giovedì 26 febbraio 2015

il Fatto 26.2.15
Stefano Rodotà
“Un nuovo inizio, si fa politica anche senza partito”
intervista di Salvatore Cannavò


Stefano Rodotà ha seguito con interesse la polemica nata attorno alle proposte di Maurizio Landini. Il termine “coalizione sociale” è di suo conio e qualche settimana fa, proprio con Il Fatto, aveva spiegato il senso della proposta. Dopo il clamore suscitato dall’intervista del segretario Fiom, torna sull’argomento.
Le sembra che quella lanciata da Landini sia una proposta politica?
Assolutamente sì. Anche perché, questa “coalizione sociale”, che io stesso avevo proposto, è una formula che aiuta a fare chiarezza. Non si possono ripercorrere le vie del passato, quelle fallimentari della lista Arcobaleno, della lista Ingroia o, su altri piani, della lista Tsipras. Il chiarimento migliore mi pare che sia venuto da Sergio Cofferati nell’intervista di ieri al Fatto.
Cosa l’ha convinta di quella intervista?
Tre elementi. Primo: dobbiamo guardare fuori dall’Italia ma né Podemos né Syriza sono modelli che possiamo importare. Secondo, il problema principale è individuare i temi e i princìpi dai quali partire per un lavoro comune. Il terzo passaggio messo in evidenza da Cofferati è che solo fatti questi primi due passi si può individuare il tema della rappresentanza e poi anche quello del leader.
Fuori dai partiti, dunque?
Non ho in mente un movimentismo al quadrato. Ma la coalizione sociale significa in primo luogo riconoscere quel lavoro consolidato e forte di molti soggetti che esiste già da diverso tempo e che è stato già vincente.
Esempi?
Quando si fa riferimento a Luigi Ciotti si fa riferimento a un’esperienza, Libera, che anche con campagne come Miseria Ladra ha determinato un grande lavoro comune. Quando si fa riferimento al lavoro di Gino Strada, si fa riferimento a laboratori che già operano anche in Italia. Terzo caso possibile, i comitati per l’acqua e i beni comuni sono i più vincenti di tutti con il risultato del referendum.
E la Fiom?
In questo progetto la Fiom è un aggregatore che ha fatto una delle lotte più importanti per veder riconosciuti dei diritti. La sentenza della Corte costituzionale che l’ha riammessa nelle fabbriche del gruppo Fiat ha anticipato di sei mesi la sentenza che ha dichiarato illegittimo il “porcellum”. Entrambe quelle sentenze dicevano che non si può negare la rappresentanza ai lavoratori o ai cittadini.
Ma a Landini si rimprovera di voler fare un partito, anche se ha sempre chiarito.
Si tratta di un altro equivoco. Quando Landini dice che fa politica ma che non fa un partito, dice qualcosa che la cultura debole di questo periodo ha perduto: la politica non si chiude tutta dentro i partiti. Oggi c’è una società in cui i partiti sono diventati oligarchia e hanno espropriato i cittadini.
Conferma quel giudizio di “zavorra” che diede dei partiti alla sinistra del Pd?
Qui ci sono due equivoci che vanno evitati. Il primo è ragionare in termini di ‘spazio a sinistra del Pd’. Il Pd prova a ribadire, spasmodicamente, che sta realizzando cose di sinistra ma si tratta di una excusatio non petita. Sulla base di provvedimenti come il Jobs Act o la responsabilità civile dei giudici ne viene fuori una grande restaurazione di centro. Più che uno spazio ‘a sinistra’, oggi ci sono una serie di principi e diritti che non trovano copertura politica.
E l’altro equivoco?
Riguarda il mondo della politica organizzata: qui siamo di fronte o a un problema di sopravvivenza (Prc e Sel) o a un problema di appartenenza (minoranza Pd). Noi invece abbiamo bisogno di un nuovo inizio. Non possiamo portarci dietro tutto quello che c’è stato nell'ambito della sinistra.
Lei è critico anche con la lista Tsipras?
È stata una buona occasione che non doveva essere perduta. Ma oggi abbiamo bisogno di una chiara discontinuità. Quello che lega le formazioni politiche esistenti non mi sembra adeguato alla situazione nuova.
Quali saranno i primi passi di questa coalizione?
È necessario che i diversi soggetti proponenti concordino un cammino che richiederà forme di contatto permanente, con la Costituzione come bussola ma calata nella lotta politica attuale.
E come porsi di fronte alle elezioni?
In questi anni diverse esperienze, penso a quella di Alba, sono state travolte dalle elezioni. Solo quando sarà maturato qualcosa di importante si può accettare di non tirarsi indietro.
Quali sono le cose concrete da fare?
Un lavoro comune potrebbe essere quello della legge di iniziativa popolare di modifica dell’articolo 81 che prevede il pareggio di bilancio.
E che tempi immagina?
Ragionevolmente brevi.

Corriere 26.2.15
Tra sindacato e politica
L’ex saldatore che rinunciò agli
Nove cose da sapere su Landini
Le vittorie e le sconfitte del leader Fiom con un futuro (forse) in politica da anti-Renzi
di Davide Casati

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il manifesto 26.2.15
Al via la «fabbrica» di Landini
Pomigliano. Assemblea alla Fiat con il leader Fiom e Libera. Prima tappa della coalizione sociale
Il segretario delle tute blu: «Oltre i cancelli per una nuova politica dei diritti e del lavoro. Contro il modello Marchionne-Renzi»
di Adriana Pollice

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Il Tempo 25.2.15
Civati e gli altri: me ne vado... anzi no

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il Fatto 26.2.15
Sicilia, 600 iscritti dell’area Civati fuggono dal partito

L’uscita dal Pd siciliano di circa 600 iscritti “civatiani” conferma quanto anticipato ieri dal Fatto. “C’è un disagio diffuso tra iscritti e militanti del Pd per il rischio di una mutazione valoriale e politica del partito” scrivono Piero David e Antonella Monastra, coordinatore e portavoce regionale di “È possibile” l’area civatiana in Sicilia. Area che conta circa “2 mila dirigenti e iscritti”, una parte dei quali “ha deciso legittimamente di continuare il proprio percorso fuori dal Pd, ma la totalità del gruppo dirigente regionale e la maggior parte degli iscritti è in una fase di riflessione per capire come continuare la propria battaglia per una forza politica davvero di sinistra, che si incarni in un grande partito proprio come il Pd”.
L’obiettivo assicurano è quello di cambiare il Pd “Cambiare il Pd - concludono - operando sia dall’interno che dall’esterno, è l’obiettivo centrale di chi ha a cuore il mantenimento di una connotazione di sinistra, sollecitando un dibattito con tutte le altre forze politiche e i movimenti che sul territorio vogliono costruire una forza di sinistra”. I 600, per ora, sembrano orientati a raggiungere Sel, il partito di Nichi Vendola.

Il Foglio 25.2.15
Aspettando Landini
Quelli che attendono (da anni) la venuta dell’uomo magico a sinistra, e quel certo effetto Montezemolo
di Marianna Rizzini

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Libero 25.2.15
Feltri: vi dico io dove va (e quanto vale) Landini

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il Fatto 26.2.15
Il procuratore Marcello Maddalena
“Responsabilità civile dei pm È una legge incostituzionale”
di Antonella Mascali


Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha dichiarato che con la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati “ i cittadini sono più tuteleati”... “Dipende di quali cittadini si parla – spiega il procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena – Quelli di serie A, quelli potenti, con più peso economico, in grado di insinuare nel giudicante maggiore timore si sentiranno sicuramente più tutelati, gli altri penso proprio di no”.
Ci può fare un esempio?
Immaginiamo una causa civile, quella che può determinare il maggior condizionamento, perché a una delle due parti (attore o convenuto) il magistrato è obbligato a dare torto. Poniamo il caso che un soggetto economicamente forte venga condannato. È chiaro che una sua eventuale azione civile, nel caso di accoglimento, comporterà per il magistrato una condanna più pesante, perché maggiori sono i danni. Non è la stessa cosa se davanti si ha un poveraccio o un colosso economico. Nessun magistrato ammetterà mai di essere condizionato, ma – magari inconsapevolmente – è ben possibile che lo sia. Il fattore di condizionamento comunque c’è: e non credo che tutti i magistrati abbiano lo stesso grado di resistenza.
Sempre il ministro Orlando ha detto che non c’è nulla da temere: la legge verrà applicata dagli stessi magistrati e la responsabilità è rimasta indiretta. Il cittadino che si sente danneggiato si rivale sullo Stato che a sua volta si rivarrà sul magistrato…
Mi sembra un discorso con poco costrutto. Per un magistrato, essere condannato da altri magistrati non rappresenta certo una consolazione; in ogni caso il condizionamento arriva prima. Quanto al fatto che in prima battuta la pretesa risarcitoria venga promossa contro lo Stato rappresenta in realtà quasi una beffa visto che con la nuova legge lo Stato non avrà la facoltà ma sarà obbligato a rivalersi sul magistrato con il taglio dello stipendio fino al 50%, pena la responsabilità contabile. A questo punto, anche l’essere stati esclusi dal primo giudizio (quello contro lo Stato) rischia di essere addirittura un danno, perché significa non potersi difendere immediatamente.
Con la nuova legge non ci sarà più un filtro che stabilisca se ci siano gli estremi per una causa. L’Anm dice che la legge è un segnale contro i magistrati, c’erano altre priorità come la lotta alla corruzione...
Certo. La mancanza di filtro pone serissimi dubbi di legittimità costituzionale, visto che già nel 1990 la Corte costituzionale aveva evidenziato che il filtro per evitare cause temerarie era a garanzia della indipendenza e della imparzialità dei magistrati.
Quindi per lei la legge è incostituzionale?
Sì, credo proprio di sì. Pertanto mi auguro che fin dalle prime applicazioni della normativa venga sollevata la relativa eccezione.
Prima della nuova legge un magistrato poteva essere perseguito civilmente per dolo o colpa grave. Ora anche per travisamento del fatto, delle prove o per violazione della legge anche comunitaria…
Certo, sarà adesso molto facile almeno sostenere, nel caso in cui una decisione venga a essere modificata in un grado successivo, che vi è stato travisamento del fatto o violazione manifesta della legge. Per quanto riguarda poi la violazione del diritto della Unione europea prevedo che il magistrato si rivolgerà sempre di più alla Corte di giustizia europea per evitare di essere accusato di violazione dell' interpretazione della normativa comunitaria: ne conseguirà un intasamento e rallentamento sia della giustizia europea sia di quella nazionale. Inoltre, secondo la nuova legge, la giurisprudenza europea acquista una rilevanza non riconosciuta neppure alle sentenze della Corte costituzionale. Mi sembra tutto una stortura.
Ma molti italiani pensano che finalmente pagherete anche voi magistrati…
Purtroppo i cittadini sono male informati. Se c’è dolo, se quindi c’è reato, il magistrato paga come qualunque altro cittadino. Inoltre, il magistrato è sottoposto a un sistema sanzionatorio disciplinare come nessun altra categoria o amministrazione pubblica. I limiti alla sua responsabilità civile, ora molto allentati, erano diretti a garantire la sua assoluta imparzialità in una funzione che è inevitabilmente destinata a scontentare qualcuno. Per questo dicevano gli antichi che il magistrato deve giudicare sine spe ac sine metu, ossia senza speranza di ottenere qualcosa e senza paura. Adesso il metus è stato reintrodotto. Per legge.

Repubblica 26.2.15
La legge manifesto
È evidente che quel filtro dalle azioni temerarie che si è voluto togliere deve mantenere la sua efficacia
di Gianluigi Pellegrino


IL RISCHIO di una giustizia meno attenta agli interessi deboli e collettivi. Di un giudice meno vigile nel controllo sull’abuso del potere.
IL rischio di assecondare insieme la peggiore politica e la peggiore giurisdizione, quella più remissiva e corriva.
Sono questi i grandi assenti nel dibattito intorno alla nuova disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati. Slogan deformati da due mistificazioni di fondo che la destra italiana è riuscita abilmente a far diventare fattor comune nella narrativa quotidiana: lo sguardo volto al solo processo penale e la conseguente esistenza di una guerra tra politica e giustizia che come tale richiederebbe i suoi regolamenti di conti.
E così il dibattito su indipendenza e responsabilità nella funzione giurisdizionale piuttosto che cercare gli equilibri più avanzati si trasforma nella ricerca di una norma «manifesto», che vuol dire l’uso dello strumento legislativo per declamare un messaggio o, peggio, per lanciare un avvertimento. Quello di una limitazione del controllo giurisdizionale e dello svilimento della parte più nobile della funzione, che non è una inesistente meccanica applicazione della legge ma la costante ricerca nella sua interpretazione applicativa di ambiti sempre più avanzati di tutela. Andrebbe ricordato che senza tutto questo sarebbe mancata buona parte dell’affermazione di diritti oggi diventati patrimonio comune. E sarebbe mancata anche una leva fondamentale nella difesa della nostra convivenza civile.
Il potere giurisdizionale o è insensibile (e non sempre avviene) alla forza del potere e delle parti che ha davanti o semplicemente non è. La sua ontologica funzione è nella tutela dei diritti collettivi e degli interessi deboli non solo nel penale ma ancor di più nel civile e nell’amministrativo. Ovviamente questo non vuol dire in alcun modo che il cittadino, il soggetto dell’ordinamento non debbano avere tutela contro i sempre possibili errori giudiziari. Vuol dire se mai il contrario, essendo esclusivamente questa l’esigenza sottolineata dagli organismi europei, e giammai come invece si è voluto far credere con ulteriore mistificazione, che venisse posto il minaccioso accento su una personale esposizione del magistrato. Qui la scelta, lungi dall’essere imposta dall’Europa, è stata tutta politica e tutta italiana, del resto dichiaratamente volta ad ammiccare a quel messaggio di ridimensionamento della funzione giurisdizionale, con l’effetto paradossale che mentre si dice di voler dare maggiore garanzia al cittadino nei confronti della giurisdizione, lo si colpisce proprio sul versante della principale funzione di tutela che nel suo interesse quel potere è chiamato a svolgere. Perché va da sé che un giudice personalmente più esposto non può che tendere conservativamente ad un indirizzo decisionale più corrivo meno incline alla tutela degli interessi deboli.
Per fortuna il Partito democratico e il ministro Orlando hanno scongiurato l’azione diretta della parte contro il suo giudice, che avrebbe istituzionalizzato la prassi deteriore del processo al processo, in un terribile cortocircuito. E però si deve evitare che uscita dalla finestra, quella mina rientri dalla porta a mezzo di un preteso automatismo dell’azione di rivalsa. Il testo della norma lascia spazio alla possibilità di evitarlo in sede applicativa, ma a tal fine è evidente che quel filtro dalle azioni temerarie che si è voluto togliere, deve mantenere la sua sostanziale efficacia attraverso esemplari e rapide decisioni contro iniziative proditorie e valorizzando l’eccezionalità dei casi di colpa grave e inescusabili in cui soltanto la rivalsa è possibile.
Tutto questo per scongiurare che la nuova norma piuttosto che giusto mezzo di tutela diventi, come vuole il suo “messaggio”, strumento di minaccia, il cui conto a ben vedere non lo pagherebbero i giudici che agevolmente potrebbero accomodarsi su una giurisprudenza sempre docile e corriva, ma la società e gli utenti con una perdita secca e irreparabile di affermazione e tutela dei diritti. È questa a ben vedere la vera posta in gioco, tristemente assente dal dibattito di queste ore.

Il Sole 26.2.15
Intervista a Nello Rossi, Procuratore aggiunto a Roma
«Gli effetti nocivi della legge possono essere irreversibili»
di Donatella Stasio


Nello Rossi è Procuratore aggiunto a Roma e coordina il pool reati finanziari. È stato uno dei magistrati più impegnati sulla responsabilità civile ai tempi della legge Vassalli, ora modificata dalla riforma Renzi/Orlando.
Procuratore, ha letto il tweet del premier Renzi? «Dopo anni di rinvii e polemiche oggi la responsabilità civile dei magistrati è legge!». Insomma, sembra che prima ci fosse il deserto...
In effetti, stando ai “cinguettii” del governo, ogni annuncio e ogni provvedimento segnano l’alba di un nuovo mondo, una storica realizzazione, il superamento di colpevoli inerzie durate decenni e finalmente vinte. In questo caso non è così, perché la legge approvata ieri riscrive alcune parti della legge Vassalli, che risale al 1988. Nei campi in cui è più informato (si tratti del costo della vita, del livello della tassazione o dei meccanismi del diritto e dell’economia) ciascuno di noi è in grado di percepire che l’enfasi è eccessiva e spesso ingannevole. Quindi, alla lunga, questa tecnica comunicativa mi sembra assai rischiosa: se il cittadino scopre l’inganno in una sfera che conosce bene revoca la fiducia anche agli annunci riguardanti altri settori di cui normalmente sa poco o nulla. Comunque, come magistrato preferisco parlare di questa legge nel merito, criticandola all’occorrenza anche duramente, ma nel merito.
Si parla di svolta storica ma già si annuncia una possibile correzione dopo un monitoraggio di qualche mese. Serve a tener buoni i magistrati o è un’ammissione di colpa?
Sarà necessario monitorare con attenzione gli effetti della nuova normativa. Un ravvedimento è sempre possibile anche per il legislatore. Ma questa materia non si presta a sperimentazioni legislative. Gli effetti nocivi della legge potrebbero incidere gravemente sul funzionamento della giustizia e provocare danni non facilmente riparabili.
Quali danni?
Per esempio la scelta del soccombente di trasformare l’azione di responsabilità in un improprio quarto grado di giudizio.
Lei è stato in prima fila sul tema della responsabilità civile: la legge Vassalli non ha funzionato perché su 400 ricorsi ci sono state solo 7 condanne?
Considero molto singolare questo argomento statistico, che ha portato all’eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi. Prima di eliminarlo, il ministro avrebbe avuto l’onere di analizzare nel merito almeno una parte di quei ricorsi: erano davvero fondati o la stragrande maggioranza era pretestuosa e meritava l’inammissibilità? Se il prossimo monitoraggio fosse “statistico”, non sarebbe un passo avanti.
Poiché a decidere sui ricorsi sono sempre dei magistrati, si potrebbe sostenere che l’esito è viziato in partenza. Come se ne esce?
I magistrati hanno dimostrato di non avere alcun pregiudizio favorevole nei confronti di colleghi, in presenza di accuse fondate. E poi la vera preoccupazione non è per l’esito del giudizio ma per la possibile moltiplicazione arbitraria di procedimenti pretestuosi.
Le indagini del suo pool spesso toccano ingenti interessi economico-finanziari, centri di potere. La legge vi renderà più prudenti e cauti?
Cautela e prudenza sono sempre un dovere assoluto. Ma il rischio è che, di fronte a soggetti forti, reattivi, aggressivi, il magistrato si trovi in breve tempo gravato da una mole di procedimenti che si risolveranno dopo tre gradi di giudizio e lo costringeranno a difese complesse anche nei casi di azioni pretestuose.
Ma se in prima battuta il ricorso è rivolto allo Stato, è lo Stato che deve difendersi, non voi...
È vero, ma l’Avvocatura dello Stato, già oggi stracarica di lavoro, non potrà non coinvolgere ai fini della difesa il magistrato considerato “colpevole”. Vi saranno lunghi e complessi carteggi nei quali i magistrati rimarranno impigliati e il loro lavoro ne risentirà.
A parte questo, la prospettiva di un ricorso - quando si ha a che fare con interessi economici rilevanti - può condizionare il lavoro del magistrato?
Per i magistrati di prima linea e soprattutto per i giudici civili (che devono sempre dar torto a uno dei litiganti) la prospettiva sarà quella di diventare i parafulmini dei conflitti e il condizionamento sarà dovuto all’effetto moltiplicatore dei ricorsi: dopo 15 cause sul mio operato, inevitabilmente divento un’altra persona anche se so che quelle cause sono infondate. Il filtro serviva a evitare la permanente spada di Damocle.
Una delle novità è l’aggiunta del «travisamento del fatto o delle prove» tra i casi di colpa grave. Così si sconfina nel campo dell’interpretazione?
Mi rendo conto che per i non addetti ai lavori l’espressione travisamento del fatto o delle prove può sembrare una cosa terribile ma chiunque entri in un’aula giudiziaria vedrà che le parti del giudizio si rimpallano reciprocamente l’accusa di “travisare” i fatti o le prove. In realtà si tratta di diverse e fisiologiche ricostruzioni dei fatti. E il giudice deve sceglierne una o proporne una terza. Ma questo è il cuore, l’essenza dell’attività giurisdizionale. La formula dunque è vaga e invasiva del nucleo dell’attività di giudizio.
C’è un rischio di burocratizzazione, cioè che il giudice scelga il quieto vivere?
Secondo me nessun giudice degno di questo nome vuole essere un burocrate. Ma il rischio è che cocenti e ripetute esperienze del tipo che ho descritto - entrare in un tunnel di cause e difese - possano indurre a un burocratico ripiegamento, al conformismo o alla lentezza. Invece abbiamo bisogno di tempestività e innovazione. Ricordiamoci che il giudice si muove sempre più spesso in campi inesplorati, dalla bioetica alle nuove tecnologie alla finanza creativa.
Dai tempi della Vassalli, i magistrati si tutelano stipulando un’assicurazione. Dunque economicamente siete coperti. Qual è, allora, la vera minaccia che avvertite?
I magistrati hanno già una serie di responsabilità: civile, penale, disciplinare e in alcuni casi contabile. Ma questa legge corre il rischio di metterci in una condizione di permanente minorità rispetto ai centri di potere coinvolti in questioni di giustizia. E questo è inaccettabile.

il Fatto 26.2.15
Colella, il giudice prima assolve Renzi e poi viene promosso
Il premier ratifica la nomina alla Corte dei Conti del magistrato che lo ha giudicato sui portaborse
di Thomas Mackinson


Il giudice firma la sua assoluzione in appello, Renzi la sua nomina a capo della Corte dei conti. In estrema sintesi, è andata così. Sei giorni dopo la pubblicazione della sentenza che ha definitivamente assolto il presidente del Consiglio per la vicenda dei portaborse assunti in Provincia, il governo, su proposta dello stesso Renzi e per decreto, ha ratificato la nomina del magistrato che presiedeva il collegio giudicante a Procuratore generale della Corte dei conti.
Si tratta di Martino Colella, classe 1945, magistrato napoletano di lungo corso a un passo dalla pensione. La sua promozione è arrivata neanche una settimana dopo il deposito della sentenza della I Sezione centrale d’appello di Roma, avvenuto il 4 febbraio, che sollevava il premier da ogni responsabilità sulla vicenda degli incarichi dirigenziali conferiti, senza concorso né laurea, al personale di staff della sua segreteria che era costata a Renzi due condanne per danno erariale. Non è un dettaglio. Proprio Colella ha firmato, insieme a quattro magistrati, l’assoluzione che il 7 febbraio ha provocato l’esultanza del diretto interessato (“La verità è ristabilita”) e non poche perplessità nel mondo del diritto, giacché le motivazioni sono ricondotte al fatto che era un “non addetto ai lavori” e quindi poteva non percepire l’illegittimità degli atti che autorizzava. Di singolare non c’è solo una pronuncia che, come rilevato da più parti, rischia di spalancare le porte a un sistema diffuso di elusione della responsabilità erariale, mandando assolti i tanti politici “non addetti ai lavori”.
IL PUNTO è che il giudice che presiedeva il collegio che a metà dicembre, incameradiconsiglio, ha deciso il proscioglimento dell’imputato Renzi, è lo stesso che un mese e mezzo dopo il presidente Renzi ha nominato Pg della Corte, cioè capo di coloro che debbono indagare se sussistono ipotesi di danno erariale. La sentenza è stata depositata il 4 febbraio e la nomina è stata ratificata il 10, a margine del Cdm numero 49. “Su proposta del presidente del Consiglio Matteo Renzi”, si legge nei documenti della riunione, vengono nominati un presidente aggiunto e il capo della Procura generale della Corte dei conti, con decorrenza a partire dal 25 marzo 2015. Il primo è Arturo Martucci di Scarfizzi. Il secondo è, appunto, Martino Colella. L’indicazione, a onor del vero, era stata avanzata il 13 gennaio dal Consiglio di presidenza della Corte dei conti che ha deliberato all’unanimità e trasmesso i nominativi a Palazzo Chigi. L’interessato, contattato dal Fatto, si dice certo che le due vicende siano distinte. “La Presidenza del Consiglio riceve la delibera e la formalizza”, spiega Colella, che rivendica un cv di prima grandezza sugli altri sei presidenti di sezione in corsa: “Sono stato il più giovane vincitore del concorso per l’Avvocatura di Stato, ho vinto quello d’ingresso alla Corte a soli 26 anni. Dopo il terremoto de L’Aquila ho ricostruito e riorganizzato la sezione, sono presidente d’appello da oltre due anni e nel 2014 ho redatto e sottoscritto 115 sentenze. Renzi non l’ho mai visto né sentito”. Di più, Colella giura di non aver ricevuto affatto regali dall’attuale governo, anzi: “L’incarico che mi danno, grazie a questo governo, non comporta alcun guadagno aggiuntivo perché il mio stipendio è già al tetto dei 240 mila euro lordi l’anno. Dovrò anzi restituirne 20 mila. Sempre grazie a questo governo, poi, andrò in pensione il 31 dicembre prossimo rinunciando ai migliori anni della carriera”. Proprio così, l’altro aspetto curioso della vicenda è che il nuovo incarico durerà soltanto nove mesi e mezzo.
Sia come sia, le domande restano tutte: tra 600 magistrati contabili, possibile che sia stato scelto proprio quello che ha presieduto il collegio che un mese e mezzo prima ha mandato assolto il premier? Potevano ignorarlo i consiglieri della Corte? Proviamo dall’altra parte: poteva non sapere Renzi che stava ratificando la nomina del suo giudice a Berlino? Proprio alla luce delle motivazioni della sentenza vergate dal collegio di Colella si direbbe che sì, tutto è possibile. Così come non si era accorto di aver firmato delle nomine illegittime di portaborse, perché in fondo non era un addetto ai lavori, è possibile che non si sia accorto di aver promosso il giudice che lo ha assolto. Renzi, presidente di Provincia e del Consiglio. Ma sempre a sua insaputa.

il Fatto 26.2.15
Cene del Pd: la legge col buco fa nascondere i finanziatori
La norma del 2014 deroga i partiti dall’obbligo di dichiarare entro 9 giorni i contributi fino a 100 mila euro
I Dem hanno finora dato 7 nomi su 1500
di Marco Palombi


È la realtà che è cattiva, ma le intenzioni sono buone, buonissime. Il Pd vorrebbe tanto dire che sono i privati che lo sostengono finanziariamente solo che una serie di sfortunate circostanze glielo impediscono, a partire da una legge che pare fatta apposta per opacizzare il finanziamento privato ai partiti.
Prendiamo il caso delle cene di autofinanziamento di Matteo Renzi: un incasso presunto tra il milione e il milione e mezzo di euro, 1.500 ospiti/finanziatori, 15 contributi inviati alla Camera per essere pubblicati (8 dei quali anonimi) che però non sono pubblicati affatto. Nei tabulati ufficiali non ce n’è traccia e a questo punto si potrebbe dire che il Pd sta violando la legge: quella del 1981 che regola (in parte) la materia prevede che qualunque donazione sotto i 5mila euro al partito venga notificata entro tre mesi con “dichiarazione congiunta” in “un unico documento” alla Camera dei deputati.
Il Pd, però, pur avendo inviato alla Camera solo 15 inservibili autocertificazioni (che valgono solo per la campagna elettorale) non sta affatto violando la legge, perché nel frattempo è arrivata la nuova normativa sul finanziamento ai partiti politici. È un decreto del dicembre 2013 approvato definitivamente un anno fa, febbraio 2014: a palazzo Chigi c’era Enrico Letta e Matteo Renzi era appena diventato segretario del Pd.
L’abolizione dei soldi pubblici alla politica fu uno dei temi su cui l’attuale presidente del Consiglio mise alla frusta il suo predecessore, vincendo: i rimborsi elettorali saranno aboliti dal 2017 e i partiti spinti a finanziarsi sul mercato, per così dire, grazie al 2 per mille volontario nella dichiarazione dei redditi e alle generose detrazioni sulle donazioni dei simpatizzanti (il 26% fino a 30mila euro). Tutto trasparente, assicuravano tutti: proprio per evitare sospetti su natura e finalità dei finanziatori. Nulla sarà nascosto al popolo.
IN REALTÀ, però, oltre a tante altre cosette - tipo una cassa integrazione speciale per i partiti - quella legge mette una pietra tombale proprio sul nome di chi dà soldi ai partiti. L’articolo 5 comma 3, infatti, istituisce una deroga all’obbligo di pubblicità presso la Camera per le donazioni fino all’incredibile cifra di centomila euro: per sapere chi ha dato soldi al Pd di Renzi nelle due cene di autofinanziamento di inizio novembre bisogna aspettare i bilanci consolidati e solo a patto che l’interessato acconsenta. E tanti saluti a “trovo normale che si organizzino cene in modo trasparente con persone che accettano di dichiarare il proprio contributo” scandito da Renzi il 18 novembre. Non solo il Pd non comunica quante donazioni ha ricevuto - finora solo 15, di cui otto anonime, su 1.500 ospiti - ma la legge gli consente di non farlo mai: niente obbligo di comunicazione alla Camera con l’unico accorgimento che la donazione avvenga con moneta digitale (considerando che il limite all’uso del contante è mille euro, difficile questo crei problemi di privacy a qualcuno).
Le cene, però, non sono che la punta dell’iceberg. Tutto il sistema di contributi privati ai partiti rischia a questo punto di inabissarsi: i soldi che la famiglia Riva distribuì a destra e a sinistra, quelli di Caltagirone all’Udc del genero Pier Ferdinando Casini e via finanziando in pieno anonimato. Certi rapporti, pur necessari alla sussistenza, sono assai spiacevoli da mostrare in società e il legislatore ha provveduto con legge a evitare superflui rossori alla politica italiana.
Sia chiaro, non stiamo parlando di spiccioli e l’effetto sulle dichiarazioni alla Camera comincia già a vedersi: sono in calo. Saranno i bilanci 2014, tra qualche mese, a darci l’esatta misura della cosa perché solo lì sarà registrato l’aumento del fund raising dei partiti conseguenza della progressiva abolizione del finanziamento pubblico. I dati del 2013 però (gli ultimi disponibili) sono comunque indicativi: il Pd, il partito più grande, incassava infatti contributi privati per 11,6 milioni di euro, metà dei quali da eletti o tesserati. Significa che oltre 5 milioni erano contributi di privati cittadini o imprese per cui esisteva un obbligo di pubblicità sopra i 5mila euro: ora, semplicemente, ci si può nascondere fino a centomila. Il gioco “Indovina chi è venuto a cena”, insomma, rischia di durare per sempre.

il Fatto 26.2.15
Campania, veleno di primarie
Pd tra ombre nere e immigrati
Dopo quattro rinvii, domenica si vota per il candidato - governatore
Forzisti di Cosentino e “Rom-Dem” potrebbero aiutare i favoriti
di Fabrizio d’Esposito


Senatore D’Anna, se scriviamo che lei e i suoi amici andrete a votare alle primarie del centrosinistra, scriviamo una corbelleria? ”. “Sì, scrivete una stronzata”. “Però lei è pronto a sostenere il centrosinistra alle Regionali”. “A patto che il candidato governatore sia Cozzolino o De Luca. Hanno le stimmate dei grandi amministratori. De Luca da sindaco, Cozzo-lino da assessore regionale”.
Cosentiniani nel centrosinistra
Vincenzo D’Anna è stato eletto nel Pdl. Oggi è un autonomista del Gal e un fiero e dotto avversario delle riforme renziane.
Molte sue frasi sono diventate aforismi nell’aula di Palazzo Madama. Ma su D’Anna grava quello che è considerato un marchio infame: è amico di Nicola Cosentino, ex ras berlusconiano della Campania oggi in galera per i suoi rapporti con la camorra dei casalesi. Alle prossime Regionali, D’Anna si schiererà contro il presidente uscente, l’azzurro socialista Stefano Caldoro. Ha già pronto il nome della civica: Patto per la Campania.
L’addio di Paolucci: “Voto inquinato”
I movimenti di D’Anna non sono estranei agli ultimi, clamorosi sviluppi della sceneggiata delle primarie campane del centrosinistra, domenica prossima. Ieri, infatti, l’eurodeputato Massimo Paolucci ha lasciato il Pd denunciando “l’inquinamento della destra cosentiniana” e “la trasformazione genetica” del partito. Insomma, “le primarie sono un disastro annunciato, un grande revival di Forza Italia”. A Napoli, Paolucci è un nome storico del bassolinismo. Nei mesi scorsi si è battuto con altri capibastone autoctoni per il superamento delle primarie e l’imposizione di un candidato unico, più che unitario, dall’alto. Un candidato che prima doveva essere Gennaro Migliore, ex comunista di Sel poi “leopoldino”, e poi Gino Nicolais, ex ministro e presidente del Cnr.
Gli ex gavianei al comando
Il problema è che Paolucci, anche a proposito di “trasformazione genetica” del Pd, ha propugnato il superamento delle primarie insieme a uno schieramento metafisico
più che politico. Roba da Borges, non Eduardo: ex bassoliniani, ex dalemiani, renziani locali (da Vaccaro alla Picierno) e soprattutto ex democristiani dorotei della corrente di Antonio Gava buonanima. Quest’ultimi formano una sorta di cupola scudocrociata che governa il Pd campano. Nomi che non dicono nulla o quasi all’opinione pubblica nazionale: Lello Topo, i Casillo padre e figlio, Piccolo, la segretaria regionale Tartaglione. La mente, raccontano, è Topo, figlio dell’autista di Gava e indicato come “referente alla regione” da un pentito di camorra, Giuliano Pirozzi. Sarebbe sempre lui, Topo, l’ideatore di un documento corredato da firme false con cui avrebbe tentato di bloccare le primarie.
Seicento seggi, due i favoriti
Dopo quattro rinvii, alla fine si voterà domenica primo marzo, in 602 seggi. Certificato elettorale, documento d’identità e contributo di due euro. I candidati sono cinque, ma a lottare per la vittoria sono in due: Andrea Cozzolino, eurodeputato e altro storico pilastro del bassolinismo, e Vincenzo De Luca, sindaco decaduto di Salerno. Ed era proprio questo duello che il gruppone anti-primarie voleva impedire e superare. Il tentativo è fallito e uno dei due sarà il candidato-governatore del centrosinistra. Cozzo-lino fu già protagonista di primarie indecenti nel 2011, per la scelta del candidato-sindaco di Napoli. Un voto annullato per una combinazione letale: brogli, immigrati, soccorso azzurro, inquinamento camorrista.
Sfortune renziane nel Mezzogiorno
L’incognita De Luca è la più rischiosa. La sua condanna per abuso d’ufficio potrebbe azzopparlo da subito, qualora dovesse diventare presidente, per gli effetti della legge Severino. Il bacino elettorale di De Luca è Salerno, ovviamente, ma anche nel Napoletano sono molti i sindaci che fanno campagna per lui. Cozzolino invece ha l’appoggio dei giovani turchi di Orlando e Orfini. Se i votanti non raggiungeranno la soglia psicologica dei centomila, l’ex bassoliniano potrebbe farcela. Al contrario, oltre i centomila, il favorito è De Luca. Terzo annunciato è Gennaro Migliore, su cui potrebbero confluire i voti dei renziani spaesati e spiazzati. La verità è che Renzi non ha fortuna con le primarie al sud: in Calabria il suo candidato ha perso; in Puglia ha subìto lo sceriffo Emiliano. E adesso in Campania? La cinquina è completata dal socialista Marco Di Lello e dall’ex dipietrista Nello Di Nardo.
“Elenchi con centinaia di immigrati”
Rivela un deputato campano del centrosinistra: “Negli elenchi degli elettori iscritti sono centinaia i nomi stranieri”. Ecco il pericolo. Lunedì prossimo uno dei due sconfitti tra De Luca e Cozzolino oppure lo stesso Renzi potrebbero chiedere l’annullamento del voto per le truppe cammellate di migranti. Qualcuno parla anche di “rom-dem”. La sceneggiata è ancora lunga.

Corriere 26.2.15
Le primarie dei veleni in Campania
Lascia l’eurodeputato Paolucci
di Fulvio Bufi


NAPOLI A questo punto ci sono solo due certezze sulle primarie del Pd campano. La prima è che si faranno. Hanno provato in ogni modo a evitarle, rinviandole quattro volte e sperando di trovare nel frattempo la soluzione che mettesse da parte l’eurodeputato Andrea Cozzolino e l’ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, entrambi molto forti e molto sgraditi nel partito, ma non ci sono riusciti. Quindi domenica si voterà. La seconda certezza è che non bisogna aspettare lo spoglio e le eventuali relative contestazioni per veder sfogare vecchi e nuovi rancori interni.
A dare il via alla resa dei conti anticipata è Massimo Paolucci, oggi europarlamentare per volere di D’Alema, e l’altro ieri assessore regionale nella giunta Bassolino e subcommissario ai rifiuti nell’epoca della grande emergenza e della ricerca (fallita) di soluzioni a qualsiasi costo.
Paolucci ha annunciato che lascia il Pd. Perché, scrive in una lettera aperta agli elettori, «non posso accettare che il prossimo presidente della Regione Campania sia scelto con il voto determinante del centrodestra». E non si riferisce a Caldoro, che del centrodestra è il candidato, ma a chi vincerà le primarie. Che, secondo lui, «saranno un replay peggiore di quelle svolte nel 2011», quando si doveva scegliere il candidato sindaco di Napoli ma poi furono annullate per l’ombra di brogli. Quella volta vinse Cozzolino, e da bassoliniano pentito, Paolucci è proprio contro colui con il quale condivideva il ruolo di delfino del capo che si scaglia, pur senza nominarlo. Ma è chiaro a chi si riferisce quando scrive: «Tutti vedono le fotografie riportate dai giornali. Tanti, navigando sulla Rete, hanno scoperto fotografie imbarazzanti». E le foto in Rete sono quelle di Cozzolino, all’apertura del suo comitato elettorale a Caserta, accanto a due fedelissimi di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi, oggi detenuto per camorra.
Scrive Paolucci: «Sotto i nostri occhi si definiscono accordi con interi settori del centrodestra, con i protagonisti della stagione cosentiniana». E, di fronte al «disastro annunciato» e «alla pochezza e alla miseria campana», accusa il Pd nazionale di «sconcertante irresponsabilità» perché «da mesi si ostina a lasciare incancrenire una situazione divenuta insostenibile».
Quindi lui se ne va. Ma c’è anche chi resta e però ugualmente abbandona cautele e diplomazia, e dice quello che pensa. Andrea Vaccaro, deputato, è tra quelli che non volevano le primarie. Perché «per la democrazia e l’integrità delle casse pubbliche Caldoro è meglio di De Luca e Cozzolino. Lo sa anche Renzi, ma lui non lo può dire».

Il Sole 26.2.15
Le primarie e il declino del «mito» di sinistra dei buoni amministratori
di Lina Palmerini


La frammentazione e la debolezza del centro-destra danno un vantaggio enorme a Renzi nella corsa per le regionali. Tuttavia questo appuntamento mostra che i punti deboli sono anche nel Pd renziano. Innanzitutto le primarie. Domenica ci saranno quelle in Campania segnate - pure questa volta – da conflitti, vicende giudiziarie e da candidature che non sono proprio all’insegna del rinnovamento come Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino. Ma le primarie sono state un problema anche in Liguria - con le denunce di Sergio Cofferati e l’addio al Pd - e prima ancora in Emilia quando a votare andarano in pochi, meno degli iscritti, sulla scia degli scandali dei consiglieri regionali. Un segnale che fu confermato alle urne: a novembre scorso Stefano Bonaccini vinse ma andò a votare solo il 38% degli elettori, uno shock per la regione rossa per eccellenza.
C’è qualcosa che non va quindi non solo nelle primarie ma nella sciatteria con la quale i vertici Pd stanno curando i territori. Non è solo questione di vittoria e sconfitta come dice Renzi che alle critiche oppone il risultato, il punto cruciale è che si sta appannando la capacità della sinistra di creare classe politica locale. La buona amministrazione e i buoni amministratori sono sempre stato l’atout del Pd, la carta vincente anche in tempi in cui Silvio Berlusconi viaggiava sopra il 35% ma le ultime primarie e le ultime sfide segnalano uno scadimento, una stanchezza confermata da tassi più alti di astensionismo e da sfide ai gazebo sotto il segno di irregoralità se non corruzione.
Sarà inevitabile mettere mano a una regolazione più stringente se davvero il Pd di Renzi vuole continuare a usare e valorizzare questo strumento. Le prime corse ai gazebo sono passate senza polemiche perché in fondo non c’è mai stata una sfida reale: non nelle primarie di Prodi né in quelle di Veltroni, solo con l’arrivo di Renzi - prima a Firenze e poi per la leadership nazionale - sono diventate uno strumento di competizione vero. Tanto più ora con la guerra in corso tra correnti del Pd, tra una minoranza spaccata e il blocco renziano, il rischio di ritrovarsi a ogni appuntamento con una coda di polemiche e inchieste è realistico. Se lo può permettere Renzi? Può permettersi di affrontare ogni campagna elettorale tra i veleni e denunce come è accaduto in Liguria e come potrebbe accadere domenica in Campania dove già si parla di “corsa” al voto dei cinesi.
Finora l’atteggiamento del leader è sembrato ricalcare quello di Berlusconi: il Cavaliere non si è mai curato troppo dei territori perché le campagne elettorali, le sfide più importanti, le ha sempre curate e gestite in prima persona spesso trovando la vittoria. E Renzi sembra fare lo stesso: lascia andare i conflitti e poi “ripara” con la sua campagna elettorale, con il suo comizio. Accadrà anche in Veneto ma, se solo si fosse stati più attenti a osservare il disgregamento della destra e i problemi della Lega, forse il Pd avrebbe potuto puntare su un candidato più forte e credibile per vincere la sfida nel mondo delle imprese e del lavoro che è l’ossatura di quella regione. Le vittorie di Berlusconi sui territori ci sono state ma sono state effimere, non hanno creato una classe politica locale tale da portare linfa al partito. E ora questa debolezza si vede tutta. Anche il Pd dovrebbe iniziare a riflettere su come tornare a esprimere e rafforzare quella classe di amministratori che è sempre stato un jolly per la sinistra oltre che aver portato consensi a Roma. Se l’astensionismo alle urne dell’Emilia si ripeterà anche nel prossimo voto regionale per Renzi e il partito sarà un pessimo segnale.

il Fatto 26.2.15
La metamorfosi di Debora, da agitprop a fedelissima
di Luisella Costamagna


Cara Debora Serracchiani, la sua sembrava una di quelle rare storie che riconciliano con la politica: la giovane sconosciuta del Pd di Udine che prende la parola all’Associazione dei Circoli, conquista la platea cantandole al segretario Franceschini e da lì vola sulla scena nazionale. Sembrava una fiaba.
SEMBRAVA, perché a vederla oggi, vicesegretario del Pd renziano, la sensazione è quella di un gigantesco abbaglio. In quell’ormai lontano 2009 scandiva: “Non ci possiamo riconoscere in un Paese che non tassa i ricchi solo perché pensa che siano troppo pochi”. Applausi. “Il problema è aver fatto fare a Di Pietro opposizione da solo su temi che ci appartengono, come il conflitto d’interessi e la questione morale”. Ovazione. Ma ora che guida il partito di governo, che fine hanno fatto quei temi e quei provvedimenti? La distanza – abissale – tra le sue parole di ieri e l’oggi non si ferma qui. Nel 2011 scriveva: “Il dibattito sul mercato del lavoro si sta riducendo a un referendum sull’art. 18, e questo è quanto di più sbagliato e lontano dagli interessi dei lavoratori possa fare la politica”; nel 2012 se la prendeva con la Confindustria e il Pdl, che volevano modificare ulteriormente quell’articolo rispetto alla legge Fornero: “Il campo del licenziamento soggettivo e disciplinare per definizione non ha alcun collegamento con la crisi economica e la necessità di fronteggiarla”. Oggi, invece, va bene farsi dettare il Jobs Act dalla Confindustria anche sui licenziamenti soggettivi, l’art. 18 si può rottamare e la riforma con Renzi diventa – parole ancora sue – “di sinistra”.
Nel 2013 era addirittura “incazzata”: “Quando ho sentito il nome di Marini ho ripensato alla Bicamerale. Poi ho visto la foto di Bersani che abbracciava Alfano e ho pensato: abbiamo toccato il fondo” – disse alla Stampa quando si doveva decidere il capo dello Stato – “Berlusconi è una malattia da cui non guarisco. Come quei fastidi che ti fanno dire: sono 20 anni che ho la psoriasi. L’Italia merita qualcosa di diverso”. E invece, col suo segretario-premier, avete prolungato l’infiammazione a tutti gli italiani stringendo un patto con un condannato e decaduto dal Parlamento (almeno durante la Bicamerale non lo era), che – l’ha detto ancora lei a luglio – “è sempre il benvenuto, ci dà più garanzie del M5S”, e con Alfano siete passati dall’abbraccio al bacio di governo, scavando sul fondo. L’Italia – lo dico io a lei – si meritava qualcosa di diverso. Cara Serracchiani, la sua metamorfosi è innegabile: la colorata Amélie della politica, che incarnava “Il favoloso mondo” combattendo l’apparato, ha lasciato il posto a una grigia dirigente di partito che guai ad attaccare il segretario, lui è perfetto e fa solo cose perfette, se no ve le suono. Ma al di là della delusione (penso ai molti giovani che si sono identificati in lei e l’hanno sostenuta, portandola dov’è adesso) di scoprire che in politica, con le poltrone di mezzo, non ci possono essere fiabe, resta un dubbio atroce, sul tipo di quello generato dai saldi: non si sa se ci prendevano in giro prima, vendendoci abiti a prezzo esorbitante, o lo fanno dopo rifilandoci avanzi di magazzino. Nel suo caso, era in buona fede prima o lo è oggi? Almeno allora erano solo parole, oggi invece – ahimè – sono fatti concreti.
Un cordiale saluto.

il Fatto 26.2.15
Nazareno Tv
Il patto delle torri nei salotti di Renzi
di Daniela Ranieri


Che vuoi che sia, se Mediaset si compra le torri della Rai cioè nostre? In fondo Renzi è sempre in Tv, il Pd ha scelto il capo dello Stato, B. è forse fuori gioco, e l’equilibrio, dio del mercato, si rispecchia nel gioco democratico come in una fontana barocca. Per mezzo di questo trabocchetto illogico i protagonisti dell’ultimo capitolo della nostra boccaccesca democrazia potrebbero mettere in opera la più grande fregatura dei 70 anni della Repubblica.
Non è un caso se Renzi parla adesso di “riforma della Rai”, per “liberarla dai partiti”, ma non da lui, s’intende. Ne La prevalenza del cretino Fruttero e Lucentini profetizzarono l’attuale: “Il cittadino arriva a rimpiangere stragi e terremoti, che almeno tolgono di mezzo per qualche giorno le non più tollerabili facce... E passo passo arriva ad augurarsi il partito unico, che se non altro significherebbe un unico faccione televisivo”. Ecco: direttamente da La ruota della fortuna, il faccione del partito-unico-Renzi ha spalmato se stesso su tutti i palinsesti, con preferenza per quelli della Tv pubblica, da dove, incurante dell’aporia, annuncia che è ora di ripulirla dalla politica.
COSÌ MENTRE la sua ministra favorita occupa i settimanali di gossip (“È cambiato qualcosa nella mia vita privata? Non ancora. Ma come diceva mia nonna, l'amore non vuole che gli si corra dietro. Dimagrita? Macché, ho ripreso due chili…”), lui in una settimana salta da Porro alla Annunziata e da Vespa al Tg1 e rifà il giro, in un turbinio di vanità, narcisismi, disintermediazione, facendo dell’intervista a Renzi, lunga, performativa, da maratoneta dell’auto-panegirico, un genere a sé, come il quiz preserale e i documentari di Geo&Geo. Caviglia destra su ginocchio sinistro, per ore inanella i suoi cavalli di battaglia: i gufi che “parlano male dell’Italia”, il “derby secco tra chi dice non ce la farete mai e chi dice ci state provando”, l’Italia che “si è rimessa in moto”. Lui sa che i partiti sono evaporati, specialmente il suo, e che in luogo dei congressi ci sono le sue apparizioni Tv, di cui quella dalla De Filippi stabilì il canone primo, la stele di Rosetta. Lì, in casa di B., si capì il codice per mezzo del quale l’italiano doveva leggere dell’Onnipresente i successivi exploit catodici, le espressioni gaglioffe e le seriose, le frecciate al conduttore, il vezzoso “così addormentiamo il pubblico” e lo spinterogeno “questo paese lo salviamo”.
Da un anno Matteo persegue la doppia strategia di dare di sé l’immagine europea e dem di un premier che si disinteressa della Rai, alimentando al contempo il fuoco berlusconiano del controllo che gli brucia i lombi, per lo stesso principio per il quale nei Cda delle partecipate ha messo protagonisti della Leopolda e favoriti di B. Così mentre fa sfoggio di sensibilità democratica (“Mai messo bocca su un palinsesto”, “Mai chiamato il direttore generale”, “Mai mi permetterei di parlare di una singola trasmissione” – infatti l’etwitto bulgaro partì contro Piazzapulita, di La7 –), di là lancia un missile, minaccia tagli, scazza con Floris, chiama “umiliante” lo sciopero dei lavoratori, abolisce il canone, anzi lo mette in bolletta, anzi no, espugnando tutte le sedie di via Teulada e della Dear al No-mentano per il talk della sera, per finire a Virus a fare l’elogio della Rai come la vorrebbe, e cioè “un grande motore dell’identità educativa e culturale del Paese” tipo BBC, e se lo dice lui, il cui governo ha tolto un milione di euro alla ricerca (dei 148 totali di tagli all’Istruzione), c’è da credergli.
Questa che s’è vista finora, forse, non è una Rai di rinnovamento, come direbbe la Madia, e lasciamo stare se è invasa da lui in prima persona o per mezzo dei suoi ministri ed emissari, tanto che qualche ragione ha Salvini (pensa te) quando dice che il Pd vuole trasformare la Rai in TeleRenzi (l’affare è locale, da sagra della pecora: la fidanzata di Salvini ha invitato a Unomattina ospiti anti-Tosi; il Pd s’è risentito).
TUTTI ZITTI, a parte il M5S (Fico è presidente della commissione di Vigilanza), mentre i forzisti sono attori imbolsiti stanchi di recitare la parte degli offesi dopo la presunta rottura del Patto famoso. Persino Brunetta, capacissimo a tenere il conto di percentuali di presenza, trasparenza, par condicio, si è tacitato. E qui si torna alle mire di Mediaset su parte o sull’intera Rai Way. Qualcuno fa notare che l’Opa potrebbe essere una reazione di B. al piano Rai che Renzi sta facendo stilare alla Boschi e a Lotti per metà marzo. Piuttosto – e il teatro delle parti prevede l’indignazione di Renzi per la “porcata” – pare che questo snodo di manovre incrociate stia scolpendo di fatto il gruppo laocoontico dell’intesa più grande di tutte, quella tra B. e la forza persuasiva dei suoi gettoni d’oro da una parte, e il giglio magico di Renzi dall’altra, sotto l’egida dell’inequivoco Verdini. E questo totalitarismo mediatico a due facce si autodenuncia come il marchio della reciproca acquiescenza sulle deroghe alla democrazia, cioè in definitiva come la continuazione del Patto del Nazareno con altri mezzi.

il Fatto 26.2.15
Diversamente Pd: Massimo Mucchetti
“Rai e governo non facciano i furbi”
intervista di Wanda Marra


Il Patto del Nazareno c’entra? Non lo so, quella di Ei Towers è un’offerta strana”. Parola di Massimo Mucchetti, presidente Commissione Industria del Senato. Il governo ha detto che la Rai manterrà il 51% di Rai Way. “E quindi Ei Towers dovrebbe ritirare la sua offerta. Lo farà? ”.
Senatore Mucchetti, cosa pensa dell’offerta Mediaset sulle torri Rai?
Quella di Ei Towers è un’Opa singolare, chiede il 100 per cento di Rai Way, o almeno i due terzi per poter padroneggiare l’assemblea straordinaria, quando c'è un socio, la Rai, che possiede il 65 per cento. Ei Towers ha pure il braccino corto: offre un premio di non più del 20 per cento pagato in parte con carta anzichè in contanti. Ei Towers è controllato da Mediaset. Mi chiedo: il Biscione ha già in tasca il sì della Rai oppure arriverà una seconda offerta che prevederà il condominio, con tanto di patti parasociali, tra Rai e Mediaset?
Come è possibile chiarirlo?
Il Cda di Rai Way deve prendersi le sue responsabilità, deve dire se l’offerta sia congrua o meno e se sia arrivata a sua insaputa, quindi con un profilo ostile, o se la ritiene amichevole in quanto concordata in precedenza. Anche il Cda Rai, in quanto azionista di Rai Way, deve dire la sua. Basta che dica di no e non se ne parla più.
Il governo è mai intervenuto in operazioni simili?
Nel 2001 l’allora ministro Gasparri fermò, con una lettera al Dg della Rai, la cessione del 49 per cento a Rai Way a Crown Castle che offriva 800 miliardi di lire. La valutazione odierna esprime un più 50 per cento. Sembra parecchio. Ma non lo è. L’infrastruttura va meglio broadcasting. Quindici anni fa Mediaset valeva tra un terzo e la metà di quel che vale oggi. La Rai non è una donatrice di sangue.
E gli organi di controllo cosa dovrebbero fare?
Antitrust e Agcom possono o imporre la separazione totale delle reti con fuoriuscita da Ei Towers ovvero accontentarsi dell’unbundling (cioè della separazione, ndr.) come avviene nelle Tlc. Sfortunatamente in questo caso il monopolista della rete, se passasse l’Opa promossa da Mediaset, sarebbe anche uno dei principali operatori della tv nella raccolta pubblicitaria. In un settore così connesso con l’informazione, e quindi con uno dei fondamenti della democrazie, l’unbundling da parte del monopolista della rete che al tempo stesso è uno dei principali operatori tv nel mercato pubblicitario, non darebbe sufficienti garanzie.
Anche la cessione di Rcs a Mondadori è un caso di concentrazione.
Cedere l’attività editoriale originaria è decisione che dovrebbe essere presa da un Cda nel pieno del mandato e non in scadenza, un Cda espressione di equilibri tra azionisti che sembrano superati e presieduto da un valente professionista che, credo, non potrà votare la proposta perchè in rilevanti rapporti professionali con il gruppo Fininvest. La somma di 120-130 milioni offerta da Mondadori non mi pare esagerata se è vero che Rcs ha un margine operativo lordo di 16 milioni di euro l’anno. La forza della proposta di Ernesto Mauri, ottimo ad di Segrate, consiste principalmente nel fatto che permetterebbe a Rcs Mediagroup di rispettare le garanzie richieste dalle banche creditrici. Sarebbe preferibile che queste garanzie fossero rispettate grazie alla gestione ordinaria, sostenuta da cessioni più mirate su quanto non è utile al futuro del gruppo. Se Rcs Mediagroup vuol ridefinire il suo perimetro di attività (e credo lo dovrà fare) serve un piano complessivo e non la politica del carciofo.
Anche qui, vede riverberi del patto del Nazareno?
Non lo so. Non sono un dietro-logo. Ma vedo profili antitrust assai sensibili.

Corriere 26.2.15
Tutte le ipocrisie di un falso pluralismo
La lezione Bbc che i partiti non capiscono
di Milena Gabanelli


Riassetto della Rai: per la prima volta, dalla caduta del muro di Berlino, un direttore generale ci sta provando. Il modello di riferimento è il migliore: la Bbc.
  
Parte dai tre telegiornali il piano del direttore generale per riorganizzare l’azienda, ridurre i costi e le dirigenze
«Nessuno fermerà la modernità, fuori i partiti dalla Rai», tuonò il premier. Furono fischi, e applausi. Io applaudo, non perché i partiti siano «cattivi», ma perché decidono indirizzo e governance di un’azienda sulle cui caratteristiche capiscono poco. Fra i 40 senatori e deputati, membri della commissione parlamentare di Vigilanza, in cui sono rappresentati tutti i partiti in proporzione ai voti ricevuti, troviamo dirigenti di partito, imprenditori, architetti, impiegati, sindacalisti (Epifani) ex ministri (Gelmini, Brunetta, Gasparri), e qualche raro giornalista con esperienza di ufficio stampa. Garantiscono la lottizzazione (che chiamano pluralismo) ma come tutelano il contribuente che paga il canone? Che competenze hanno per orientare i contenuti delle trasmissioni e dell’informazione?
Ora il direttore generale della Rai decide che per entrare nella «modernità» bisogna riorganizzare l’azienda, ridurre costi e dirigenze, differenziare il prodotto e renderlo più competitivo. Si comincia con i telegiornali. Nessuna tv pubblica al mondo ne ha tre, con tre organizzazioni autonome declinate per influenza politica. Gubitosi ha deciso di accorpare e il modello di riferimento è quello considerato il migliore su scala planetaria: la Bbc.
Si studiano gli aspetti di razionalizzazione tecnica: gli anglosassoni hanno creato una unica newsroom per la raccolta delle notizie e il coordinamento dei mezzi e dei giornalisti sulle diverse piattaforme. In pochi anni hanno ridotto i costi del 20%, eliminato 50 dirigenti intermedi, e sono diventati imbattibili nella qualità dell’offerta. Alla commissione parlamentare di Vigilanza questa «rivoluzione» non piace subito e ne vogliono capire di più. Lo scorso dicembre convocano in audizione la signora Anne Hockaday (lungo passato da corrispondente per la Bbc, ora responsabile della newsroom) per farsi spiegare come funziona da loro questa novità. Il collegamento con Londra cade continuamente, la signora parla, ma in aula non si sente quel che dice. Alla fine la commissione decide di inviare le domande per email.
Prima domanda dei nostri: «Come fate a garantire il pluralismo informativo con una sola newsroom?» Risposta: «Noi abbiamo una sola newsroom che organizza e supporta il lavoro dei giornalisti per metterli in grado di interagire sulle diverse piattaforme con la miglior velocità e qualità possibile. Ogni programma e ogni canale ha il suo direttore e la sua autonomia editoriale». Abbiamo confuso la macchina organizzativa con il telegiornale che viene trasmesso unicamente su Bb1 e della cui imparzialità è difficile dubitare. Pazienza. Seconda domanda: «Il singolo giornalista che realizza un servizio solo per la tv, può farlo anche per la radio e Internet con la stessa efficienza e qualità?». Risposta: «Certamente sì, il giornalista che realizza un servizio per la tv conosce la storia, e quindi se è richiesto la può raccontare anche alla radio e pubblicarla sul web».
Se l’avessero chiesto a noi, che lo facciamo da anni, avremmo risposto uguale. Facciamo solo più fatica, perché manca appunto l’organizzazione. Terza domanda: «Può essere che riducendo il numero dei manager si abbassi la qualità dei controlli, come è successo con il vostro direttore generale che nel 2012 ha dovuto dimettersi perché era stata data un notizia non verificata?». Risposta: «Come dimostra il livello di audience, la qualità dell’informazione della Bbc è estremamente alta, e quell’errore del giornalista non è attribuibile alla creazione della newsroom».

Repubblica 26.2.15
Tivù, il segnale di avvertimento
L’obiettivo dell’offerta è di prepararsi al riordino del settore
Schierare le truppe prima che suoni la campana per un nuovo giro
di Claudio Tito


L’OFFERTA pubblica proposta da Mediaset per acquisire Raiway, la società che gestisce la rete televisiva, è fortunatamente esplosa come una bolla d’acqua.
FACEVA rabbrividire la sola ipotesi che un’azienda appena privatizzata e collocata in Borsa dal governo finisse nelle mani del principale competitor dell’emittente pubblica.
Sebbene l’operazione sia fallita sul nascere, il fatto stesso che il gruppo guidato da Silvio Berlusconi abbia preso in considerazione questa possibilità impone delle domande. Soprattutto fa capire che restano irrisolti alcuni problemi concernenti il rapporto tra il leader di Forza Italia e la sua dimensione imprenditoriale.
È ormai evidente infatti che l’intero sistema radiotelevisivo ha bisogno di un riassetto. Certo, esiste l’emergenza relativa alla revisione della normativa sulla governance della Rai. Solo alcuni vecchi arnesi della politica berlusconiana possono ancora immaginare di irretire il servizio pubblico in una macchina decisionale farraginosa e iperpoliticizzata. Ma la legge Gasparri prevede tuttora un sistema radiotelevisivo a dir poco vantaggioso per le reti dell’ex Cavaliere, non tiene conto dei nuovi soggetti entrati nel mercato e in particolare non è in grado di disciplinare le frontiere tecnologiche più avanzate. Quell’impianto, dunque, non può essere congelato troppo a lungo. Si tratta di un’esigenza conclamata e forse chiara anche ai vertici di Mediaset.
Perché il fallimento dell’Opa su Raiway non poteva che essere prevista dalla dirigenza berlusconiana. Il decreto approvato dal governo lo scorso settembre stabilisce infatti in maniera inderogabile che il controllo pubblico — al momento vicino al 70 per cento — non può comunque scendere sotto la soglia del 51%. Al di là delle norme, poi, nessun soggetto statale può scientemente organizzare la privatizzazione di una propria società e accettare appena qualche settimana dopo — alla faccia delle liberalizzazioni — una contro-operazione capace di concentrare in un solo player privato il controllo di una infrastruttura fondamentale, relegando per di più il Tesoro in una posizione di minoranza. Senza contare inoltre che l’esecutivo avrebbe dovuto rinnegare una scelta che si è rivelata vincente dal punto di vista finanziario e logistico.
Quale può essere allora il motivo che ha spinto Mediaset a formulare l’offerta? L’obiettivo non è la compravendita, ma prepararsi proprio al riordino del settore. Schierare le truppe in campo prima che suoni la campana per un nuovo giro e dimostrare che le voci di una cessione del gruppo sono infondate. Un modo per dire: bisogna fare i conti con Mediaset, ora e nei prossimi anni. Un tentativo di mettere le mani avanti per evitare delle connessioni tra l’esaurimento del Patto del Nazareno e un mercato finalmente più libero. Nella consapevolezza che esistono anche altri campi da cui Mediaset non vuole essere esclusa. A cominciare dall’ipotesi che riguarda la costituzione di un operatore unico delle infrastrutture: un solo gestore dei tralicci e delle antenne che trasmettono il segnale televisivo. Per arrivare alle prospettive della televisione su banda larga. Un argomento che tocca da vicino la rete delle telecomunicazioni di proprietà di Telecom Italia e i contatti tra il colosso telefonico e Metroweb proprio in merito alla gestione di quella fondamentale infrastruttura. Il gruppo Berlusconi cerca di non esserne tagliato fuori e predispone anche le armi della politica per affrontare il futuro. E forse pianificare pure nelle aziende il dopo-Silvio offrendo ai successori una potenziale diversificazione dei settori come è già accaduto per altri importanti compagnie. Temendo però di non poter più godere di quelle garanzie esclusive accordategli dal 1990 in poi, ossia dall’approvazione della Legge Mammì.
Poi c’è il secondo aspetto. Che torna ciclicamente in superficie: il conflitto di interessi. Il capo dell’azienda Mediaset non è più a Palazzo Chigi, non siede più in Parlamento. Ma Forza Italia, fin dalla sua nascita, si è sempre mossa come un partito-azienda. E — viste le reazioni di alcuni suoi parlamentari — continua a farlo. Fino a quando la principale formazione politica del centrodestra non imboccherà la strada della normalità occidentale, il sospetto di un conflitto di interessi accompagnerà ogni intersezione tra il soggetto privato televisivo e il soggetto pubblico nelle sue diverse emanazioni, quello di regolatore o di concessionario.
Il tutto con la speranza che il buon andamento di ieri in Borsa del titolo Mediaset e quello esplosivo di Raiway non fosse un effetto collaterale ben calcolato.

La Stampa 26.2.15
Rai, nuovo duello Renzi-minoranza Pd
Fassina difende la Boldrini.
Bersani: siamo al limite, basta forzature

qui

Corriere 26.2.15
I timori di Palazzo Chigi per una rivolta tra i democratici
di Massimo Franco


Le parole del sottosegretario Graziano Delrio sono un impasto di cautela e di laconicità. Il braccio destro di Matteo Renzi ieri è stato quasi evasivo quando gli è stato chiesto che cosa vuole fare il governo sulla Rai. L’ipotesi di un decreto ha incrinato non tanto il rapporto con il Sel e col presidente della Camera, Laura Boldrini. La sensazione è che Palazzo Chigi tema un’altra rivolta in un pezzo di Pd: come se nella parola d’ordine del premier sull’urgenza di cambiare le regole della tv di Stato i suoi avversari intuissero la volontà di monopolizzarla. La polemica sul ricorso alla decretazione e sull’esautoramento del Parlamento riflette questa tensione.
È un altolà a Renzi. E il presidente del Consiglio l’ha capito così bene da programmare per venerdì una riunione con i parlamentari, nella quale discutere insieme una serie di problemi: Rai inclusa. «Si valutano le cose per la loro necessità e urgenza. Se non c’è niente di necessario e urgente non si faranno decreti, altrimenti sì», ha spiegato ieri Delrio. È un invito alla discussione e insieme un larvato ammonimento a non mettersi di traverso: scontro che ha portato le minoranze a uscire dall’Aula sulle riforme costituzionali.
Ripetere il canovaccio della rissa si preannuncia rischioso, sebbene Renzi abbia i numeri in Parlamento e finora sia riuscito a piegare l’«altro Pd». Le novità, stavolta, sono lo scontro esplicito con il vertice della Camera dei deputati; e la coincidenza con la proposta di acquisto di Rai Way da parte di una società controllata da Mediaset: mossa rispetto alla quale il governo ricorda l’esigenza di mantenere il 51 per cento in mano pubblica. Ma questo non basta a quanti sono convinti che dietro ci sia l’ombra del patto del Nazareno Renzi-Berlusconi.
Ufficialmente, è morto e sepolto. Eppure, la vicenda lo fa rianimare, più o meno strumentalmente, da quanti sospettano che sopravviva su alcuni punti riservati. Lo fa il M5s, che insiste da sempre su quell’accordo. Ma anche l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, si schiera contro la soluzione per Ray Way additata da Palazzo Chigi. E non solo. «Ho sempre detto che un’azienda o è pubblica o privata», avverte Bersani. «Il misto è del diavolo». Critiche indurite da quelle ai metodi di Renzi, ritenuti a dir poco irrituali.
Per Bersani «siamo quasi al limite. Da che mondo è mondo sono i capigruppo che convocano i gruppi parlamentari, e invitano il segretario... Il tema è come concepiamo la democrazia e il rapporto Parlamento-governo». Il segnale anticipa altri momenti tesi nel Pd. E si somma alla volontà di FI e del M5s (oggi Grillo sarà ricevuto al Quirinale) di appellarsi al capo dello Stato, Sergio Mattarella, perché freni il premier. Ma Renzi si sente più forte dopo che l’Ue ha «promosso», di fatto, la legge di Stabilità. Se il fronte internazionale tiene, è la convinzione, quello interno sarà più gestibile.

Corriere 26.2.15
Renzi convoca il Pd. Tensione con Bersani
di Marco Galluzzo


Il premier riunisce i gruppi domani: basta correnti. L’ex leader: cinque minuti per il Fisco? Siamo al limite Lo sfogo di Palazzo Chigi: facciamo le cose da soli e si arrabbiano, li coinvolgiamo e se la prendono per la forma
ROMA «Carissimi senatori, carissimi deputati», comincia così la nuova lettera che il premier scrive ai suoi parlamentari. Scrive, Matteo Renzi, per dire almeno tre cose. Che il Pd ha in mano il destino del Paese, che le due cose «si intrecciano». Che in questo percorso siamo appena all’inizio, visto che intende raggiungere la fine della legislatura, e che dunque «siamo ancora alla metà del primo tempo». E che infine, forse il punto più importante, è auspicabile che il primo partito della maggioranza non si divida in fazioni, gruppi di minoranza o meno, «vorrei che il nostro confronto fosse sui contenuti più che sulle etichette, che fiorissero idee più che correnti».
L’occasione è una sorta di convocazione, un brain storming su almeno quattro argomenti, che deve servire a compattare il partito, a fare passi avanti sui seguenti temi: scuola, Rai, ambiente e Fisco. Un’ora da dedicare a ciascun capitolo, contributi scritti ben accetti («ma non in burocratese, per favore»), sede dell’incontro il Nazareno, venerdì pomeriggio. Una decisione che viene però criticata a stretto giro da Pier Luigi Bersani, tacciata di superficialità, inusuale persino nelle modalità delle scelta: «Siamo al limite, è ora di fare le cose seriamente», dice l’ex segretario, «il premier si è rivolto direttamente ai parlamentari», ma «i gruppi li convocano i capigruppo, stabiliscono gli ordini del giorno e invitano il segretario», ricorda ancora Bersani. «Non c’entra il Pd, non c’entrano i bersaniani o i renziani, c’entra il tema di come concepiamo la democrazia e il rapporto tra governo e Parlamento», aggiunge.
Ma non solo, Bersani è critico anche sull’organizzazione dei lavori, in qualche modo teme che si tratti di una perdita di tempo, «siamo al limite perché si danno cinque minuti per parlare di Fisco, cinque per l’ambiente...ma scherziamo?, io chiedo una discussione ordinata, la convocazione dei gruppi parlamentari. Una cosa seria si fa così».
Ma Roberto Morassut, deputato pd che da sempre si batte contro le correnti, la mette in un altro modo: «Finalmente e giustamente Renzi ha fermato oggi l’insorgere di nuove correnti nel Pd. Ha fatto bene perché non si trattava di correnti e sensibilità con diverse posizioni, ma di aggregati parlamentari di puro posizionamento. Però, per evitare che il gioco del risiko si rigeneri bisogna costruire il Pd e formare una nuova e matura classe dirigente. Che oggi non c’è. Soprattutto a livello locale. I nostri gruppi dirigenti sono purtroppo, prevalentemente, pesi welter. O sono quasi dissolti. Buona parte dell’opinione pubblica apprezza Renzi ed il suo stile ma diffida del partito nel suo complesso perché lo vede intrappolato da giochi di tribù interne».
È alla fine anche Renzi stesso interviene, attraverso il suo staff, dicendo di «non capire le polemiche, visto che il confronto è stato sempre il nostro metodo». A Palazzo Chigi la mettono in questo modo, quasi uno sfogo: «Facciamo le cose da soli e si arrabbiano perché non li coinvolgiamo. Li coinvolgiamo e si arrabbiano perché le forme non sono quelle che vogliono loro. Convochiamo la direzione e vogliono la segreteria unitaria. Facciamo la segreteria unitaria e vogliono i gruppi. Ma se lo ricordano che abbiamo vinto le primarie con il 68% e portato il Pd dal 25 a 41% in 1 anno? Ma li frequentano i circoli? Li vedono i sondaggi? Lo sanno che i nostri non ne possono più di divisioni interne?»
È anche in questa cornice che la lettera si rivolge ai parlamentari dem: non solo il Pd, secondo Renzi, «deve garantire il futuro dell’Italia, almeno in questa fase storica», ma mentre «altri si dividono, altri fanno ostruzionismo, altri scendono in piazza con piattaforme ispirate alla destra xenofoba e populista europea, noi siamo quelli che devono riportare l’Italia a crescere, una grande responsabilità».
Nel suo chiedere che tutti forniscano un contributo di merito prima ancora che etichette, Renzi precisa che ha il «massimo rispetto per il doveroso dibattito interno al Pd tra aree culturali» e che del resto i risultati del governo, dalla responsabilità civile al Jobs act, dall’accordo con la Svizzera alle riforme, «stanno arrivando»
E il bello, continua, «è che abbiamo appena spento la prima candelina, ma mancano ancora tre anni. Un caro saluto, a venerdì. Matteo».

Repubblica 26.2.15
Alla fase due del “renzismo” serve anche qualche nemico
La strategia è indicare riforme a getto continuo e relativi frenatori, e tenersi pronti a un possibile voto anticipato
di Stefano Folli


È COMINCIATA la fase due del “renzismo”. Un contenitore in cui entrano la responsabilità civile dei magistrati, l’attuazione delle misure sul lavoro, la riforma della Rai, la scuola, ma anche un’offensiva contro le correnti interne del Pd, ossia la minoranza più o meno organizzata. La strategia del premiersegretario è lineare: riempire di cose da fare la legislatura. Sulla carta fino al 2018, benché siano veramente pochi a credere che questo Parlamento arriverà al suo termine naturale. L’importante è mantenere una costante tensione nell’elettorato, convincerlo giorno dopo giorno che il Pd renziano, il “partito della nazione”, è l’unica scelta possibile se si vuole il rinnovamento. Il che, va detto, non è impresa troppo difficile, considerando lo sbandamento del centrodestra e la deriva massimalista di Salvini. Ma Renzi è più sottile. Il messaggio politico-elettorale che parla di riforme individua sempre un avversario, un antagonista, un ostacolo. Gli italiani devono convincersi che a Palazzo Chigi siede un vero innovatore per la semplice ragione che c’è sempre qualcuno pronto a frenarlo per costringerlo a un compromesso al ribasso. E se pure le riforme non hanno ancora irradiato tutti i loro benefici, la prova della loro validità sta proprio nella pervicacia di coloro che le osteggiano.
I frenatori, ossia i conservatori, vengono messi a fuoco con cura e colpiti con metodo. Possono essere i sindacalisti: la Camusso o Landini, a seconda delle circostanze. Ovvero i magistrati corporativi che si ribellano. Oppure i professori che temono di perdere qualcosa. E, s’intende, i politici ostili dentro e fuori il Pd: quelli a cui la presidente della Camera ha provato a offrire una bandiera opponendosi all’ipotesi del decreto legge sulla Rai.
Entro certi limiti tutto questo favorisce la fase due di Renzi. Certo non lo intimidiscono le resistenze dei magistrati, una volta che il Parlamento è riuscito a esprimersi sulla responsabilità civile. Il presidente del Consiglio sa che l’opinione pubblica è in maggioranza favorevole alla riforma, quanto meno l’ampio settore di opinione a cui egli guarda e che è trasversale agli schieramenti. Lo stesso vale per la scuola, mentre sulla Rai il sentiero è più stretto. Il tema della riforma per decreto, anziché per disegno di legge, non è di quelli che appassionano i cittadini. In questo caso, tuttavia, i risvolti di potere impliciti nella riforma sono talmente significativi da rendere conveniente prendere qualche rischio. Fermo restando che il presidente della Repubblica, se lo riterrà opportuno, potrà facilmente bloccare il ricorso al decreto.
Siamo, in ogni caso, alla fase due. Che si concluderà solo il giorno delle elezioni. La fase uno è finita, volendo semplificare, con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Era il passaggio più delicato del primo tempo della legislatura. Renzi rischiava di regalare a Berlusconi una vera e propria coabitazione istituzionale, nel momento stesso in cui la minoranza del Pd metteva sotto tutela il segretario. Sappiamo come è andata. Renzi si è scrollato di dosso il Nazareno con determinazione e con tutta la spregiudicatezza necessaria. Da partner quasi alla pari, Berlusconi è oggi declassato a fornitore di voti: quei consensi del centrodestra che il premier considera ormai suoi. Ovviamente egli ha bisogno adesso di arrivare a un’intesa di lungo periodo con la minoranza bersaniana: intesa senza la quale i pericoli sono troppo grandi. A cominciare dal voto sulla legge elettorale. Non è facile ottenerla.
La fase due avrà per intuibili ragioni un sapore elettorale, perché è destinata a preparare il voto. Fra gli antagonisti e i frenatori ci sarà, all’ora propizia, qualcuno cui attribuire la responsabilità di una “impasse” parlamentare. Ma prima di allora le riforme dovranno dare qualche risultato concreto, la ripresa economica dovrà uscire dalle nebbie, magistrati e professori dovranno essere convinti della bontà dei provvedimenti che li riguardano.

Corriere 26.2.15
Il muro dei partiti sui vitalizi ai condannati
E Grasso torna giurista per farli eliminare
di Monica Guerzoni


ROMA Basta con i vitalizi agli ex parlamentari condannati, lo scandalo deve finire. Per sbloccare l’impasse che impedisce di annullare un privilegio odioso, il presidente del Senato Pietro Grasso è pronto a ingaggiare un braccio di ferro con i partiti, che trovano ogni scusa per rinviare la soluzione alle calende greche. E Laura Boldrini sta dalla stessa parte: «Inaccettabile l’erogazione a corrotti e mafiosi»
L’inquilino di Palazzo Madama, descritto come «furibondo» dai collaboratori, ieri ragionava ad alta voce: «Sui vitalizi non mi faccio raggirare. Non è possibile che rappresentanti del popolo, poi giudicati indegni, vengano pagati con soldi pubblici da un organo costituzionale che può decidere in modo completamente autonomo». Parole con cui Grasso prova a spazzar via i tentennamenti e le argomentazioni di chi vorrebbe portare il tema nelle aule parlamentari, sfilandolo ai consigli di presidenza e allungando ancora i tempi.
È dal 7 giugno del 2014 che il presidente del Senato è in guerra contro i vitalizi «indegni». Una vicenda che, in soldoni, costa ai cittadini 170 milioni l’anno. Grasso ne fa una questione di onore delle istituzioni e si ripromette di risolverla entro dieci giorni: «Al prossimo consiglio di presidenza la porterò in votazione e ognuno si prenderà la propria responsabilità di fronte all’opinione pubblica». Un affondo contro quei parlamentari che si stanno mostrando meno sensibili al tema, temporeggiando e trincerandosi dietro la «Carta».
La giornata di ieri rivela il braccio di ferro. Da una parte i presidenti di Camera e Senato e dall’altra quei questori, nominati dai partiti, che tirano per le lunghe una istruttoria infinita e che solo martedì sera hanno inviato a Grasso il parere del presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, da loro acquisito il 19 febbraio. Quando la seconda carica dello Stato ha letto l’illustre «parere pro veritate», ha fatto un balzo sullo scranno. Poi, deciso a stoppare il blitz, ha chiamato Laura Boldrini. La presidente della Camera lo ha raggiunto a Palazzo Madama per un prevertice in cui Grasso ha illustrato ai questori di Camera e Senato il suo controparere: un testo che fa a pezzi le tesi di Mirabelli e innesca un botta e risposta in punta di Costituzione.
Se l’ex vicepresidente del Csm rileva «plurime e rilevanti criticità costituzionali» nel provvedimento, Grasso pensa che le superpensioni dei condannati non siano affatto intoccabili. Punto primo: è «paradossale ipotizzare» che i consigli di presidenza non possano modificare le norme su vitalizi e pensioni, ma serva una legge ad hoc. Punto secondo, «non è fondato il parere del Prof. Mirabelli secondo cui la cessazione dell’erogazione sarebbe assimilabile a una sanzione penale accessoria». Conclusione, «non sussiste un divieto di retroattività». Firmato, Pietro Grasso.
Il controparere del presidente sarebbe rimasto riservato, se i questori non avessero inviato alla stampa solo quello di Mirabelli, «dimenticando» di diffondere le argomentazioni di Grasso e costringendo fonti di Palazzo Madama e svelare anche il secondo documento interno. «Una doppia scorrettezza», si osserva in ambienti parlamentari vicini a Grasso. A sera i collegi dei questori hanno fatto sapere che, entro il 31 marzo, i segretari generali Pagano e Serafini completeranno l’istruttoria per il «piano operativo», che dovrà «progressivamente» unificare i servizi dei due palazzi: biblioteca, archivio storico, polo sanitario e servizio informatica.
La cosa sorprendente è che nella nota dei questori non ci sia una sola parola sui vitalizi.

La Stampa 26.2.15
Vitalizi ai condannati, Grasso: “Per abolirli non serve una legge”
Boldrini: «inaccettabile che si continui ad erogarli a chi si è macchiato di reati gravi come mafia e corruzione»

qui

La Stampa 26.2.15
Boldrini nuova icona della sinistra anti-governativa
Le ultime uscite contro l’esecutivo esaltano l’opposizione interna
di Francesca Schianchi


Prima c’è stato l’attacco al Jobs Act: «Sarebbe stato opportuno tenere nel dovuto conto i pareri delle Commissioni». Poi la critica all’uomo solo al comando. Infine la posizione su un eventuale decreto del governo sulla Rai: «Il decreto si deve fare quando c’è materia di urgenza. Sulla Rai non c’è qualcosa di imminente, non c’è una scadenza». Un’infilata di uscite critiche col governo che ha acceso i riflettori su un inedito attivismo della presidente della Camera Laura Boldrini. E avanzato pure qualche sospetto, come quello espresso martedì dal premier Renzi con i suoi, mentre lei parlava con Floris in tv: «Le polemiche sulla leadership nella sinistra radicale tra Laura e Maurizio non ci riguardano», è sbottato, laddove Maurizio sta per Landini e Laura per lei, la Boldrini. Citata, insomma, come se volesse ritagliarsi un ruolo politico, e che ruolo: quello della Tsipras italiana.
Dagli ambienti che le sono vicini, ovviamente, smentiscono qualunque ambizione simile, e insistono nel sottolineare come, in linea con il suo ruolo, abbia voluto solo difendere le prerogative del Parlamento. Ma la velocità e la durezza di reazione tra i renziani («non spetta al presidente della Camera dire se ci siano i requisiti di urgenza» per fare un decreto, reagisce Debora Serracchiani), e l’altrettanto rapida difesa di esponenti della minoranza del Pd (da Zoggia a Fassina, che la ringrazia via Twitter e aggiunge che «sono gravi gli attacchi dal Pd»), fanno rimbalzare in tutto il Transatlantico la suggestione di lei come figura possibile per una nuova sinistra. Dal partito che l’ha portata in Parlamento, Sel, prendono tempo. «Al momento opportuno, uno Tsipras italiano verrà fuori: ora è il momento di costruire il terreno», sospirano, «Laura è una figura importante, per il ruolo che ricopre e per la sua cultura politica non settaria», ma il cantiere della sinistra è tutto aperto, da qui alla leadership ancora ce ne passa. Lei, insistono dal suo entourage, ha solo l’obiettivo di difendere l’istituzione che presiede. E se le dovesse scappare di fare anche un po’ politica, ci pensa Nichi Vendola a difenderla: «Pare che l’unico titolato a fare politica e anche antipolitica sia Renzi: mi dispiace per lui, non potrà essere così».

il Fatto 26.2.15
Grasso contro i vitalizi ai condannati
Il presidente del Senato e le pensioni a B. e colleghi di reato
Via entro dieci giorni, non serve una legge
di Tommaso Rodano


I vitalizi agli ex onorevoli condannati potrebbero essere aboliti entro dieci giorni. Il condizionale è d’obbligo, ma stavolta c’è una volontà decisiva. Quella di Pietro Grasso, presidente del Senato. Una volontà – sommata all’iniziativa del Movimento 5 Stelle – che ha travolto lentezze e ritrosie dei partiti e ha trascinato anche Laura Boldrini, rompendo l’inerzia di Montecitorio e il rimpallo tra le due Camere. Con un intervento risoluto e per certi versi clamoroso.
IERI POMERIGGIO il presidente del Senato ha imposto una riunione a Palazzo Madama con Boldrini e i sei questori. Durante l’incontro, i senatori Malan (Forza Italia) e De Poli (Per l’Italia) hanno presentato il parere del presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli. Un documento che era tra le mani dei due questori dal 19 febbraio, ma che è stato inoltrato sulla scrivania di Grasso solo martedì sera. Il giudizio di Mirabelli è negativo: la revoca dei vitalizi avrebbe profili di incostituzionalità. Il testo – nelle intenzioni di chi lo ha presentato – avrebbe dovuto affossare definitivamente l’abolizione dei vitalizi e chiudere la partita, ma il blitz è stato disinnescato dal presidente del Senato. Grasso ha risposto con un contro parere durissimo, che contraddice – e di fatto cancella – quello del giurista: “Vale un principio generale del diritto, oltre che di palese ragionevolezza, secondo cui l’organo che produce una norma è l’unico che possa modificarla”. In poche parole: al contrario di quanto sostiene Mirabelli, (con un ragionamento che Grasso definisce “paradossale”) per cancellare i vitalizi non serve una legge, ma basta un regolamento parlamentare. “Se vengono meno i requisiti di legge per l’appartenenza alle Camere – conclude, senza ammettere repliche – cade il diritto all’indennità e cade il diritto al vitalizio. Simul stabunt, simul cadent”.
SI VA AVANTI, quindi. Entro dieci giorni la delibera per l’abolizione dei vitalizi ai condannati dovrebbe approdare negli uffici di presidenza delle Camere. A quel punto basterebbe un voto a maggioranza semplice per cancellare le pensioni d’oro che oggi spettano – tra gli altri – a Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Giorgio La Malfa, Arnaldo Forlani, Gianni De Michelis. Condannati per mafia, corruzione, reati contro lo stesso Stato che continua a riconoscergli un generoso vitalizio.
La riunione di ieri si è chiusa con una stretta di mano tra Grasso e il questore del Movimento 5 stelle, Laura Bottici, che aveva proposto l’abolizione dei vitalizi già a maggio, ignorata dagli altri partiti. Anche il presidente del Senato aveva lanciato la sua mozione il 7 giugno. Allora si dissse che bisognava agire di concordo con la Camera. Sono passati 7 mesi. Lo stallo è finito eri.

Corriere 26.2.15
Slitta ancora la riforma della scuola
L’idea di aiuti per chi sceglie le private
Il sottosegretario Toccafondi: detrazioni fiscali sulle rette
I timori dei ricorsi dei precari
di Valentina Santarpia, Claudia Voltattorni


ROMA «Vorremmo dare la possibilità anche a due operai di scegliere se mandare il figlio in una scuola pubblica o in una paritaria». Come? «Detraendo fiscalmente almeno parte della retta da pagare». C’è anche questo nella Buona scuola del governo di Matteo Renzi, la cui discussione in Consiglio dei ministri è slittata da domani al 3 marzo. E nell’ultima bozza al Miur spunta la possibilità di un aiuto per le famiglie con i figli negli istituti non statali. «La rivoluzione delle Buona scuola — spiega il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi — non è un semplice decreto, ma una riforma complessiva del sistema», e il sistema «da legge 62 del 2000 dell’allora ministro Luigi Berlinguer, è composto da scuole statali e paritarie private».
Parliamo di quasi 1 milione e mezzo di studenti, oltre 13 mila istituti e 100 mila tra insegnanti e personale amministrativo: «Non si possono ignorare». Anche perché, in quanto paritarie e quindi riconosciute dallo Stato, «loro rispettano le stesse norme e regole della scuola statale». Ricevono ogni anno intorno ai 400-500 milioni di euro. «Ma lo studente della paritaria — fa i conti Toccafondi — costa circa 450 euro, contro i 6.800 di uno della statale».
Anche la ministra Stefania Giannini, da sempre paladina della «libertà di scelta educativa per le famiglie» ieri ha ribadito che «il sistema pubblico ha due pilastri, scuola statale e non statale, lo stabilisce la legge, ma mancano le misure che rendono completamente attuato questo processo».
I costi sono il punto dolente della questione. Il Miur pensa perciò a una detrazione parziale delle rette. Esultano la Compagnia delle Opere e l’Associazione dei genitori delle scuole cattoliche: «Si mette fine a una grave ingiustizia». Un po’ meno Sel che parla di «fatto grave da rigettare senza riserve». Ma nel Pd c’è chi, come Simonetta Rubinato e Simona Malpezzi, sostiene che «la libertà di insegnamento e scelta educativa debbano avere spazio» e che «la detrazione fiscale è un primo passo». Ma non tutte le paritarie sono uguali: il Miur pensa a controlli più severi per combattere i cosiddetti diplomifici. Ora, dice Toccafondi, «l’ultima parola tocca a Renzi».
Non è l’unico nodo da sciogliere. Tutti i particolari sul piano di assunzioni restano da definire, a partire dai risvolti economici, al centro di un incontro tra tecnici dell’Istruzione e delle Finanze. La legge di Stabilità ha stanziato 1 miliardo, ma per specificare le ricadute che avrà l’assorbimento dei precari il Mef ha bisogno di numeri certi. Che ancora non ci sono. Dai 134 mila precari delle Graduatorie a esaurimento bisognerà eliminare 26 mila docenti che non hanno mai insegnato e 20 mila maestri di scuole dell’Infanzia. Cosa si farà con gli «esclusi»»? Il rischio di ricorsi a pioggia è massiccio. Si fa strada l’ipotesi di un maxi indennizzo e di coprire le cattedre scoperte con i precari di seconda fascia, facendoli entrare con supplenze almeno annuali, una sorta di contratto «ponte» per traghettarli fino al prossimo concorso. In quell’occasione, forti di un punteggio agevolato, potrebbero entrare nel mondo della scuola dal portone principale.

Repubblica 26.2.15
Scuola, il governo rinvia di 4 giorni: solo assunzioni dei precari per decreto, ma resta il nodo graduatorie
Al ministero dell'istruzione si lavora per definire le varie anime della riforma
Il grosso sarà inserito in un disegno di legge
Ma a preoccupare è la questione della concellazione delle graduatorie a esaurimento
di Salvo Intravaia

qui

il manifesto 26.2.15
La «Buona Scuola» si fa con i rinvii
di Roberto Ciccarelli

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Il Sole 26.2.15
Scuola. Dal Tribunale di Firenze la prima sentenza negativa
Per i precari non è automatico il diritto alla stabilizzazione
di Nicola Da Settimo


Arriva dal Tribunale di Firenze quella che è forse la prima sentenza di merito che respinge un ricorso dei precari della scuola per ottenere la stabilizzazione, dopo la “sentenza Mascolo” resa il 26 novembre 2014 dalla Corte di giustizia Ue. Sinora le pronunce adottate dai giudici del lavoro sono state in genere di accoglimento, con soluzioni varie: dalla costituzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato (Tribunale di Napoli, n. 528/15), a varie mensilità a titolo di risarcimento (Tribunale di Roma, n. 12452/14).
Tuttavia non è detto che la sentenza fiorentina (datata 11 febbraio 2015, relatore il presidente Rizzo) costituisca un precedente sicuramente negativo per la generalità dei ricorrenti: sembra basarsi sulla specifica prospettazione del ricorso. Dopo aver ricordato che l’articolo 4 della legge 124/99 prevede la differenza tra posti vacanti e disponibili (supplenze sino al 31 agosto), posti non vacanti ma disponibili (supplenze al 30 giugno) e supplenze “brevi” per sostituzioni temporanee, la sentenza afferma che l’articolo 4 non può ritenersi abrogato dal Dlgs 368/2001 (per il principio di specialità della normativa scolastica), ma sostiene anche di non condividere quanto affermato dalla Cassazione (sentenza 100127/2012) in merito al fatto che la normativa scolastica sarebbe un corpus speciale “impermeabile” rispetto alla disciplina generale di cui al Dlvgs 368/2001.
Al contrario, secondo il Tribunale, l’articolo 4 va considerato come parte del corpus normativo generale in materia di contratto a termine. Ne consegue l’applicabilità al settore dell’insegnamento dell’articolo 5, comma 4-bis, del Dlgs 368/2001 (che sanziona la successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti che abbiano complessivamente superato i 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi) e dell’articolo 36 del Testo unico 165/2001 (che prevede il risarcimento del danno) in caso di violazione dello stesso articolo 5, comma 4-bis, del Dlgs 368/2001.
In definitiva, è quest’ultima norma che garantisce in ogni caso anche nel settore scolastico il raggiungimento da parte dello Stato dell’obiettivo generale di prevenzione degli abusi a cui la clausola comunitaria mira.
La sentenza respinge il ricorso (solo) perché il ricorrente non ha basato la propria domanda sulla violazione dell’articolo 5, comma 4-bis, né ha allegato i fatti integranti tale fattispecie (successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti che abbiano complessivamente superato i 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, con violazione del disposto normativo alla stipulazione del primo contratto che abbia superato tale limite dopo l’entrata in vigore della legge 247/2007). Invece, nel ricorso si è lamentato solo il fatto che l’apposizione del termine ai contratti dell’interessato sia priva di adeguate motivazioni e posti in essere con l’intento di coprire carenze di personale su posti vacanti. Da questo punto di vista, la sentenza ritiene invece che i contratti al 30 giugno riportino la ragione che ha determinato l’assunzione e rientrino in ipotesi legittimanti il ricorso al contratto a termine.
La sentenza sembra discostarsi sul punto da altre precedenti: ad esempio quella del Tribunale di Chieti (n. 726/14) che respinge la tesi secondo cui la Corte Ue avrebbe affermato l’illegittimità della reiterazione solo per i posti vacanti e disponibili. Ma anche il giudice abruzzese, nella motivazione, afferma che «il discorso non muta per il solo fatto che alle supplenze si sia fatto ricorso per coprire posti non vacanti ma resisi disponibili entro il 31 dicembre, essendosi anche in questo caso verificato il ricorso alla successiva stipulazione di contratti a termine per soddisfare esigenze del tutto paragonabili a quelle sottese alle supplenze annuali e in ogni caso di carattere permanente e non meramente temporaneo».

Il Sole 26.2.15
Jobs Act, i punti critici
Dai licenziamenti alla convivenza con l’articolo 18
Rischio contenziosi sulle tutele crescenti
di Gabriele Fava


Il Jobs act compie un grosso passo in avanti, che dovrebbe aiutare l’occupazione e, di concerto, la competitività delle imprese.
In primis, con l’abolizione del rito Fornero, che rappresentava un’inutile duplicazione di tempi e costi di giustizia e che andava contro i criteri e i principi di certezza del giudizio. In secundis, l’introduzione dell’offerta conciliativa costituirà un utile strumento (recepito dalla prassi) per avvicinare le parti ed evitare il contenzioso. E ancora, il riordino delle tipologie contrattuali con relativa eliminazione di collaborazioni coordinate e continuative, job sharing, associazione in partecipazione, garantirà maggiore facilità nell’assunzione di nuove risorse con contratto a tempo indeterminato e consentirà di smascherare le finte partite Iva e i contratti a progetto.
Parallelamente, con il decreto Poletti è stato sdoganato – seppur nel tetto massimo dei 36 mesi – il contratto a tempo determinato, per il quale non è più necessaria la previsione della causale giustificatrice e sono possibili sino a cinque proroghe. Ciò consentirà senz’altro una maggiore flessibilità in ingresso.
L’intento primario del Jobs act di promuovere la flessibilità in entrata e il tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro viene attuato anche mediante la concessione dell’esonero contributivo per un periodo di 36 mesi per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato effettuate entro il 31 dicembre 2015 (legge di stabilità 2015). Ma cosa accadrà al termine del triennio di esonero contributivo? Aumenteranno i licenziamenti collettivi?
Inoltre tra le possibili e immediate conseguenze connesse all’introduzione del contratto di lavoro a tutele crescenti potrebbe esserci la creazione di un dualismo di categorie di lavoratori, quelli che soggiacciono alla nuova disciplina e coloro ai quali continuerà ad applicarsi la vecchia formulazione dell’articolo 18. Premesso che ciò può astrattamente porre seri dubbi circa la violazione dell’articolo 3 della Costituzione italiana, la coesistenza di tale dualismo farà sorgere l’esigenza di stipulare accordi di armonizzazione (con le rappresentanze sindacali) volti a semplificare e omogeneizzare il più possibile la gestione interna del personale (e i relativi costi).
Del resto, le imprese attualmente soggette a tutela obbligatoria, ove dovessero superare la soglia dei 15 dipendenti, applicherebbero a tutti gli addetti (anche a quelli “vecchi”) le tutele crescenti. Alla luce di ciò, converrà davvero superare tale soglia?
Il decreto attuativo in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti estende espressamente l’applicazione delle disposizioni in esso contenute anche nei casi di “conversione” - successiva all’entrata in vigore del decreto - di contratti a tempo determinato o di apprendistato a tempo indeterminato. Ci si domanda se ciò valga anche per i lavoratori reintegrati in azienda all’esito di un procedimento giudiziale.
Le modifiche apportate in materia di licenziamenti se da un lato diminuiranno il contenzioso, dall’altro lo innalzeranno per i licenziamenti asseritamente discriminatori e illeciti, nonché per quelli disciplinari qualora venisse dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto alla base dei medesimi, essendo questi - nell’assetto normativo odierno - gli unici strumenti a disposizione dei lavoratori per ottenere la reintegra nel luogo di lavoro.
Generiche e poco incisive sono, poi, le previsioni relative allo ius variandi del datore di lavoro. Viene riconosciuta la possibilità di modificare le mansioni lavorative, il livello di inquadramento e la relativa retribuzione del lavoratore, ma certamente serviranno alcuni correttivi.
Resta anche da comprendere cosa debba intendersi per «modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore» e cosa debba intendersi per «ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore». Non si comprende, poi, quale sia il carattere di novità di tale previsione considerato che, tale tipo di accordi erano già consolidati nelle prassi aziendali ed erano e sono, tra l’altro, sempre stati avallati da consolidata giurisprudenza.
Dal punto di vista delle relazioni industriali, i decreti attuativi in esame riconoscono un ruolo centrale alla contrattazione collettiva a cui vengono demandati numerosi e ampi poteri normativi. Ciò potrebbe portare a un inasprimento dei rapporti con i sindacati, i quali diverrebbero detentori di grande potere contrattuale da utilizzare come strumento di lotta contro i datori di lavoro.

il manifesto 26.2.15
La fusione Mondadori-Rcs mette a rischio quattromila editori indipendenti
Cna: la ventilata operazione finanziaria potrebbe bruciare 12 mila posti di lavoro
Lunedì 2 marzo si riunisce il Cda di Rizzoli, potrebbe valutare un'offerta di Mondadori da 135 milioni di euro
L’Antitrust: «Ancora nessuna comunicazione»
di Roberto Ciccarelli

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Corriere 26.2.15
Slot, le nuove regole I sindaci perderanno la possibilità di limitarle
di Lorenzo Salvia


ROMA A Ravenna bisogna fare come Cenerentola, tutti a casa prima di mezzanotte perché a quell’ora le slot machine vanno spente. A Padova, invece, non si può andare oltre le 10 di sera. In Lombardia le macchinette devono stare ad almeno 500 metri da scuole e chiese, mentre in Abruzzo ne bastano 300.
A partire dal prossimo anno tutto questo potrebbe non esserci più. Stop al federalismo dell’azzardo, fine del diritto di veto per sindaci e assessori. Con la scomparsa delle barriere tirate su per arginare quella che, tra passioni antiche e crisi moderne, è la terza industria del Paese e copre il 12% della spesa delle famiglie. È questa la vera sostanza del decreto legislativo sui giochi, un testo ancora allo studio che potrebbe arrivare in Consiglio dei ministri la prossima settimana.
Le nuove sale da gioco
Il numero totale delle macchinette dovrebbe scendere entro l’inizio del prossimo anno dalle 350 mila di adesso a 250 mila. Mentre, entro il 2017, tutte le slot dovrebbero essere collegate a un sistema centrale in grado di limitare truffe e leggere i comportamenti border line senza però alzare il livello minimo delle giocate. Su tutto il territorio nazionale, sempre per le slot, devono valere le stesse tre regole. La prima: vanno limitate nei bar e nelle tabaccherie, dove ce ne può essere una ogni sette metri quadri e comunque non più di sei. La seconda: vanno eliminate dagli altri locali come cinema, ristoranti, alberghi e circoli privati, a meno che non richiedano una specifica licenza sui giochi di cui oggi non hanno bisogno (e infatti sono arrivate persino nelle lavanderie). La terza: vanno concentrate nelle cosiddette gaming hall , sale giochi di almeno 50 metri quadri con una macchinetta ogni tre metri quadri e il controllo di una persona. Tutte le altre regole «locali» cadranno, dopo un periodo cuscinetto di sei mesi: «Naturalmente discuteremo con gli amministratori locali per trovare un accordo — dice Pier Paolo Baretta, il sottosegretario all’Economia che ha in mano la questione — ma l’obiettivo è avere regole omogenee su tutto il territorio nazionale. Altrimenti si rischia di alimentare il gioco in nero, che per definizione sfugge a qualsiasi controllo, fiscale o di legalità».
Ma questo non era anche l’obiettivo delle cosiddette campagne no slot? «Per carità, i sindaci hanno sicuramente reagito a un problema reale e con le migliori intenzioni» dice Massimo Passamonti, presidente di Confindustria sistema gioco, che rappresenta gran parte delle aziende del settore presenti in Italia. «Ma ragionare solo in termini di divieti e restrizioni — continua — significa davvero fare un favore all’offerta illegale». Qualcosa di vero c’è.
Il gioco in nero
In Liguria, una delle zone dove il federalismo dell’azzardo ha messo più limiti alle slot, si stanno moltiplicando i cosidetti totem: macchinette che permettono di giocare direttamente su internet, su siti stranieri non autorizzati nel nostro Paese, con tanti saluti a tutte le regole di buona volontà e anche al fisco italiano che non incassa nemmeno un euro.
Ma non tutti sono convinti. Matteo Iori fa parte di «Mettiamoci in gioco», campagna contro i rischi dell’azzardo partita due anni fa: «Non mi piace che non si voglia ascoltare chi vive questi problemi sul territorio. E credo che dietro tutto questo ci sia uno scambio: da una parte lo Stato fa in modo che le aziende del settore possano esercitare la loro attività senza intralci locali, dall’altra chiede alle stesse aziende di pagare un po’ di tasse in più».
Le tasse
Sulle slot, secondo i calcoli dell’agenzia specializzata Agipro, il decreto farebbe salire il prelievo fiscale dal 13,1% al 15,6%. In realtà il confronto è complicato perché la tassa non si calcola più sulle somme giocate ma sul «margine», cioè la differenza tra quanto le aziende incassano con le puntate e quanto pagano con le vincite. Una tassa sul profitto, in sostanza, simile a quelle usate nel resto del mondo e che dovrebbe favorire i gruppi più grandi. «Alla fine — dice ancora il sottosegretario Baretta — tra calo del numero delle macchinette e aumento della tassazione il gettito dello Stato dovrebbe rimanere più o meno stabile». E, considerando tutte le voci dell’azzardo, bisogna ricordare che nelle casse pubbliche entrano ogni anno 8 miliardi di euro, il doppio della Tasi sulla prima casa.
Ma la vera scommessa è vedere se quelle nuove regole nazionali riusciranno davvero a controllare gli 800 mila italiani per i quali l’azzardo è già una malattia, e gli altri 2 milioni considerati a rischio. Ancora Iori, il tipo della campagna contro i rischi dell’azzardo, che il problema lo conosce da vicino: «È vero che limitare le slot nei bar può aiutare perché sarà più difficile che le persone si avvicinino alle scommesse per caso. Ma è anche vero che nelle nuove sale gioco ci sarà meno controllo sociale. Saranno tutti giocatori, sarà normale puntare più forte. Vantaggi e svantaggi, insomma, e non so quali saranno più forti». In fondo anche questa è una scommessa.

La Stampa 26.2.15
Rom, Strasburgo richiama l’Italia. Roma risponde: “Stiamo smantellando i campi”
Il rapporto del Consiglio d’Europa critica l’Italia per la mancata integrazione dei Rom nonostante i fondi investiti
La capitale reagisce annunciando il superamento definitivo dei sette villaggi della solidarietà e dei quattro centri di raccolta dei nomadi nel triennio 2015-2018
Ma cosa accadrà a chi non avrà più il campo dove vivere?
di Flavia Amabile

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Corriere 26.2.15
Caso nella terra degli Englaro
Il voto che apre la strada al testamento biologico
Il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia si pronuncerà martedì prossimo
di Elvira Serra

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Repubblica 26.2.15
“Io, infermiere vi racconto l’eutanasia silenziosa nei nostri ospedali”
È caposala al Careggi di Firenze, cattolico praticante, e ogni anno - dice - nel suo reparto si spengono le macchine per 30-40 malati terminali
"La legge lo vieta, ma ce lo chiedono i familiari. Così tra loro e i medici si stringe un patto di buon senso: perché in Italia deve restare un segreto?"
di Matteo Pucciarelli

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il Fatto 26.2.15
Marino, i 120 nuovi indagati e la smentita

Il giallo di nuovi 120 indagati per Mafia Capitale. Tutto opera di Ignazio Marino, sindaco di Roma. “Chi ha passato questa velina deve avere partecipato a un’altra riunione o avere una fervida immaginazione". Così Marino ha smentito ironicamente con un tweet la notizia riportata da un quotidiano di una frase che il primo cittadino avrebbe detto nel corso di una riunione di maggioranza: “Sbrigatevi ad approvare la delibera sul patrimonio perché stanno per arrivare 120 avvisi di garanzia per Mafia Capitale”. La smentita ha scatenato una reazione dopo l’altra. Ironizza il Movimento 5 Stelle: “Il sindaco di Roma parla liberamente di oltre 100 prossimi indagati. Marino una volta arriva in ritardo, non aveva assolutamente visto il marcio di Mafia Capitale, oggi anticipa le inchieste, forse incita a delinquere”. Un’interrogazione è stata invece presentata dal senatore del gruppo di Area popolare Ncd-Udc, Andrea Augello, al ministro della Giustizia Orlando per chiarire, "anche attraverso l’invio di un’ispezione alla Procura di Roma", se “sia a conoscenza di un’iniziativa della Procura riguardo l’inchiesta Mafia Capitale”.

La Stampa 26.2.15
Il Carroccio al test della piazza
di Marcello Sorgi


Ma non l’avrà presa un po’ sottogamba Roma, il leader del Carroccio Matteo Salvini, che sabato 28 si accinge a celebrare a Piazza del Popolo con una grande manifestazione contro il governo Renzi il debutto nazionale della Lega Nord ricostruita a misura di suo partito personale? La vigilia della manifestazione è nervosa. Salvini è stato contestato in Campidoglio da Sel per l’alleanza con l’estrema destra di Forza Nuova che lo affianca nell’organizzazione dell’iniziativa romana, non è voluto salire al Colle, dove ha spedito i suoi capigruppo, incurante dello sgarbo istituzionale consumato con la sua assenza ai danni del presidente Mattarella e ha dovuto fronteggiare gli attacchi del Pd per il caso della sua compagna Elisa Isoardi, conduttrice di un programma Rai in cui sono stati invitati un gruppo di commercianti veronesi che protestavano contro Tosi.
Ma Salvini procede lo stesso come se nulla fosse: in meno di un anno, da quando ne ha assunto la guida, dopo la crisi seguita agli scandali di Bossi e del suo cerchio magico, la Lega da forza nordista, a tratti secessionista, e da alleato del centrodestra a guida Berlusconi, è stata trasformata in partito che punta a tentare la scalata ai voti in libera uscita di tutta la coalizione. Ieri mattina ad Agorà su Rai 3 Silvia Sardone, una delle giovani promesse scoperte da Berlusconi, a cui l’ex-Cavaliere vorrebbe affidare il rilancio del suo partito, ha detto chiaramente che Forza Italia avrebbe dovuto aderire all’iniziativa di Salvini, senza timidezze e rafforzandone la partecipazione con le proprie bandiere, dato che si tratta della prima volta in cui il popolo del centrodestra scende in piazza contro Renzi, e non esserci vorrebbe dire sprecare un’occasione per dimostrare pubblicamente, tra la gente, che l’epoca del patto del Nazareno s’è chiusa per sempre.
In realtà è proprio questo l’incubo di una parte dell’attuale gruppo dirigente di Forza Italia: passare dalla subalternità a un Matteo a quella all’altro, pronto ormai a occupare l’intero campo del centrodestra senza neppure riconoscere i rapporti di forza o i vincoli di coalizione, come dimostra la vicenda ancora aperta del Veneto, in cui Salvini, in polemica con il sindaco e leader della Liga Veneta Tosi, preferisce schierarsi da solo con il governatore uscente Zaia, anche a costo di rischiare che lo stesso Tosi si candidi contro con il sostegno dei vecchi alleati. Berlusconi con i suoi ha minacciato di rompere l’alleanza con la Lega in Lombardia e far cadere la giunta regionale guidata da Maroni. Ma da domenica, se la manifestazione di Salvini a Roma dovesse aver successo, potrebbe ripensarci.

il Fatto 26.2.15
Roma: mille agenti per i due cortei del 28 (Lega e centri sociali)

Mille uomini per garantire la sicurezza di una città che sembra non avere mai pace. Si è tenuta ieri a Roma una riunione tecnica in prefettura del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza per fare il punto sulla gestione dell’ordine pubblico in quello che si annuncia un nuovo “sabato bollente” per la Capitale, quando a piazza del Popolo si terrà la manifestazione organizzata dal Carroccio mentre un corteo organizzato dai centri sociali al grido di “Mai con Salvini” sfilerà a qualche chilometro di distanza. Saranno oltre mille gli uomini delle forze dell’ordine in campo per garantire la sicurezza. La manifestazione dei centri sociali, al quale prenderanno parte studenti, artisti, attivisti dei movimenti per la casa, migranti, centri sociali, sponsorizzata dal noto disegnatore Zerocalcare, dovrebbe partire alle 14 da piazza Vittorio, all’Esquilino, e l’arrivo potrebbe essere autorizzato a Campo de Fiori, in pieno centro. Dagli organizzatori della “contromanifestazione” fino a questo momento non sarebbe arrivato ancora il preavviso alla Questura.

Repubblica 26.2.15
Le due piazze che spaventano Roma
I militanti di CasaPound al comizio di Salvini e gli antagonisti al contro-corteo dei movimenti: allarme per la giornata di sabato
La Capitale si blinda: la questura mette in campo 2.000 agenti per evitare che i manifestanti vengano in contatto
di Mauro Favale


ROMA .«In questo momento non ci sono situazioni considerate di particolare rischio». Ostenta tranquillità il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro nonostante il dispositivo di sicurezza che la Questura sta mettendo in piedi in occasione della manifestazione di sabato della Lega preveda l’impiego di quasi 2.000 uomini. L’ordinanza non è ancora stata messa a punto e gli ultimi dettagli verranno definiti soltanto domani ma i numeri saranno quelli delle grandi occasioni.
Dopo la débâcle di una settimana fa con i tifosi del Feyenoord, quello di dopodomani sarà il primo banco di prova per l’ordine pubblico in città: da una parte, alle 15, il comizio a piazza del Popolo di Matteo Salvini che si prevede partecipato da almeno 50.000 persone. Dall’altra, una contro-manifestazione di centri sociali, antifascisti, comitati per l’acqua pubblica, sindacati di base, movimenti per la casa, Anpi, Rifondazione e Sel, uniti sotto la sigla “Mai con Salvini”. Dalle 14 sfileranno da piazza Vittorio, cuore dell’Esquilino, fino a Sant’Andrea della Valle, a due passi dal Senato. L’autorizzazione al percorso da parte della Questura dovrebbe arrivare oggi, salvo cambiamenti dettati dall’annunciata presenza in mattinata, sempre in piazza Vittorio, dei militanti di CasaPound. Lì, a due passi, c’è la loro sede, quella dalla quale nel pomeriggio partiranno per raggiungere piazza del Popolo e manifestare al fianco di Salvini.
Sono loro (insieme a un gruppo di fuoriusciti da Ncd) la base della Lega a Roma: un’alleanza che ha portato all’elezione di Mario Borghezio al Parlamento europeo e che, negli ultimi mesi, si è tradotta in una massiccia presenza di CasaPound nei quartieri più periferici della capitale, da Tor Sapienza all’Infernetto, dove sono scoppiate le proteste dei residenti contro gli immigrati. Al comizio di Salvini sono arrivate anche adesioni internazionali: da Marine Le Pen (che invierà un videomessaggio) ai tedeschi anti-Islam di Pegida ai francesi del Bloc Identitaire.
Per evitare che le due manifestazioni vengano a contatto, lo spiegamento di forze sarà imponente, con numeri simili a quelli messi in campo per Roma-Feyenoord. «Vogliamo far sì che tutto avvenga nella maniera più serena possibile e che ciascuno possa manifestare il proprio pensiero liberamente », avverte il prefetto. I movimenti, da parte loro, stanno pensando a “tattiche di disturbo” che potrebbero essere anticipate di 24 ore, con un possibile blitz a piazza del Popolo già nel pomeriggio di domani. Ieri, intanto, un gruppo di studentesse ha contestato il flash mob del leader leghista sotto al Campidoglio con lo striscione “Salvini a casa, via i razzisti”. «Non rispondo a quattro poveretti. Piuttosto, sabato, chi deve, garantisca la sicurezza », il commento del leader della Lega. Sempre sul fronte politico, il premier Matteo Renzi ha definito quella del Carroccio, «una piattaforma ispirata alla destra xenofoba e populista europea ». Risponde il senatore leghista Raffaele Volpi: «Renzi fomenta odio. Se sabato ci saranno incidenti sarà colpa sua».

Repubblica 26.2.15
Elio Germano
“Sto dall’altra parte non mi piacciono gli slogan anti-migranti”
intervista di Silvia Fumarola


ROMA Nel video che sostiene l’iniziativa #MaiconSalvini- Roma non ti vuole Elio Germano appare circondato da bambini di varie etnie. Ha un foglio in mano, legge: «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura (...) Si presentano in due e poco dopo diventano quattro, parlano lingue incomprensibili, chiedono l’elemosina. I governanti hanno aperto troppo le frontiere (...)». «No, queste non sono le parole di Salvini» spiega con amara ironia l’attore, il Leopardi rivoluzionario del film di Martone «ma le parole usate dall’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso degli Stati Uniti per descrivere gli italiani. Nel 1919» sottolinea «quando tanti italiani emigravano, gli americani descrivevano così quelli come me e come Salvini ». In prima fila nelle battaglie della società civile (Ilva di Taranto, Teatro Valle occupato) Germano ha aderito — insieme a altri artisti, tra cui i 99 Posse e il fumettista Zerocalcare — alla manifestazione anti-Salvini di sabato «per tutelare i più deboli e chi in questa società non ha diritti». Nel video recita la poesia di Trilussa, L’orco innamorato, anch’essa dedicata alla memoria, con quel verso su “un bellissimo paese che non ricorda” appunto, l’Italia. E conclude in romanesco: «Salvini, tornatene a casa che nun te ce volemo».
Il vostro corteo in contemporanea col comizio di Piazza del Popolo ha già scatenato polemiche da parte di CasaPound.
«Appartiene alla loro storia attaccare, non è una novità. Mi hanno messo in mezzo ma non replico, non voglio entrarci, non dico una parola. Quello che m’interessava l’ho detto nel video. Quel filmato spiega tutto».
Sabato quindi marcerà con i centri sociali, i no Tav, i movimenti antagonisti?
«Guardi, che io ci sia o non ci sia non è fondamentale. Ho aderito con lo spirito e con l’anima all’iniziativa, ci credo e ci ho già messo la faccia. Il 28 avevo già un impegno, dovrei essere a Torino per lo sgombero della Cavallerizza Reale occupata. Ancora non so bene come mi muoverò, sto decidendo come organizzarmi. Il punto non è la mia presenza fisica».
Lo sa che a Roma c’è grande preoccupazione?
«Io vorrei solo capire come si danno le autorizzazioni. Mi chiedo come si possa autorizzare CasaPound, che fa apologia di fascismo. Non era reato? O forse mi sbaglio? Il prefetto dovrebbe pensare bene a quello che fa».
Con che spirito è nato il vostro corteo?
«Siamo democratici, c’è gente al nostro fianco che ci ricorda cos’è stata la Resistenza, che siamo liberi perché ci sono stati i partigiani, che una volta al posto degli immigrati c’eravamo noi, che la solidarietà esiste. Mi sembra una bellissima cosa, la memoria resta un valore. Non vorrei che qualcuno stesse cercando un capro espiatorio».

il manifesto 26.2.15
Ecco la Lega e Roma prepara la protesta
Mai con Salvini. Alla conferenza stampa del leader leghista arrivano le prime contestazioni
Al corteo aderisce anche l’Anpi
di Samir Hassan, Alessandro Barile

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Repubblica 26.2.15
L’amaca
di Michele Serra


I DUE uomini di punta della Lega, Salvini e Tosi, hanno fatto entrambi il liceo classico. Salvini il mio stesso liceo milanese, anche se — beato lui — quasi vent’anni dopo. La circostanza, ovviamente, è puramente casuale e non ha alcun rilievo statistico; ma fa sorridere se si ripensa alla ormai ventennale menata sulla Lega “popolana” che si contrappone ai fighetti radical chic. Esiste una ricchissima pubblicistica fondata su questo concetto, un vero e proprio tormentone. Come ho spesso e inutilmente scritto (ognuno ha le sue fissazioni) l’analisi dei dati elettorali basta e avanza a distruggere quel luogo comune: nei quartieri benestanti prevale il centrodestra. Tra le ville sui colli di Bologna il Pci non ha sfondato nemmeno negli anni d’oro, ai Parioli di rosso non ci sono neanche i semafori, l’unica circoscrizione di Milano dove Pisapia non ha prevalso è (ovviamente) il centro storico, dove vivono i signori e dove Salvini ha fatto il classico. Per la propaganda ventennale che ha imposto l’idea di una destra di popolo e di una sinistra di salotto, il Bossi prima diplomato per corrispondenza alla Radio Elettra e poi falso medico rispondeva perfettamente al copione. Tanto quanto il miliardario Silvio che possiede le case editrici ma non legge libri. Ma Salvini? Basteranno le felpe e i modi bruschi? E se qualcuno si accorge che ha studiato Ovidio?

Corriere 26.2.15
Il rilancio della reggia dei Borbone che la camorra vuole impedire
Iniziati i lavori di restauro. La lettera all’ex ministro Bray: smettila o sei morto
In quella reggia si capirà se possiamo dirci un Paese civile
di Gian Antonio Stella


«Piantatela di parlare di Carditello o siete morti». C’è una sola risposta che il governo può dare alle minacce contro Massimo Bray e Nadia Verdile, la cronista che da anni denuncia il degrado della reggia borbonica nella Terra dei Fuochi. Deve raddoppiare gli sforzi e gli investimenti e la presenza di agenti e carabinieri: la battaglia di Carditello va vinta. E la camorra deve uscirne umiliata. Ne va dell’onore dello Stato.
Cosa fosse Carditello i nostri lettori, dopo vari reportage, lo sanno bene. Era la Versailles agreste dei Borbone, progettata come reggia di caccia da Francesco Collecini, braccio destro di Luigi Vanvitelli, e poi trasformata in una villa delle delizie al centro di una tenuta agricola di oltre duemila ettari bagnati dalle acque dei Regi Lagni. Un luogo magico, che spinse Goethe a scrivere affascinato che bisognava andar lì «per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra (...). La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l’aiuola di un giardino».
Come sia stata trattata, quella meravigliosa residenza, è una vergogna. Prima l’abbandono dei Savoia che se n’erano impossessati, poi l’affidamento in gestione al capo della camorra locale, poi il frazionamento della tenuta col passaggio di immobili e arredi all’Opera nazionale combattenti, poi ancora l’occupazione dei nazisti e successivamente l’ingresso nel patrimonio immobiliare del Consorzio generale di bonifica del Volturno, un carrozzone sprofondato nei debiti.
Il colpo di grazia, racconta Nadia Verdile nel libro La Reggia di Carditello. Tre secoli di Fasti e Feste, Furti e Aste, Angeli e Redenzioni , lo diede la politica cieca e collusa: «Nel 2008, nel pieno dell’emergenza rifiuti in Campania, il Real Sito di Carditello venne inglobato in quella che è passata alla storia con il nome di “Cittadella della monnezza”, una concentrazione di discariche collocate tra i comuni di Santa Maria La Fossa e di San Tammaro. Le due più vicine alla reggia, poche centinaia di metri, erano quelle di Ferrandelle, realizzata sui terreni sequestrati al criminale Francesco Schiavone, detto Sandokan, capo del clan camorristico dei Casalesi e quella di Maruzzella Tre, realizzata in tenimento santammarese, nell’ambito del sistema provinciale di smaltimento dei rifiuti che prevedeva la costruzione nell’area attigua di un sito di compostaggio e di un depuratore di percolato oltre al già esistente digestore anaerobico di Salerno. Accerchiato da due discariche di Stato, il Real Sito divenne, a causa del vergognoso abbandono a cui era ormai lasciato, anche discarica abusiva di rifiuti tossici e pericolosi...».
Finché arrivò la razzia finale, compiuta dai camorristi della zona che per anni, dopo un parziale restauro, si sono portati via tutto: dai camini ai cancelli, dai pavimenti delle altane ai marmi delle scalinate, dalle colonnine delle balaustre a brandelli di affreschi che i casalesi, nella loro animalesca ignoranza, cercarono di strappare facendo danni irreparabili. Il tutto per «ingentilire» le loro ville pacchiane nella poltiglia urbanistica della provincia casertana.
Per questo Carditello è diventata un simbolo. Perché a un certo punto è stato chiaro che lì lo Stato si giocava più di una splendida reggia. E che si imponevano tre risanamenti paralleli: quello artistico e monumentale della Real Delizia, quello ecologico del territorio ucciso dai veleni, quello etico di un territorio pesantemente infiltrato dalla criminalità organizzata.
E per questo tutti gli italiani che hanno a cuore il nostro patrimonio salutarono con sollievo, nel gennaio 2014, la decisione dell’allora ministro dei Beni culturali Massimo Bray di acquisire la reggia di Carditello per ripulirla, restaurarla, restituirla a nuova vita dopo decenni di abbandono.
Per farne cosa? Forse una tenuta agricola modello affidata all’università e rilanciata con l’ambizione di dimostrare come la Terra dei Fuochi possa tornare all’antica vocazione. Forse un centro di eccellenza per la ricerca scientifica o altro ancora. Certo uno spazio aperto al turismo più colto italiano e internazionale. In ogni caso, uno spazio «vissuto», col concorso degli enti locali e delle associazioni anti-camorra, tutti i giorni. Così da non ripetere l’errore del passato: guai se, dopo il nuovo restauro, la reggia fosse nuovamente lasciata vuota e abbandonata alle incursioni dei vandali camorristi per anni tenuti a bada, per quel po’ che poteva, solo da Tommaso Cestrone, il volontario della Protezione Civile che dedicò gli ultimi anni di vita, nonostante le minacce e le intimidazioni e l’uccisione delle sue pecore, a proteggere quanto restava della dimora.
E qui è il punto: recuperati tre milioni di euro per il restauro dal ministero dei Beni culturali ai tempi di Bray più altri due annunciati mesi fa dall’assessore al Turismo e ai beni culturali della Regione Campania Pasquale Sommese, i restauri sono finalmente cominciati. Ma si stanno accumulando ritardi sul fronte della fondazione che dovrebbe gestire il «dopo». Ritardi così pesanti, di rinvio in rinvio, da spingere quanti hanno a cuore il progetto ad essere sempre più preoccupati. E a lanciare l’allarme: attenzione, rischia di nuovo di saltare tutto.
Proprio ciò che sperano quanti, giorni fa, hanno inviato al Mattino una lettera a Bray («Smettila di interessarti di Carditello o sei morto») e una alla Verdile: «Smettila di scrivere di Carditello o sei morta». Sotto, una croce. Minacce serie, per gli investigatori. Al punto che si moltiplicano le testimonianze di solidarietà che sfoceranno domenica in una manifestazione di sostegno.
A chi dà fastidio l’ipotesi che la reggia sia restaurata e restituita ai cittadini? A chi continua a gestire le discariche illegali e il traffico di rifiuti tossici e punta ora sull’affare del risanamento. Che potrebbe finire nelle stesse mani di quanti seminarono i veleni. Insomma, degli imprenditori della paura e della morte. Quelli che non possono accettare che la battaglia di Carditello venga vinta dallo Stato. Esattamente il motivo per cui lo Stato deve assolutamente vincere.

La Stampa 26.2.15
La satira romana contro Isis attraversa l’Atlantico
Tweet e battute su New York Times e Washington Post
di Francesco Semprini

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La Stampa 26.2.15
Su Twitter arriva #ISISminaccia, l’ironia della rete contro la propaganda del terrore
La gaffe di un militante jihadista sul social network (“Butteremo i gay dalla Torre di Pizza”) scatena gli utenti
E così si moltiplicano account e proclami finti
di Francesco Zafferano

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Repubblica 26.2.15
Italia, ironia sull’Is
di Thomas L. Friedman


GLI italiani questa volta l’hanno proprio azzeccata. La settimana scorsa Adam Taylor del Washington Post ha diligentemente raccolto i tweet che gli italiani hanno postato dopo la diffusione di un video truculento da parte dello Stato Islamico, l’Is, nel quale un militante minaccia: «Oggi siamo a sud di Roma. Ad Allah piacendo, la conquisteremo».
Quando ha iniziato a circolare in Italia l’hashtag #We-Are-Coming-O-Rome, i romani hanno saputo raccogliere la sfida. Tra i loro tweet, osserva Taylor, c’erano i seguenti: «Attenti al raccordo anulare, c’è molto traffico, rimarrete imbottigliati!», «Ehi, se volete un consiglio non prendete il treno, perché non è mai in orario!», «Arrivate troppo tardi, a distruggere l’Italia ci hanno già pensato i suoi governi».
Le azioni feroci dell’Is non sono uno scherzo, ma gli sfottò degli italiani sono alquanto appropriati. Mentre discutiamo fino allo sfinimento del rapporto che l’Is ha con l’Islam, dimentichiamo una semplice verità su molte delle persone attratte da gruppi come questo. Si tratta della verità esternata alla Cnn da Ruslan Tsarni, dopo che i suoi due nipoti, Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev, sono stati accusati dell’attentato alla Maratona di Boston. «Erano — ha detto — soltanto due sfigati» che provavano rancore nei confronti di chi aveva avuto risultati migliori di loro, e hanno mascherato il loro rancore con ideologia. «Qualsiasi altra cosa abbia a che vedere con la religione, con l’Islam, è impostura, è menzogna».
C’è molto di vero in queste parole. L’Is è formato da tre fazioni distinte, e prima di buttarci a capofitto in un’altra guerra in Iraq e in Siria abbiamo l’obbligo di capirle tutte e tre per bene. La prima fazione annovera i foreign fighters , i combattenti volontari stranieri. Alcuni sono jihadisti incalliti, ma molti sono solo perdenti, disadattati, giovani uomini in cerca di avventura. Dubito che tra loro vi siano molti seri studiosi dell’Islam, o che proponendo una versione più moderata se ne resterebbero a casa propria. Se l’Is iniziasse a perdere e non riuscisse a offrire lavoro, potere o sesso, questo gruppo si rimpicciolirebbe.
La seconda fazione che compone l’Is, e ne costituisce l’ossatura, è formata da ex ufficiali dell’esercito baatista sunnita e da sunniti iracheni e tribù locali che offrono un sostegno passivo all’Is. Pur rappresentando appena un terzo della popolazione irachena, i sunniti hanno governato l’Iraq per generazioni. Adesso, molto semplicemente, non riescono ad accettare il fatto che a governare sia la maggioranza sciita. Inoltre, per molti abitanti sunniti di villaggi posti sotto il controllo dell’Is, quest’ultimo è meno malvagio in fatto di atrocità e discriminazioni rispetto a quelle compiute dal precedente governo iracheno guidato dagli sciiti. Se provate a googlare “milizie irachene sciite e trapani elettrici”, potrete constatare che non è stato l’Is a inventare la tortura in Iraq.
Gli Stati Uniti continuano a commettere sempre lo stesso errore in Medio Oriente: sopravvalutano il potere dell’ideologia religiosa e sottovalutano l’impatto del malgoverno. Sarah Chayes — che ha lavorato a lungo in Afghanistan e ha scritto “Thieves of State: Why Corruption Threatens Global Security”, un libro fondamentale su come la corruzione del governo ha allontanato gli afgani da noi e dal regime afgano filo-statunitense — sostiene che «niente alimenta di più l’estremismo della smaccata corruzione e dell’ingiustizia» che alcuni degli alleati segreti dell’America in Medio Oriente infliggono quotidianamente ai loro popoli.
La terza fazione che compone l’Is è formata da veri ideologi: guidati da Abu Bakr al-Baghdadi, hanno una versione apocalittica tutta loro dell’Islam, che tuttavia non riscuoterebbe interesse se non fosse per il fatto che nel mondo arabo e in Pakistan «sia la religione sia la politica sono state deragliate », dando vita a una «miscela velenosa». Così dice Nader Mousavizadeh, copresidente della società di consulenze globali Macro Advisory Partners. I popoli arabi sono stati governati per lo più da radicali o da reazionari. Senza la prospettiva di una politica legittima «che dia una vera risposta alle rimostranze popolari», ha detto ancora Nader Mousavizadeh, «nessun tentativo dall’alto in basso di dar vita a un Islam moderato avrà mai successo».
L’Islam non ha un Vaticano che deliberi qual è l’Islam vero e a chi appartiene, quindi si presenta in maniera diversa nei diversi contesti. Esiste un Islam moderato venuto alla luce in ambiti politici, sociali ed economici rispettabili — si pensi all’Islam indiano, l’Islam indonesiano e l’Islam malese — , e che non ha mai messo i bastoni nelle ruote al progresso. E poi esistono gli Islam puritani, contrari al pluralismo, contrari all’istruzione moderna, contrari alle donne, spuntati fuori negli angoli del mondo arabo, della Nigeria e del Pakistan maggiormente soggetti al potere tribale, e che hanno contribuito a mantenere arretrati i propri Paesi.
È per questo motivo che l’Is non è soltanto un problema dell’Islam e non è soltanto un problema di “cause alla radice”. L’Is è frutto di decenni di gestione amministrativa fallimentare nel mondo arabo e in Pakistan. È frutto di secoli di calcificazione dell’Islam arabo. E le due cose si alimentano a vicenda. Chi sostiene che l’uno sia diverso o distinto dall’altro commette un errore madornale.
Per sconfiggere l’Is, quindi, è necessario spazzarne via la leadership; ingaggiare musulmani che screditino le versioni reali, popolari, estremiste dell’Islam provenienti da Arabia Saudita e Pakistan; porre un freno all’ingiustizia, la corruzione, il settarismo e il fallimento statale che ormai dilagano nel mondo arabo e in Pakistan; e infine riuscire a ricavare per i sunniti iracheni una regione autonoma in Iraq tutta per loro, con tanto di partecipazione alle ricchezze derivanti dal petrolio, proprio come hanno i curdi. Lo so: tutto ciò sembra irrealizzabile. Questo, tuttavia, è un problema enorme. E questa è l’unica strada verso un Islam arabo più moderato. Se vogliamo che un numero inferiore di giovani uomini e giovani donne cerchi rispettabilità nei posti sbagliati. ( Traduzione di Anna Bissanti) © 2-015, The New York Times

La Stampa 26.2.15
Atene, il ritorno della paura
“Dopo l’accordo temiamo che tutto resti come prima”
Tsipras ha quattro mesi per non passare dalla luna di miele all’incubo
di Roberto Giovannini


Sono servite oltre dieci ore di discussione al premier greco Alexis Tsipras per far passare all’interno del gruppo parlamentare di Syriza la sua linea a favore dell’accordo stipulato con Bruxelles. Una riunione infinita, certamente, e non priva di tensioni. Ma è durata tanto a lungo anche per l’iperdemocratico modo di procedere del partito della sinistra radicale ellenica. Dei 149 deputati di Syriza, 140 hanno chiesto la parola. E, pazientemente, il premier si è dovuto ascoltare 140 interventi prima di chiudere la riunione.
Per convincere (con qualche fatica) il gruppo parlamentare, Tsipras e il suo ministro dell’economia Yanis Varoufakis hanno dovuto lavorare sodo. Ricordando, ad esempio, che in base agli impegni presi dal vecchio governo Samaras, i greci avrebbero avuto presto rincari delle tasse, altri tagli delle pensioni e 150 mila licenziamenti pubblici. Ma soprattutto, dando una lettura dell’intesa molto diversa da quella di Bruxelles e Berlino. Ad esempio, ripetendo che il governo farà di tutto per ridiscutere le privatizzazioni di porti, aeroporti e compagnia elettrica. Non basterà a far stare tranquilla l’area trotzkista di Syriza, che prima o poi uscirà.
Quattro mesi
Prima o poi qualcuno chiederà conto di queste evidenti contraddizioni. Per trovare una miracolosa quadratura del cerchio ci sono a disposizione solo i quattro mesi di autonomia finanziaria assicurati dall’accordo con l’Eurozona. Dovranno essere impiegati per attuare il massimo delle riforme del pacchetto Europeo condivise da Syriza, per realizzare il massimo possibile delle proposte elettorali, per far entrare nelle asciuttissime casse pubbliche danari freschi. Se non funzionerà, c’è il serio rischio che la luna di miele tra i greci e Alexis Tsipras si trasformi in un incubo. E che a questa primavera prematura di Atene - con le strade trafficate e piene di sole, i negozi aperti con tanta gente che compra, i ristoranti tornati ricolmi come una volta - segua un nuovo inverno di crisi e depressione.
Sofia Lambropolou ha 36 anni, insegna, fa la musicista, fa mille lavori come tanti ateniesi. Ha accolto con entusiasmo il successo di Syriza, anche se adesso è decisamente preoccupata. «Dopo le elezioni del 25 gennaio - spiega - c’è stata come un’onda di ottimismo e di speranza. Si pensava che qualcosa stesse cambiando, in tanti hanno pensato di avviare nuovi progetti, di darsi da fare. E ora, però, sta salendo la preoccupazione che tutto resti come prima». Ovviamente parliamo del nuovo memorandum con l’Europa, e delle marce indietro evidenti rispetto alle promesse elettorali. Che però potrebbe passare in secondo piano «se il governo - continua Sofia - riuscisse a dimostrare che le cose cambiano veramente, che si faranno pagare le tasse agli oligarchi, che si pensa a risolvere almeno qualcuno dei problemi delle persone normali». A uscire dall’euro non ci pensa nessuno, troppi sono i rischi. Anche se per i sondaggisti il 30% dei greci è favorevole.
La ritirata
Yorgos Delastik è uno degli editorialisti del quotidiano «Ethnos». E non usa certo mezze parole per illustrare la situazione. «La gente ha capito - afferma - che Tsipras ha compiuto una ritirata inaccettabile. La gente sa che ci ha provato, ma è stato schiacciato dalla pressione eccezionale esercitata dalla Germania. Si è capito che il governo non ha la forza di mantenere le sue promesse, anche se la lettera all’Eurogruppo contiene elementi di ambiguità. E si è capito, infine, che in questi 4 mesi in cui la Germania ci schiaccerà, non ci saranno grandi cambiamenti, nonostante le speranze di tanti di poter voltare pagina dopo una lunga stagione di miseria». A meno (ma sarà dura), di resistere fino alle elezioni in autunno in Spagna e Portogallo, con la possibilità di creare un fronte anti-austerità più forte di quello attuale.
Nessun’altra soluzione
Alternative? Non ce ne sono all’orizzonte. «Dopo cinque anni di incubo, di impoverimento, di depressione economica e psicologica - racconta un altro valoroso giornalista, Nicholas Zerganos di “Iefemerida” - le persone non potevano più continuare a sopravvivere in uno stato di umiliazione, di assenza di speranza. Tanti hanno votato Syriza per questa sola ragione, e per questo bisogna sperare che qualcosa, il più possibile, cambi. Altrimenti sarà la fine della politica, sarà il trionfo della sfiducia e dell’estremismo. Dopo Syriza ci sono solo i nazisti di Alba Dorata».

La Stampa 26.2.15
Iva, case, consumi, isole dell’Egeo
Alla fiera delle esenzioni greche
In Costituzione il diritto degli armatori a non pagare tasse sui profitti all’estero. Lo “sconto facile” costa 4 miliardi l’anno
di Rob. Gio.


La crisi greca è cominciata nel 2009, e già allora tutti gli esperti dicevano che il problema dei problemi era quello dell’evasione fiscale, e che risolto quello tutto sarebbe andato a posto. Sei anni dopo, si scopre che su quel fronte non è stato fatto assolutamente niente. Proprio ieri è cominciato il processo all’ex ministro socialista dell’Economia Papakonstantinou, accusato di aver sbianchettato la «lista Lagarde» (un elenco di 2000 greci col conto in Svizzera), e poi sabotato ogni indagine. Quel che è certo è che se non interverrà rapidamente e radicalmente sull’evasione (illegale, o del tutto legalizzata) per Alexis Tsipras non ci sarà speranza alcuna.
Nessun greco paga le tasse volentieri, ma oggi circa due terzi della popolazione può fare poco per evitarle, pagando con la ritenuta alla fonte sul reddito. Si può però evadere facilmente le imposte indirette e a volte quelle sugli immobili: imprese e professionisti, invece, hanno mille occasioni e modi per farla franca. Possono stare del tutto tranquilli i più ricchi del Paese, ovvero gli armatori.
Parliamo di un settore che gode di un trattamento privilegiato addirittura stabilito nella Costituzione sin dal lontano 1967: la totale esenzione fiscale sui profitti ottenuti all’estero. Va da sé che gli armatori, grazie alla loro ricchezza, sono riusciti a controllare molti settori chiave della vita del Paese: le reti televisive e i giornali, le infrastrutture e i lavori pubblici, le squadre di calcio, la grande distribuzione, la vendita di benzina e carburanti, le banche. E, si dice, anche i partiti storici di governo, Pasok e Nea Dimokratia.
E poi ci sono le «esenzioni fiscali legali», quasi 4 miliardi di euro l’anno: 300 milioni riguardano la casa, 700 la tassazione dei capitali, 600 la tassazione degli immobili, 70 quella dei veicoli, un miliardo di euro valgono i trattamenti privilegiati sull’Iva e un altro miliardo la «tassa speciale sui consumi» che riguarda i carburanti. Alcune di queste esenzioni hanno una storia antica, come l’Iva agevolata per le isole dell’Egeo: una volta erano terre povere e abbandonate, ma oggi grazie al turismo sono le aree più ricche.
E a complicare le cose c’è anche un sistema fiscale dove regnano inefficienza e corruzione. Pochi computer, banche dati cartacee, propensione alla bustarella del personale, pressioni dei politici a favore dei «grandi contribuenti», impossibilità di incrociare pagamenti e dichiarazioni. E infine, la crisi ha dato il colpo di grazia alle entrate: ora ci sono ben 72 miliardi di euro di imposte (e sanzioni) arretrate.
Per cercare di incassarne almeno una parte, il governo di Syriza ha promesso di realizzare una sorta di condono super tombale, ma gran parte di queste tasse arretrate sono a nome di aziende fallite da anni o del tutto inventate per evadere.

Corriere 26.2.15
Tunisia, la primavera araba riuscita
Finestra per l’Europa sulla crisi libica
di Francesco Battistini


Tunisi. Cinque bicchieri d’acqua sul tavolo di cristallo, fra un librone dedicato alle bellezze di Tunisi e le angosce concentrate sugli orrori di Tripoli. Ebbene sì: esiste un Islam sobrio, se proprio non moderato, e alla fine d’una giornata d’incontri sta seduto di fronte a Paolo Gentiloni, sui divani della residenza dell’ambasciatore Raimondo De Cardona. Ha barba rada e parole quiete, si chiama Rashid Ghannouchi, è il leader della Fratellanza di Ennahda che due mesi fa ha perso le elezioni e però accettato di governare coi nuovi padroni laici, perfino restauratori del panarabismo di Bourghiba. «Noi siamo diversi dai Fratelli musulmani dell’Egitto — dice Ghannouchi — e anche da quelli di Alba libica. Noi non vogliamo lo scontro. C’è un Islam che cerca di sedersi a un tavolo e trovare una soluzione. Noi appoggiamo la mediazione dell’Onu tra le fazioni libiche».
Il ministro degli Esteri annuisce: «Questo è un esperimento d’interesse enorme per il Mediterraneo». E’ qui che bisogna puntare? «Con Ennahda si ragiona. Coi Fratelli musulmani egiziani, la vedo un po’ più dura…».
Avamposto Tunisia. Non combatteremo al Sud di Roma, dice Gentiloni, perché in Libia «non esiste una soluzione militare»: porterebbe solo nuove migrazioni. Non tocca solo a noi rimettere la sabbia nello scatolone, perché la strada è quella dell’Onu e d’un governo «inclusivo e di riconciliazione tra le milizie». Intanto però eccoci sulla linea del fronte: nella culla delle primavere arabe, l’unica cullata bene, dove la riconciliazione sta funzionando, dove andranno a tirare il fiato un po’ dei nostri funzionari evacuati di corsa dall’ambasciata di Tripoli, dove l’emergenza preme con un milione di profughi o forse più, dove l’Italia ha il più grande investimento di cooperazione (300 milioni) e il governo Renzi è venuto a promettere anche una cancellazione del debito. Qui non s’è ricorsi a un Putin arabo, com’è il generale Al Sisi al Cairo. E men che meno un Al Sisi libico, com’è il generale Haftar che il governo di Tobruk — quello che combatte la Fratellanza e l’Isis — ieri ha confermato capo delle forze armate.
Nel Paese al mondo che esporta più jihadisti eppure è fra i più de-jihadizzati, la svolta passa per il 73enne Ghannouchi e per il novantenne Essebsi, uno dei più vecchi capi di Stato del mondo, che lo Stato islamico non vuole nemmeno chiamarlo così: da avvocato navigato, sa che «basta il nome per dare a questi folli una dignità giuridica che non hanno». E per combatterli bastano frontiere controllate, polizia efficiente, tunisini collaborativi. A capo dell’antiterrorismo, Essebsi ha ripescato il contrammiraglio Kamel Akrut, un duro che Ennahda aveva esiliato negli Emirati. Ma nel suo anno zero per la ricostruzione, l’ha detto anche agl’italiani, al presidente interessa discutere più d’aiuti dalla Banca europea o dal Fondo monetario, delle imprese chiamate a delocalizzare. E’ la disoccupazione, il vero fertilizzante della malerba terroristica: se volete estirparla mandate soldi, non soldati.

Repubblica 26.2.15
Netanyahu negli Usa la Casa Bianca all’attacco “Una visita distruttiva”

Gerusalemme. «La decisione di Netanyahu di parlare alle Camere riunite, incentrando il suo discorso sull’Iran, danneggia i rapporti tra Israele e Stati Uniti, impegnati in una difficile trattativa con gli ayatollah. Il fatto poi di farlo due settimane prima delle elezioni politiche in Israele ha introdotto un livello di partigianeria che credo sia non solo inopportuno ma anche distruttivo per il nostro rapporto». Le parole di Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Obama, testimoniano il gelo tra la Casa Bianca e il premier israeliano che, incurante della tempesta diplomatica e degli avvertimenti arrivati da Washington, si appresta a partire domenica alla volta degli Stati Uniti dove martedì prossimo è previsto il suo discusso speech al Congresso sui pericoli del nucleare iraniano. Secca la replica di Netanyahu, che non vedrà Obama e ha rifiutato anche di incontrare i senatori democratici nel corso della sua visita: «Rispetto la Casa Bianca e il presidente americano, ma su una questione seria è mio dovere fare il possibile per la sicurezza del mio Paese. Alla luce dell’accordo che si sta preparando, abbiamo ragione di preoccuparci». Poche ore prima un altro pesante affondo del premier israeliano: «Sembra che le potenze occidentali abbiano ceduto sul loro impegno di impedire che l’Iran ottenga armi nucleari».

La Stampa 26.2.15
Amnesty presenta il rapporto annuale e denuncia “2014 catastrofico, i 5 Grandi rinuncino al loro potere”
“L’Onu è paralizzata di fronte alle violenze. Stop al diritto di veto”
di Enrico Caporale


«Il 2014 è stato un anno catastrofico per milioni di persone intrappolate nella violenza, con una delle peggiori crisi dei rifugiati cui il mondo abbia mai assistito». Siria, Iraq, Gaza, Ucraina, ma anche Nigeria, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan. Con un editoriale sul «New York Times», il Segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty, entra a gamba tesa contro il Consiglio di Sicurezza Onu, accusandolo di non aver agito di fronte alle varie crisi «neanche quando sono state commesse atrocità di massa».
Escalation di conflitti
A 70 anni dalla nascita delle Nazioni Unite, l’ultimo rapporto di Amnesty International denuncia una nuova escalation dei conflitti su scala mondiale. Guerre civili, pulizia etnica, Stati falliti, terrorismo, intere popolazioni che fuggono. Negli ultimi quattro anni in Siria sono morte 200 mila persone e da giugno lo Stato islamico (Isis) ha messo in atto rapimenti, uccisioni sommarie e attentati che hanno sconvolto le regioni tra Siria e Iraq. L’assalto condotto a luglio su Gaza dalle forze israeliane è costato la vita a 2 mila palestinesi - la maggior parte civili - e il nord della Nigeria è insanguinato dai Boko Haram. In Ucraina l’impiego di armi esplosive ha provocato stragi di civili nelle aree popolate dell’Est.
Doppia strategia
Per affrontare l’emergenza Amnesty mette in campo una doppia strategia. Primo: una campagna mondiale per spingere i cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) a rinunciare al diritto di veto nei casi di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Secondo: chiedere a tutti gli Stati di ratificare o accedere al Trattato sul commercio di armi entrato in vigore lo scorso anno. Un appello rivolto soprattutto a Usa, Cina, Canada, India, Israele e Russia «per impedire che le armi finiscano nelle mani di chi potrebbe utilizzarle per commettere atrocità».
I fallimenti denunciati da Amnesty riguardano anche l’incapacità dei governi nel fornire assistenza adeguata ai milioni di persone in fuga. «Un numero enorme di rifugianti e migranti - dice infatti Shetty - continua a perdere la vita nel Mar Mediterraneo».

Il Sole 26.2.15
La crisi ucraina
In Estonia, a pochi metri dal territorio russo, sfilano mezzi militari americani e britannici
Mosca torna a far paura ai Baltici
di Michele Pignatelli


La Lituania, che confina con Kaliningrad, reintroduce la leva obbligatoria
Nei Paesi Baltici tornano a soffiare venti di guerra, o quantomeno di Guerra fredda. Ieri circa duemila soldati russi hanno condotto esercitazioni militari nell’Ovest del Paese, coinvolgendo anche 500 unità di equipaggiamento di stanza nella regione di Pskov, che confina con Estonia e Lettonia. Martedì mezzi militari americani e soldati britannici avevano preso parte alla parata celebrativa dell’indipendenza estone, sfilando a Narva, città dalle forti suggestioni geografiche - è separata dalla Russia solo dall’omonimo fiume - e storiche, visto che fu teatro di una sanguinosa battaglia nella Seconda guerra mondiale e della successiva, massiccia opera di “russificazione” da parte di Mosca. Sempre martedì, poi, la Lituania ha annunciato la reintroduzione della leva obbligatoria, per far fronte alla crescente minaccia russa.
La decisione di Vilnius è l’ultimo campanello d’allarme che arriva dalla regione. «Dobbiamo rafforzare le nostre capacita di difesa - ha detto Dalia Grybauskaite, presidente della repubblica baltica -. L’esercito deve essere preparato a rispondere alle nuove circostanze geopolitiche». Il problema è che le forze armate - come ha sottolineato Jonas Vytautas Žukas, capo di stato maggiore della Difesa - fanno i conti oggi con una «critica carenza di soldati»:?circa 8mila professionisti in servizio e 4.500 riservisti su una popolazione di tre milioni. La leva obbligatoria era stata abolita nel 2008;?se la proposta annunciata martedì verrà ratificata dal Parlamento, ogni anno saranno chiamati a prestare servizio militare (per nove mesi)?tra i 3mila e i 3.500 giovani tra i 19 e i 26 anni. In questo modo le autorità militari lituane stimano di poter raddoppiare in cinque anni le forze a disposizione. Al tempo stesso, progettano di innalzare l’attuale budget destinato alla Difesa, oggi pari appena allo 0,8% del Pil, per puntare al target del 2% indicato dall’Alleanza atlantica.
La reintroduzione della leva arriva un mese dopo che il ministero della Difesa di Vilnius ha dato alle stampe un manuale con le regole da seguire in caso di emergenze e guerre sul territorio nazionale, accompagnando l’annuncio con la considerazione che, dopo quanto è accaduto in Ucraina, tutti i lituani hanno capito che la Russia «non è un Paese amico». Una sorta di prontuario per sapere come regolarsi in caso di invasione russa, consultabile presso biblioteche, scuole secondarie e organizzazioni non governative. «Gli esempi di Ucraina e Georgia, Paesi che hanno entrambi perso parte del loro territorio - aveva detto presentando l’iniziativa il ministro della Difesa, Juozas Olekas - ci dimostrano che non possiamo escludere una situazione simile qui da noi, e che dobbiamo essere pronti»
La Lituania - come l’Estonia e la Lettonia, ex repubbliche sovietiche indipendenti dal 1991 e di recente affiliazione Nato (2004), con una consistente minoranza russa - ha senz’altro un radar particolarmente sensibile nei confronti dei pericoli provenienti da Mosca. Confina tra l’altro con l’enclave russa di Kaliningrad, sede di una massiccia esercitazione ancora nel dicembre scorso, e ospita a sua volta, a Šiauliai, la base aerea da cui partono le missioni di pattugliamento Nato nell’area baltica. Come le altre due repubbliche (e le vicine Svezia e Finlandia) ha assistito peraltro, nei mesi scorsi, a ripetute violazioni dello spazio aereo da parte di velivoli russi.
L’allarme nei confronti delle mire espansionistiche del presidente russo Vladimir Putin non arriva però solo da Vilnius e dintorni. La settimana scorsa Adrian Bradshaw, vice comandante supremo delle forze Nato in Europa, ha messo in guardia dal rischio di un’invasione dei Paesi Baltici attraverso tattiche simili a quelle attuate in Crimea. Appena 48 ore prima il ministro della Difesa britannico Michael Fallon aveva fatto considerazioni analoghe sul «pericolo concreto e attuale» delle operazioni sotto copertura condotte dai russi contro i Paesi Baltici. «Stanno mettendo alla prova la Nato», aveva aggiunto Fallon. In base all’Articolo 5 del Trattato costitutivo, l’Alleanza - che a settembre si è impegnata a dar vita a una forza di reazione rapida da schierare nell’Europa orientale - sarebbe chiamata a intervenire in caso di attacco armato contro uno Stato membro. «Noi - ha dichiarato recentemente al Sole 24 Ore Sven Mikser, ministro della Difesa estone - abbiamo piena fiducia nell’efficacia dell’Articolo 5. Non basta però che ci crediamo noi, è molto importante che ci creda anche Putin».

Il Sole 26.2.15
Ex Urss
Si moltiplicano gli avvertimenti sui pericoli per le tre repubbliche
Minaccia russa tra mito e realtà
di Gianandrea Gaiani


Gli allarmi circa il rischio che il campo di battaglia ucraino si allarghi alle repubbliche baltiche appartengono probabilmente più all’ambito della propaganda, che in questa riedizione in scala ridotta della “guerra fredda” gioca un ruolo di indubbio rilievo, che a una concreta minaccia di sconfinamento russo in Estonia, Lettonia e Lituania.
Eppure, dopo le dichiarazioni dei vertici militari statunitensi della Nato (primo tra tutti il generale Philip Breedlove, comandante supremo alleato in Europa) a favore dell’invio di armi e consiglieri militari in appoggio a Kiev, è stato un generale britannico a evidenziare i rischi per le repubbliche baltiche, membri dal 2004 dell’Alleanza Atlantica. C’è il pericolo che la Russia metta in atto «sul territorio Nato» lo stesso dispiegamento di forza che l’ha portata all’annessione della Crimea, ha detto Adrian Bradhsaw, vice comandante supremo delle forze alleate in Europa (il numero due nella gerarchia militare della Nato), ribadendo così l’allarme già lanciato il 17 febbraio dal ministro della Difesa di Londra, Michael Fallon.
La Russia «rappresenta una minaccia per tutti noi», ha aggiunto il generale confermando un’imbarazzante tendenza che vede gli alti ufficiali anglo-americani della Nato esprimere valutazioni che rispecchiano le posizioni di Londra e Washington ma non certo quelle di tutti gli Stati aderenti tenuto conto degli sforzi di molti Paesi europei per stemperare le tensioni con la Russia.
Come la Polonia, anche le repubbliche baltiche hanno buone ragioni storiche per temere iniziative militari russe ma nella crisi ucraina non giocano certo il ruolo di comparse come dimostra anche la presenza di molti volontari, spesso ufficiali, nei ranghi dei battaglioni “irregolari” ucraini nel Donbass.
Ieri la festa dell’indipendenza dell’Estonia dall’Urss è stata celebrata provocatoriamente con una parata militare a Narva (città al confine russo, abitata soprattutto da russi) con la presenza di truppe della Nato incluso un reparto di blindati statunitensi Stryker e corazzati olandesi CV 90 che l’Aja sta cedendo in 44 esemplari alle truppe estoni per potenziarne le capacità. Negli ultimi mesi sono aumentate le forniture militari ai baltici provenienti dal surplus degli eserciti britannico, statunitense, tedesco, finlandese e svedese inclusi mortai, armi anticarro e antiaeree, blindati e carri leggeri. Armi destinate ad aumentare la percezione della sicurezza e del ruolo della Nato nel momento in cui gli anglo-americani stanno fornendo equipaggiamenti anche alle forze di Kiev che verranno presto addestrate da 600 consiglieri americani e 75 britannici.
Fin dallo scoppio della crisi la Nato ha “rassicurato” le repubbliche baltiche quadruplicando il dispositivo schierato a difesa del loro spazio aereo. Sprovviste di caccia, Estonia, Lettonia e Lituania si sono affidate dal 2004 agli alleati che hanno garantito a rotazione 4 intercettori saliti a 12 l’anno scorso e poi a 16 inseriti nella Baltic Air Patrol attualmente a guida italiana. Forze difensive che tengono d’occhio i velivoli di Mosca che si spingono sempre più spesso ai margini degli spazi aerei della Nato.
I russi mostrano i muscoli ai baltici alimentando vecchie paure mai sopite ma non avrebbero nulla da guadagnare a effettuare attacchi che obbligherebbero la Nato, finora restìa a farsi coinvolgere direttamente in Ucraina, a scendere in campo. L’ipotesi sbandierata da Londra di «un’altra Crimea» sul Baltico risulta poco credibile ma sembra utile a mantenere alto l’allerta degli alleati nei confronti di quello che il portavoce del ministero degli Esteri russo, Aleksandr Lukashevich, ha definito il «mito della minaccia russa».
Una minaccia a cui non sembrano credere fino in fondo neppure i baltici stessi. «Posso dire che non vediamo queste minacce», ha detto giovedì scorso il ministro della Difesa lettone Raimonds Vejonis pur aggiungendo che Mosca «potrebbe utilizzare scenari di guerra convenzionale e ibrida». Anche i lituani, che hanno ripristinato la leva per arruolare 3.500 reclute per 9 mesi all’anno, non sembrano credere alla minaccia russa. «Dobbiamo ripristinare temporaneamente la leva obbligatoria», ha annunciato il presidente Dalia Grybauskaite ma alte fonti della difesa di Vilnius hanno ammesso che «al momento non avvertiamo minacce militari» pur aggiungendo che «questo non significa che non potrebbe presto esserci un’emergenza».

La Stampa 26.2.15
Dalla Cina a Madrid in treno
È la nuova Via della Seta
Inaugurata la tratta commerciale più lunga del mondo
di Ilaria Maria Sala


Yixinou è tornato a casa. Il primo treno a completare la tratta ferroviaria più lunga del mondo - dalla Cina alla Spagna e ritorno - è arrivato a Yiwu, nello Zhejiang. Era partito da Madrid 24 giorni fa.
Il treno merci cinese ha divorato oltre 13.000 chilometri di rotaie, 4000 chilometri più della Transiberiana, attraversando otto nazioni, il maggior numero di Paesi di qualunque altro tratto ferroviario e procedendo senza soste nonostante lo scartamento diverso delle rotaie. I vagoni merci sono stati semplicemente cambiati tre volte lungo il tragitto. Ma a Pechino, i record interessano poco (così come gli sberleffi russi che ricordano come la Transiberiana non abbia bisogno di carichi e scarichi dei container). Con il viaggio di Yixinou si è aperto il corridoio che porta la Cina - e i suoi beni - dritta dritta in Europa.
Dopo l’Asia la Ue
Un anno fa la costruzione di trecento chilometri di alta velocità fra Eilat e Ashdod per collegare il Mar Rosso al Mar Mediterraneo ovvero l’Asia all’Europa - promossi da Pechino e varati da Gerusalemme - avevano alzato il velo sulla strategia cinese per il Medio Oriente: raggiungere oltre trenta porti di varie dimensioni e funzioni che consentono di importare in Cina il 60% del fabbisogno annuo di petrolio ed esportare beni in transito verso l’Africa e l’Europa, primo mercato globale per il «made in China».
La città del Natale
Il treno «Yixinou» con i suoi 64 container era partito dalla «Città del Natale» di Yiwu carico di addobbi natalizi. È da qui, nel cuore dello Zhejiang che infatti proviene l’80% delle decorazioni natalizie del mondo e il 40% degli orologi elettronici, per un volume di import/export annuale di 24 miliardi di euro. Il treno, che ha attraversato fra gli altri Paesi Kazakhstan, Bielorussia, Polonia, Germania e Francia era arrivato nella capitale spagnola pieno di piccole mercanzie natalizie per poi ripartire per la Cina carico di olio d’oliva, prosciutti, e vino spagnoli.
Incrementare gli scambi
Con il treno dei record si compie così uno dei progetti più ambiziosi della Cina per espandere i suoi mercati, in particolare via terra: un metodo di trasporto che costa meno di quello aereo, e anche se è più caro del 20% di quello per nave è molto più rapido e meno rischioso. Secondo Liu Huihuan, direttore della Yiwu Timex Industrial Company Ltd, responsabile della gestione del progetto, diventerà più conveniente man mano che i viaggi si moltiplicheranno. Liu sta cercando di convincere gli imprenditori europei a investire nel treno, assicurandosi che i container ritornino in Cina carichi, e aumentando ancora quello scambio commerciale fra Europa e Cina, che oggi vale 1 miliardo di euro al giorno.
Oltre i confini
Che da anni la Cina punti molto sul trasporto ferroviario non è un segreto: la rete nazionale non fa che espandersi così come le «mire» oltreconfine. Proprio il mese scorso Pechino ha annunciato di voler investire altri 32 miliardi di euro nelle infrastrutture e nella cooperazione economica per facilitare il suo accesso ai mercati stranieri - fra i progetti previsti una linea ferroviaria che attraversa il Tibet, quasi completata, il Nepal (per la prima volta nella storia) e arriva ai porti indiani, e un’altra che arriverà invece a quello di Gwadar, in Pakistan, attualmente in costruzione grazie a investimenti e ingegneria cinesi. Una strategia che vede Pechino diffondere in modo capillare i suoi prodotti, assicurarsi una presenza e un controllo sulle zone più instabili del suo territorio, e sforzarsi per aumentare la interdipendenza con i suoi partner commerciali e politici.

La Stampa 26.2.15
Il magnetismo del dottor Mesmer, antenato dell’inconscio di Freud
Torna il libro con cui Stefan Zweig riabilitò il medico tedesco facendone un anticipatore ignaro della psicanalisi
di Claudio Gallo


Se dite a qualcuno che ha lo sguardo mesmerico, magari intendendo fare un complimento, riceverete un’occhiata perplessa, c’è da giurarlo. Eppure, a cavallo fra il ’700 e l’800, ci fu un tempo in cui in Europa (il centro del mondo, allora) il dottor Franz Anton Mesmer era celebre quanto Malala oggi. Stimato medico tedesco, massone, viennese d’adozione, amico della famiglia Mozart, credette di scoprire il magnetismo animale: un’oscura forza vitale negli esseri e nelle cose, un flusso impalpabile che la medicina poteva piegare ai fini della guarigione. Dopo i primi entusiasmi e i primi dubbi, la scienza ufficiale screditò la scoperta, ma non riuscì a guastare la fama del suo artefice, non subito almeno. Ricco, divenne ricchissimo, si trasferì nella Parigi pre rivoluzionaria e conobbe un successo favoloso. Al picco della fortuna seguì la caduta a precipizio. Senza denaro, scacciato dalle capitali europee, finì a curare i contadini in un villaggio dell’accogliente Svizzera, mentre l’incendio napoleonico infuriava intorno. Morì vecchio e dimenticato nella sua Iznag, sul Lago di Costanza nel 1815. Napoleone aveva davanti i suoi ultimi cento giorni.
La vita straordinaria di Mesmer fu raccontata nel ’900 dalla prosa leggera e scintillante di Stefan Zweig. Lo scrittore austriaco cercò di riabilitare il grande magnetizzatore con un libro del 1931 dedicato a Einstein, Die Heilung durch den Geist (La guarigione attraverso lo spirito), dove Mesmer, Mary Baker-Eddy, la creatrice della Christian Science e Sigmund Freud sono legati da un filo rosso.
Il libro fu subito tradotto in Italia da Lavinia Mazzucchetti, celebre germanista e antifascista, per Sperling e Kupfer. Il titolo italiano diventato L’anima che guarisce, sarà riproposto pari pari da e/o nel 2005. Proponendo un’altra variazione nella traduzione di «Geist», la più recente edizione in inglese fa: Mental Healers: Mesmer, Eddy and Freud (Guaritori mentali, etc.). Spirito, anima, mente: non resta che «cervello» nella scala dell’attualizzazione.
Adesso Castelvecchi scorpora dalla vecchia e ancor ottima versione italiana la parte dedicata a Mesmer e propone un agile libretto. L’operazione non è nuova, l’editore Lucarini aveva pubblicato nel 1991 soltanto la parte dedicata a Freud. I collezionisti aspettano l’«a solo» italiano di Mary Baker-Eddy: se uscirà sotto una nuova egida, potranno avere un libro pubblicato a rate per tre tipi diversi.
Non c’è nulla di tenebroso nel Mesmer di Zweig, è un’omone buono e quadrato, innamorato delle sue scoperte, il successo non gli dà alla testa. Facile per noi ridere del suo «mastello della salute», colmo di benefica acqua magnetizzata, bisognerebbe guardarlo con gli occhi incantati del ’700. Paradossalmente, è uno scienziato che anticipa lo spirito positivistico di pochi decenni dopo. Saranno i suoi forsennati seguaci a travalicare il confine tra osservazione medica e delirio immaginativo. Mesmer lo aveva capito: «Nella leggerezza e nell’imprudenza di coloro che imitano il mio metodo sta la ragione di molti pregiudizi contro di me».
Zweig ne fa un precursore di Freud, passando per la forza guaritrice della preghiera, predicata nell’800 da Mary Baker-Eddy in America. Inventando il magnetismo animale, Mesmer anticipa, pur inconsapevolmente, il potere dell’inconscio. La suggestione guariva i malati, non il magnetismo. Cos’erano, argomenta Zweig, se non le pulsioni sommerse della psiche a scuotere le nobildonne parigine, tremanti in cerchio o dentro al mastello risanatore, in attesa delle mani tiepide del curatore? La teoria del magnetismo prevedeva che la guarigione avvenisse al culmine di una crisi. Nella grande casa parigina di Mesmer c’era «la sala delle crisi», dove i maggiordomi portavano i più esagitati a sbollire. Non è un caso che il tasso delle guarigioni fosse più alto nelle malattie nervose.
Il mesmerismo darà alla luce due figli molti diversi tra di loro: l’ipnotismo, che affascinerà il giovane Freud; e lo spiritismo che continua, con alterne fortune, a far traballare i tavolini, specialmente in Sud America. L’idea di una forza misteriosa che pervade l’universo ritornerà più volte dopo la morte di Mesmer, sotto molte vesti. Come se un archetipo ostinato spingesse la psiche a sentirsi una cosa sola con il mondo.

La Stampa 26.2.15
Marx: prima della lotta di classe, quella con papà Così in una lettera annunciò la scelta di darsi alla filosofia, sfidando il genitore che lo voleva avvocato
di Massimiliano Panarari

qui

La Stampa 26.2.15
L’Africa colorata dove Rimbaud fuggiva dal suo Inferno
Harar, gioiello musulmano nell’Etiopia cristiana Qui il giovane poeta francese deluso da Parigi trova pace e un’atmosfera da “Mille e una notte”
di Enrico Remmert


«La mia giornata è compiuta; lascio l’Europa. L’aria marina brucerà i miei polmoni, i climi sperduti mi abbronzeranno». Così scriveva il diciannovenne Arthur Rimbaud in «Una stagione all’inferno», deluso da Parigi e ferito - letteralmente - dal suo mentore e amante Paul Verlaine. È il 1873 e «l’uomo dalle suole di vento», come lo chiamava proprio Verlaine, volta le spalle alla poesia e inizia la sua fuga. In pochi anni va e viene tra Charleville e il mondo: è in Inghilterra, insegna francese a Stoccarda e fa lo scaricatore al porto di Livorno, si imbarca per Giava con le milizie coloniali olandesi, diserta e torna in Europa, poi è al seguito di un circo ad Amburgo, a Copenaghen, a Stoccolma, ogni ritorno a casa è solo la rincorsa per una nuova partenza.
Il giovane poeta
E infatti, nell’ottobre 1878, appena ventiquattrenne, Rimbaud si rimette in viaggio: Cipro, Egitto, Sudan e Yemen, dove comincia a lavorare nel commercio del caffè. Sembra che tutto quello da cui Rimbaud scappa scappi irrimediabilmente insieme a lui ma alla fine si lascia catturare da una città - Harar, nella parte orientale dell’altopiano etiopico - che raggiunge nel 1880. Per alcuni è il primo uomo bianco ad arrivare fin qui, ma non è vero: il grande esploratore inglese Richard F. Burton ci era già entrato nel 1854, travestito da mercante arabo, e ne aveva scritto un dettagliato resoconto in First Footsteps in East Africa. Di sicuro Rimbaud ad Harar è lo straniero più famoso (tanto che i bianchi qui vengono ancora chiamati farangi, storpiando la parola français): in questa città, crocevia commerciale tra Africa e penisola araba, il poeta vivrà fino al 1891, pur alternandola ad Aden di cui però deplorava il clima infernale.
Gioiello musulmano
Harar è un gioiello musulmano al centro dell’Etiopia cristiana e ricorda più una città araba che una africana: ospita uno dei più grandi mercati del paese e dal 1875 è sotto il dominio dell’Egitto. Nel 1883 Rimbaud si trasferisce stabilmente qui, responsabile di un’agenzia commerciale: si specializza in caffè, perfeziona l’arabo e impara le lingue locali. Nel 1885 entra nel traffico di armi e organizza da Aden una spedizione di fucili destinati a ras Menelik II. L’affare sarà faticosissimo e pagato la metà del pattuito ma essere entrato nelle grazie di Menelik sarà fondamentale: nel 1887 il ras annette Harar alla sua corona. Menelik rispetta gli abitanti: non tocca le 82 piccole moschee della città, i santuari, le tombe, né tocca la splendida cinta fortificata alta cinque metri e costruita nel XVI secolo (tutta questa bellezza è giunta intatta fino a noi).
In questo favorevole contesto, nel 1888, Rimbaud apre ad Harar una sua agenzia e tratta le merci più diverse, dal caffè alle pelli, dall’oro ai fucili, il tutto sotto la protezione del governatore, quel ras Maconnèn che qualche anno dopo sconfiggerà gli italiani sull’Amba Alagi e sarà figura chiave ad Adua nel 1896 (probabilmente in entrambe le battaglie i fucili di Rimbaud spareranno). Nel ’91 il poeta è costretto a rientrare in Francia per il tumore al ginocchio che lo porterà alla morte, il 10 novembre, appena trentasettenne.
Passato e presente
Oggi i vicoli di Harar, quarta città santa dell’Islam e patrimonio Unesco, regalano una strana impressione: quella di camminare dentro «Le mille e una notte». Un mondo a parte profumato di incenso e caffè tostato a mano e fatto di centinaia di vicoli stretti e tortuosi, mercati brulicanti, muli carichi di spezie, donne dai veli sgargianti, capre e dromedari: se non ci fossero le antenne tv tutto sembrerebbe una cristallizzazione del tempo. Nel cuore della città sorge la casa museo dove si dice che il poeta abbia vissuto: ospita fotografie d’epoca, una biblioteca e un soffitto di carta affrescata che le ha guadagnato il soprannome di Casa Arcobaleno. Per molti è stata la casa di un ricco mercante indiano e Rimbaud non ci ha mai messo piede, ma non importa: il mistero intorno ai luoghi esatti appassiona ancor di più turisti e studiosi. Fuori dalle mura svettano gli edifici razionalisti costruiti durante l’occupazione italiana, i copti mostrano fieri il crocifisso sul petto, la gente si stravacca sui marciapiedi a masticare chat, la foglia euforizzante che è il passatempo nazionale.
I custodi delle iene
Ogni notte Harar rivela poi una tradizione unica al mondo: appena fuori dalla cinta i «custodi delle iene» danno da mangiare pezzi di carne agli animali con le loro stesse mani. Il rituale è diventato un’attrazione che lascia a bocca aperta. E, come fosse un genius loci, torna in mente Arthur Rimbaud: «Tu resterai iena…».

Nella casa di Arthur Rimbaud ad Harar, crocevia commerciale tra Africa e penisola araba, il poeta vivrà fino al 1891, responsabile di un’agenzia commerciale:: la casa ospita fotografie d’epoca una biblioteca e un soffitto di carta affrescata che le ha guadagnato il soprannome di Casa Arcobaleno

Corriere 26.2.15
Note dalla doppia vita di Canetti
Lo scrittore e Marie-Louise: amici e amanti per mezzo secolo. E un mazzo di aforismi in pegno
Adelphi pubblica la raccolta di massime dedicate nel 1942 alla donna nella cui casa Elis lavorava
di Pietro Citati


Elias Canetti conobbe Marie-Louise von Motesiczky nel 1939 o nel 1940. Lei discendeva da un’illustre famiglia di ebrei viennesi assimilati: veniva considerata una grande bellezza; un veliero che scivolava sull’oceano del mondo. Lui era un ebreo di recente immigrazione dall’Europa orientale: era brutto, tozzo, goffo; e ne soffriva. Divennero amanti: la loro amicizia durò oltre mezzo secolo, e finì soltanto con la morte dello scrittore. Egli le dedicò dei bellissimi aforismi nel settembre e nell’ottobre 1942 ( Aforismi per Marie-Louise , Adelphi, nella traduzione di Ada Vigliani): i quali ricordano da vicino quelli contenuti nel suo capolavoro, La provincia dell’uomo (Adelphi, traduzione di Furio Jesi).
I due si conobbero a Londra, al tempo dei bombardamenti tedeschi; e la lasciarono per trasferirsi ad Amersham, un grazioso sobborgo della grande città. Canetti teneva i suoi libri a casa della Motesiczky, dove leggeva e scriveva. Non lasciò mai la moglie Vera: il rifiuto di Canetti di scegliere Marie-Louise fece soffrire e logorò l’amica, che lo attese invano per anni.
Canetti era duro, superbo, orgoglioso: nutriva disprezzo e una specie di gelosia per tutti gli altri; persino verso gli scrittori che amava e imitava. Nutriva lo stesso odio per gli uomini che Karl Kraus aveva provato per il mondo. «Era talmente altezzoso che avrebbe voluto regalare sempre qualcosa a Dio». Era insaziabile, in tutti i sentimenti e le idee e le sensazioni. Voleva vivere come se avesse dinanzi a sé un tempo illimitato: aveva una fame di smisuratezza; e giudicava questa fame grandiosa e magnifica. Disprezzava la storia: al contrario della Genesi , pensava che «la creazione non fosse buona».
Da molti anni dedicava la parte maggiore del proprio tempo all’elaborazione della sua opera fondamentale, Massa e potere . Avvertiva questo impegno come una specie di ossessione: sentiva in sé un’oppressione che acquistava dimensioni pericolose; e diventò indispensabile per lui crearsi una valvola di sfogo. Al principio del 1941 la trovò nei suoi quaderni di appunti, dove elaborava aforismi. La loro libertà, la loro spontaneità, la convinzione che i quaderni non servissero ad alcun scopo, l’assenza di responsabilità per cui non li rileggeva mai, lo salvarono dall’irrigidimento quotidiano. A poco a poco divennero un indispensabile esercizio. Respirava: respirava con assoluta libertà e naturalezza. Viveva senza nessuno scopo, neppure pensando all’eternità. Lasciava liberi gli altri, abbandonando qualsiasi forma e desiderio di potere.
Leggeva, leggeva insaziabilmente: sempre nuovi scrittori, sempre nuovi libri; e questa attitudine apparentemente passiva diventò il cuore e lo spunto della sua attività. Non era distante da Leopardi: solo ciò che aveva letto gli permetteva di captare la vita; e senza ciò che aveva letto non esisteva. Amava soprattutto i miti: lo scopo della sua vita era di conoscere profondamente i miti di tutti i popoli. Studiava la Bibbia: la sua terribilità lo consolava e lo liberava dall’ossessione del nazismo, che allora avvolgeva e costringeva tutte le menti.
Ciò che lo toccava sempre da vicino era la fede, di qualsiasi genere: si sentiva tranquillo in ogni fede finché sapeva di poterla abbandonare. Si legava ad ogni fede e poi giocava con essa; e non riusciva neppure a dire quanto divenisse lieto e sicuro nel farlo. Ammirava sé stesso mentre giocava col tutto e con il sacro. La sua gioia non aveva fine, e si sentiva superiore a sé stesso, superiore a qualsiasi tema e argomento.
«Io voglio andare sempre più avanti», commentava. Ma temeva che la possibilità di ampliamento del proprio spirito fosse limitata. Sopra ogni cosa, evitava lo spirito di sistema: aveva bisogno di conoscere tutti i costumi, i pensieri e le abitudini e le vicende degli uomini, recuperando la verità trascorsa perché quella ulteriore era vietata. Teneva separati i pensieri, a forza: essi formavano troppo facilmente un intrico, una capigliatura. Non si legava mai a un solo metodo: sfuggiva l’angustia delle discipline stabilite. Si guardava dalle chiusure: che ci fossero aperture, che ci fosse spazio, questo era il suo pensiero dominante.
Detestava il solido e il corposo: disprezzava la realtà, sebbene fosse fortissimo, in lui, il desiderio di descriverla e di raccontarla. Amava il vento — «l’unica cosa libera nel mondo» —: tutto ciò che si muove, si sposta, si aggiunge. Adorava il silenzio. Ma, al tempo stesso, lo spirito aforistico dominava la sua mente che cercava di fissare e fissava tutto ciò che, in lui, era mobile e agitato. La verità doveva venire fermata.
Un pensiero dominava, in lui, tutti gli altri pensieri: quello della morte. Voleva cancellare la morte: voleva che nessun uomo morisse più; non accettava la morte, mentre tutti la accettavano. «Nella vita la cosa più audace — scriveva — è odiare la morte: sono disprezzabili e disperate le religioni che attenuano questo odio». «Bisogna odiare la morte, quella di chiunque come la propria, far pace una volta con tutto, mai con la morte». Cercava di raggiungere l’immortalità per gli uomini: un obiettivo concreto, serio, riconosciuto, che inseguiva con tutte le proprie forze.
Quando, un giorno, gli uomini riusciranno a cacciare la morte dal mondo, non possiamo prevedere ciò che saranno in grado di immaginare, di credere, di essere.

Repubblica 26.2.15
Perché abbiamo bisogno dell’arte di scomparire
Il nuovo saggio del filosofo Pierre Zaoui, ma anche il film di Panahi trionfatore a Berlino, rilanciano il valore del “non esserci”. Contro gli eccessi dell’era social
di Andrea Bajani


Il pensatore francese: “Solo così abbandoneremo i fantasmi di onnipotenza e indispensabilità”
È l’esatto contrario di quanto accade al bulimico Norman Bombardini di David Foster Wallace

QUANDO i bambini non vogliono sentire risposta, fanno per gioco un gesto che gli hanno insegnato gli adulti. Si coprono con le mani le orecchie, a volte chiudono anche gli occhi, e poi dicono “bla bla bla” a getto continuo. Ovvero, innalzano un muro di parole tra sé e il mondo che li circonda, una fortezza inespugnabile collaudata da generazioni prima di loro. Finché continueranno a blaterare niente li potrà raggiungere, nulla li potrà scalfire. Ingenuamente, si proteggono gli occhi e le orecchie, pensando che il mondo potrebbe entrare anche da lì. Crescendo poi si rendono conto che se ne può fare anche a meno, e che quella specie di gioco è una strategia che più o meno usano tutti. Basta non smettere mai di parlare, per non ascoltare. Non è necessario tapparsi le orecchie. Si può saltare fuori dalla trincea e incamminarsi nel mondo senza troppe paure: il caricatore di parole che svuoteremo sarà il miglior fuoco di copertura.
L’importante è non lasciare mai il grilletto: dire, dichiarare, chiacchierare, twittare, chattare, affermare, scherzare, sminuire, ingigantire, commentare. Ogni indecisione può essere fatale: appostato dietro un mirino, da qualche parte, c’è sempre pronto qualcuno che potrebbe cominciare a parlare.
Eppure poi quando capita di fare cilecca, di restare lì impalati senza munizioni verbali, ci si accorge che succede una cosa soltanto: il mondo comincia la controffensiva, e così facendo ci si spalanca davanti. E se i primi attimi di silenzio possono portare smarrimento — il terrore di sparire — quello che poi ne consegue è una specie di sollievo, e un’insperata e rifocillante pienezza. Questo è uno dei pensieri a cui induce, tra l’altro, la lettura di L’arte di scomparire. Vivere con discrezione , del filosofo francese Pierre Zaoui (in uscita da il Saggiatore, nella traduzione di Alice Guareschi). Sottrarsi al ronzio della propria logorrea assicura un angolo dove trovare ristoro e mette in una condizione privilegiata per iniziare a osservare. Scomparire — sottrarsi alla compulsività delle parole — rende in qualche modo disponibili: «La prospettiva si allarga e il mondo appare meravigliosamente molteplice, decentrato, percorso da mille linee di fuga. [..] La vostra posizione discreta, inosservata, trasparente vi apre a un’esperienza nuova: l’abbandono dei fantasmi di onnipotenza, dell’essere indispensabili, dell’essere responsabili di tutti e di ciascuno. Farsi improvvisamente discreti significa rinunciare per un momento a qualsiasi volontà di potenza».
È solo grazie alla concavità scavata dalla propria scomparsa che il mondo trova il suo spazio per mostrarsi. Il contrario è il tempo che viviamo: il mondo crivellato di discorsi, milioni di persone stroncate da un’indigestione di parole. È un tempo in cui non a caso si cercano radure, in cui le zone franche in cui sparire già si offrono a pacchetti convenienti, nuovo business e cura dello spirito, con nuovi guru che somministrano la terapia del silenzio e lo yoga metropolitano, la settimana di meditazione in mezzo ai boschi, il trekking con gli sherpa in alta quota, l’orto da coltivare nei fine settimana. Perché questo è il tempo di Norman Bombardini, il bulimico e indimenticabile personaggio di La scopa del sistema di David Foster Wallace, che sogna di ridurre, con la propria crescente obesità, il rapporto tra l’Io e il Mondo. Fino a quando non avrà eliminato il mondo occupandone tutto lo spazio con il proprio corpo non troverà pace. Quando e se mai ce la farà, non potrà che soccombere.
Ed è proprio nel tempo grottesco e disperato di Norman Bombardini, nell’epoca della logorrea d’assalto, che la scomparsa — o la discrezione — si offre come scialuppa di salvataggio. Che cosa dice il freschissimo Orso d’oro a Berlino, il meraviglioso Taxi di Jafar Panahi, se non che soltanto sottraendosi si può lasciar venire a sé il mondo, e dunque finalmente entrarci? Finiti gli umilianti e vergognosi arresti domiciliari impostigli dal regime, il regista iraniano avrebbe potuto uscire e chiedere attenzione, prendere un megafono e dire “Io”. Avrebbe potuto tentare di rioccupare lo spazio che gli era stato scippato, applicare il metodo Bombardini. La sua strategia è invece diametralmente opposta: si fa tassista per le strade di Teheran. L’autore di Off Side e di quel capolavoro che è Questo non è un film si mette la cintura e, reso invisibile dal suo ruolo vicario, lascia che il mondo salga a bordo e si dispieghi dentro l’abitacolo registrato da piccole telecamere piazzate dentro l’auto. Il risultato è irresistibile e prima di tutto, però, politico. Il suo è un gesto semplice: scomparire tacendo, opporre la discrezione alla violenza di un potere coercitivo, dare valore a quella posizione marginale. Significa rivendicare la funzione politica, e in qualche modo di resistenza, dell’ascolto. Il tempo in cui tutti vogliono parlare e nessuno vuole più ascoltare è un tempo sfiatato che annulla ogni dialettica, che soffoca l’idea stessa di scuola, che piccona la democrazia nel momento stesso in cui pretende di esserne l’espressione più diretta.
Scomparire sotto il cappello di chauffeur, come fa Jafar Panahi, opporre discrezione, è la risposta al metodo Bombardini, a una logorrea alla lunga soltanto autodistruttiva. Essere discreti è politico, dunque, ed è anche una virtù morale, come ricorda Pierre Zaoui. Ma prima di tutto, dice il filosofo francese, procura un piacere e una qualche forma di conforto. «Imparare a rendersi impercettibili e godere dello scomparire» procura il conforto di ascoltare qualcuno, il piacere di imparare invece che di voler sempre insegnare tutto a tutti. È fonte persino di una specie di sollievo estetico, è il recupero di uno stile, è una radura di silenzio dentro l’affollato parolaio. È il conforto di una domanda invece di mille risposte dette tutte insieme. Perché imparare ad articolare una domanda significa imparare a fare spazio, predisporsi una concavità, accettare che lo spazio vuoto sia una disponibilità e non un buco da otturare. Scomparire per un attimo, offrire agli altri il piacere che si prova ad abitare lo spazio offerto da qualcuno che dopo aver parlato tanto, con o senza le mani sulle orecchie, finalmente tace.
IL LIBRO L’arte di scomparire di Pierre Zaoui (Il Saggiatore, trad. di A. Guareschi, pagg. 160, euro 11)