giorni di Libertà e Giustizia. Il tema è l’esecutivo pigliatutto. “Alcuni colleghi, dopo aver letto l’articolo, mi hanno scritto che mi avrebbero bocciato all’esame di diritto costituzionale. Secondo la visione di Rousseau, il corpo legislativo esprime la sovranità nazionale e l’esecutivo la esegue. L’altra scuola dice che l’esecutivo è il governo, che detta l’indirizzo politico. Quando io dico che siamo in un’epoca esecutiva, intendo che il governo non decide più sui fini. Realizza compiti che gli sono assegnati e a cui non si può sottrarre”.
Quali sono questi compiti?
Si dice che gli Stati hanno perso sovranità, cioè che le grandi scelte sono sottratte ai governi. I governi sono chiamati a risanare i conti. Francia, Italia, Grecia, Portogallo: non possono sgarrare, la minaccia è forte. Tanto che anche Tsipras ha fatto una mezza retromarcia.
La cessione di sovranità è prevista dalla Costituzione: “L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.
La nostra Costituzione è aperta. Ma la limitazione è prevista in vista della pace e della giustizia tra le Nazioni, non per mettersi al servizio della finanza internazionale! L’obiettivo si è rovesciato in cessione di sovranità politica a favore di sovranità finanziaria. Siamo in un momento in cui il potere economico ha sopravanzato il potere politico, ci si è alleato subordinandolo.
Torniamo alla sua bocciatura.
L’obiezione è che sono almeno due secoli che i governi sono titolari di indirizzo politico. E non esecutivi nel senso di Rousseau. E questo sta a dire che i governi dominano i Parlamenti. I governi esecutori non ammettono ostacoli, obiezioni, inciampi. Monti, parlando in una sede europea, aveva detto che i governi devono essere in grado di educare i Parlamenti. Ma nelle democrazie parlamentari dovrebbe essere il contrario.
Ma siamo ancora in un regime parlamentare?
È una fase di trasformazione. C’è stato un rovesciamento dei pesi, la democrazia prevista dalla Costituzione si genera dal basso, si esprime in Parlamento e poi dal Parlamento si trasferisce al governo.
A cosa è funzionale questo rovesciamento?
Siamo partiti osservando che le carrozze executive sono vicine alla business. Mi pare di aver risposto. Poi bisogna guardare il quadro da lontano per cogliere l’insieme. La legge elettorale, con premio di maggioranza e ballottaggio, mira a comprimere la rappresentanza con la conseguenza che la maggioranza avrà un ruolo molto invadente nelle nomine di garanzia. E la funzione legislativa rischia di essere ridotta a plebiscito sulle decisioni dell’esecutivo, con la spada di Damocle dello scioglimento delle Camere. Si vuole andare verso una sola Camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo. I luoghi della partecipazione sono soffocati dall’azione dall’alto. Questo governo dice che ‘ascolta le parti sociali’. Ma avere un’idea di democrazia partecipata significa che all’ascolto segue un confronto.
La svolta autoritaria è il rovesciamento delle basi della decisione pubblica.
Il momento esecutivo che noi stiamo vivendo ha bisogno di omologazione, che tutti siano in sintonia con il potere. Allora la partecipazione si riduce all’ascoltare e non al deliberare insieme.
Lei dice: tutto questo accade in un assoluto silenzio su due punti cruciali, la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione.
Per quel che riguarda l’informazione, è chiaro che la forma mentis della stampa è l’adeguamento. Con tutti i governi. Si parte dall’idea che il solo fatto che il governo ci sia è in sé un plusvalore. Non era così all’epoca di Berlusconi, quando l’informazione si divideva in pro e in contro. Oggi, visto che l’assunto è l’assenza di un’alternativa, di ogni governo bisogna dir bene.
È il contrario di quello che il quarto potere dovrebbe fare: vigilare.
È vero. Anche se c’è qualcuno che non si adegua. Il Fatto svolge una funzione critica per le disfunzioni, le corruzioni, le malversazioni e le ruberie. Ma anche il vostro giornale non propugna sistemi diversi. Il Fatto dà fastidio perché svolge la funzione di vigilanza all’interno del quadro di politica unica, se fosse un giornale ideologico, che propagandasse idee rivoluzionarie, darebbe molto meno fastidio. Questo significa anche che nemmeno il giornale più d’opposizione riesce o può collocarsi in una diversa prospettiva politica. La condizione di politica unica, vincolata agli obblighi superiori, è la fine della politica perché la politica è la discussione sui fini. Se il fine è unico, perché andare a votare?
E la democrazia interna ai partiti?
È decisiva per la qualità della vita pubblica, cioé si riflette sulla qualità degli organi in cui l’azione dei partiti si esplica. Se i partiti sono gestiti autocraticamente, la vita parlamentare sarà dominata dall’autarchia. E il rischio oligarchico diventa massimo con il sistemi elettorali che premiano un partito.
Specie se il segretario del partito di maggioranza è anche il presidente del Consiglio.
Questa è una grave stortura. Da un lato la sua carica di segretario del Pd influisce sul governo, ma vale anche al contrario. È un circolo vizioso in cui il potere del capo – del partito e del governo – si alimenta da due fonti.
A proposito di modi della legislazione: ormai si fa tutto – velocemente e subito – con decreti.
La risposta è ‘siamo costretti a farlo perché sennò c’è l’ostruzionismo’. Ma l’ostruzionismo è un diritto. Il decreto di attuazione sul Jobs Act contiene l’estensione delle nuove norme sui licenziamenti individuali anche ai licenziamenti collettivi, di cui non c’è traccia nella legge delega e nonostante il parere negativo delle commissioni di Camera e Senato.
La Costituzione vuole che le leggi delega abbiano contenuti determinati. Su questo punto la legge delega tace, ma è stato inserito nel decreto. C’è una lunga prassi per cui se le commissioni, pur non essendo il loro parere vincolante, decidono unanimemente in un modo, il governo le segue. Invece il governo se ne è disinteressato. Per come si stanno orientando le istituzioni, il Parlamento non è solo superfluo, è dannoso. Questa è la svolta autoritaria, non i manganelli o l’olio di ricino.
il Fatto 28.2.15
Riforme
Aperta la stagione di caccia al giudice
di Gian Carlo Caselli
Il problema della responsabilità civile dei giudici comporta scelte di vera e propria civiltà, essendo in gioco il rispetto della libertà dei magistrati contro le intimidazioni di questo o quel soggetto che voglia difendersi non tanto “nel” ma “dal” processo. Una volta funzionavano bene, al riguardo, le leggi ad personam. Oggi abbiamo la nuova disciplina della responsabilità, che apre praterie sconfinate alle azioni di disturbo o di rappresaglia di chi non accetta la giurisdizione. Ma in un modo o nell’altro sono sempre – appunto – questioni di civiltà. Che in quanto tali non si possono ridurre in pillole propagandistiche a colpi di slogan e tweet. Tanto più se abbondano frasi fatte o ipocrisia. Tipo: la giustizia sarà meno ingiusta; i cittadini saranno più tutelati; finalmente chi sbaglia paga.
Purtroppo, oggi come oggi la giustizia è già strutturalmente ingiusta. Una decina di anni fa, in epoca “non sospetta”, non ancora influenzata dalle polemiche sulla responsabilità, scrivevamo (Lettera ad un cittadino che non crede nella giustizia, Caselli-Pepino, Laterza 2005) che il nostro sistema penale si caratterizza ormai per la compresenza di due distinti codici. Uno per i “galantuomini”, le persone giudicate “per bene” comunque e a prescindere, in base al censo e alla condizione socio-politica: per loro vige di fatto un sistema pensato per misurare il tempo occorrente a che la prescrizione cancelli i processi, così da favorire la richiesta dei “potenti” di essere sciolti dalle regole. E un altro codice per cittadini “qualunque”, capace pur sempre – anche se con molte differenze – di segnare la vita e i corpi delle persone.
ORA, LA NUOVA disciplina della responsabilità, nel momento in cui elimina ogni filtro dell’azione civile (invece di affinare e perfezionare quelli esistenti), offre ancor più opportunità di intorbidare le acque processuali alle parti economicamente forti, cioè proprio ai “galantuomini” che già godono di una situazione privilegiata. E sono opportunità non da poco, perché si consente l’azione sia per “violazione della legge” sia per “travisamento del fatto e delle prove”, che sono formule incerte (tali anche a fronte ad aggettivi come “macroscopico” o “evidente”, più che altro squilli di tromba che fanno rumore ma non sciolgono i nodi): formule sufficientemente equivoche perché soggetti processuali spregiudicati e senza scrupoli, assistiti da avvocati agguerriti e perciò costosi, scatenino un vero e proprio fuoco di sbarramento contro i giudici per loro “scomodi”. Tutto il contrario, in definitiva, di una giustizia meno ingiusta e di una maggior tutela per i cittadini. A guadagnarci, ancora una volta, saranno solo i “galantuomini”.
Se l’azione civile contro il giudice sarà la regola o comunque potrà essere massicciamente esercitata in maniera temeraria a scopo intimidatorio, non si sbaglia di certo ad ipotizzare che molti magistrati saranno portati a scegliere le iniziative e le opzioni interpretative meno rischiose, vale a dire che diverranno più insicuri e paurosi in generale e nei confronti dei soggetti processuali “forti” in particolare.
Il che significa che privilegeranno una lettura burocratica del proprio ruolo, perché la nuova legge a questo li spinge se vogliono ripararsi dalla tempesta delle cause strumentali ormai senza argini. Col paradosso che si tratta di una direzione tutt’affatto contraria a quella indicata dal capo dello Stato nel suo discorso di martedì alla scuola di formazione dei magistrati, là dove (citando Calamandrei) ha detto che in democrazia il pericolo maggiore per i giudici “è quello dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima”.
E NON È QUESTO l’unico paradosso, se si pensa che i magistrati più incattiviti per la riforma (che avrebbero voluto scioperare subito per protesta) sono quelli che fanno capo alla “corrente” di fatto guidata da un magistrato prestato al governo come... sottosegretario alla Giustizia! Quanto allo slogan “chi sbaglia paga” va bene per uno spot, ma non regge a un’analisi seria. Il punto non è certamente se pagare o meno, ma “come” pagare e per “quali” sbagli. Cioè pagare sì, non ci piove, ma senza compromettere l’indipendenza dei magistrati, come invece inesorabilmente avverrà con la nuova legge. Posto infine che tale indipendenza non è un patrimonio della casta dei giudici (figuriamoci, altro slogan...), ma dei cittadini tutti, perché altrimenti non si potrebbe neppure sperare in una giustizia più giusta, almeno tendenzialmente uguale per tutti
il Fatto 28.2.15
Cittadinanza
Perché mi dimetterò da italiano se verrà stravolta la Costituzione
di Maurizio Viroli
Provo a rispondere alle molte persone che hanno commentato su vari social networks l’articolo Non una riforma ma una revisione: il colpetto di Stato incostituzionale apparso sul Fatto Quotidiano del 20 febbraio. I gentili lettori e lettrici hanno concentrato le loro osservazioni soprattutto sulla conclusione: “Il capo dello Stato, quando riceverà la riforma dovrebbe rifiutarsi di firmarla. La Corte costituzionale dovrebbe abrogarla senza alcuna esitazione. Non si verificherà né l’una né l’altra ipotesi. Resta il referendum per il quale conviene cominciare a organizzarci fin d’ora, anche contro i partiti politici, come del resto abbiamo fatto nel 2006. Se poi la riforma passerà, e avremo un bel Senato di nominati, prenderò in serio esame di rinunciare alla cittadinanza italiana. Non credo che riuscirei a sopportare la vergogna di essere cittadino di una Repubblica che offende così apertamente la sua Costituzione”. Chiarisco subito che non ho elementi certi per affermare che il capo dello Stato firmerà la riforma e che la Corte non la dichiarerà incostituzionale. La mia è soltanto una supposizione. Se il capo dello Stato avesse serie perplessità, le avrebbe manifestate in via riservata a Renzi e quest’ultimo avrebbe agito in tutt’altro modo. Stesso discorso per la Corte costituzionale. LE MAGGIORI critiche vertono tuttavia sulla mia affermazione che rinuncerei alla cittadinanza italiana se venisse approvata la riforma renziana della Costituzione. Non è un motivo serio, hanno rilevato alcuni: gli antifascisti degli Anni 30 non lo hanno fatto, non si vede perché il sottoscritto, che gode di tutte le libertà, dovrebbe accedere a un simile passo. Rispondo che per me la Costituzione è l’anima della Repubblica, ne definisce i principi fondativi, raccoglie l’eredità morale e politica della più alta esperienza di emancipazione politica della storia italiana, indica la via da seguire per vivere in Italia con dignità di cittadini. Una volta devastata, e per me la riforma renziana è una devastazione attuata in aperta violazione delle norme costituzionali, la Repubblica cambierà forma, non sarà più quella alla quale mi sento leale e quindi mi sentirò in diritto di rinunciare a essere cittadino. Ma la motivazione fondamentale del mio gesto sarebbe l’incapacità di sopportare il senso di vergogna e di disgusto per una patria che lascia violare così la propria Costituzione senza un sussulto di dignità civile. Ma insomma, com’è possibile accettare che la Costituzione sia riformata con il sostegno attivo di un delinquente? E come è possibile non vedere i pericoli che si annidano dietro il potere enorme del capo della maggioranza? Anche in passato, noi italiani, abbiamo avuto molti motivi per vergognarci, ma questa volta il metodo seguito e il contenuto della riforma sono il segno di una tale arroganza da autorizzare anche la protesta più radicale, beninteso, sempre entro i limiti della vita civile. Il suo atto, mi hanno scritto, “non servirebbe a nulla”. Servirebbe, rispondo, a non sentirmi sottoposto a una casta arrogante e corrotta. E forse servirebbe come gesto di sdegno, a stimolare una resistenza civile. Riconosco tuttavia che molti lo interpreterebbero come una rinuncia all’impegno, anzi, una fuga di fronte alla sconfitta. Gli antifascisti che tanto ammiro non si sono mai arresi. “Lei può rinunciare alla cittadinanza italiana perché è già cittadino americano e vive all’estero; per la maggior parte di noi rinunciare alla cittadinanza è impossibile”. Verissimo, e se deciderò di non rinunciarvi, nonostante la riforma, sarà soprattutto perché voglio continuare a impegnarmi a fianco dei tanti italiani che non possono o non vogliono andarsene.
La Stampa 28.2.15
Mozione e rimozione
di Massimo Gramellini
Ieri l’Italia ha riconosciuto la Palestina per quasi cinque minuti, il tempo intercorso tra la mozione favorevole del Pd e quella irta di distinguo dei suoi alleati di centro, entrambe approvate dalla maggioranza dei parlamentari con il sostegno entusiasta del governo. Poi uno si chiede come ci vedono all’estero. Così. Nei secoli infedeli. Adulteri esistenziali, incapaci di rispettare un patto e di finire una guerra dalla parte in cui l’hanno incominciata. Il Paese degli inciuci e dei distinguo, delle leggi dove il secondo comma contraddice sistematicamente il primo. Di un primo ministro (Berlusconi, ma Andreotti non fu da meno) che la mattina visitava in lacrime un ospedale di Gaza e al pomeriggio abbracciava calorosamente i deputati di Tel Aviv. In Italia, diceva Flaiano, la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Alla schiena dritta si preferiscono le evoluzioni dei dervisci e alle mosse rigide delle torri quella del cavallo, un passo avanti e due di lato, ma solo per tornare a farne uno indietro.
Gli esperti sapranno sicuramente spiegarci le sfumature di questo ridicolo o forse geniale pateracchio che ha rassicurato gli israeliani e illuso i palestinesi senza deluderli del tutto, lasciando una porta aperta, per quanto spalancata sul vuoto. Tanto vale rassegnarsi. Accettare il talento cialtrone che il mondo intero ci riconosce. Sorriderne, magari. E continuare a esercitarlo con la professionalità che, almeno in questo campo, non ci è mai venuta meno.
Repubblica 28.2.15
L’uovo di Colombo
di Sebastiano Messina
L’ ESPERIMENTO portato a termine con successo ieri a Montecitorio dimostra che, volendo, basta poco a mettere d’accordo tutti. Invece di cercare un compromesso tra due posizioni contrapposte, le si approvano entrambe. Una mozione per dire sì al riconoscimento immediato dello Stato di Palestina, e un’altra per subordinarlo all’accordo tra Al-Fatah e Hamas. Ovvero: noi siamo favorevoli, ma anche no.
Il metodo della coesistenza degli opposti è geniale e può essere applicato alle questioni più spinose. Si potrebbe, per esempio, fare una legge che permetta ai gay di sposarsi, ponendo come unica condizione che i due sposi non siano dello stesso sesso. O concedere la cittadinanza italiana a tutti gli immigrati, ma solo quando se ne saranno tornati nel loro Paese.
È l’uovo di Colombo della politica: è davvero incredibile che nessuno ci abbia pensato prima.
La Stampa 28.2.15
Riconoscimento della Palestina, la Camera decide di non decidere
Sì sia al testo del Pd che a quello dei centristi, quest’ultimo subordina tutto ai negoziati. Israele plaude: «Viene data la priorità all’accordo tra le parti in causa»
di Francesca Paci
qui
il Fatto 28.2.15
Riconoscimento Palestina, Moni Ovadia: “Politici vigliacchi, rimpiango Andreotti”
"C'è da vergognarsi - tuona lo scrittore e drammaturgo ebreo - l'Italia ha fatto la solita figuraccia da Paese da burletta che non sa prendere posizione"
di Giusy Baioni
qui
il Fatto 28.2.15
Palestina: l’ambiguità dell’ignavia
di Giampiero Gramaglia
qui
il Fatto 28.2.15
Medio Oriente, cattiva coscienza della sinistra
di Giampiero Gramaglia
Per la sinistra e per l’Europa, la questione palestinese è un irrisolto ricorrente dilemma. Non solo per loro, intendiamoci: il conflitto tra israeliani e palestinesi attraversa tutto il dopoguerra e resta un capitolo aperto nonostante guerre e accordi, Nobel e attentati, intifade e ritorsioni. Anche l’America, che s’è sempre schierata con Israele, nei momenti della verità, quale che fosse il presidente o l’Amministrazione, discute e spesso si contraddice: regolarmente, il Congresso vota il trasferimento dell’Ambasciata degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e regolarmente da anni, quale ne sia il colore, l’Amministrazione ignora l’invito.
DA UNA PARTE, c’è l’angoscia del presente; dall’altra, il peso della storia. Spesso intollerabili, l’una e l’altro. La soluzione dei due Stati, Israele e la Palestina, che vivano entrambi sicuri dentro i propri confini, in pace l’uno con l’altro, è una formula acquisita da tempo dalla diplomazia internazionale. Ma, da quando è stata sancita, la sua attuazione non è mai stata vicina. Così come non lo sono mai state le ripetute risoluzioni delle Nazioni Unite sul ritorno degli esuli alle proprie case, sul ripristino dei confini, sugli insediamenti, sull’esercizio del diritto di difesa proporzionato all’offesa subita o potenziale. L’ambiguità è un tratto costante della diplomazia mediorientale: all’Onu, c’è chi vota per la Palestina, ma non è poi scontento quanto il veto degli Usa ‘salva’ Israele. E, quando c’è di mezzo Israele, l’Ue si spacca sempre in tre tronconi: chi sì, chi no, chi s’astiene.
Fin quando la questione palestinese era un capitolo del confronto Est-Ovest, comunismo contro capitalismo, poveri contro ricchi, le posizioni apparivano disegnate in modo più netto anche sul terreno della politica nazionale. Ma, dagli Anni Settanta, non è più così: i distinguo si sono infittiti, il peso dell’Olocausto è stato più condiviso. I partiti di sinistra sfumavano le loro posizioni pro-palestinesi, perché non volevano essere anti-israeliani; i partiti di destra, che si rifacevano una verginità, accentuavano l’amicizia verso Israele per allontanare il sospetto di anti-semitismo.
La geografia politica dell’Ue sulla questione palestinese riproduce un po’ gli stessi riflessi. Molti Paesi dell’Unione dal passato comunista, Polonia, Rep. Ceca, Ungheria, Bulgaria, Romania, oltre a Malta e a Cipro, hanno riconosciuto la Palestina.
All’Ovest, l’ha fatto solo la sempre neutrale Svezia, campione della difesa dei diritti umani: un atto annunciato il 3 ottobre dal premier Stefan Lovfen e formalizzato il 30 ottobre, suscitando il plauso del mondo arabo e le prevedibili furiose reazioni israeliane. In autunno, l’accelerazione è stata evidente. In Gran Bretagna
– a larghissima maggioranza: solo 12 contrari, Francia – di stretta misura - Spagna, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, i Parlamenti nazionali hanno invitato i loro governi a riconoscere la Palestina. I governi non l’hanno ancora fatto. Analogo voto, simbolico, venne dal Parlamento europeo il 17 dicembre, con un’amplissima maggioranza: 498 sì, 88 no e 111 astenuti.
DEI GRANDI DELL’UE, mancava l’Italia, che s’è oggi espressa con l’ambiguità dell’ignavia. E manca la Germania. La cancelliera Angela Merkel il 21 novembre è stata netta: “Un riconoscimento unilaterale della Palestina non ci porta avanti sulla strada della soluzione dei due Stati”, che, dagli Anni Novanta, è l’opzione europea, poi condivida da Onu, Usa, Russia, per risolvere la questione palestinese.
La Stampa 28.2.15
G8, “graziato” il medico-torturatore
L’Ordine dei medici di Genova ha salvato Giacomo Toccafondi, che gestiva l’infermeria della caserma di Bolzaneto
di Guido Filippi
qui
il Fatto 28.2.15
Pd la riunione di Matteo al Nazareno finisce in flop
di Wanda Marra
GUERRA DI NUMERI: LA MAGGIORANZA DICE 220, LA MINORANZA PUNTA SU 80 LA DISERZIONE DI BERSANI RIESCE A METÀ: CI SONO SPERANZA, DAMIANO E BOCCIA
E alla fine non rimane più nessuno. La riunione del Pd convocata da Matteo Renzi nella sede del Nazareno per discutere di scuola, Rai, ambiente e fisco si svuota in maniera continua e costante. E il fatto che sia un flop si capisce prima di tutto dalla guerra dei numeri: i renziani contano 220-230 parlamentari presenti (dichiarazione ufficiale di Ettore Rosato), alcuni della minoranza dicono 130, altri arrivano a 80. Comunque pochi, su gruppi parlamentari ch edi persone ne hanno 440. Niente streaming, niente dichiarazioni altisonanti del segretario-premier. Del quarto punto all’ordine del giorno, il fisco, neanche si discute: ufficialmente per mancanza di tempo, in realtà per assenza di gente. E poi, i decreti non andranno neanche al Cdm di martedì. Un altro rinvio.
RIUSCITA la prova di forza della minoranza, con la diserzione annunciata di Bersani? Solo in parte. Perché tra gli assenti ci sono molti della maggioranza. E l’ex segretario non ha dato l’ordine di scuderia di non andare. Anzi, ad alcuni dei suoi ha chiesto di fare un salto, per stemperare il clima. Nella migliore tradizione, la corda si tira, ma il coraggio dello strappo non c’è. Manca Bersani, manca Cuperlo, mancano D’Attorre e Civati e nanche la Bindi. Non ci sono molti parlamentari di seconda e terza fila. I renziani, però, contano quelli che ci sono. Come il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza. “Ma il suo è un ruolo istituzionale”, lo spiegano i compagni di corrente. E i presidenti di Commissione, Francesco Boccia (Bilancio) e Cesare Damiano (Lavoro). “Interessati alla discussione”, dicono loro. Presente anche un gruppetto di parlamentari semplici (dalla Bruno Bossio a Miccoli, passando per Tocci, Manciulli e Mauri). Molti assenti si sentono in dovere di giustificarsi. Diserzione a metà. E per Renzi quelle presenze sono abbastanza per dire che non c’erano solo esponenti della maggioranza. “È ora di discutere davvero, non per spot”, rilancia Bersani. Che ha annunciato battaglia sull’Italicum. Anzi, ieri è stato visto parlare con Brunetta. “Forza Bersani”, ha detto il capogruppo di FI. Dopodiché si è preso le lodi del Mattinale. Una nuova forma di Nazareno? Da vedere. E da vedere se battaglia sarà, visto che finora le minoranze non sono mai andate fino in fondo (dalle riforme costituzionali, al jobs act, tanto per citare due esempi lampanti). Renzi, dal canto suo, pure ieri ha ribadito che sulla legge elettorale e sulla riforma costituzionale la partita è chiusa: i testi non si cambiano nei prossimi passaggi parlamentari. E a chi gli chiede se abbia influito la volontà lasciata trapelare da Renzi di voler cambiare l’equilibrio dei gruppi, a partire dal Presidente dem a Montecitorio, l’ex segretario risponde: “È un insulto pensare che io mi muova secondo logiche di potere”. Dall’altra parte, il segretario-premier il suo potere lo mette tutto sul tavolo. Come al solito. Nella perentorietà con cui mercoledì convoca i gruppi parlamentari, nella sede del partito, e bypassando i capigruppo. In particolare Speranza, reo di aver protestato per i decreti attuativi del jobs act, che non hanno tenuto conto del parere delle Camere. Nella forma della discussione: 5 minuti per uno, stile Leopolda. Nel modo in cui fa arrivare un (mezzo) commissariamento alla corrente di Delrio e Richetti, che si riunisce la sera. Però, quello di ieri non è certo un successo: i più ci vanno solo per farsi vedere. Ma scappano appena possono. Lo sfilacciamento è evidente. Renzi, attraverso i suoi, passa alle minacce: è ora di cominciare a pensare di cambiare i Presidenti di Commissione. Il premier sta pensando di sostituire quelli non allineati, a partire da Boccia e Damiano, appunto. Certo, deve aspettare metà legislatura. La scadenza è a dicembre, visto che sono stati eletti a giugno 2013.
MA LA MINACCIA è già tutto un programma. Un tentativo di indebolimento, quanto meno. Stesso sistema per Speranza: l’ha di fatto commissariato e delegittimato. Ma per ora lo lascia dov’è. “Non ce n’è uno che ci va meglio per ora”, ha detto ai suoi stretti collaboratori. E infatti, Speranza è depotenziato al punto giusto. Sgomita Ettore Rosato, il vice capogruppo. Ma viene reputato non all’altezza dal punto di vista politico e culturale. Altre soluzioni non ci sono. Il Pd naviga a vista. Renzi il 9 convoca un’altra riunione.
il Fatto 28.2.15
Sinistra perduta: ‘La Diaspora’, il nuovo libro di Alessandro Gilioli
di Sciltian Gastaldi
qui
La Stampa 28.2.15
“Ricette Anni 80”. “Tu sei aria fritta”
L’eterno duello dei Blues Brothers Pd
La tregua è durata solo pochi mesi, dalla primarie 2012 alle elezioni 2013
di Mattia Feltri
Dopo qualche mese, Pierluigi Bersani si scocciò: «Non siamo qui a pettinare le bambole». Non si sta facendo la caricatura, lo disse proprio. Era il 30 agosto del 2010 e il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, da un po’ spiegava al mondo da che parte girare, e specialmente lo spiegava al Pd. «Mi pare che ci siamo avvitati su di noi». «Servirebbe più sprint e coraggio». «Bisognerebbe scrivere meno lettere ai giornali e parlare di più con gli italiani». E allora non siamo mica qui a pettinare le bambole, «le critiche sì ma deve venire fuori la lealtà alla ditta». Da quanto ci risulta, era la prima volta che Bersani si rivolgeva direttamente a Renzi. Forse aveva intuito il prologo dell’assalto al palazzo. «C’è stata qualche parola di troppo, ci vorrebbe più rispetto». E come no: «Spero che Bersani non chiacchieri di aria fritta», disse Renzi annunciando l’arrivo in una direzione del Pd. Che poi era soltanto la fase di riscaldamento. «Rinuncio a capire Bersani», «Bersani è troppo prudente», «basta perdere tempo dialogando con Fini». E Bersani era anche un po’ impreparato, può essere gli mancasse il fisico per un match di politic-boxing. Si difendeva con colpi bersanosi, «ma Matteo, le tue ricette sono Anni Ottanta». O peggio, citando Enrico Berlinguer («Non c’è rinnovamento senza cambiamento, ma il rinnovamento non è una sostituzione»), che in dispute di quella natura è come una fionda in una sparatoria.
Era la fase di riscaldamento, si diceva: siccome toccava tornare al voto nel 2013, Renzi aveva chiesto nuove primarie. Non per la segreteria del Pd, ma di coalizione, per la scelta del candidato premier. È facile ricordarle: si erano concluse con la sfida televisiva nella quale Bersani aveva proposto la misteriosa (ancora oggi) parabola del tacchino sul tetto. Gli altri - Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci - facevano da contorno. A contendersi il piatto erano i nostri due, e lì fu chiaro che Renzi non aveva intenzione di accoppare l’avversario. Ci si domandava se dubitasse della sua forza o dell’utilità di esercitarla. Menava ma subito dopo faceva sfoggio di fair play - Bersani ha un’ottima squadra, Bersani è uno per bene, se perdo sarò al servizio. I due si scambiavano sms, auguri di buon compleanno, e anche accuse buonissime per il reality a cui ci siamo consegnati: Bersani non accettava consigli a chi faceva base nelle Cayman, Renzi gli rispondeva di pensare a Montepaschi e Telecom, e poi misuravano chi avesse in squadra più giovani, più donne, chi avesse a disposizioni meno denari e meno ospitate in tv (fantastica Alessandra Moretti superbersaniana che dava a Renzi della lagna, del maschilista e del vuoto a perdere).
Ma alla fine Bersani vinse 60 a 40 e Renzi pronunciò un discorso in sua sconfitta ricordato come dei migliori. Si inchinò e ricevette inchini. «Pierluigi sarà il nuovo premier». «Io faccio un giro, poi tocca a lui che è giovane». «Darò una mano in campagna elettorale». «Matteo avrà un ruolo». Su twitter giravano fotomontaggi della coppia vestita alla Blues Brothers. E quanto era sereno Bersani? Purtroppo per lui arrivarono le elezioni politiche, e Renzi stava prendendo la rincorsa da sei mesi: «Il problemino è che Bersani non ha vinto». Ancora: «Abbiamo buttato fuori un calcio di rigore». Infido: «Spero che ce la faccia a formare il governo, sennò elezioni». Bersani si fece da parte, più autorottamato che rottamato. Le attenzioni di Renzi si spostarono feroci su Enrico Letta e di nuovo sul Pd; il vecchio leader piacentino sarebbe riemerso dal fallimento e dalla successiva malattia a prendersi il ruolo di grande nemico interno. In fondo un nemico tosto ma di raro garbo, e soprattutto un comunista che, a differenza dei D’Alema e dei Veltroni, nessun militante vorrebbe vedere a terra.
il Fatto 28.2.15
Renzi, scacco matto alla badante-Bersani
di Anna Kanakis
qui
Corriere 28.2.15
Il segretario: Pier Luigi esagera i più giovani non lo seguiranno
«Il metodo Mattarella per me non significa fare caminetti tra i leader»
di Maria Teresa Meli
ROMA È il giorno in cui l’Istat certifica i primi segnali di ripresa dell’Italia. Il giorno in cui lo spread scende sotto quota 100 e i sondaggi lo danno in ascesa di 2 punti. Ma non è un giorno di festa per Matteo Renzi. Quella che nelle sue intenzioni doveva essere una riunione di lavoro con i parlamentari (un’altra, simile, si replicherà il 9 marzo su Pubblica amministrazione, Fisco e cooperazione) è diventata un caso nel Partito democratico. L’ennesimo elemento di divisione amplificato dalle dichiarazioni di guerra di Pier Luigi Bersani, il quale, al pari di tanti altri esponenti della minoranza, ha disertato l’appuntamento.
Con i suoi il presidente del Consiglio si lascia andare a uno sfogo amaro, perché quando ha scritto la lettera per convocare l’incontro «informale» di ieri «non si aspettava una simile reazione». «Bersani — dice ai fedelissimi — ha ecceduto. Avrei capito una reazione del genere se non avessi mai fatto riunioni, ma ne faccio in continuazione, comunque, se ha deciso di non venire avrà i suoi motivi. Io chiedo una sola cosa a lui e agli altri: lealtà. La chiede anche il nostro popolo, che è stufo delle divisioni interne del Pd».
Il premier non è sicuro di dove voglia arrivare Bersani: «Sono tre giorni che mi attacca in modo scomposto», confida ai collaboratori. L’obiettivo è, come si dice da giorni, l’affossamento dell’Italicum grazie a un accordo stretto con Forza Italia, che, però, questa volta, chissà perché non si chiama inciucio? Eppure Renzi è sicuro che anche coloro che ieri non sono venuti alla «sua» riunione non seguiranno Bersani fino in fondo. Lo spiega ai fedelissimi: «Io non so se Pier Luigi abbia pensato che il metodo Mattarella consisteva in caminetti tra i big del partito. Per me non era questo, per me era il coinvolgimento dei parlamentari del Pd, cosa che volevo fare con questo appuntamento. Però non penso che il resto della minoranza lo seguirà fino in fondo. Non i giovani di sicuro. Non quelli che stanno alla Camera. Loro si stanno posizionando, ma non vogliono arrivare fino a un punto di non ritorno. Perché significherebbe far cadere il governo e, quindi, di fatto, porsi fuori dal partito. Credo che non ci pensino nemmeno lontanamente. Pure quelli che sono agli antipodi da me non possono avere questo in mente, non i quarantenni almeno».
I più maliziosi tra i renziani sono convinti che i cosiddetti giovani bersaniani si stiano semplicemente posizionando per le regionali che verranno. Il premier ha detto che probabilmente si svolgeranno il 10 maggio. Il che significa che il 10 aprile le liste dovranno essere pronte. E quindi per avere dei candidati bisogna muoversi con un certo anticipo. Cattiverie? Può essere. Ma di una cosa il leader è certo: «Alla Camera non mi tradiranno, stanno soltanto facendo manovre e bluff . Ma hanno chiaro il concetto di lealtà. E soprattutto sanno che il popolo del Partito democratico non perdona chi lo calpesta».
E ancora: «D’altra parte, che possono volere di più da me? Alle Europee abbiamo preso il 41 per cento, perché dovremmo disperdere un simile patrimonio solo per una rivincita postuma delle primarie?». Renzi parla così anche davanti a interlocutori che non sono solo quelli provenienti dalla cerchia dei fedelissimi. E pure in questo caso non si sente dire dei no. Anzi si sente fare dei calcoli: al massimo alla Camera saranno in 40 a poter tradire. Ininfluenti rispetto alla maggioranza. E 40 è un numero ben gonfiato perché si tratterebbe di deputati che si assumerebbero la responsabilità di mettere a rischio il governo, insieme al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta, diventato un fan sfegatato di Bersani.
A sera, le ultime parole del presidente del Consiglio sono rivolte a tutti: «Abbiamo finalmente cose concrete di cui occuparci, basta con le pagliacciate delle conte tra le correnti interne».
Repubblica 28.2.15
Due fronti sono troppi per il premier
Dopo l’offensiva di Bersani situazione di stallo nel Pd: solo la ripresa può aiutare il segretario
di Stefano Folli
LA STORIA insegna che è pericoloso combattere su due fronti contemporaneamente. Chi lo ha fatto, a cominciare da Napoleone, ne ha pagato lo scotto. Meglio chiuderne uno prima di aprire il secondo. Oggi il presidente del Consiglio, in apparenza privo dei benefici derivanti dal patto del Nazareno, sta cercando di capire quanto vale la sfida che gli ha lanciato la minoranza di Bersani. Se fosse seria, e se Berlusconi al tempo stesso rimanesse chiuso nel suo silenzio indispettito, per Renzi la strada si farebbe impervia.
Due nemici insieme sono troppi, anche perché finirebbero per convergere. È inevitabile. Ed è un aspetto singolare, se si pensa che la scelta di Sergio Mattarella come capo dello Stato prese forma quando Renzi decise di spezzare il connubio di fatto tra Forza Italia e la minoranza del suo partito intorno al nome di Giuliano Amato. Operazione molto abile sul piano tattico, i cui effetti però il premier li sconta oggi. Fra Senato e Camera l’ex segretario Bersani è in grado di mobilitare una quota significativa dei gruppi parlamentari. Persone che non saranno ricandidate da Renzi, salvo eccezioni, e che hanno poco da perdere.
Se riescono a modificare l’Italicum e a correggere, frenandola, la riforma del Senato, avranno vinto la loro scommessa. Ce n’è abbastanza per credere che il connubio spezzato poche settimane fa tenderà ora a riproporsi. Del resto, tutto ciò che impedisce al premier di consolidare se stesso come «dominus » di un partito personale e lo obbliga a negoziare, suona come un successo determinante per gli oppositori del «renzismo». Sarebbe la prova che Palazzo Chigi non può combattere avendo contro sia il centrodestra sia la sinistra interna al Pd. Ma è proprio così?
In questo momento siamo in una fase di stallo. Abbiamo visto l’offensiva di Bersani con l’intervista ad «Avvenire». La speranza di Renzi è che si tratti di un bluff, uno scatto di orgoglio ferito, e che il dissenso piano piano si riduca a un mugugno. Di qui la battuta sgradevole sul «Bertinotti del 2015», senza voti e senza carisma. Può darsi invece che la minoranza non rientri nei ranghi e che davvero si concentri sul nesso fra riforma elettorale iper-maggioritaria con liste bloccate, da un lato, e discutibile trasformazione del Senato, dall’altro. Se è questo il percorso strategico individuato da Bersani, e se Forza Italia non torna a sostenere Renzi sul terreno delle riforme, il presidente del Consiglio finirà per dover rispondere nel merito dei rilievi. Oppure potrà tentare di far passare le due riforme (Senato e legge elettorale) con l’appoggio estemporaneo di parlamentari di diversa provenienza. Una manovra nel segno del «trasformismo», ma non sarebbe certo la prima nella storia del Parlamento.
Nulla è ancora certo, tuttavia il passaggio politico per il premier è alquanto stretto. E il caso vuole che tutto accada mentre arrivano notizie forse incoraggianti, comunque meno negative del solito, sul versante dell’economia. Il Pil vede un segno positivo, sia pure minimo, nel primo trimestre dell’anno: + 0,1 per cento, effetto della cura Draghi. Non solo. Lo «spread» è crollato e secondo le stime renziane il Jobs act accresce, sul piano psicologico, la fiducia delle aziende e quindi produce le prime assunzioni.
Il punto è che non esiste una correlazione automatica fra questi dati e lo stato dei rapporti politici nel Pd. Si tratta di due sfere diverse, anche se Renzi vorrebbe farsi forza dei primi per risolvere a suo vantaggio la contesa interna. È chiaro, peraltro, che gli screzi con la minoranza, al di là della mancata partecipazione alla riunione dei gruppi, rivelano qualcosa. Toccano le prospettive di lungo periodo del Pd, sempre più plasmato a somiglianza del leader. E investono anche la durata della legislatura. Ponendo la questione di come saranno decise le candidature — con o senza Italicum — e di quale sarà la rappresentanza concessa dal leader alla minoranza. Parecchi nodi in attesa di essere sciolti.
Repubblica 28.2.15
E Bersani non si fida più del premier “Il tradimento sul Jobs act pesa ancora”
di Tommaso Ciriaco
ROMA Stavolta è diverso. Non si tratta solo di correnti che si sbranano o leader che si accoltellano. C’è dell’altro dietro l’escalation guidata da Pierluigi Bersani. È la fregatura sul Jobs act ad aver scassato il Partito democratico, portando la minoranza sul piede di guerra. «Sì - ammette l’ex segretario, appoggiandosi a una colonna del Transtlantico - Avevamo discusso durante la direzione del partito, era stato preso un impegno. Le due commissioni avevano espresso un parere, anche se non vincolante. E nelle commissioni ha votato tutto il Pd: non solo i bersaniani, ma i bersaniani i renziani e tutti quanti gli altri. Poi però si è deciso di non tenerne conto. Ma insomma, ma come si fa…». Una sberla che brucia. Un tradimento, per la sinistra del Pd. «Ma non è solo questo - ricorda a due passi dall’Aula - Sulle istituzioni, ad esempio, avevamo lavorato seriamente. Subito dopo Mattarella, però, non ho visto altro che smentite a quel metodo, che pure aveva funzionato ». È un Bersani trasformato. Sereno, però più aggressivo. Combattivo. Interventi, uscite pubbliche, ieri pure un’intervista al giornale radio Rai. Nulla a che vedere con il solito risiko del Pd, ragiona mentre attraversa il lungo corridoio che porta a piazza del Parlamento. «Non se ne può più di queste veline che circolano sui media e che dipingono quanto accade come una questione di potere». È piuttosto uno scontro tra due mondi che non si riconoscono più. «Io sono un deputato semplice. Non ho nulla da chiedere, non reclamo posti. Bisogna che si convincano che è esclusivamente un problema di idee. Possiamo confrontarci? Possiamo almeno discutere sul serio e non per spot?». Non fa altro da giorni, l’ex segretario. In Aula con tanti dei suoi colleghi, mentre tutto attorno sbocciano aree a differente tasso di renzismo pronte a farsi la guerra. In Transatlantico, con pazienza, mentre le minoranze tornano a parlarsi. E pure al cellulare, con i vecchi amici che gli chiedono consigli: “Pierluigi, dove stiamo andando?”.
Alla convocazione di Matteo Renzi non ha risposto. Si tormenta gli occhiali rossi, poi tutto d’un fiato: «Certo che no. Le riunioni vanno fatte per davvero. Convocare i gruppi parlamentari per discutere di fisco e altri tre temi per quattro ore non va bene. Il confronto deve essere serio. Né è accettabile che parta subito il giochino di quelli che dicono: “Quando facciamo le riunioni e vogliamo la discussione, voi vi sfilate”». È comunque agli atti la clamorosa mossa di boicottare il seminario promosso dal premier in persona. Il rischio di delegittimare il leader non ha frenato le minoranze, anche se a disertare è un ex segretario del Pd. «Ve- ramente all’epoca Renzi non è mai venuto a una riunione e io ho fatto il segretario tranquillamente. Mai venuto a una riunione, mai… Comunque lui ha detto: “Fatevi venire un po’ di idee”. Me le sono fatte venire e le ho mandate».
Palazzo Chigi ha già fiutato il cambio di passo. E a nessuno dei quattrocentosedici parlamentari dem è sfuggito quel passaggio di Bersani sull’Italicum. Una mina piazzata tra le fondamenta della legislatura, si allarmano i renziani. «Da quanto tempo è che lo dico? Da tempo avverto: “Guarda che in queste condizioni non si vota questa legge elettorale”. Se poi il tema diventa Bersani contro Renzi e nessuno si preoccupa di come si organizza la democrazia, allora vabbé….». Riflette solo un attimo, inforca gli occhiali rossi: «Però, ecco, sollevo questo punto: che tipo di democrazia stiamo costruendo? Non mi sembra esattamente irrilevante, anche se nessuno ne parla».
Stavolta l’offensiva dell’opposizione interna non provoca l’immediata reazione di Renzi. Anzi, due sere fa l’unico passaggio davvero polemico è stato il riferimento del premier ai vecchi caminetti della Ditta. «Vabbé, lasciamo stare i vecchi caminetti che sono cretinate… Se continua a rispondere in quel modo lì non si va da nessuna parte». Appunto, che si fa? Come se ne esce? «Il segretario prenda in mano la situazione. Dica che si vuol parlare di quale democrazia va costruita con un approccio serio. Di liberalizzazioni, ma sul serio. Perché è giusto discutere e poi decidere: e però sul lavoro abbiamo discusso, discusso e ancora discusso, ma poi ha fatto come gli pare… ».
Una tregua, comunque, sembra distante anni luce. Quando Massimo D’Alema promette una dialettica interna sempre più vivace, a qualcuno vengono i brividi. Bersani invece evita previsioni. Auspica, al massimo: «Bisogna capire che è necessario tener conto delle idee degli altri. Se facciamo con il metodo Mattarella, va benissimo. Se al contrario facciamo finta di discutere e poi uno tira dritto - sospira mentre lascia la Camera - allora è un problema».
il Fatto 28.2.15
Il senso di Renzi per le Camere
risponde Furio Colombo
CARO COLOMBO, il governo Renzi annuncia che per fare in fretta manderà alla Camera come decreti le leggi che gli stanno più a cuore. In tal modo può contare su tempi stretti, che sono d’obbligo. La presidente della Camera, Boldrini, risponde che una simile iniziativa (fingere urgenza quando non c’è urgenza) è contro la Costituzione. Chi ha ragione?
Alvaro
NON SIAMO SOLO in presenza di un dissenso costituzionale, ma di un fatto più strano e meno spiegabile, la decisione dell’iperattivo Renzi, che vuole anticipare di un anno la scadenza della convenzione con la Rai (sarebbe il 2016) e discuterla subito. E vuole, con l’occasione, “liberare la Rai dalla presenza dei partiti” attraverso un fitto lavoro di partiti. Vuole comunque fare subito, e con decreti d’urgenza, nelle Camere, che sono ancora due, un lavoro che non è urgente o soggetto a scadenze, sembra “antipolitico” ma fa parte di tutto il disegno politico di Renzi, di quel ripetuto “cambiare verso” che vuol dire andare verso Berlusconi, come dimostrano tutti i punti finora toccati, dagli sgravi fiscali (3 per cento) per gli evasori (sgravio irrilevante per i piccoli e regalo immenso per i grandi evasori), e la tempestiva e tanto desiderata legge contro i giudici, che è certamente tra gli omaggi più graditi al vecchio combattente (contro il fisco e contro i giudici) condannato. Infatti uno dei modi di togliere i partiti dalla Rai è quello di prendere direttamente sotto tutela la azienda statale delle informazioni, con l'espediente che “è ora di finirla con tre telegiornali”. Molto meglio uno solo, che magari può partire direttamente dallo studio Rai che c’è già nel Palazzo di Montecitorio, proprio accanto a Palazzo Chigi. Quanto all’indipendenza, è facile immaginarla, per chi si sia abituato a conoscere il modo lieve e discreto con cui Renzi si rivolgere a coloro che gli propongono obiezioni. E infatti vuole arrivare alla riforma della Rai quando vuole lui e decide lui, senza riferimento a ciò che pensa o vuole, o discute o decide il Parlamento. La scorta di Renzi (situata in parte nelle apparenti seconde file del governo, in parte nelle vistose prime file del suo partito) ha perso la pazienza (la perde facilmente) quando Laura Boldrini ha detto la sua opinione (che è anche decisione, essendo un organo costituzionale): è incostituzionale un decreto senza urgenza. E le hanno raccomandato “nelle sere libere, di ripassarsi la Carta tanto amata e poco ricordata”. Tutto ciò accade dopo che Renzi in persona ha ordinato al Parlamento “di lavorare dalle 9 del mattino alle 11 di sera” per arrivare nei tempi da lui decisi alla cosiddetta riforma del lavoro (l’esotico Jobs Act). E il Parlamento, purtroppo ha obbedito. Ora rompere la “prassi” di obbedienza non dovuta verso il nuovo capriccio renziano , non sarà facile, dato anche il coraggio leonino di molti parlamentari sia del berlusconismo di sinistra che del berlusconismo di destra.
il Fatto 28.2.15
Grasso: “Basta rinvii su ddl anticorruzione”
Basta ritardi sul ddl anticorruzione. Il presidente del Senato Pietro Grasso torna a chiedere l’approvazione in tempi rapidi del testo, frenato dai veti incrociati. Lo ha ripetuto ieri a Palazzo Madama, rispondendo ad alcuni studenti che gli chiedevano quale fosse la legge più importante allo studio del Parlamento: “Sarebbe facile dire la riforma della Costituzione. Ma per me è quella che ancora si deve fare, quella che io ho proposto per colpire la corruzione, il falso in bilancio e il riciclaggio: l’aspetto da due anni”. E nel pomeriggio a un convegno ha ribadito: “Credo che la lotta alla corruzione debba essere prioritaria nell’agenda politica del Paese, e che non sia più procrastinabile un intervento strutturale”. Nel frattempo crescono le voci su un imminente intervento del governo, pronto a portare il ddl dalla commissione direttamente in aula.
il Fatto 28.2.15
Campania, un tritacarne chiamato Primarie
di Vincenzo Iurillo
DOMANI SI SCEGLIE IL CANDIDATO DI CENTROSINISTRA ALLE REGIONALI. TRE ASPIRANTI, CINQUE NOMI SULLA SCHEDA: DUE SI SONO RITIRATI
Il tritacarne delle primarie Pd in Campania. Nel quale hanno macellato, nell’ordine: un numero imprecisato di candidati, ufficiali e non; l’entusiasmo per la competizione; buona parte della credibilità di un partito che avrebbe dovuto emendarsi dal peccato del pasticciaccio brutto del 2011 a Napoli. Ma hanno distrutto anche la certezza che il vincitore di domani tra Vincenzo De Luca, Andrea Cozzolino e Marco Di Lello sarà anche il candidato governatore del centrosinistra. L’esito del voto nelle primarie, qualunque sarà, tra parlamentari già autosospesi e altri pronti a farlo, si trascinerà dietro un fiume di polemiche. Già scritti gli scenari della prossima settimana: accuse di truppe cammellate e di risultato inquinato dal centrodestra, dossier chiusi in un cassetto e pronti a essere lanciati in faccia al vincitore, dal profilo comunque logoro perché con esperienze politiche discusse e problemi di vario tipo. Domani si voterà ovunque: nei gazebo, in circoli, alberghi, palestre, ristoranti. C’è un seggio persino in una chiesa di Caserta, e per l’occasione il Comune di Salerno sarà aperto per il rilascio dei certificati da presentare ai seggi. Sono sopravvissuti in tre, dicevamo. L’ex sindaco di Salerno De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio e quindi ineleggibile salvo Tar, nonché decaduto da primo cittadino per aver continuato a occupare questa carica con quella incompatibile di viceministro. Poi l’europarlamentare Andrea Cozzolino e il deputato del Psi Marco Di Lello, ex assessori della giunta Bassolino.
MA SULLA SCHEDA ci saranno anche i nomi del deputato ex vendoliano Gennaro Migliore (ora ne Pd) e del segretario campano Idv Nello Di Nardo. Si sono ritirati troppo tardi, a schede stampate e manifesti incollati. Migliore è deluso da chi aveva firmato per lui e poi si è defilato: “Volevo il rinnovamento, non ci sono più le condizioni”. Di Nardo è preoccupato: “Siamo per la legalità, questa è una guerra tra bande”. “Vorrà dire che i loro voti saranno considerati come astensione” spiega Antonio Amato, presidente della commissione organizzatrice. Per strada si sono perse molte occasioni per evitare questo scempio. Nomi bruciati e dialoghi non avviati, in una ridda di tensioni interne. Iniziate a giugno, quando De Luca ha annunciato la candidatura. I renziani, contrari per i suoi problemi giudiziari (poi esplosi tra gennaio e febbraio) pensano di contrapporgli Pina Picierno. La parlamentare casertana a settembre convoca la Fonderia. Ma il laboratorio politico si disgrega e lei si defila. Il Pd sogna di convincere Raffaele Cantone e Luigi Nicolais. L’ex pm ringrazia, ma sta bene dove sta, all’Anticorruzione. Il presidente del Cnr invece si lascia lusingare. Nel frattempo qualcuno ipotizza il Guardasigilli Andrea Orlando: libererebbe una casella di governo. Si fissano le primarie al 14 dicembre. Ma verranno rinviate quattro volte. A novembre si muove la corazzata Cozzolino, e Orlando esce di scena. Ma la ridda di ‘candidati unitari’ prosegue: il pm Vanni Corona, il direttore del Tg1 Mario Orfeo, l’ad di Acea Alberto Irace, i parlamentari Enzo Amendola ed Enzo Cuomo. Tutti fatti fuori in pochi attimi. A novembre, in chiave antideluchiana, si candida alle primarie la senatrice lettiana Angelica Saggese salernitana. Si ritirerà prima della stampa delle schede. Poi a gennaio spunta Migliore come ‘candidato di superamento delle primarie’. Anzi, no: Migliore si candida alle primarie. Renzi risonda Cantone. Che gli ridice no. Gli ‘antiprimarie’ cercano di annullare il voto provando a raggiungere il 60 per cento delle firme dei delegati dell’assemblea regionale su Nicolais. Non ci riescono. Sbuca il nome della segreteria regionale Assunta Tartaglione. Dura lo spazio di una notte. Si andrà alle primarie. Con angoscia. Pd, panico democratico.
Repubblica 28.2.15
Scuola, maxi-concorso dopo le assunzioni “In cattedra in 180mila”
Cambia ancora il piano: solo 100mila presi subito, poi il bando
Scontro sul bonus per le paritarie: il ministro pressa ma il Pd frena
di Corrado Zunino
ROMA Il ministro Stefania Giannini ha rivelato, ieri: saranno 180 mila le assunzioni della “Buona scuola”. Trentamila in più. Ma è una somma che non dice come i numeri degli assunti, in verità, scendono e che per levare molti precari dal mare delle graduatorie Gae (graduatorie a esaurimento, ndr) e metterli definitivamente in cattedra servirà il passaggio ravvicinato del concorso pubblico 2015-2016.
La materia “stabilizzazione dei docenti” è in continua trasformazione negli uffici dei tecnici dell’Istruzione e lo sarà fino a martedì mattina, giorno del Consiglio dei ministri dedicato anche alla scuola. Ricapitolando. Gli assunti subito, il prossimo settembre, saranno 120 mila e non i 148 mila di cui si è parlato nel librone “La Buona scuola”. Gli assunti subito e definitivi saranno, poi, solo novantamila, presi in gran parte dalla graduatoria a esaurimento Gae. Altri 15-18 mila docenti precari saranno chiamati dalla seconda fascia (questa d’istituto) sulla base dell’anzianità di insegnamento e soprattutto di ciò che insegnano: otterranno un contratto ponte che darà loro l’agognata cattedra per un anno, ma non il “ruolo”. Un anno ponte, somiglia alla vecchia supplenza lunga. Per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato i 15-18 mila precarioni dovranno partecipare al prossimo concorso. La prova andrà a bando entro giugno 2015 e già in ottobre il Miur conta di fare le prime selezioni scritte. Inizialmente doveva essere un concorso per 40 mila posti, ma saliranno a 60 mila ed è possibile che per i 15-18 mila “contratti-ponte” ci sarà una corsia preferenziale. Si sale a quota “100 mila assunti subito” aggiungendo i diecimila del concorsone 2012 non ancora inquadrati e i 1.793 che, secondo le prime stime del Miur, hanno maturato 36 mesi di supplenze su un ruolo vacante (sentenza della Corte Ue).
Sembra complicato, e lo è. Perché le stratificazioni delle graduatorie sono quasi ventennali, il censimento dei precari non è pronto e perché il ministero sceglie in base ai “bisogni della scuola”. Ci sono troppi aspiranti prof di lettere e filosofia, pochi di matematica e fisica e troppi precari iscritti nelle classi di concorso delle scuole primarie. È probabile che, esaurite le Gae, nelle classi di concorso necessarie — matematica, fisica, chimica — si passerà alla seconda fascia. E diverse migliaia di aspiranti “prima fascia” resteranno senza ruolo. Resterà fuori, per esempio, la gran parte dei 51 mila insegnanti d’infanzia in lista: c’è posto solo per diecimila. Già, il prossimo settembre le Graduatorie a esaurimento non saranno esaurite, come chiedeva invece il premier Matteo Renzi.
Il Miur sta preparando indennizzi per gli insegnanti precari ingiustamente non assunti: fino a dieci mensilità. Novità ci saranno per il personale amministrativo e tecnico (Ata). Il ministro chiede infine sgravi fiscali per le paritarie, ma il Pd non vuole investire sulle private viste le poche risorse. Deciderà Renzi martedì.
Repubblica 28.2.15
“Eutanasia legalizzata”, da Scalfarotto e Borletti sì alla legge Manconi
ROMA «Chiediamo che l’eutanasia sia depenalizzata e che in questa prospettiva si discuta la proposta di legge depositata alla Camera dal settembre 2013». La proposta, lanciata dal senatore del Pd Luigi Manconi con una lunga lettera che parla di libertà di scelta e dignità della persona sino alla fine, è stata appoggiata da due sottosegretari del governo Renzi, Oscar Scalfarotto e Ilaria Buitoni Borletti, e firmata da una quarantina di deputati e senatori Pd, Sel, Scelta civica e M5Stelle.
Perché «decidere della propria vita comporta decidere anche di quella parte della vita che è l’approssimarsi della morte».
E proprio ieri la procura di Grosseto ha aperto un’inchiesta su due casi di sospetta eutanasia che sarebbero avvenuti all’interno dell’ospedale di Orbetello. Tutto è cominciato da una segnalazione arrivata ai carabinieri in cui sono citati un anestesista e un suo collaboratore, accusati di aver praticato delle iniezioni per porre fine alla vita di due anziani.
Repubblica 28.2.15
Una nuova laicità
risponde Corrado Augias
Caro Augias, la frase con cui lei commenta la riflessione di Dworkin su religioni e Dio mi fa riflettere su come — nel dibattito fra religioni e ateismo — il nostro sguardo da occidentali sia fermo al Dio creatore, e non guardi alla saggezza dell’Oriente. Dall’Induismo: tra le componenti della divinità c’è anche il male, alias Shiva il distruttore o la terribile Kali, lì tutto svanisce nel velo di Maya — l’illusione — oltre il quale si nasconde l’Essere che tutto abbraccia. Il Buddismo che, fra consapevolezza dell’impermanenza delle cose e necessità della compassione, fa a meno di Dio. Lo Shintoismo dove Dio è la Natura, benigna e maligna al tempo stesso. Confucianesimo e Taoismo che fanno della “retta via” l’unica legge e strada praticabile per una vita soddisfacente e saggia. È il concetto del Dio creatore che fa acqua da tutte le parti, ci induce all’incomprensione e allo schizofrenico rifiuto del Male: di qui la rimozione della malattia grave e della morte, che in Oriente — globalizzazione a parte — non sono vissute come un tabù. Possibile che un dibattito sull’esistenza di Dio non guardi mai un po’ più in là?
Giovanni Sanvitale
La rubrica sui diversi tipi di ateismo ha suscitato un interesse che non m’aspettavo. Segno che il tema è sentito; un interesse che potrebbe estendersi anche a esperienze d’altre culture, come Giovanni Sanvitale auspica. La teologia cattolica è scossa dal tumulto dei tempi e non sono pochi quelli che ritengono preferibile un ateismo dichiarato ad un’adesione fiacca o al contrario quasi idolatra come si vede in certe manifestazioni. Irene Modena (irenev.modena@libero.it) mi ha scritto: «Sono al tramonto della mia vita convinta che le ragioni che mi sono data su questi temi siano dettate dalle difficili vicissitudini della mia giovinezza. Anch’io, come Lei, ho maturato un ateismo “mite e riflessivo”, anche se sempre nostalgico. Da qualche tempo però sto forse cambiando. Ho letto il libro di Vittorio Alberti Il papa gesuita. Pensiero incompleto, libertà, laicità in papa Francesco . Sostiene che la distinzione tra laico e religioso e, soprattutto, tra credente e non credente, non ha senso perché chi pensa veramente deve considerare entrambe le prospettive. Insomma occorre andare a una “nuova laicità” nel nostro modo di pensare». Serve davvero una “nuova laicità”? Sembra evidente che i tempi richiedano tolleranza e capacità o voglia di capire quello che succede nel tentativo se non altro di contrastare la deriva violenta che ci ha invaso: dalle guerre di religione alle guerricciole da stadio. Ma non è proprio questa l’essenza della “laicità”? Se bene intesa la laicità non è una fede da imporre ad altri bensì un metodo: consapevole delle sue ragioni, rispettoso di quelle degli altri.
il manifesto 28.2.15
Il sindaco Marino e l’obitorio culturale della capitale
di Sandro Medici
qui
il manifesto 28.2.15
Arte a tempo indeterminato
Street art. Si chiama Sanba ed è un progetto di arte pubblica da vivere insieme agli abitanti di un quartiere. È così che san Basilio finisce sotto i riflettori
di Arianna Di Genova
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Corriere 28.2.15
Da CasaPound ai russi
Il test della piazza per la destra di Salvini
Attesi tutti i big del partito (compreso Tosi)
di Marco Cremonesi
ROMA Marine Le Pen con una vistosa maglietta con la scritta «Renzi a casa» potrebbe essere, per i militanti leghisti e salviniani che si sono dati appuntamento oggi pomeriggio a Roma in piazza del Popolo, la foto ricordo più apprezzata, il simbolo della giornata. Certo, la leader del Front national non sarà lì presente in carne e ossa, ma solo attraverso un video messaggio da proiettare su maxischermo. A sottolineare l’internazionalità della compagnia, sarà anche letto un contributo di Heinz-Christian Strache, il capo della Fpo austriaca, il partito che fu di Jorg Haider. E poi, parecchie bandiere russe, portate dai giovani dell’associazione Italia-Russia. In segno di riconoscenza per le dure prese di posizione leghiste, in tutte le sedi, contro le eurosanzioni nei confronti di Mosca.
Il parterre nazionale vorrebbe essere anche più articolato. Non tanto dal punto di vista politico quanto, per dirla con lo stesso Salvini, da quello «dell’Italia vera». Dal palco prenderanno la parola, infatti, i rappresentanti di esodati, agricoltori, medici, artigiani, poliziotti e dell’Associazione genitori separati. Per la politica nazionale, interverrà la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Salvini renderà il sostegno sabato prossimo a Venezia, alla manifestazione che Fdi ha organizzato sulla laguna. In piazza del Popolo ci sarà anche la destra spinta di CasaPound, sia pure senza le bandiere ufficiali: ci saranno quelle, invece, dell’associazione collegata, «Sovranità».
Insomma, la prima manifestazione pubblica della nuova destra a cui pensa Salvini, non piu nordista ma nazionale, capace di raccogliere il consenso tra movimenti e forze politiche diverse. Il modello è quello della coalizione Blu Marine che ha sostenuto Madame Le Pen alle ultime elezioni. Il che ha suscitato le tensioni con l’area antagonista che gia ieri ha tentato di occupare Santa Maria del Popolo e che oggi potrebbe cercare di venire a contatti con i sostenitori salviniani. Lui, il capo leghista, ostenta sicurezza e parla di «scene deliranti nei confronti di una manifestazione pacifica e programmata». Per poi concludere: «Non facciamoci fermare da quattro squadristi, non lasciamo che decidano loro». In relazione alla tentata occupazione, Salvini si è anche augurato «due parole di condanna da parte di Renzi, Boldrini, Marino e Alfano».
In piazza ci sarà anche una piccola delegazione dei giovani di Forza Italia, i militanti di Azzurra libertà. Un segno di attenzione nella speranza che la situazione in vista delle regionali si sblocchi. Il clima tra i due partiti ieri era leggermente migliorato rispetto ai giorni scorsi, anche se Salvini ieri non ha voluto parlare della vicenda: «Ho la testa soltanto sulla manifestazione, fino a domenica non se ne parla».
In Forza Italia, tuttavia, circola qualche ottimismo, almeno sul Veneto. L’idea è che potrebbe essere il governatore Luca Zaia a chiedere al suo partito di essere sostenuto anche da Forza Italia. Insieme ad Area popolare, in sostanza l’Ncd. Il che sarebbe di buon auspicio anche sulla partita in Campania.
Ma chi parlerà dal palco della Lega? L’unico certo è lo stesso Luca Zaia. Lo stato maggiore del Carroccio sarà comunque presente al gran completo: le defezioni sarebbero probabilmente annotate. Ci sarà, dopo le polemiche degli ultimi giorni, il segretario della Liga veneta Flavio Tosi. Ci sarà certamente Umberto Bossi che per primo organizzò, nel mondo diverso del 1999, una prima manifestazione romana. Ma per Salvini, quella di oggi non è una manifestazione solo leghista, ma di «tutti gli italiani che non reggono più il disastro Renzi». Ad ogni modo, è difficile immaginare una lunga serie di interventi targati Lega. E Salvini dice: «Deciderò stanotte».
il Fatto 28.2.15
La sinistra che rischia di aiutare Salvini
di Antonio Padellaro
Di quanti “agenti provocatori” può disporre Matteo Salvini nella cosiddetta sinistra antagonista, visto l’impegno profuso da centri sociali e comitati di lotta per imbottire di voti i suoi già pingui sondaggi? La domanda sorge spontanea di fronte al blitz di un gruppo di attivisti del “Movimento per la casa” che ieri, a Roma, hanno occupato una chiesa in Piazza del Popolo come prologo in vista della manifestazione leghista di oggi. Naturalmente parliamo di agenti provocatori inconsapevoli, persone mosse dalla legittima convinzione che Salvini, con le sue intemerate contro rom e immigrati, rappresenti un pericolo. Argomenti che lo stesso Salvini rovescia per dimostrare che in realtà, qui da noi, clandestini e rom spadroneggiano grazie alla complicità o alla viltà di tutti gli altri partiti. Una tecnica che il Matteo felpato ha già sperimentato presentandosi nei campi nomadi sperando, immaginiamo, che qualcuno non resistesse alla tentazione di dirgliene (e di dargliene) quattro. Cosa puntualmente accaduta a Bologna e a Milano con supremo scandalo dei malpensanti più che mai convinti che davanti all’invasione dei barbari l’unica salvezza sia Salvini. Ieri, il nostro ha detto che “non possono essere quattro squadristi a decidere chi manifesta echino”,dimenticandochelui gli squadristi se li è messi in casa, anzi in Casa Pound. Intanto lo slogan del corteo “antifascista” sarà: “Mai con Salvini mai con Renzi”. Un’altra sponda alla strategia dei due Mattei divisi nella lotta ma uniti nella ricerca ossessiva di un nemico.
La Stampa 28.2.15
Russia, assassinato il leader dell’opposizione a Putin
Sei proiettili contro Boris Nemzov mentre passeggiava a Mosca Domani avrebbe dovuto guidare una manifestazione anti-Cremlino
di Anna Zafesova
Venti anni fa era considerato la speranza e il volto della nuova Russia: bello, giovane, democratico, brillante, forse il più brillante di quella nuova generazione che doveva portare il Paese fuori dal comunismo. Impossibile immaginare allora che la sua fine sarebbe arrivata con sei colpi sparati da una macchina in corsa, poco dopo mezzanotte, sul ponte sulla Moscova che porta verso il Cremlino. Un omicidio in classico stile mafioso, che decapita l’opposizione russa alla vigilia della marcia di protesta, e lascia Mosca sotto choc.
Il delfino di Eltsin
Erano anni che in Russia non venivano uccisi politici: arrestati, perseguitati, incarcerati, diffamati, ridotti al silenzio, ma non uccisi per strada. Una sorte che poteva toccare agli attivisti, ai giornalisti, agli esponenti delle Ong. Ma un politico di fama internazionale come Nemzov sembrava essere garantito da questa sorte. A 55 anni era in qualche modo già un ex, dopo che gli Anni 90 l’avevano visto protagonista della breve stagione di libertà. Ricercatore di fisica, si era dato alla politica dopo Cernobil organizzando un movimento contro la centrale nucleare a Nizhny Novgorod. Pochi anni dopo la terza città della Russia l’ha eletto governatore a soli 32 anni, ed è diventata un laboratorio di riforme. Nel 1997 Nemzov viene chiamato da Mosca, dove Boris Eltsin – nonostante il governatore l’avesse sfidato raccogliendo un milione di firme contro la guerra in Cecenia – lo considera il suo delfino. In Occidente si presenta come il leader del 2000: giovane, con un inglese fluente, una preparazione intellettuale eccellente e sensibilità ai diritti umani e civili, per di più un giovane di origine ebraiche che arrivava a rompere la secolare tradizione antisemita russa.
Negli ultimi anni Nemzov era nell’opposizione, e più che le stanze del governo frequentava le stazioni di polizia, dove veniva portato dopo le manifestazioni. Il suo primo arresto, nel 2007, aveva suscitato la protesta di cancellerie internazionali, ma da allora erano diventati ordinaria amministrazione.
Le denunce
Nemzov non usava eufemismi nella critica di Putin, ed era stato coautore di un libro che denunciava le ricchezze occulte del clan del presidente e stimava il patrimonio del padrone del Cremlino in 40 milioni di dollari. Era stato tra i pochi ad aver criticato senza se e senza ma l’annessione della Crimea, e la guerra in Ucraina, e la sua faccia appariva nei manifesti dei «traditori» affissi dai putiniani per le strade russe. Domani avrebbe dovuto guidare la marcia «Primavera» dell’opposizione, un tentativo di tornare in piazza sull’onda della crisi economica. Due settimane fa alla domanda di un giornalista se aveva paura di venire ucciso da Putin aveva risposto: «Sì. Un pochino. Non tanto quanto mia mamma, eppure...». Per Putin l’omicidio di un leader dell’opposizione a pochi passi dal Cremlino non è qualcosa che migliora la sua immagine, soprattutto all’estero.
Putin: è una provocazione
Il politico è stato ucciso mentre passeggiava con una ragazza di Kiev, e fonti della polizia non escludono anche la gelosia come movente. Ma un leader dell’opposizione con amicizie a Washington e Londra, ucciso alla vigilia del ritorno dell’opposizione in piazza, resta un omicidio politico, e il primo a riconoscerlo è stato proprio Putin. Ieri notte il presidente ha mandato le condoglianze alla famiglia Nemzov e ha promesso «controllo personale» sull’indagine: «Un crimine che ha tutte le caratteristiche di un’esecuzione, una provocazione».
il Fatto 28.2.15
Stato Islamico: possiamo capire la sua psicologia?
di Luciano Casolari, medico psicoanalista
qui
Repubblica 28.2.15
Il fanatismo politico che si nasconde dietro la furia teologica
I martelli dell’Is che si abbattono sulle statue di Mosul hanno radici in secoli lontani. Più profonde nel cristianesimo che nell’Islam
Iconoclastia
di Silvia Ronchey
È DIFFICILE ammetterlo, mentre i martelli dell’Is si abbattono sulle statue del museo di Mosul, ma la più massiccia e vandalica distruzione di statue nella storia dei conflitti religiosi della civiltà mediterranea non si deve all’islam, né agli arabi né ai turchi né ai puristi wahabiti, e neppure ai riformatori protestanti dell’Europa cinque e seicentesca. I responsabili furono i condottieri cattolici della Quarta Crociata, che nel 1204 conquistò Costantinopoli. Un elenco delle statue distrutte durante ma soprattutto dopo il saccheggio fu stilato da Niceta Coniata, uno dei tanti intellettuali bizantini che assistettero agli eventi per poi fuggire dalla barbarie dei latini mettendo in salvo il loro carico di cultura.
Nella descrizione che Niceta fa della caduta della polis spicca la descrizione struggente delle antichissime statue bronzee del Foro di Costantino e dell’Ippodromo, sistematicamente distrutte dai crociati, fatte a pezzi e fuse.
Che cosa c’entrano i crociati con l’iconoclastia, ossia con la distruzione (dal greco klao, rompere) delle immagini (in greco eikones)? Nulla. Anzi, fu proprio il papato di Roma il primo e maggiore nemico di quella posizione dottrinale che tra l’VIII e il IX secolo fu adottata dagli imperatori dello stato bizantino, il più grande e civile del medioevo mediterraneo ma soprattutto il grande rivale del papato. L’iconoclasmo bizantino, nella sua condanna teologica delle immagini, si rifaceva a una doppia tradizione. Da un lato al cosiddetto aniconismo giudaico, trasmesso dall’ebraismo al giovane Islam, ma anche, ben prima, al giovane cristianesimo. Il suo fondamento stava nella proibizione biblica di riprodurre l’immagine divina, e difatti nell’iconoclasmo bizantino tornarono in voga gli scritti degli apologeti dei primi secoli cristiani, che si scagliavano contro l’idolatria e addirittura proibivano ai fedeli di svolgere la professione di pittore o scultore.
D’altro lato, sul piano filosofico, l’iconoclasmo era un’espressione estrema della filosofia platonica e della sua condanna dell’immagine in quanto “copia di una copia”, essendo il mondo sensibile solo una copia di quello delle idee. Peraltro i promotori dell’iconoclasmo, gli imperatori isaurici, non promossero la distruzione di icone, ed è stato recentemente messo in dubbio perfino che Leone III Isaurico abbia distrutto l’immagine del volto di Cristo sulla Chalké, sostituendola con una croce, come la propaganda degli iconoduli, i sostenitori delle immagini, ha tramandato. In ogni caso, la controversia restava interna alle dispute dottrinali del cristianesimo. Gli iconoduli condannano l’iconoclastia come eresia cristologica, considerando la rappresentazione di Cristo lecita in quanto proclamazione del dogma dell’incarnazione. La sottile disputa sfocerà in un nuovo statuto dell’immagine che si affermerà parallelamente al diffondersi dell’aristotelismo nella cultura bizantina: l’icona è ammissibile e non assimilabile all’idolatria solo se non intende rappresentare naturalisticamente la figura sacra, ma promuovere la riflessione teologica sulla sua essenza sovrasostanziale. Secondo la definizione conciliare: «Chi venera l’icona vi venera l’ipòstasi di colui che vi è inscritto », dove si usa il verbo “inscrivere” per distinguere questo tipo di rappresentazione da quella propriamente figurativa.
Avallare la rivendicazione ideologica dell’Is, che riconduce i vandalismi di Mosul alla tradizione dell’iconoclastia islamica, è tanto storicamente rischioso quanto parlare di medioevo in riferimento alla barbarie integralista delle frange estreme dell’Islam contemporaneo. Il medioevo è stato lungo, multiforme e complesso. La tolleranza araba verso chi rimaneva fedele al proprio culto era proverbiale. Quando nella primavera del 638 il califfo Umar ibn al-Khattab, successore del Profeta, conquistatore di Gerusalemme, era entrato nella città santa, aveva mostrato il massimo rispetto per i monumenti delle due religioni conquistate. Aveva visitato la basilica bizantina dell’Anastasis. Si era fatto accompagnare al tempio dei giudei e nel vederlo ridotto a un deposito di rifiuti si era addolorato e aveva preso a ripulirlo. Quando nella primavera del 1453 Mehmet II Fatîh, conquistatore di Costantinopoli, entrò nella Città delle Città, fece risparmiare i palazzi e le chiese e la Polis, una volta sottomessa all’islam, rimase la città conquistata con più altari consacrati alla religione dei vinti.
La distruzione delle statue di Mosul da parte dell’Is, così come quella dei Buddha di Bamiyan nel 2001 da parte dei talebani, non rientra nell’ambito della teologia né in quello dell’iconoclastia religiosa, ma nella storia, purtroppo densissima, della cosiddetta iconoclastia politica, termine oggi in uso per indicare un fanatismo di stampo religioso divenuto strumento di lotta politica eversiva. Ben prima dell’inizio dell’iconoclasmo la chiesa cristiana ne aveva dato prova, ad Alessandria d’Egitto, nel 392, quando le milizie integraliste, guidate dal patriarca Teofilo, avevano distrutto il simbolo della tradizione religiosa pagana, il Serapeo. Come scrisse allora Eunapio: «Stringendo d’assedio i luoghi sacri, accanendosi rabbiosamente sulle sante pietre e sui simulacri di marmo, fecero guerra alle statue, sgominandole come avversari che non potevano opporre resistenza».
Il patriarca cristiano fece anche decapitare con una scure la monumentale statua di Serapide, opera di Briasside. Come ha scritto Edward Gibbon nella sua Decadenza e caduta dell’impero romano : «Si tratta di eccessi che sarebbe ingiusto imputare alla religione di per sé; ma è bene lavare dall’accusa di ignoranza i poveri arabi, le cui traduzioni ci hanno conservato le meraviglie della filosofia, della medicina e delle scienze greche, e le cui opere fendevano coi loro raggi splendenti le brume ostinate dell’età feudale ».
Repubblica 28.2.15
L’aggressione a un museo pretende di annullare la storia Si distrugge un’opera d’arte perché se ne riconosce la forza
Chi devasta un’idolatria ne produce un’altra
di Salvatore Settis
È L’ANNO 2061, sulla piazza c’è una lunga coda. Avanza, disciplinata. A due, a tre per volta si fermano davanti alla Gioconda appoggiata al muro, sputano sul quadro e se ne vanno. «Perché lo facciamo?», chiede Tom, un ragazzo. Gli risponde Grigsby: «Ha a che fare con l’odio. Odio per qualsiasi cosa che appartenga al passato. Come siamo arrivati a queste città in rovina, strade a pezzi per le bombe, campi di grano radioattivi, le case distrutte, gli uomini nelle caverne? Dobbiamo odiare il mondo che ci ha portato fin qui. Non ci resta più nulla, se non fare festa distruggendo».
Così un racconto ambientato in un’America post-apocalittica, scritto nel 1952 da Ray Bradbury, lo stesso che poco dopo avrebbe pubblicato Fahrenheit 4-51 , dove leggere un libro è reato. Ma la storia non conferma queste fantasie. L’iconoclastia bizantina del sec. VIII-IX, quella protestante del Cinquecento, l’abbattimento delle statue di Mussolini, di Stalin, di Saddam Hussein non sono mai la negazione in toto del passato, ma la scelta rituale di distruggere qualcosa per esaltare qualcos’altro (la purezza della fede, il trionfo della democrazia...).
L’aggressione al museo di Mosul e ai reperti delle civiltà millenarie del Vicino Oriente antico si presenta come un gesto infinitamente più radicale, che pretende di annullare la storia in nome di un Islam originario e senza immagini, di un Corano che ri-crea la storia, e prima del quale non c’è nulla. Ma il Corano conosce Abramo (Ibrahim) e lo considera un profeta; Maometto è sì un nuovo inizio, ma in una linea che assimila e onora i profeti del passato (inclusi San Giovanni Battista e Gesù). La lotta contro l’idolatria, che affratella le religioni del Libro (ebraismo, Islam, cristianesimo) ha avuto accessi di febbre iconofobica, ma non è stata mai, in nessuna di esse, dottrina universale.
Annientare la memoria di Ninive non può esser spacciato come un gesto polemico contro l’odiato Occidente, a cui pure si devono scavi, decifrazioni, scoperte. Dalla Mesopotamia non vengono solo dati di civiltà che hanno poi trovato posto nelle culture mediterranee e in Europa. Vengono, per l’Europa e per il mondo (compreso l’Islam), pensieri, riflessioni, osservazioni che hanno fondato la carta del cielo, i nomi e la forma di costellazioni e segni dello zodiaco; vengono nozioni mediche e scientifiche, invenzioni mitiche e letterarie, l’agricoltura e la città. Vengono esperienze storiche che hanno creato linguaggi e formule della regalità, ma anche impulsi alla convivenza fra popoli e civiltà diverse.
È questo il caso del mirabile cilindro cuneiforme di Ciro il Grande (539-38 a. C.), dove il re persiano proclama la propria gloria in nome della tolleranza. «Io sono Ciro, re dell’universo, re di Babilonia: il mio enorme esercito l’ha conquistata, ma il suo popolo non deve temere, lenirò la sua sofferenza. Salverò le loro vite e i loro templi, le statue dei loro dèi saranno intatte, e quelle che sono state allontanate verranno restituite ai templi che loro spettano, ricostruirò le mura e le porte ».
In Mesopotamia come in Europa, nessun territorio è mai stato di un solo popolo né di una sola religione: la sovrapposizione, la mescolanza, il contrasto nella convivenza hanno costantemente arricchito le nostre città, le nostre letterature, il nostro patrimonio di immagini e di parole, la nostra anima.
Programmaticamente barbarica, la furia iconoclasta che si è scatenata a Mosul è però anche profondamente contraddittoria. Distrugge immagini di antiche divinità e sovrani, ma lo fa sotto gli occhi delle telecamere. Devasta spietetamente, ma su un palcoscenico, e per produrre nuove immagini, i filmati diffusi all’istante allo scopo di mostrare i muscoli e ricattare il mondo. Accusa di idolatria un museo archeologico, ma dissemina dappertutto l’auto-idolatria di chi si fa filmare mentre devasta; e si fa filmare per essere visto, perché la propria immagine che distrugge altre immagini diventi una nuova icona.
Alla pretesa idolatria degli antichi l’Is sostituisce un’idolatria più vera e più palpabile, l’iconizzazione di sé; e mentre maledice le immagini altrui, produce, alimenta e promuove le proprie. Distrugge le immagini perché ne riconosce la forza, e dunque la imita. È la nemesi della storia: come quando, subito dopo l’11 settembre 2001, il mullah Muhammad Omar, capo dei taliban afghani, paragonò l’America a Polifemo, «un gigante accecato da un nemico a cui non sa dare un nome», da un Nessuno. L’arcinemico della cultura occidentale, l’iconofobo distruttore dei Buddha di Bamiyan, paragonava se stesso a Ulisse che acceca Polifemo. Stava, dunque, citando Omero.
Repubblica 28.2.15
Negazionismo
Il divieto di opinione
di Ian Buruma
GLI atti di terrore causano danni terribili. Tuttavia, non possono distruggere una società aperta. Solo chi governa le nostre democrazie può farlo, limitando le nostre libertà nel nome della libertà. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe, nazionalista di destra, non ha bisogno di molti incoraggiamenti per inasprire le leggi sulla sicurezza, conferire maggiori poteri alla polizia o facilitare il ricorso alla forza militare. La raccapricciante uccisione di due cittadini giapponesi catturati in Siria da parte dei terroristi del-l’Is ha fornito ad Abe l’incoraggiamento di cui aveva bisogno.
Il Giappone tuttavia non è mai stato considerato un bastione della libertà di espressione, né ha mai preteso di esserlo. La Francia sì. Ed è proprio questo che la manifestazione di solidarietà che ha avuto luogo all’indomani dei recenti attentati terroristici di Parigi ha inteso sottolineare. Più di qualsiasi altro Paese, la Francia è riuscita ad evitare la trappola nella quale sono invece caduti gli Usa dove, all’indomani dell’undici settembre, la paura stessa della violenza terroristica ha minato la libertà dei cittadini più di quanto non avessero fatto gli attentati suicidi.
Così come accade nella maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, anche in Francia esistono leggi che vietano di tenere discorsi che esortano all’odio. Il presidente Hollande, che a differenza di Abe non è un nazionalista di destra, vuole inasprire quei divieti e ha proposto nuove leggi in base alle quali entità online come Google e Facebook saranno ritenute responsabili di qualsiasi “professione di odio” pubblicata online dai propri utenti.
Alcuni ex capi di Stato dell’Ue hanno appoggiato la proposta — avanzata dai leader ebrei d’Europa — di criminalizzare in ogni Paese dell’Unione non solo l’antisemitismo e il negazionismo ma anche, più in generale, la “xenofobia”. Ma è davvero una buona idea quella di ricorrere alla legge per mettere al bando delle opinioni?
È improbabile che tali leggi possano ridurre il rischio di atti terroristici. Proibire la libera espressione delle opinioni non basterà a farle svanire. Queste infatti sopravviveranno, ammantate magari nella segretezza e rese quindi persino più tossiche. E il fondamento sociale e politico del terrorismo, in Medio Oriente ma non solo, non verrà certo meno solo grazie al divieto di tenere discorsi xenofobi. Ricorrere alla legge per vigilare su ciò che la gente pensa comporta inoltre il rischio di reprimere il dibattito pubblico.
Secondo un’interpretazione alternativa dell’incitazione all’odio attualmente in vigore negli Stati Uniti, le opinioni, per quanto riprovevoli, devono poter essere liberamente espresse così da consentire la libera manifestazione del dissenso. Ritenere che gli estremisti religiosi o politici siano interessati a uno scambio di opinioni sarebbe, naturalmente, da sciocchi. Ecco perché anche negli Usa l’incitazione alla violenza è vietata dalla legge. Ma quando la libertà di espressione genera, in maniera dimostrabile, violenza, non è più tutelata dal primo emendamento della Costituzione.
Le opinioni xenofobe o la negazione di genocidi realmente accaduti sono ripugnanti, ma non determinano necessariamente una situazione di imminente pericolo. Nella maggior parte delle società, compresa quella statunitense, l’espressione pubblica di tali opinioni è arginata dalla percezione comunemente condivisa di ciò che si ritiene socialmente accettabile.
Tale percezione cambia con gli anni, e il compito di definirne i contorni spetta ai direttori dei giornali, agli scrittori, ai politici e ad altri che si esprimono in pubblico. La percezione di ciò che è socialmente accettabile è destinata ad essere messa a dura prova da vignettisti, artisti, blogger, attivisti, comici e via dicendo. Alcune di queste sfide possono suscitare sdegno, ma vietandole per legge (a meno che non promuovano o minaccino la violenza) si causerebbero più danni che benefici. Lasciando al governo il compito di decidere quali opinioni sono ammissibili e quali no si rischia non solo di reprimere il dibattito pubblico, ma che i governi agiscano arbitrariamente e mossi da fini egoistici.
Nell’attuale clima di paura può essere utile ricordare un celebre caso di esortazione all’odio che si verificò nel 1977 a Skokie, un sobborgo di Chicago che contava una larga popolazione ebrea e dove il partito nazista americano aveva organizzato una manifestazione. Di fronte a un’opinione pubblica turbata e spaventata, un tribunale locale stabilì, con un ragionamento plausibile, che l’esibizione di svastiche, la distribuzione di volantini e l’ostentazione di uniformi naziste andassero vietate in quanto offensive per una comunità che contava tra i propri membri dei sopravvissuti dell’Olocausto.
L’Aclu, l’Unione americana per le libertà civili, si oppose a quel divieto, ritenendolo una violazione del primo emendamento, quello che tutela la libertà di espressione. La posizione dell’Aclu, i cui avvocati erano nella maggior parte dei casi ebrei liberali, non nasceva certo da un senso di tolleranza nei confronti dei simboli o delle opinioni naziste, bensì dalla convinzione che se permettiamo al governo di vietare delle opinioni che detestiamo o disprezziamo mettiamo a rischio il nostro stesso diritto di opporci quando quello stesso divieto viene imposto su opinioni che ci trovano d’accordo.
(Traduzione di Marzia Porta)
Repubblica 28.2.15
Le mamme narciso
Una radicale trasformazione investe l’istituto materno. Si vive meno per i propri figli e più per rivendicare piena autonomia
Dalla mitologia del sacrificio alla ricerca della libertà assoluta. Così cambia un’immagine secolare
Ne è un evidente segnale “Mommy”, il film del giovane regista canadese Xavier Dolan Per Lacan in ogni genitrice c’è un’inconscia spinta a incorporare le proprie creature
di Massimo Recalcati
NELLA cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. È per questa ragione che Franco Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma un’“inondazione del codice materno”, una sorta di maternage melanconico e spaventoso.
La sicurezza e l’accudimento perpetuo in cambio della libertà. Sulla stessa linea di pensiero Jacques Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo, insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre. Quello che Lacan intendeva segnalare è che in ogni madre, anche in quella più amorevole, che nella struttura stessa del desiderio della madre, troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio. È l’ombra scura del sacrificio materno che, nella cultura patriarcale, costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre-padrone. Era la patologia più frequente del materno: trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.
Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre: né bocca di coccodrillo né ragnatela adesiva né sacrificio masochistico né elogio della mortificazione di sé. Alla madre della abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire “narcisistica”. Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.
L’ultimo capolavoro del giovanissimo e geniale regista canadese Xavier Dolan titolato Mommy ( 2014) mostra il passaggio delicatissimo tra l’una e l’altra di queste rappresentazioni della maternità. Per un verso la coppia madre-figlio del film assomiglia alla coppia simbiotica tipica della patologia patriarcale della maternità: non esiste un altro mondo al di fuori di essa, non esiste un terzo, non esiste padre, non esistono uomini, non esiste nulla. È una negazione che il regista trasferisce abilmente in una opzione tecnica traumatica: le riprese a tre quarti — l’assenza di fuori campo, come ha fatto notare recentemente Andrea Bellavita — evidenziano un mondo che non conosce alterità, che non ha alcun “fuori” rispetto al carattere profondamente incestuoso di questa coppia. Ma è l’atteggiamento finale della madre che risulta inedito rispetto alla rappresentazione sacrificale del desiderio materno. Ella non trattiene il figlio problematico (la diagnosi psichiatrica lo classifica come “iperattivo”), ma — seppur contraddittoriamente — vorrebbe liberarsene. Il suo desiderio non è più quello rappresentato dalla madre-coccodrillo e dalla sua spinta fagocitante, ma quello di risultare, come afferma in una battuta finale, «vincente su tutta la linea »; per questo decide di affidare il figlio intrattabile ad una Legge folle che prescrive il suo internamento forzato.
La madre descritta in Mommy rappresenta il doppio volto della patologia della maternità: da una parte l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, dall’altra l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistica di se stessa. Il problema della madre narcisista non è più, infatti, quello di separarsi dai propri figli, ma di doverli accudire; non è più quello di abolirsi masochisticamente come donna nella madre, ma vivere il proprio diventare madre come un attentato, un handicap, anche sociale, al proprio essere donna.
La spinta divoratrice della madre-coccodrillo si è trasfigurata nell’ossessione per la propria libertà e per la propria immagine che la maternità rischia di limitare o di deturpare. Il figlio non è una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto. Si tratta di una inedita patologia (narcisistica) del materno. Ne avevamo avuto un’anticipazione significativa in altri film, come S infonia d’autunno (1978) di Ingmar Bergman e Tacchi a spillo di Pedro Almodovar (1991), o, in una forma ancora più traumatica, in Mammina cara (1981) di Frank Perry, tratto dalla biografia dell’attrice Joan Crawford scritta dalla figlia adottiva che fornisce il ritratto di una madre instabile e totalmente immersa nel proprio fantasma narcisistico.
In essi emerge una rappresentazione della maternità profondamente diversa, ma egualmente patologica, da quella imposta dalla cultura patriarcale. Si tratta di donne che vivono innanzitutto per la loro carriera e, solo secondariamente e senza grande trasporto, per i loro figli. In gioco è la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta (giustamente) il prezzo del sacrificio rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento.
È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema però non consiste affatto in quella rivendicazione (legittima e salutare anche per gli stessi figli), ma nell’incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna. Se c’è stato un tempo — quello della cultura patriarcale — dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre.
il manifesto 28.2.15
L’inconscio è intelligente o stupido?
di Sarantis Thanopulos
qui
il Fatto 28.2.15
Tutto intorno a Franco Basaglia
La repubblica dei matti
di Elisabetta Reguitti
"LA MIA Repubblica dei matti non è un libro basagliacentrico”. La premessa dello stesso autore toglie qualsiasi traccia di dogma sacrale sul lavoro e sulle teorie di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo (1924-1980). John Foot – docente di Storia contemporanea italiana a Londra – ha ricostruito la vicenda con rigore storico documentando i successi, i fallimenti e le controverse vicende che accompagnarono il periodo di azione del medico veneziano, ispiratore della Legge 180. “Ho voluto raccontare il lavoro dei colleghi e il ruolo svolto da Franca Ongaro Basaglia, moglie e collaboratrice di Franco, una parte di storia ad oggi ancora sottostimato”, ha spiegato l’autore al Museo Laboratorio della Mente di Roma. “La Repubblica dei Matti. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978” avrà un seguito. Un secondo capitolo proprio per l’ampiezza del materiale ancora tutto da studiare e diffondere. “Non mi interessava essere partigiano, ma obiettivo”, aggiunge il ricercatore che racconta di essere incappato in Basaglia quasi per caso. “Ero a Trieste per lavorare ad un progetto sulla memoria divisa. Ho visto un film che parlava del manicomio di San Clemente a Venezia e così sono arrivato a Basaglia attraverso testimonianze”. Figlio di un giornalista, John Foot utilizza comunque lo stile dell’indagine approfondita delle fonti: entra e racconta la vita di quei pazienti vittime o testimoni loro malgrado di una rivoluzione.
Repubblica 28.2.15
Giorgio Morandi
Un mondo di luce chiuso in una stanza
Da oggi al Complesso del Vittoriano di Roma una retrospettiva celebra quello che Longhi definiva il più grande pittore italiano del Novecento
di Lea Mattarella
IL RITRATTO di un Giorgio Morandi ironico e bonario, cattivello al momento giusto, quando magari si trattava di esprimere un giudizio sull’opera di un altro, ce l’offriva, anni fa su queste stesse pagine, Giuliano Briganti. Il quale citava soprattutto l’affettuosa imitazione che del pittore (per molti il più grande del ‘900 italiano) facevano i suoi amici, Longhi, Ragghianti, Maccari, Brandi, Raimondi, Arcangeli. E così, si era durante la guerra, quelli ricordavano «il suo inconfondibile accento bolognese, quel suo parlare lento e strascicato, quel pencolare in avanti dalla sua altezza un po’ scheletrica scuotendo la testa come per dire no, alzando le sopracciglia sotto la breve frangetta d’argento e agitando come semafori le lunghissime braccia». A chi aspiri a una vita d’artista dannunzianamente inimitabile, o almeno a sentirsela raccontare, la biografia di Morandi non offre appigli. Allo scorrere degli anni non hanno corrisposto sostanziali cambiamenti, azioni da ricordare. La figura involontariamente mitica di questo artista è tutta strettamente legata a Bologna, città dove egli visse e morì, alle sue strade porticate, alla casa di via Fondazza o, al colmo dell’estensione geografica, a Grizzana, sull’Appennino tosco-emiliano.
Anche fisicamente, la leggenda morandiana vanifica ogni sensazione di varietà, di movimento. Conta soltanto l’opera, e questa coincide con l’immobilità, e con la ripetizione. Morandi vi aderisce a tal punto da rendere quasi miracoloso il fatto che quella specie di rifugio dai confini così protetti, come la sua camera- studio (chiamarla atelier sarebbe un’esagerazione) sia diventato luogo assoluto, l’esclusivo set di una creatività concentratissima e al tempo stesso universale. L’ha efficacemente descritto lo storico dell’arte Werner Haftmann: «una camera di media grandezza, con una finestra che dava su un piccolo cortile ricoperto di verde. Qui si trovava anche la sua brandina, un vecchio scrittoio e il tavolo da disegno, una specie di libreria, il cavalletto e poi tutt’intorno su stretti scaffali l’arsenale, in attesa discreta, delle semplici cose che noi tutti conosciamo attraverso le sue nature morte: bottiglie, recipienti, vasi, brocche, utensili da cucina, scatole. Le aveva scovate chissà dove, per lo più da rigattieri, si era innamorato di ciascuna di esse, le aveva portate a casa una ad una, per poi disporre in fila questi trovatelli quali suoi compagni di stanza, in via sperimentale, e con grandi speranze ».
Dietro il nome di Morandi, ovunque vadano i suoi dipinti, sfila anche tutto questo piccolo, immenso mondo di bellezza e di silenzio. Ora, a quarantadue anni dalla retrospettiva curata da Cesare Brandi alla Gnam, l’opera del grande bolognese torna a Roma, con un’importante mostra allestita al Complesso del Vittoriano, Giorgio Morandi 1890-1-964 (da oggi fino al 21 giugno, catalogo Skira). Ideata da Comunicare Organizzando e curata da Maria Cristina Bandera, l’esposizione raccoglie oltre 150 opere selezionate da istituzioni pubbliche (tra queste il Centre Pompidou, i Musei Vaticani, il Mart, gli Uffizi) e collezioni private, ripercorrendo tutto l’arco della vicenda morandiana. Accanto ai dipinti ad olio, oltre 100, ci sono anche le incisioni, nelle quali Morandi fu maestro.
Fin dall’inizio, quindi già dagli anni ‘10, colpisce l’enorme capacità che possiede l’artista di selezionare ciò che più gli serve, di identificare le sue stelle polari. «Pochi grandi antichi, pochi grandi moderni», annota Francesco Arcangeli. Così Morandi sceglie: Giotto, Masaccio e Paolo Uccello; Cézanne e Renoir. Lo testimoniano i primi dipinti, dove compaiono accenni anche a Picasso, o a Derain. Entrano in gioco il futurismo, e poi la Metafisica e l’adesione a Valori Plastici, ma per Morandi tutto ciò è solo un attraversamento veloce di strade che gli si aprono davanti. Il tema è essere se stessi, il che equivale un poco a nascondersi, per «toccare l’essenza delle cose » come amava ripetere. Un punto sostanziale di passaggio si ha scavallando il 1920. Per accorgersene basta confrontare la celebre, ancora metafisica, natura morta del ‘19 che arriva da Brera, con quella meravigliosa del ‘24, della Fondazione Longhi: gli orli ora si ondulano, gli oggetti tremano quasi, e mai più cesseranno di farlo; non sono più così netti, ma come smangiati dai piccoli morsi di un’atmosfera densa, cedono qualcosa di loro stessi all’aria, subiscono una specie di cerea liquefazione. Il colore, nelle sue tonalissime scale, è la sorprendente solidificazione di una luce che scaturisce da dentro il quadro.
Da lì in poi Morandi è solo Morandi. È «il testimone di quelle cose mute» come ha scritto Yves Bonnefoy, che nella loro mutezza però irradiano sentimenti. Con quale capacità ora il pittore orienta il nostro sguardo verso una parte di mondo che lui ritiene essenziale, microspazi che nella progressione degli anni sono occupati da oggetti umilissimi eppure sempre più misteriosamente belli. Sono opere con le quali abbiamo confidenza, come se «le riconoscessimo da una memoria lontana», scrive Ferzan Ozpetek in catalogo. Con i dipinti del 1941, poi del ‘48, e poi lungo tutti gli anni ‘50 Morandi modula la propria voce, e raggiunge il massimo della qualità compressa in una forma breve. Fa pensare a Ungaretti, e d’altronde sappiamo che il pittore leggeva Leopardi e Pascal. Avere un orizzonte ristretto, e così allargare la mente e l’occhio degli altri: era stata la sfida di Chardin, ora è la sua. Sfida accettata perfino nell’afa meridiana degli stupendi paesaggi, così inaccessibili se non per lo sguardo, mai consentiti al passo di un uomo: le case e le strade bianche che il pittore inquadrava da lontano, scrutandole con un cannocchiale.
Infine c’è il pittore sublime degli ultimi acquerelli, gli oggetti sono ora soltanto le loro orme, ombre evanescenti, haiku delle immagini. Quando Morandi scomparve, Longhi espresse in una delle sue pagine più belle il proprio sbigottimento. Erano amici da decenni, pur continuando a darsi contegnosamente del lei. Per il grande critico fu come se, uscito di scena Morandi, la sua «elegia luminosa», fosse morta tutta un’epoca. E in qualche modo la pittura stessa.