«Questa è l’ultima chance, rischio l’osso del collo.
I sindacati contro? Ce ne faremo una ragione»
l’Unità 10.3.14
Renzi: priorità alle famiglie
Duro con sindacati e Confindustria: «Che hanno fatto in questi anni?»
di Maria Zegarelli
Matteo Renzi in tv a Che tempo che fa sembra sciogliere a favore del taglio dell’Irpef l’intervento fiscale da dieci miliardi che sarà adottato mercoledì dal Consiglio dei ministri. «La priorità sono le famiglie», ribadisce il premier, che rifiuta di considerare la questione come un derby tra Confindustria e sindacati. Il direttivo della Cgil intanto avverte il premier: «Deve ascoltarci, altrimenti sarà mobilitazione».
Ha incontrato Paolo Sorrentino dietro le quinte di Che tempo che fa e si è fatto fare un autografo sul libro «Hanno tutti ragione», sulla quarta di copertina appunti fitti in penna rossa. Matteo Renzi ha fatto di persona i complimenti al premio oscar ma dalla «Grande bellezza» ai problemi dell’Italia, lo stacco è stato netto ieri sera da Fabio Fazio. Cuneo fiscale, occupazione, scuola. Un bagno di cruda realtà in vista del prossimo consiglio dei ministri di mercoledì che dovrebbe segnare il primo salto in avanti del governo Renzi.
Ma, come ha scritto ieri l’Unità, è dalla scuola che vuole partire il premier. Dieci miliardi di euro in tre anni, con la collaborazione di Renzo Piano, «a cui ho chiesto una mano» e con il quale parlerà a lungo di questo giovedì, perché per questo governo la priorità più grande è la scuola. «Non c’è stabilità più grande dei luoghi in cui lasciamo i nostri figli», dice annunciando l’«Unità di missione», con a capo il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio con l’obiettivo di aiutare i Comuni a gestire le risorse. Da dove si prendono i soldi? «Intanto si iniziano a spendere quelli che ci sono e sono bloccati dal Patto di stabilità interna», ci sono già due miliardi pronti, spiega.
Quando arriva al nodo ancora aggrovigliato, la riduzione del cuneo fiscale, cita Walt Disney. «La data è la differenza tra un sogno e un progetto», questa la cifra del suo governo, sottolinea, e quindi come annunciato mercoledì ci saranno le misure anche su questo fronte. Irap o Irpef? Imprese o lavoratori? Da quello che dice a Fazio, Renzi sembra aver deciso, malgrado metà dei suoi ministri, a cominciare dal titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan, la pensi in modo diverso, a dare «uno scossone molto forte alle famiglie». Cento euro in più nella busta paga di chi guadagna meno di 1550 euro al mese, dice, fanno la differenza. Fanno ripartire i consumi, non finiscono nel risparmio. Rifiuta la logica del derby tra Confidustria e sindacati, «cosa hanno fatto negli ultimi venti anni? Noi sappiamo cosa fare». Renzi per le imprese annuncia semplificazione delle norme, del codice del lavoro, trasparenza, e poi, «cercheremo anche di ridurre la pressione fiscale». Forse si interverrà in due step, dando la precedenza all’Irpef, destinando però risorse ingenti anche per l’Irap in una seconda fase, molto probabilmente prendendo le risorse, oltre che dalla spending review, anche dalla lotta all’evasione. «Mercoledì arriverà il taglio delle tasse, anche se non ci crede nessuno», promette, annunciando subito dopo la nomina del magistrato Raffaele Cantone a capo dell’Autorità contro la corruzione, altro cancro del Paese, decisa dal governo Montima mai partita. Sarà l’altro segno distintivo dei primi mesi di lavoro, quello della lotta alla corruzione, così come lo sarà quella all’evasione. Il premier, preso di mira da molti commentatori, finito al centro delle polemiche per le canzoncine che i bambini delle scuole che ha visitato gli hanno dedicato, cerca di ridimensionare i toni. «Vorrei dare un messaggio di serenità, il governo deve tornare a parlare come parlano gli italiani tutti i giorni. E gli italiani parlano di cose concrete come le scuole». Assurde le polemiche anche sulle tasse, «per anni le hanno aumentate, noi le stiamo abbassando». Sa che le aspettative sono alte, «io sto rischiando l’osso del colle e se fallisco cambio lavoro». Gli dà manforte l’alleato di governo, Angelino Alfano, «non sono per un derby tra Irap e Irpef. Dobbiamo trovare le risorse e stabilire dove collocarle in modo che l’impatto sia maggiore», dice ospite di Maria Latella. Di sicuro, conferma, «noi nei prossimi otto giorni daremo un segnale di riduzione fiscale che non ha precedenti »,
Renzi non si lascia intimorire dalla minacce di iniziative forti da parte della Cgil, «ascoltiamo tutti ma quello che c’è da fare lo sappiamo e lo faremo pensando ai cittadini», anzi rilancia: «Quando chiediamo a tutti di fare dei sacrifici, lo diciamo anche i sindacati che devono mettere on line le loro spese, la musica deve cambiare per tutti». Conciliante ancora con Maurizio Landini, segretario Fiom: «Non condivido tutto ciò che dice Landini ma ogni volta che parlo con lui, imparo qualcosa».
Rassicura l’Europa sul rispetto del rapporto del 3% deficit Pil: «È una norma concettualmente antiquata, ma che rispetteremo finché non sarà cambiata. Non cambieremo le regole in modo unilaterale ». Non rassicura sulla parità di genere per la legge elettorale, il Pd la rispetterà, gli altri partiti chi lo sa. Ma la legge elettorale si cambia con l’accordo di tutti. «Sulla partita di genere è giusto che si faccia una scelta politica - dice Renzi - ma la parità vera è quando non ci sarà più una ragazza che firma una lettera in bianco di dimissioni quando rimane incinta, quando ci sarà un salario uguale tra uomini e donne, quando ci saranno più asili nido». «Io sono per la parità di genere - assicura -ma si affronta non soltanto sui banchi del Parlamento ». E sui tempi è fiducioso, domani, al massimo martedì sarà votata alla Camera.
E poi avanti tutta con il superamento del bicameralismo perfetto e l’abolizione delle province. «Il Pd ci sta, Grillo no».
l’Unità 10.3.14
La Cgil: «Ci ascolti o sarà mobilitazione»
di Massimo Franchi
«Se le nostre richieste non saranno accolte e si andrà in direzione contraria, siamo pronti alla mobilitazione». Susanna Camusso non cita mai la parola sciopero, ma nelle conclusioni del Direttivo Cgil di ieri con all’ordine del giorno il giudizio sul nuovo esecutivo - e quindi prendendo una posizione ufficiale a nome di tutta la confederazione - lancia un segnale chiaro al governo Renzi: priorità al lavoro, alle buste paga dei lavoratori e agli ammortizzatori sociali o siamo pronti a tornare in piazza. Attenzione però, la decisione non verrà di certo presa a stretto giro. E quindi non basterà l’eventuale delusione per il Consiglio dei ministri di mercoledì: se il governo deciderà di tagliare l’Irap - accontentando le imprese - e non l’Irpef - che accontenterebbe Cgil, Cisl e Uil - la mobilitazione non sarebbe comunque ancora all’ordine del giorno.
Sulla questione poi Camusso ha ribadito la richiesta di usare la leva delle detrazioni e non delle aliquote Irpef per non premiare gli evasori che si annidano - in quanto tali - nei redditi più bassi. In questo modo poi ne beneficeranno anche i pensionati. L’inusuale Direttivo domenicale - l’unica giornata libera dai tanti congressi territoriali di categoria che si stanno susseguendo e tengono occupati i dirigenti delle varie federazioni - ha visto un lungo dibattito sulla situazione politico-economica del paese e sui provvedimenti che il nuovo governo Renzi si appresta a varare.
Se sul merito del provvedimento sul taglio del cuneo fiscale si attendono le decisioni del governo, è il metodo a lasciare ancora interdetta la Cgil. Già nei giorni scorsi fra Renzi e Camusso c’erano state punzecchiature sul ruolo delle parti sociali e sul fatto che il presidente del Consiglio decida le politiche economiche e sul lavoro senza confrontarsi con i sindacati. Anche ieri Camusso ha ribadito che «la Cgil si aspetta di essere ascoltata e di ottenere risposte».
Tornando al merito dei provvedimenti, oltre alla partita del cuneo fiscale, le priorità della Cgil riguardano in prima battuta la creazione di posti di lavoro. Per Susanna Camusso la strada è quella «degli investimenti pubblici e privati», con la leva statale che va utilizzata soprattutto per la messa in sicurezza del territorio. L’altra urgenza riguarda gli ammortizzatori sociali. Da una parte c’è la vera emergenza della cassa integrazione in deroga, con decine di migliaia di lavoratori che aspettano ancora i pagamenti del 2013 e i tagli già operati sull’anno corrente con un decreto interministeriale del precedente governo che ha ristretto i criteri di erogazione per le imprese. Su questo tema dunque Camusso chiede di aumentare le risorse da stanziare per il 2014, dicendosi poi disponibile a discutere di un futuro superamento di questo strumento. La Cgil poi nei giorni scorsi ha presentato la sua proposta complessiva di riforma degli ammortizzatori con un «carattere inclusivo ed universale», proponendo due strumenti: l’allargamento a tutti della cassa integrazione e una indennità di disoccupazione estesa ai precari e finanziata tramite alla contribuzione di tutte le imprese che oggi “sfruttano” co.co.pro e false partite Iva.
Il Direttivo di ieri non ha affrontato i temi interni alla Cgil anche per l’assenza - già annunciata e giustificata - di Maurizio Landini. Ma di certo a Susanna Camusso non avrà fatto piacere leggere la lettera aperta che il segretario generale della Fiom ha inviato dalle pagine di Repubblica direttamente a Matteo Renzi. Un programma molto di sinistra - dalla patrimoniale alla riduzione dell’età pensionabile e al ripristino delle pensioni di anzianità - che difficilmente il premier potrà appoggiare anche parzialmente.
CONFINDUSTRIA SPERA ANCORA Passando alla posizione delle altre parti sociali, ieri il leader della Cisl Raffaele Bonanni ha affidato a Twitter la sua preferenza e richiesta al premier. «Le imprese ed i lavoratori sono sulla stessa barca. Ma concentrarsi sull’Irpef aiuta i consumi e quindi le imprese. Renzi faccia un patto!». Contraria invece al taglio dell’Irpef e favorevole al taglio dell’Irap è Confindustria. Giorgio Squinzi sta lavorando dietro le quinte e considera ancora aperta la partita: è ottimista sul fatto di poter convincere Renzi e il governo ad agire con una sforbiciata sull’Irap, proponendo in parallelo un taglio della spesa pubblica ancora più forte rispetto a quello annunciato con la spending review.
Corriere 10.3.14
Camusso minaccia lo sciopero: devono ascoltarci
di Stefania Tamburello
ROMA — «Nei prossimi giorni daremo una botta molto forte, un segnale di riduzione fiscale che non ha precedenti», annuncia il ministro dell’Interno Angelino Alfano riportando in campo l’ipotesi di una decisione sul taglio della tassazione sul lavoro al prossimo Consiglio dei ministri assieme a quella sugli altri dossier già annunciati sul lavoro, sulla casa, sull’edilizia scolastica e sui pagamenti della Pubblica amministrazione. Rispondendo alle domande di Maria Latella su Sky Tg24, Alfano si tira fuori dalla discussione sulla destinazione di tale taglio, se a favore dell’imprese con la riduzione dell’Irap o a favore dei lavoratori con la diminuzione dell’Irpef. «Non sono per un derby tra Irap e Irpef. Dobbiamo trovare le risorse e stabilire dove collocarle in modo che l’impatto sia maggiore» dice mentre continuano a susseguirsi, all’interno della maggioranza e del governo, prese di posizione a favore dell’una o dell’altra soluzione, in nome della crescita. Tra le ipotesi allo studio sembra prevalere, anche alla luce delle parole del premier Matteo Renzi ieri sera a Che tempo che fa, quella che il grosso degli sgravi riguarderà l’Irpef (su 10 miliardi potrebbero essere 7 mentre 3 andrebbero al taglio dell’Irap). A beneficiarne sarebbero in particolare i redditi fino a 1.500 euro al mese.
Avanza intanto la messa a punto del cosiddetto Jobs Act, il pacchetto di misure che verrà proposto mercoledì dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Si tratta di semplificazioni sul contratto a termine senza causale la cui durata potrebbe essere allungata fino a 36 mesi. La novità dovrebbe arrivare con un emendamento da presentare a un provvedimento in corso di esame in Parlamento. Ci sarà poi un disegno di legge delega per la riforma degli ammortizzatori sociali, che dovrebbe sancire la fine della mobilità in deroga a fronte dell’estensione dell’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione, ai collaboratori a progetto. I nuovi sussidi saranno condizionati alla partecipazione a corsi di formazione o ad attività di pubblica utilità.
Ma torniamo al derby Irap-Irpef. «Le imprese ed i lavoratori sono sulla stessa barca. Ma concentrarsi sull’Irpef aiuta i consumi e quindi le imprese», insiste il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni. È però la Cgil a sferrare l’attacco più duro dichiarandosi pronta alla mobilitazione se il governo non adotterà misure incisive su fisco e lavoro. «Nel caso in cui le richieste avanzate dal sindacato non saranno accolte e si andrà in direzione contraria, siamo pronti alla mobilitazione», dice la leader della Cgil, Susanna Camusso. Non è escluso che il percorso possa arrivare anche allo sciopero. In sostanza la Cgil chiede di destinare tutte le risorse previste per il taglio del cuneo fiscale al lavoro attraverso l’aumento delle detrazioni sul lavoro dipendente e non con il taglio delle aliquote Irpef che favorirebbe, dice il sindacato, anche gli evasori fiscali. Evasori di cui la Banca d’Italia ha tracciato un identikit limitatamente all’Irpef: uomo, under 44, del Centro Italia, generalmente vive di rendita o è lavoratore autonomo-imprenditore e, in media, sottrae al fisco un imponibile di 2.093 euro.
Tornando alla Cgil, Camusso sollecita anche la riforma degli ammortizzatori sociali. «Noi lavoriamo perché ognuno abbia una opportunità, quindi una possibilità. Che sia un servizio civile, che sia uno stage in azienda, che sia un lavoro, che sia un percorso formativo, che sia un aiuto alla propria comunità» risponde a distanza Poletti.
Repubblica 10.3.14
Cgil: il premier ci ascolti o sarà scontro
La polemica tra Camusso e il presidente del Consiglio
di Paolo Griseri
ROMA - La Cgil chiede che il governo metta i lavoratori al centro dell’annunciata riformadelle leggi sul lavoro che il Consiglio dei ministri discuterà mercoledì. E, in caso contrario, prepara «una mobilitazione che non esclude il ricorso allo sciopero». Il direttivo del sindacato di Susanna Camusso si riunisce di domenica in Corso d’Italia perché durante la settimana tutti i dirigenti sono impegnati nei congressi territoriali.
Camusso affronta il tema partendo dalle proposte del piano lavoro che la Cgil ha presentato nei mesi scorsi. Due le richieste chiave al governo: destinare la riduzione del cuneo fiscale ad aumentare le buste paga e estendere a tutti i lavoratori la cassa integrazione. Temi sui quali tra i tecnici del governo si discute in queste ore. La Confindustria spera che una parte della riduzione del cuneo fiscale vada a ridurre l’Irap e le tasse che pagano le imprese. I sindacati, naturalmente, sostengono la tesi opposta: solo concentrando la riduzione del cuneo a favore dei salari più bassi, è possibile far risalire i consumi e, indirettamente, anche i fatturati delle imprese.
Il secondo punto del piano della Cgil è l’estensione della cassa integrazione, oggi a disposizione solo di una parte dei lavoratori dipendenti italiani. Inoltre il sindacato di Camusso vuole evitare che l’abolizione immediata della cassa in deroga crei tra pochi mesi decine di migliaia di disoccupati. Un rischio che ha segnalato lo stesso ministro del Lavoro, Giuliano Poletti.
Saranno ascoltate queste richieste? Si capirà al consiglio dei ministri di mercoledì. Ma ieri Camusso ha voluto far sapere che la Cgil non accetterà uno sbilanciamento della riforma a favore delle imprese e a danno delle buste paga dei dipendenti. «Nel caso in cui le richieste del sindacato non siano accolte e si vada in direzione contraria, siamo pronti alla mobilitazione», ha detto il numero uno di Corso d’Italia. Anche per contrastare l’effetto dell’operazione di lobbying che in queste ore gli imprenditori e Squinzi stanno facendo sul governo anche attraverso il ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi.
In serata, agli annunci di Camusso Renzi ribatte nell’intervista concessa a Fabio Fazio. Per dire che il governo «ascolta tutti, da Confindustria ai sindacati. Ascoltiamo tutti ma quel che dobbiamo fare lo sappiamo: lo faremo non pensando alle associazioni di categoria, ma alle famiglie e alle imprese». Poi il premier dedica un passaggio diretto alla leader di Corso d’Italia: «Camusso mi critica perché rischierei di essere vittima del culto della personalità? È una delle cose più carine che mi ha detto negli ultimi anni». Frase acida, ben diversa dal tono utilizzato nella successiva risposta sui rapporti con Maurizio Landini: «Non condivido tutto ciò che dice rivela Renzi - ma ogni volta che parlo con lui imparo qualcosa». In ogni caso, avverte duro il premier, «tutti devono fare i sacrifici, anche i sindacati che devono mettere on line le loro spese. La musica deve cambiare per tutti».
Repubblica 10.3.14
Scatta l’Opa di Landini sulla Cgil il patto con Renzi cambia il sindacato
Fiom, filo diretto con Palazzo Chigi. La segreteria nell’angolo
di Paolo Griseri
LA CGIL minaccia la mobilitazione contro il governo Renzi. E lo fa mentre Susanna Camusso e la Fiom sono ai ferri corti sul giudizio da dare su un accordo, quello sulla rappresentanza in fabbrica. Nessuno di questi due fatti è una novità nella storia centenaria del più grande sindacato italiano. Ci sono decine di esempi di scioperi dei lavoratori della sinistra contro governi più o meno amici e ci sono altre decine di episodi di scontro tra la Confederazione e i metalmeccanici.
E’ invece del tutto nuova la Cgil a due velocità che propongono le cronache di queste ultime settimane. Con la Fiom che tratta direttamente e pubblicamente con il premier i punti principali di quella riforma del lavoro che la Confederazione di Corso d’Italia chiede da tempo e invano di discutere. Perché né il governo Letta né quello attuale (tantomeno quello guidato da Monti) hanno mai voluto aprire un tavolo serio di confronto con il sindacato confederale. Preferendo, al contrario, affidare ai tecnici le riforme («salvo poi dover chiedere scusa, com’è accaduto con gli esodati creati da Elsa Fornero», ricordava con una punta di malizia in questi giorni Susanna Camusso).
La segretaria si trova in una situazione non semplice. Da un lato gli abboccamenti con il nuovo ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno chiarito che, al pari dei sindacati confederali, anche il titolare di quel dicastero scoprirà praticamente mercoledì mattina quali sono le proposte contenute nella riforma di Renzi. Dall’altro lato, rotta la pace interna che durava da due anni, la Fiom dimostra di muoversi in totale (e del tutto irrituale) autonomia trattando direttamente con l’esecutivo. Maurizio Landini si comporta come il capitano di una nave corsara, andando alla sostanza e saltando il bon ton dell’organizzazione costretta invece a muoversi con le manovre lente del galeone spagnolo. Il congresso della Cgil si concluderà a maggio con la conferma a stragrande maggioranza di Camusso e questo esito non è in discussione. Ma Landini, con le iniziative di queste settimane (compresa la lettera aperta a Renzi pubblicata su Repubblica di ieri), lancia una sorta di opa interna alla Cgil, non dissimile da quella che l’attuale premier ha lanciato a suo tempo nel Pd. Pur avendo posizioni di merito radicalmente diverse, il segretario della Fiom e l’ex sindaco di Firenze hanno modi diagire simili, basati sulla velocità delle mosse. A favorire il dialogo diretto tra i due ci sono anche i giudizi dati a suo tempo da Susanna Camusso e dai vertici di Corso d’Italia sull’attuale premier. Nello scontro alle primarie tra Renzi e Bersani la segretaria si schierò con il secondo sostenendo che le proposte di Renzi «sono un problema per il Paese» (era l’epoca in cui si ipotizzava che il consulente di Renzi per il lavoro fosse Pietro Ichino). E nello scontro Renzi-Cuperlo suscitò polemiche un testo su carta intestata dei pensionati Cgil a favore del secondo. La Fiom, sideralmente lontana dallo scontro interno al Pd, è diventata, per paradosso, un interlocutore meno compromesso agli occhi del premier. Fino al punto che il 5 febbraio scorso Landini arrivò in ritardo a un appuntamento sindacale con Susanna Camusso al Nuovo Pignone di Firenze perché era stato impegnato in mattinata a Roma a incontrare Renzi.
L’opa di Landini nella Cgil non porterà il segretario dei metalmeccanici a vincere il congresso, dove i giochi sono fatti da tempo. Ma creerà nuove fibrillazioni che forse non dispiacciono troppo all’attuale premier. Qualche segnale si vede già in questi giorni. Al congresso della Camera del lavoro di Bologna (la seconda d’Italia) il candidato vicino alla segreteria nazionale viene costretto al ritiro. Al congresso Cgil di Torino passa un ordine del giorno contro la Tav (da sempre uno dei cavalli di battaglia della Fiom). Per finire con lo Spi-Cgil (tre milioni di iscritti) che ieri ha diffuso un sondaggio secondo cui il 70 per cento dei pensionati ha molta o abbastanza fiducia nel premier. Non esattamente l’annuncio migliore nello stesso giorno in cui il segretario generale di Corso d’Italia promette al direttivo la mobilitazione contro il governo.
Corriere 10.3.14
Cgil nervosa per l’asse tra premier e Landini
di Dario Di Vico
Il congresso della Cgil dura cinque mesi e mette a dura prova la costanza dei media nel seguirne con attenzione gli sviluppi. Eppure è tutt’altro che un evento piatto e di scarso interesse. Il leitmotiv è rappresentato dalla contrapposizione molto accesa tra la (larga) maggioranza che si riconosce nel segretario Susanna Camusso e il leader della Fiom Maurizio Landini. La scintilla si è accesa per un diverso e radicale giudizio sull’accordo per la rappresentanza ma poi il dissenso sembra essersi allargato all’intero campo della proposta sindacale. Al punto che ieri Landini ha pubblicato sul suo sito e su Repubblica una «lenzuolata» che suona come una piattaforma alternativa, quasi che volesse lanciare un’Opa sulla segreteria facendosi forte (anche) della sorprendente interlocuzione che si è aperta tra lui e il premier Matteo Renzi. Da quali contenuti i due possano essere uniti resta ancora un mistero ma sul piano tattico hanno entrambi convenienza a scardinare gli attuali assetti del maggiore sindacato. Si tenga presente, infatti, che oltre a vivere dello scontro Camusso-Landini i congressi fanno registrare qua e là delle sorprese, a dimostrazione dell’esistenza di tensioni che covano sotto pelle e trovano il modo di emergere. E’ stato così nel congresso di Bologna dove il segretario uscente Gruppi è stato di fatto messo in minoranza e costretto alle dimissioni. Oppure al congresso di Torino dove i delegati hanno approvato un ordine del giorno che chiede di interrompere i lavori della Tav. Fin qui niente da dire, i congressi servono proprio a discutere e nel caso a votare. I dubbi vengono dopo, quando, come è accaduto ieri al direttivo nazionale della Cgil, spunta all’improvviso un aut aut al governo del tipo «o prendete i provvedimenti che vogliamo o scioperiamo». Camusso può legittimamente non amare il governo Renzi ma a pochi giorni da un Consiglio dei ministri, che sembra comunque voler tagliare l’Irpef, è singolare confezionare un ultimatum. Cisl e Uil si stanno muovendo con maggiore accortezza senza inutili fughe in avanti. Mentre è forte l’impressione che la Cgil stia scaricando sul contenzioso con il governo anche le proprie tensioni interne al punto che interrompere il dialogo Landini-Renzi è diventata una priorità. E il fine, in tempo di revival fiorentino, giustifica ancora una volta i mezzi.
l’Unità 10.3.14
Ma io insisto: ridurre l’Irpef
di Nicola Cacace
La possibilità di dare un sollievo ai milioni di cittadini alla base della piramide dei redditi, oppressi da una diseguaglianza eticamente indecente ed economicamente sbagliata, rischia di impantanarsi nel solito balletto italico: contentare tutti, senza risolvere nulla.
Dopo anni di disoccupazione crescente, di consumi anche alimentari calanti malgrado l’aumento della popolazione (i consumi pro capite si sono ridotti molto di più), di milioni di operai, impiegati pensionati, lavoratori non dipendenti che non arrivano a fine mese, un provvedimento di taglio dell’Irpef per i redditi bassi (ma tutti i redditi bassi) sarebbe da privilegiare rispetto ad altre soluzioni in ballo come quella di tagliare «anche» l’Irap alle aziende. Quest’ultima ipotesi, infatti, sarebbe inutile e e ingiusta, perchè «dividere il pollo a metà» (un piccolo pollo, tra l’altro) non avrebbe quell’effetto shock sulla crisi che tutti dicono necessario e perché la crisi ha inciso sui salari e sui guadagni dei meno privilegiati più che sugli utili delle imprese medie e grandi.
La ferita inferta dalla crisi alle masse è così grave che non servono pannicelli caldi, né «mezzi polli»: serve una medicina seria. Eppure, dopo l’annuncio di Renzi di scegliere la soluzione dello sgravio Irpef ai redditi bassi, sono cominciati i distinguo di giornali più o meno schierati, di qualche ministro e di molti industriali. Distinguo legittimi ma ingiustificati. Molte piccole imprese, troppe, sono fallite dall’inizio della crisi per il calo della domanda interna, mentre le imprese medie e grandi, pur soffrendo, non se la sono passata peggio di lavoratori, artigiani, professionisti e piccole imprese, almeno giudicare dall’andamento non malvagio degli utili degli ultimi 20 anni, cui ha corrisposto una sorta di «sciopero degli investimenti» che da anni hanno segno negativo, compresi quelli in macchine e impianti. Enrico Letta aveva preparato un provvedimento, Destinazione Italia, per invogliare gli stranieri a investire da noi, ma avrebbe dovuto indirizzarlo anche agli industriali italiani! Da molti anni gli «Ide», gli investimenti diretti esteri, fatti dai nostri industriali all’estero sono quasi quattro volte superiori a quelli fatti dagli stranieri in Italia. «Gli investimenti esteri? Vanno promossi ma insieme a quelli nazionali. Le imprese italiane hanno circa 70 miliardi di euro attualmente impiegati in strumenti di liquidità. Basterebbe usare quelli per recuperare gran parte degli investimenti perduti negli ultimi anni». Chi parla non è Maurizio Landini, ma Vittorio Terzi, numero uno per l’Italia di McKinsey, che ha diretto la ricerca «Investire nella crescita, idee per rilanciare l’Italia».
A Giorgio Squinzi, che chiedeva al premier Letta di presentarsi al congresso di Confindustria «con la bisaccia piena di doni», mi permetto di dire: «Caro presidente, ci dia pure lei qualche buona notizia, qualcosa che gli industriali possono fare per aiutare l’Italia». Gli industriali, al momento, chiedono lo sconto sull’Irap, una tassa ingiusta che speriamo possa essere corretta, magari già dalla prossima riforma fiscale. Ma è giusto disperdere oggi il capitale che si è trovato (speriamo) per dare pochi euro agli industriali invece che 100 euro a chi più ne ha bisogno? Personalmente credo di no.
l’Unità 10.3.14
Fassina: prima ci dicano dove prendere i soldi
di Andrea Carugati
Stefano Fassina, ex viceministro dell’Economia con Letta ed esponente di punta della minoranza Pd, guarda con un mix di speranza e preoccupazione al derby di governo su come utilizzare i 10 miliardi per la riduzione di Irpef o Irap. «Il problema è che la provenienza di queste risorse è ancora ignota. Mi pare che si stiano facendo dei conti senza l’oste. Quei 10 miliardi fino a qualche settimana fa non c’erano, e temo continuino a non esserci. Temo anche che per reperirli il governo sia costretto a incidere sulle prestazioni sociali. C’è un’altra cosa che non mi convince...».
Spieghi onorevole Fassina.
«Tagliare di 100 euro la spesa per tagliare di100euro le tasse rischia di avere un effetto recessivo sull’economia».
Dunque le tasse non vanno abbassate?
«Dico che l’abbassamento va finanziato in primo luogo con il recupero dell’abnorme evasione che c’è in Italia».
Ma il governo pensa di utilizzare risorse che derivano dalla spending review.
«Revisione della spesa non significa tirare fuori dei soldi da un cassetto. Ci sono tagli che possono avere un impatto sull’economia, anche se consentono di ridurre le tasse. La spesa pubblica italiana è tra le più basse d’Europa, va riqualificata con una radicale riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni centrali e territoriali».
Torniamo ai 10miliardi.
«Il governo Letta nella legge di Stabilità ha previsto di utilizzare 10 miliardi in tre anni, finanziati da risparmi di spesa. Inoltre ha previsto di potenziare l’intervento con le risorse provenienti dal rientro dei capitali. Ma prima bisogna aspettare che tali somme rientrino. Per il resto faccio fatica a vedere dove si possano trovare altre risorse senza incidere sulle prestazioni sociali».
Crede davvero che il governo andrà a tagliare la spesa sociale? Sulla scuola sono previsti nuovi investimenti...
«Speriamo. Comunque non tutti ricordano che la legge di Stabilità prevede già per il prossimo triennio un pesante taglio della spesa, circa 30 miliardi, già contabilizzati».
Nel derby tra Irap e Irpef come si schiera?
«Se l’obiettivo per la ripresa è sostenere la domanda, allora è necessario sostenere il potere d’acquisto dei lavoratori. Si può fare non solo tagliando l’Irpef, ma anche, come suggerisce Vincenzo Visco, fiscalizzare i contributi sociali pagati dai lavoratori. Questo meccanismo consente di raggiungere anche i lavoratori che non guadagnano abbastanza per beneficiare del taglio dell’Irpef». IlmenùdelgovernoRenzièdestinatoasomigliaremoltoaquantogiàmessoincantiere da Letta? Oppure possiamo attendere un colpo d’ala?
«Il colpo d’ala che il governo Renzi deve avere per giustificare la sua stessa nascita deve riguardare i rapporti con l’Ue. Una revisione degli obiettivi di finanza pubblica è il vero possibile valore aggiunto. Bisogna allentare la morsa, la nostra proposta è di allentare di mezzo punto di Pil all’anno per 3 anni il deficit strutturale tendenziale per finanziare investimenti nelle scuole e misure di contrasto alla povertà. L’altro punto chiave è rivedere il piano di privatizzazioni e utilizzare le risorse che entrano non per la riduzione del debito - sarebbero irrilevanti - ma per finanziare nuovi investimenti».
C’è il rischio di una manovra correttiva?
«Non solo non ci vuole una manovra correttiva, ma ne serve una espansiva. Se continuiamo a seguire le indicazioni di Bruxelles soffochiamo la ripresa e il risultato sarà un debito pubblico più elevato. Le politiche di austerità in questi anni hanno peggiorato le condizioni del debito pubblico di 30 punti percentuali».
Il governo Letta ha lasciato i conti in ordine?
Il Commissario Ue Rehn parla di squilibri eccessivi. «Rehn cerca di scaricare sui governi le responsabilità delle ricette fallimentari che la Commissione continua a riproporre, invece di fare una seria analisi autocritica. Il nostro premier avrebbe dovuto rispedire le critiche al mittente, piuttosto che cercare nel governo Letta una scusa per l’impossibilità di realizzare le promesse fatte in modo disinvolto e inconsapevole».
Quali promesse di Renzi sono a sua avviso disinvolte?
«Il taglio del cuneo di 10 miliardi quest’anno, e anche l’idea che una riforma delle regole del mercato del lavoro possa generare occupazione. Io al contrario vedo rischi di ulteriore precarizzazione».
Un contratto unico per i giovani non può invece servire a razionalizzare la giungla del precariato?
«Aspetto di vedere che sia un contratto unico, e che siano eliminate altre tipologie contrattuali. Aumentando il costo del lavoro per le imprese? Nel migliore dei caso si può razionalizzare il poco lavoro che c’è. Ma se una macchina è senza benzina (la domanda) non si fa ripartire aggiungendo l’olio».
Cosa pensa dell’emendamento sulla parità di genere nella legge elettorale?
«È necessario che il Pd lo sostenga, nonostante i diktat di Berlusconi».
La Stampa 9.3.14
Così Matteo rischia la palude
Le spine di Matteo: fondi scarsi, governo diviso e i veti della Ue
Sul taglio delle tasse la Cgil minaccia già lo sciopero: il governo ci deve ascoltare
di Paolo Baroni
Tra taglio dell’Irap e taglio dell’Irpef il governo ancora non decide. E’ vero che mancano ancora diverse ore al consiglio dei ministri di dopodomani ma sul tavolo del premier, in questi ultimi giorni, sono più i problemi che si sono addensati che le soluzioni. Compresa la minaccia di sciopero annunciata ieri dalla Cgil.
Il pacchetto di misure choc per rilanciare l’economia deve ancora prendere forma e, come per le riforme istituzionali, incombe il rischio-pantano. Troppe richieste, tante posizioni contrapposte, e poche risorse disponibili per poter varare il tanto atteso choc all’economia. Gli ostacoli che Renzi deve affrontare sono essenzialmente quattro: le risorse necessarie a finanziare le nuove misure, le istanze contrapposte delle parti sociali, le divisioni all’interno del governo, i vincoli dell’Europa.
Il nodo delle risorse
Per ridurre le tasse il governo è da giorni alla ricerca di 10 miliardi di euro per realizzate quel «taglio mai visto delle tasse» evocato ieri da Alfano. Il programma «Impegno Italia» messo a punto da Letta negli ultimi giorni del suo governo ne assicurava già 9, ma per una ragione o per l’altra questa «copertura» ora non è solidissima: 3 miliardi arrivavano infatti dalla spending review, 3 dal rientro dei capitali e 3 dal risparmio sugli interessi. Ora Renzi ed il ministro dell’Economia Padoan puntano ad ottenerne 5 «subito» dai risparmi di spesa, ma certamente non potranno disporre di tutte le altre entrate: il decreto sul rientro dei capitali sembra destinato a decadere e ad essere riconvertito in un più lento disegno di legge, mentre per capitalizzare il calo dei tassi - che non è detto continui - occorre aspettare ancora un po’. Per questa ragione Padoan ha ipotizzato una parte di coperture strutturali, i primi risparmi di spesa che si potranno conseguire, ed una parte di coperture transitorie, compresa la classica riallocazione di fondi già a bilancio. Il ministro pensava anche all’utilizzare di parte dei fondi europei, ma da Bruxelles è arrivato a stretto giro di posta un secco «no».
La corsa al «tesoretto»
La posta in palio è troppo grossa per non alimentare richieste da tutte le parti sociali. I sindacati chiedono a gran voce che il taglio vada a privilegiare lavoratori e pensionati e quindi venga fatto sull’Irpef. «Manovrando sulle detrazioni» sottolinea la Cgil, per evitare di premiare anche gli evasori. Il pressing dei sindacati non accetta sconti: «O taglia le tasse e mantiene le sue promesse – ha dichiarato Angeletti della Uil - o Renzi deve ammettere di aver fallito e dimettersi». Dura anche la Cgil che ieri ha riunito il suo Direttivo e stabilito che o il governo accoglie le richieste su fisco e lavoro (in primis riduzione della precarietà e riforma degli ammortizzatori) oppure partirà subito la mobilitazione. Senza escludere la possibilità di scioperi. Sull’altro fronte, Confindustria si aspetta un secco taglio dell’Irap, per ridare fiato alle imprese, ma segue con interesse anche l’idea del governo di portare a 60 miliardi il totale dei pagamenti degli arretrati della pubblica amministrazione. Per questo pressa il governo ma senza forzare troppo, pronta forse ad accontentarsi di un fifty-fifty. Soluzione che potrebbe accontentare pure il resto del mondo imprenditoriale. Anche se Rete Imprese, in realtà, punta di più sull’Irpef per rilanciare i consumi.
Il governo diviso
Come la pensa il premier non si è capito ancora bene. Giorni fa aveva annunciato il taglio del 30% dell’Irap, ieri sera in tv ha sostenuto che invece bisogna aiutare le famiglie. Le imprese si possono accontentare del taglio della burocrazia e di un fisco più amico. E comunque fare 50 e 50 secondo lui «non funziona». L’ex vicepremier Alfano è per la soluzione 70% Irpef - 30% Irap. Padoan ha fissato un metodo: concentrare tutto su un tipo di intervento, però resta aperto sulle due opzioni. Il suo vice Morando ed il viceministro dello Sviluppo Calenda, invece, dicono «meglio l’Irap».
I vincoli di Bruxelles
A complicare le cose, come al solito, ci si mette Bruxelles, che non solo ha posto il veto all’uso dei fondi Ue per tagliare il cuneo fiscale, ma sempre la scorsa settimana ha puntato il dito contro i nostri «eccessivi» squilibri macroeconomici (debito record, crescita zero e scarsa competitività). Per spiegare i piani dell’Italia e cercare possibili vie d’uscita, oggi Padoan fa il suo debutto a Bruxelles in occasione del vertice dell’Eurogruppo dove ci si aspetta che illustri ai 28 il pacchetto di provvedimenti che l’Italia pensa di adottare. Bisogna vedere se questo basterà a farci uscire dall’angolo.
Corriere 10.3.14
Se la mistica di soglie e percentuali copre una politica con pochi contenuti
di Pierluigi Battista
È vero che la democrazia, in fondo, è fatta di numeri. Ma la mistica delle percentuali sta diventando un morbo che rischia di corrodere la democrazia incapace di contare in modo razionale le sue maggioranze.
Numeri a sproposito. Numeri senza una logica. Numeri arbitrari. Una democrazia che dà i numeri, è una democrazia che forse sta male. Come quella italiana.
Adesso, per dire, su una percentuale è partito un balletto insensato sulla parità di genere nelle liste dei partiti. La parità, normalmente, è parità. Altrimenti sarebbe una quasi parità, un accenno di parità, un avvicinamento alla parità, ma non una parità. La parità è metà e metà, due fette uguali: cinquanta e cinquanta, fifty fifty , un po’ a te un po’ a me in parti identiche. Invece oggi, chi recalcitra alla parità delle quote, propone una formula di compromesso: sessanta maschi, quaranta femmine, ma allora che parità è mai? E che senso ha attestarsi sul sessanta e quaranta se in realtà si accetta il criterio delle quote, forse per fare dispetto? Forse che una quota al quaranta è meno compromettente di una al cinquanta? E perché non trentotto, quarantaquattro, cinquantadue? Se si danno i numeri, almeno diamoli bene. Se le percentuali sono fatte così, tanto per fare, tanto vale sbizzarrirsi, provare con la tombola, con la roulette, con le estrazioni del lotto. Non c’è nessun rapporto tra questi numeri e le cose, tra i numeri e una scelta. Si danno i numeri tanto per darli.
Come le percentuali che dovrebbero distribuire i tagli fiscali annunciati dal governo. Ci sarebbe un cento per cento, se si volesse procedere solo al taglio dell’Irpef, o un cento per cento al taglio dell’Irap. Ma si ipotizza un cinquanta per cento di tagli all’Irap, e un altro cinquanta di tagli all’Irpef. Qualcuno si avventura in complicatissime percentuali: settanta all’Irpef (o all’Irap) e trenta all’Irap (o all’Irpef). A seconda dell’umore. A seconda di cosa viene per ultimo e deve essere annunciato in conferenza stampa. Come se le misure economiche non fossero il frutto di una visione d’insieme, di scelte chiare a cui ci si può opporre ma sapendo cosa sono, in quanto consistono, chi vanno ad avvantaggiare e chi a svantaggiare. E invece, anche qui, numeri misteriosi, scommesse, giochi matematici, percentuali ballerine. Un fuoco d’artificio di numeri: ma perché? E per chi?
E la percentuale da devolvere dell’Irpef per finanziare volontariamente un partito: anche qui, quanto esattamente? E in che percentuale? E che sta a significare una percentuale anziché un’altra? Senza parlare del tormentone della legge elettorale. Anzi, parlandone, perché attorno ai numeri e alle percentuali di fanno le alleanze, si disfano i patti, si allacciano relazioni, si sbattono le porte. Sulla soglia di sbarramento per le piccole formazioni per esempio. Si era cominciato con un drastico 5 per cento sotto il quale non si aveva accesso in Parlamento e addirittura dell’8 per cento per i partiti che non si vogliono coalizzare. Poi è cominciata la disfida delle percentuali, come se sostanzialmente cambiasse qualcosa e se tutto non fosse invece una gigantesca rissa sul nulla. Dal 5 si è passati a un quasi accordo del 4,5 per cento, con giubilo dei piccoli partiti che vedono in quello 0,5 l’approdo alla vita, la linea di confine che separa la salvezza dalla condanna, la sopravvivenza dalla cancellazione definitiva. Poi si è discusso molto anche della soglia da superare per godere del premio di maggioranza senza dover andare al ballottaggio. Prima era il 35 per cento. Qualcuno voleva il 40. Ci si è (momentaneamente?) attestati sul 37, ma sono percentuali anche queste arbitrarie. Perché non il 37,2 per dire? Con la variante, questa sì davvero sorprendente, della eventuale legittimità costituzionale di una percentuale anziché un’altra. Visto che la Consulta aveva bocciato il Porcellum per stigmatizzarne l’eccesso di premio di maggioranza, la baruffa sul 35 o sul 37 ha assunto l’aspetto di un dibattito di rilevanza costituzionale, come se il 37 fosse più costituzionale del 35. E il 40, allora, che sarebbe stato, ipercostituzionale? I numeri coprono il vuoto, le percentuali sostituiscono la politica, le guerre sulle cifre nascondono l’assenza di contenuti, forse. La democrazia è fatta di numeri. Troppi numeri rischiano di soffocarla.
Repubblica 9.3.14
Renzi e i conti senza Bruxelles
di Carlo Clericetti
qui
La Stampa 10.3.14
Nuova grana per Renzi in Abruzzo un caso D’Alfonso
Il candidato governatore del Pd è ancora sotto processo
di Guido Ruotolo
Salvo colpi di scena imprevedibili, le primarie del centro-sinistra eleggeranno Luciano D’Alfonso candidato alla presidenza della Regione Abruzzo, mentre Marco Alessandrini, figlio del giudice Emilio, ucciso da Prima Linea nel ’79, sarà il candidato a sindaco di Pescara.
Sei anni dopo e senza aspettare il processo d’Appello, l’ex sindaco di Pescara, arrestato per mazzette e assolto in primo grado, ritenendo di essere stato a lungo in panchina, ha deciso di scendere in campo di nuovo, e il suo partito, il Pd di Matteo Renzi, ha approvato la sua candidatura. All’orizzonte, insomma, mentre non si è ancora spenta la polemica sui 4 sottosegretari e viceministri Pd indagati, si prospetta un bis del caso-Barracciu, la candidata alle regionali sarde costretta al ritiro all’ultimo momento. In realtà, nello stesso Pd abruzzese non tutti hanno condiviso questa scelta. Lo stesso presidente del Consiglio Renzi avrebbe voluto che si candidasse alla presidenza della Regione la senatrice Stefania Pezzopane (ex presidente della Provincia dell’Aquila e assessore comunale), ma la campagna elettorale di D’Alfonso, iniziata da un paio d’anni, ha visto schierarsi al suo fianco il «partito abruzzese che conta».
Sei anni dopo, dunque. Il 2008 fu un anno terribile per le istituzioni (e il Pd) abruzzese. Il 14 luglio toccò al governatore dell’Abruzzo, Ottaviano Del Turco (condannato in primo grado), il 15 dicembre, al sindaco di Pescara, Luciano D’Alfonso (assolto in primo grado). Tutti in carcere per storie di mazzette e tangenti. Poi venne il terremoto e i nuovi scandali (questa volta targati centrodestra).
C’è un passaggio del ricorso del pm Gennaro Varone contro l’assoluzione dell’ex sindaco che fa riflettere: «Tutto il processo gronda di richieste e dazioni di denaro, di torbidità delle condotte amministrative e soprattutto di deliberata opacità di quelle personali che il pm ha evidenziato non per censura morale ma perché esse sono spiegabili soltanto con la necessità di occultare illeciti».
Per il pm è incomprensibile che non sia ritenuto censurabile «un sindaco che si reca in banca a versare mazzette di banconote per migliaia e migliaia di euro, o che esegua acquisti in contanti per svariate decine di migliaia di euro senza alcun prelievo da rapporti bancari». Ma, come si sa, questo è il politico «capace di vivere a costo zero» (dixit pm Varone), anche se per i giudici che l’hanno assolto, le migliaia di euro avute in regalo dall’imprenditore Carlo Toto, «avrebbero spiegazioni nei rapporti personali pregressi (datati) e costituirebbero, conseguentemente, mere donazioni in spirito di amicizia».
Un po’ Scajola (assolto anche lui, per la casa al Colosseo pagata a sua insaputa e si può immaginare per spirito di amicizia), un po’ Nicola Cosentino (per la capacità di relazioni col territorio). D’Alfonso dovrà adesso vedersela con il candidato dei 5 Stelle e un’opinione pubblica che mal digerisce che un sindaco possa avere in regalo da un imprenditore che vince un appalto comunale per i parcheggi a pagamento (poi revocato), «voli, innumerevoli e costosi per decine di migliaia di euro che i Toto hanno offerto a D’Alfonso e ai suoi famigliari. E le vacanze diverse e costose con pagamento di viaggio, vitto e alloggio». Da Mauritius a Londra, dalla Svizzera a Malta, a Venezia e Santiago de Compostela.
La Stampa 10.3.14
Il nuovo Pd si scopre garantista
di Mattia Feltri
qui
La Stampa 10.3.14
Dal Pd spunta una proposta: un patentino per prostitute
di Carlo Bertini
Un patentino professionale per esercitare il «mestiere», partita Iva per contribuire all’erario il dovuto, obbligo di sottoporsi a controlli psico-fisici per potersi prostituire in appartamenti, previo permesso comunale. È una proposta di legge foriera di polemiche, come dimostrato già all’atto della sua presentazione. Nasce da una senatrice del Pd, Maria Spilabotte, ma è firmata anche da altri senatori democratici: Valeria Fedeli, Rosa Maria Di Giorgi, da Monica Cirinnà, Sergio Lo Giudice e dalla senatrice azzurra Alessandra Mussolini. Il disegno di legge «punta a riconoscere i diritti delle prostitute e a limitare il fenomeno delle tratte» ed è composto da sette articoli: uno di questi lascia il delicato e spinosissimo compito di individuare i luoghi pubblici dove consentire l’esercizio della prostituzione agli enti locali. E si può ben immaginare quali fenomeni potrebbe scaturire di proteste e resistenze, comitati o associazioni pronti a mettersi di traverso. Ma anche l’ultimo articolo non sarebbe meno problematico, caso mai una proposta simile fosse discussa davvero in parlamento fino ad essere messa ai voti: quello che punta a introdurre venti ore di educazione sessuale nelle scuole secondarie. La sua presentatrice, la Spilabotte, cita una serie di dati che riguardano l’Italia: 70 mila prostitute per 9 milioni di clienti, con un’attività che porterebbe nelle casse dello Stato una cifra stimata fra i 5 e i 10 miliardi l’anno. Per sottrarre allo sfruttamento le persone che, per ragioni di obiettiva debolezza, vengono assoggettate e per sottrarre un mercato alle regole della clandestinità ed alla contiguità con il mondo criminale, la proposta opera sul versante civile e su quello penale: il reato di prostituzione coattiva è punito con la reclusione dai 5 ai 10 anni e la multa da 5000 a 50 mila euro; il reato di reclutamento e induzione alla prostituzione con una pena che va dai due ai sei anni di reclusione e la multa dai 3000 ai 30.000 euro anche per chi controlla locali aperti al pubblico dove si esercita la prostituzione. Prostituzione evitata dunque in pubblico, individuando zone in cui consentirla. Il nodo di come regolare la prostituzione è oggetto di riflessione in Europa: il Parlamento europeo ha approvato una relazione che punta a punire i clienti e non le prostitute.
l’Unità 10.3.14
Italicum, ore decisive
Boldrini: «L’equità di genere non può essere oggetto di scambio»
di Ferderica Fantozzi
È il giorno della verità per l’Italicum. Oggi la legge elettorale torna in aula a Montecitorio dopo il week end di riflessione. Laura Boldrini annuncia che la discussione dovrebbe chiudersi in otto ore con i tempi contingentati, ma lei non ha intenzione di «comprimere la discussione». Renzi: «A un passo dal traguardo, si chiude stasera o al massimo domani». La parità di genere? «Se si trova l’accordo sarei felice, ma deve essere tra tutti».
Già, perché l’impasse non è ancora risolta. La trattativa prosegue sul filo del minuto. Ma la luce verde non è ancora arrivata, e il nervosismo generale cresce. La forzista Laura Ravetto ha proposto alle deputate di vestirsi stamattina di bianco, dal Pd ha accettato subito Alessandra Moretti. L’appuntamento decisivo è per le 9,30 quando è convocato il comitato dei nove, in attesa della seduta alle 11. O si trova un accordo lì o si andrà in aula in ordine sparso. L’ipotesi di compromesso è sempre la stessa: il 40% dei capilista donne e il 60% uomini. Percentuali che, però, potrebbero ancora essere limate al ribasso.
«Vediamo, siamo disponibili a ragionare - rilancia Giovanni Toti per Forza Italia - Non è la nostra Stalingrado. La parità di genere è una richiesta legittima come altre. Ma l’Italicum è un patto a tre, quindi aspettiamo di vedere se tutti i contraenti sono d’accordo. E aspettiamo di vedere che posizione prende il governo». Il pressing di deputate che hanno con Silvio Berlusconi un rapporto solido (Mara Carfagna, Annagrazia Calabria, Stefania Prestigiacomo, Michaela Biancofiore) ha bucato la diffidenza del leader. «Se ci tenete, va bene. Ma l’impianto della legge non si tocca». E già Renato Schifani si fa bello: «Non si può far finta di nulla, servono meccanismi che garantiscano un’adeguata rappresentanza di genere ».
Il Cavaliere è diffidente. Teme trappole e insieme non vuole restare con il più classico dei cerini in mano, non intende ritrovarsi l’unico «misogino» dello scenario politico. Tanto più che ieri la presidente della Camera è ritornata sul punto: «Spero che queste ore portino consiglio a chi dovrà decidere. Il 50% della popolazione è costituita da donne. Ci sono buoni motivi per un’adeguata rappresentanza». Aggiungendo: «Si trovi una mediazione, ma questo tema non può essere oggetto di scambio ».
ALLARME SALVA-LEGA Berlusconi però non vuole neppure che il risultato di accontentare l’altra metà del cielo significhi riaprire l’accordo, con il vaso di Pandora delle recriminazioni reciproche. Una fra tutte preoccupa i forzisti: «Con la scusa del Salva- Lega, al Senato tenteranno di abbassare le soglie minime - si sfoga un deputato - Così invece di una legge a impianto bipolare ci troviamo un Porcellum peggiorato». A vantaggio dei cugini nuovocentristi.
Non è l’unica mina sul percorso. Alfano e Quagliariello si dicono favorevoli alla parità di genere, ma intanto rilanciano le preferenze. Ieri, a titolo provocatorio, le ha evocate anche Berlusconi: «Più meritocratiche delle quote rosa ». Un fronte che, se aperto, porterebbe la legge su un binario morto, dato che il Pd è invece favorevole ai collegi uninominali. Luigi Zanda, su Repubblica, lo ha detto con chiarezza: «Convinceremo tutti sulla parità di genere e le preferenze non torneranno». Sullo sfondo, poi, restano le soglie minime di accesso e il premio di maggioranza, catalizzatori di malumori. I timori dei partiti piccoli sono vari. I voti segreti numerosi, i franchi tiratori nelle scorse votazioni sono stati un numero costante da far individuare un’area di malcontento circoscritta ma determinata.
A Palazzo Chigi c’è la consapevolezza che si viaggia sul filo del rasoio e che la partita sarà davvero chiusa solo dopo il voto finale. Anche in casa Pd non mancano i distinguo. La minoranza affila le armi per la battaglia sulla sorte del Senato, dove un’idea unica ancora non c’è. La task force renziana - il ministro Maria Elena Boschi, il numero due del Nazareno Guerini e il sottosegretario di Palazzo Chigi Delrio - è in trincea su entrambi i fronti, legge elettorale e riforme costituzionali.
BATTAGLIA SUL SENATO Il premier sul secondo versante ha accelerato. Incassato il sì della Camera all’Italicum, entro una decina di giorni dovrebbe partire a Palazzo Madama la discussione sul medesimo ramo del Parlamento. Tutt’altro che pacifica: Renzi vuole un Senato non elettivo, e dunque senatori non retribuiti con un lauto stipendio bensì con un gettone di presenza per le spese delle trasferte a Roma. Alfano e Lupi hanno un progetto diverso, con senatori eletti in listini al momento delle Regionali e retribuiti dalle loro Regioni come i consiglieri. Anche se non faranno le barricate, hanno fatto sapere al premier, contro un Senato formato da eletti di secondo grado. Di tutto questo si comincerà a discutere appena finito l’iter dell’Italicum.
il Fatto 10.3.14
Censura rosa
Boldrini fustiga: contro la Boschi “satira sessista”
di Sara Nicoli
Un conto è una (giusta e ponderata) difesa dell’equilibrio di genere nelle istituzioni. Un’altra è invece la difesa d’ufficio di un ministro femmina colpita dalla satira televisiva, che di per sé non può che essere urticante, non certo condiscendente. Eppure ieri la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha sentito la necessità di prendere le parti di Maria Elena Boschi, la bionda responsabile delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento, forse la più vicina al premier Matteo Renzi, secondo lei ingiustamente “attaccata” da una performance dell’imitatrice Virginia Raffaele a Ballarò. Piece che descriveva la stessa Boschi come un’ammaliatrice che ricorre al suo charme ogni volta che deve parlare “concretamente” del modo in cui il governo Renzi intende cambiare il Paese, non avendo argomenti davvero “concreti” da poter mettere sul piatto. Una satira, va detto subito, che non ha offeso in alcun modo il ministro, tant’è che lei stessa, su Twitter, ci ha poi tenuto a far sapere di essersi “molto divertita” nel vedersi dipinta, in buona sostanza, come la classica gatta morta messa sulla poltrona di ben due ministeri solo per scaldare il posto e nulla più. Va detto – anche – che l’ironia (sincera?) della Boschi nasceva per mettere a tacere la precedente intemerata di Michele Anzaldi del Pd, un ex rutelliano di stretta osservanza, ora asceso al ruolo di fustigatore della Rai, che si era affrettato, subito dopo l’irriguardosa satira, a difendere la Boschi come si farebbe per “la donna del capo oltraggiata”, scrivendo addirittura alla presidente Rai, Anna Maria Tarantola, per lamentarsi accoratamente dell’imitazione come un Brunetta qualsiasi: “É questo forse il Servizio Pubblico?”. Dall’iniziativa di Anzaldi, va da sé, i renziani hanno preso le distanze, al punto da costringere l’estensore della missiva a giurare di aver fatto tutto da solo, senza imbeccate. Insomma, doveva finire così, con una brutta figura collettiva nel segno della difesa (non richiesta) di Maria Elena Boschi. E poi, invece, arriva lei, la Presidente della Camera. Che quando ormai tutti si erano dimenticati dell’imitazione, decide di tornare sull’argomento. Sollecitata, sulla questione di genere, da Lucia Annunziata in “In mezz’ora”, la Boldrini se n’è uscita così: “Mi è dispiaciuto vedere la satira della Boschi, non ho visto quella sulla Pascale (andata in onda la settimana prima, ndr), ma se aveva gli stessi accenti sessisti mi sarebbe dispiaciuto; ci sono tanti modi per fare satira, ma quando si cede al sessismo diventa altro e lo apprezza di meno”. Satira sessista? E allora perché non prendersela anche con Crozza quando attacca la Ravetto o la Polverini? Perché, insomma, difendere solo la Boschi e non le altre? E, infatti, l’Annunziata ha posto proprio questo tipo di quesito alla Boldrini; del resto, solo fino a qualche tempo fa, Carfagna, Gelmini e tutte le altre hanno subìto ben altro. Boldrini, però, non è apparsa altrettanto convincente: “Ho conosciuto donne di Forza Italia che si impegnano, sono brave e lavorano sodo – ha detto - non vedo perché non debbano essere rispettate; c’è una dimensione maschilista e trasversale, fare satira su aspetti estetici è sgradevolissimo, sia da destra che da sinistra e il rispetto per le donne non ha bandiera”. Certo, come no. Ma alla presidente della Camera non dovevano sfuggire anche le ragioni d’opportunità di una difesa così diretta della Boschi, di cui siamo in attesa di testare le capacità. Se un ministro riesce a ridere di sé e di chi se la prende con lei con leggerezza, perché poi intervenire come Terza Carica dello Stato per fustigare e censurare i costumi satirici della Rai come un Gasparri di qualche tempo fa? E poi, proprio sicura che la parità di genere si difenda così? Forse è arrivato il momento di rivalutare concettualmente la parola “sessismo”. Prima di scadere in difese di genere che più che efficaci, sono un po’ ridicole. Ma forse qualcuno vorrebbe dare un nuovo senso alla parola satira.
Corriere 10.3.14
«Non so se voterò. E al Senato la legge va cambiata»
Bindi: È un principio non negoziabile Senza, mi riservo di non partecipare
intervista di Monica Guerzoni
ROMA — «La legislatura e il governo sono legati alle riforme».
Matteo Renzi ci tiene molto.
«Abbiamo accettato larghe intese e strane maggioranze solo per cambiare la legge elettorale e il bicameralismo perfetto. Se non si fanno, non ha senso la legislatura e, men che meno, ha senso il governo».
Rosy Bindi è preoccupata. La presidente dell’Antimafia teme che l’accordo con Berlusconi costringa il Pd e la maggioranza a procedere a colpi di compromessi, senza troppo badare ai contenuti.
Teme che la parità di genere possa saltare?
«È un principio non negoziabile e irrinunciabile. Se non c’è, io mi riservo di non partecipare al voto».
Berlusconi e Verdini stanno valutando il via libera, magari in cambio del salva-Lega...
«Impossibile, non è scambiabile con niente. Prima si ragiona della parità e poi si riprendono gli altri argomenti. Quel tema non può far parte di trattative e mi meraviglio che non sia stato inserito nell’accordo iniziale».
C’era il veto di Berlusconi.
«Per come si è sviluppata la discussione, per le parole del presidente della Repubblica e l’impegno della presidente della Camera, per la coincidenza singolare e non voluta con la festa delle donne, è impensabile che possiamo arretrare su questo punto. Il Pd ha portato in Parlamento il 40 per cento di donne».
E se finisce con il 40% di donne capilista contro il 60% di uomini?
«Troverei un po’ bizzarra una norma che affievolisse il principio costituzionale, ma sarebbe un risultato apprezzabile, anche se non pienamente soddisfacente».
Con quale spirito vota questa riforma, dopo aver combattuto Berlusconi per un ventennio?
«Il percorso delle riforme è ripartito dall’accordo tra Renzi e Berlusconi, che però non può essere una gabbia. E abbiamo dimostrato che non lo è, perché dal testo iniziale abbiamo fatto alcuni passi avanti. Ma non sono sufficienti per fare una buona legge».
La accuseranno di sabotaggio...
«Tutte le obiezioni mosse all’Italicum sono più che ragionevoli, condivise dalla stragrande maggioranza dei costituzionalisti e dallo stesso padre della legge, il professor Roberto D’Alimonte. Segnalare i limiti della riforma non vuol dire essere sabotatori».
Cosa si può migliorare?
«C’è un problema di soglie di sbarramento. E ci sono le liste bloccate. Questioni serie, che al Senato andranno risolte se non ci riusciamo alla Camera».
State togliendo agli elettori il diritto di scegliersi i parlamentari.
«E questo a me non va bene, nella percezione popolare il porcellum sono le liste bloccate. Io l’ho detto chiaramente, anche trasgredendo le regole del gruppo. E visto che Schifani e Finocchiaro hanno detto che al Senato non faranno i notai della riforma, affidiamo a loro la responsabilità di rivedere liste bloccate e soglie di sbarramento».
Berlusconi farà muro.
«Se è animato da una sincera volontà di fare le riforme si renderà conto che le obiezioni da noi poste sono condivise e apprezzate in tutti i sondaggi. Come è stato disponibile a fare alcuni cambiamenti, così dovrà riflettere anche su questi aspetti. D’altronde anche noi siamo disposti a rinunciare a qualcosa per un disegno più ampio, il superamento del bicameralismo e la riforma del regionalismo. Ne va del significato stesso della legislatura e anche del futuro del governo».
Se saltano le riforme, tutti a casa?
«Il governo è legato a queste riforme, altrimenti saremmo dovuti andare tutti a casa un anno fa, dopo aver constatato che non c’era una maggioranza. E siccome questo Paese ha bisogno di fare molte altre cose, dal lavoro alla crescita, dobbiamo mandare avanti le riforme con grande senso di responsabilità. Ma bisogna farle bene e non farle comunque».
A Palazzo Madama il malumore è forte, anche nel Pd. Visti i numeri risicati, i senatori voteranno la loro abolizione?
«L’accordo con Berlusconi serve a non avere numeri risicati».
Le piace l’idea di Renzi di fare entrare 108 sindaci nel futuro Senato delle autonomie?
«Lo vedremo, il testo ancora non c’è. Il cuore della riforma è che la fiducia la dà una sola Camera e che non c’è la doppia lettura delle leggi».
Teme trappole o agguati?
«Chi dovesse farne se ne assumerebbe la responsabilità, e pagherebbe un prezzo con gli elettori. Una cosa è porre questioni serie per fare buone riforme, altra cosa è sabotarle».
l’Unità 10.3.14
Il Quirinale e la riforma
Polemiche infondate, ma il ruolo del Colle andrebbe rivisto
di Gianfranco Pasquino
Saremmo davvero ingenui se pensassimo che Napolitano non sia grandemente interessato alla legge elettorale. Saremmo altrettanto ingenui se ritenessimo che il Presidente non ha le sue preferenze in materia elettorale.
Chi lo conosce sa che Napolitano ha sempre difeso una qualche proporzionalità fra i voti espressi e i seggi attribuiti ai partiti. Da leader di partito e da parlamentare non si è certo trovato sulla trincea dei referendari e neppure dei maggioritari. Certamente, il bipolarismo sta nella sua concezione della politica tanto quanto sta la sua visione di una democrazia parlamentare. È molto difficile, quindi, pensare che non abbia espresso le sue opinioni ogniqualvolta è stato - certo, in maniera riservata - interpellato a proposito della riforma elettorale e delle altre riforme istituzionali e costituzionali. In occasione della Festa delle donne, ha anche manifestato pieno appoggio alla richiesta di parità di genere nelle liste elettorali. Peraltro, la parità può essere acquisita in molti modi e quello che si va profilando, se lo schieramento trasversale delle donne avrà successo, non è necessariamente il migliore.
Può anche darsi che il Presidente abbia espresso la sua contrarietà all’importazione del sistema elettorale spagnolo facendo valere, afferma oggi uno dei parenti non troppo lontani del progetto di legge elettorale in discussione alla Camera, la sua «moral suasion». Se di esercizio di sola persuasione si tratta, allora la responsabilità di avere abbandonato quella che, comunque, appariva una confusa imitazione di un sistema elettorale che elegge soltanto 350 deputati, che non riguarda il Senato, che si accompagna all’elezione del Capo del governo in Parlamento con il meccanismo del voto di sfiducia costruttivo, che sta nel contesto di una monarchia costituzionale, rimane tutta dei prolifici riformatori elettorali che avevano presentato al Presidente almeno altre due alternative. Poi, il progetto attualmente in discussione non discende da nessuna di quelle, peraltro non migliori, alternative. Il punto di questa escursione nelle asserite preferenze elettorali del Presidente è duplice: da un lato, riconoscere che il Presidente ha la facoltà di valutare, di sostenere e di sconsigliare ogniqualvolta lo desideri, tutte le volte che glielo viene richiesto, ma anche di sua spontanea volontà; dall’altro, ricordare che coloro che chiedono sostegno sanno a quali condizioni possono ottenerlo e coloro che desiderano consigli presidenziali non sono affatto obbligati ad attenervisi. In una democrazia pluralista è poi anche giusto, persino opportuno che coloro che hanno competenze ed energie si attivino per sostenere un progetto di legge oppure per contrastarlo, come hanno fatto con un apposito documento alcuni giuristi che intravvedono nel progetto in discussione alcuni persistenti elementi di incostituzionalità proprio alla luce della sentenza n. 12014 della Corte costituzionale. Toccherà poi al Presidente, come lui stesso ha già dichiarato, valutare con la massima attenzione anche le motivazioni e i tentativi di “persuasione” degli oppositori della legge prima di procedere alla sua promulgazione. Incidentalmente, pur rilevando i molti inconvenienti della legge vigente, la Corte non aveva dato nessuna importanza alla tematica parità di genere. Questo non significa che la tematica non esista, eccome, ma credo che siano i meccanismi e, in particolare, il permanente potere di nomina dei parlamentari a opera dei capi dei partiti (e delle correnti) che dovrebbero essere messi in discussione. La mia risposta non è tornare al voto di preferenza, ma introdurre i collegi uninominali. Nell’incombente, nient’affatto deplorevole e tanto meno incostituzionale, presenza del presidente della Repubblica nei procedimenti di riforma elettorale, istituzionale e costituzionale, colgo l’imprescindibile necessità di ridefinire meglio ruolo e compiti della figura presidenziale. Quella figura che, nelle autorevoli parole di un presidente della Corte, tanto prudente quanto colto come fu Livio Paladin, i Costituenti hanno definito in maniera «indeterminata» e che, ancora nelle parole di Paladin, potrebbe evolvere «magari nell’ottica di un sistema semi-presidenziale alla francese» (che, naturalmente, richiederebbe una legge elettorale appropriata). Probabilmente contro la sua volontà, è la stessa azione di Napolitano che, influenzato dalle circostanze, ha oramai posto il problema.
Corriere 10.3.14
Lo Ior degli intrighi che ancora sopravvive
Quelle resistenze nella curia vaticana alla pubblicazione delle carte dello Ior
Attesa di Gotti Tedeschi per un colloquio con Ratzinger mai avvenuto
di Massimo Franco
Quando nel luglio del 2013 il vertice dello Ior, in carica da appena pochi mesi dopo la turbolenta uscita di scena di Ettore Gotti Tedeschi, decise di rendere pubbliche le nuove direttive sui clienti dell’Istituto per le opere di religione, notò una reazione ostile. L’iniziativa partiva dalla necessità di dare prova di trasparenza, allontanando almeno una parte delle ombre che da anni si allungano sulle attività dell’Istituto ospitato nel Torrione di Niccolò V, nel cuore delle sacre mura. Ma le resistenze risultavano altrettanto forti.
Non era opportuno, si obiettava, mettere in circolazione notizie riservate che poi «potevano essere usate dalla massoneria» contro il Vaticano. Eppure, esisteva un’esigenza accentuata dal modo singolare col quale era stato scelto il successore di Gotti Tedeschi: e cioè nel limbo temporale tra le dimissioni di Benedetto XVI e l’inizio del Conclave. Il vertice della banca cercò di spiegare che la comunità finanziaria internazionale continuava a tenere gli occhi addosso allo Ior; e che lo stesso Francesco considerava una priorità la riforma radicale dell’Istituto (…).
Non a caso, sorprendendo tutti, a metà giugno Francesco aveva nominato «prelato» dello Ior monsignor Battista Ricca, direttore della Casa Santa Marta, dove aveva scelto di vivere: una persona di sua totale fiducia, anche se digiuna di finanza, come anello di collegamento e «orecchio» del pontefice tra la Commissione cardinalizia presieduta da Tarcisio Bertone e il Consiglio di sovrintendenza con a capo, appunto, il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg. E dieci giorni dopo, con un «chirografo», un documento riferibile a lui personalmente e datato 24 giugno, aveva istituito una «pontificia commissione referente» per «conoscere meglio la posizione giuridica e le attività dello Ior».
A presiederla fu chiamato un anziano e rispettato cardinale salesiano, Raffaele Farina, ex Prefetto della Biblioteca Vaticana. Al suo fianco, un’altra «eminenza» stimatissima da papa Bergoglio, Jean-Louis Tauran, francese; monsignor Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, spagnolo e coordinatore della commissione; monsignor Peter Bryan Wells, statunitense e numero tre della Segreteria di Stato; e la presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, Mary Ann Glendon, ex ambasciatrice Usa presso la Santa Sede e giurista alla prestigiosa università di Harvard.
Se non era un vero e proprio commissariamento, gli somigliava. E comunque, faceva intendere che Francesco era insoddisfatto del modo in cui andava avanti la riforma. Passarono giorni prima che la richiesta di von Freyberg ricevesse una risposta. Tanto che alla fine, raccontano in Vaticano, il presidente dello Ior si rivolse a monsignor Ricca. E gli chiese di parlarne direttamente con il Papa. Francesco e il monsignore si incontrarono a colazione a Santa Marta, come accade abbastanza spesso. E Francesco, dopo avere analizzato i pro e i contro, decise che si pubblicasse tutto. L’episodio conferma sia la volontà del pontefice argentino di procedere sulla strada della trasparenza, sia le resistenze fortissime che incontra.
Gotti Tedeschi, interrogato dalla magistratura per alcuni giri di soldi dello Ior ai quali sarebbe risultato totalmente estraneo, non nascondeva di avere intravisto conti correnti «strani», e operazioni così misteriose che lui stesso ne era stato tenuto all’oscuro (...). L’ex presidente, sfiduciato il 26 maggio del 2012, da quel momento era stato tagliato fuori da tutta la rete vaticana che contava. Aspettava di essere convocato da Benedetto XVI per potergli spiegare la propria verità, o almeno da monsignor Georg, suo segretario privato. A intermittenza gli veniva assicurato che presto sarebbe accaduto (...). Fino a quando, all’inizio di febbraio del 2013, fu fissato un incontro proprio con Bertone: l’ex mentore di Gotti Tedeschi, poi suo avversario per le resistenze del presidente dello Ior ad avallare operazioni finanziarie ritenute spericolate.
Il luogo prescelto era lo studio del cardinale Giuseppe Versaldi, potente «ministro delle finanze» vaticane. Erano passati quasi nove mesi dalla sfiducia. E bisognava ammansire l’economista piacentino, fargli capire che la sua quarantena stava per finire, che papa Benedetto XVI era quasi pronto a riceverlo; e che dunque non doveva sentirsi abbandonato, né essere tentato di raccontare la frazione di segreti che riteneva di avere raccolto. Versaldi era l’anfitrione di quella che doveva apparire la grande riconciliazione tra Gotti Tedeschi e il Segretario di Stato.
Testimone e promotore del colloquio: il vescovo di Piacenza, la città del banchiere, monsignor Giovanni Ambrosio. Quante cattiverie sono state dette sul nostro conto!, avrebbe esordito Bertone vedendo il banchiere: quasi fossero stati entrambi vittime di quello che era accaduto allo Ior. Poi lo rassicurò, gli disse di tenersi a disposizione, perché presto il Papa lo avrebbe convocato. Ma la convocazione non ci fu mai. Pochi giorni dopo l’incontro di Gotti Tedeschi col segretario di Stato vaticano, Josef Ratzinger si dimise….
Il problema ormai non è lo Ior, ma il rapporto della finanza vaticana col mondo esterno; e l’esigenza di seguire le indicazioni di un Papa deciso a imprimere una svolta al modo di gestire i soldi. Con l’arrivo di Francesco lo Ior è apparso solo un vecchio guscio: una corazza bancaria creata nel 1942 da Pio XII anche per impedire al fascismo di Benito Mussolini in guerra di controllare i fondi e le operazioni finanziarie del Vaticano. E appare figlio di un’altra era geologica della Chiesa: quella della segretezza abbinata all’impunità; dei soldi in contanti raccolti e distribuiti per cause pie e meno pie senza doverne rendere conto a nessuno e senza che si potesse nemmeno risalire sempre ai beneficiari (...).
L’Istituto per le opere di religione è la metafora di una metamorfosi difficile, dolorosa e insieme improcrastinabile. E le nomine a ripetizione fatte da Francesco nei primi mesi del papato hanno sottolineato l’urgenza e insieme l’affanno col quale si tenta di riplasmare un organismo che ormai crea problemi al Vaticano, più che risolverli (...). A sbrogliare quegli intrecci occorrevano dei professionisti in grado di incontrare il rispetto delle istituzioni finanziarie e dei governi a livello globale. Per questo a fine maggio del 2013 il Vaticano si convinse ad affidare a Promontory l’esame dei conti correnti dello Ior, e successivamente di entrare nel ginepraio dell’Apsa.
Ma nei sacri palazzi società come Promontory alimentavano dubbi e diffidenze. Era come fare entrare in casa un intruso, se non un nemico. Un colosso come quello evocava lo spettro della massoneria internazionale, i gangli più oscuri del potere di Wall Street, dei governi occidentali e delle banche centrali gonfi di pregiudizi verso la Santa Sede. E pazienza se il pregiudizio era, in realtà, reciproco. A sentirsi «occupato» e «infiltrato» da un piccolo esercito di marziani era il Vaticano. Perché Promontory, una società di consulenza con base a Washington, è considerata una sorta di controllore-ombra.
Fondata e diretta dal 2001 da Eugene Ludwig, banchiere e avvocato nato a Brooklyn, New York, e cooptato dal presidente Bill Clinton nel 1993 per dirigere l’Occ, l’organo che controlla l’attività delle maggiori banche Usa, in pochi anni è diventata una potenza (…). Alla base del modo di agire c’è l’esperienza di ex «cani da guardia» della legalità finanziaria, provenienti da organismi governativi al massimo livello. Tra i 450 dipendenti ci sono due ex capi della Sec, la Security and Exchange Commission, equivalente Usa della Consob che vigila sulle attività di Borsa; e due ex top manager della Federal Reserve, la banca centrale americana. Il problema vero, però, è un altro. L’ingresso di una ventina di «segugi» di Promontory, armati di computer, nel torrione di Niccolò V, è stato visto come un cedimento di sovranità della Santa Sede.
«L’autonomia finanziaria di uno Stato è un pezzo della sua sovranità», sostiene sotto garanzia di anonimato un cardinale ben addentro a questi temi. «E la sovranità della Santa Sede è messa a rischio se non si interpreta con prudenza l’esigenza di trasparenza. Dare un potere assoluto di indagine a società come Promontory equivale a consegnare in mano a poteri e potenze straniere documenti sensibili e informazioni sui conti di ogni singolo cardinale…». Ma la struttura vaticana subiva i controlli perché non aveva voluto vedere e prevenire le conseguenze che i cambiamenti avvenuti nella finanza globale avrebbero comunque imposto. Era un difetto di visione strategica, figlio di un’autoreferenzialità e di un’illusione di impunità duri a morire. Eppure, quando a luglio Francesco aveva voluto una «commissione referente» tipo quella sullo Ior, qualche campanello avrebbe dovuto suonare. Si intuiva che i tempi del Papa e quelli della riforma non collimavano…
Il ritmo era di 1000-1500 conti controllati ogni mese. E a fine estate scattò la richiesta di chiusura dei conti di quattro ambasciate politicamente «sensibili»: Indonesia, Iran, Siria e Iraq. Poche settimane dopo arrivarono lettere con le quali 1200 correntisti «laici» si vedevano interrompere ogni rapporto con la banca vaticana (…). Da tempo si ipotizza che possa essere stato depositato anche denaro ricollegabile a organizzazioni criminali (…). In quel caso, sarebbe stato confiscato? E come, visto che la Santa Sede è uno Stato estero? Si intravede una labirintica terra di nessuno legale, che soltanto trattative tra Italia e Vaticano a livello statale, finanziario e giudiziario possono risolvere.
Nel 2013 all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede si svolgevano incontri discreti tra le due sponde del Tevere per capire come uscirne. Con la mediazione dell’ambasciatore Francesco Maria Greco arrivavano messaggi nei quali i vertici di Bankitalia, della Segreteria di Stato vaticana, del governo ipotizzavano soluzioni bilaterali dove convogliare i fondi sospetti, e joint venture giudiziarie per indagare a fondo. Insomma, una collaborazione che di fatto si era fermata per una trentina d’anni, mentre in parallelo continuavano le complicità.
Il pericolo era stato reso tangibile dall’arresto, il 28 giugno del 2013, di monsignor Nunzio Scarano a Roma: un uomo-chiave dell’Apsa, accusato di frode e corruzione con un ex agente segreto italiano e un broker (…). La vera domanda era: quanti monsignori Scarano esistono nelle pieghe delle attività finanziarie vaticane (…)? Si tratta di un grumo di mistero di fronte al quale perfino un pontefice determinato come Francesco sembra obbligato a seguire tempi diversi da quelli che si è imposto.
Massimo Franco
Corriere 10.3.14
Papa Francesco e il marxismo
Come distinguere tra fede e fedeli
risponde Sergio Romano
Nell’intervista del 5 marzo, alla domanda di Ferruccio de Bortoli: «Le sono dispiaciute quelle accuse di marxismo, soprattutto americane, dopo la pubblicazione dell’Evangelii Gaudium?», il Papa risponde (ancorché liquidando l’argomento piuttosto frettolosamente) con un: «Per nulla. Non ho mai condiviso l’ideologia marxista, perché non è vera, ma ho conosciuto tante brave persone che professavano il marxismo». A me è sembrato un riscontro affrettato su di un tema di portata storica. Le chiedo come interpreta lei quell’assunto attribuito all’ideologia marxista ritenuta «non vera»?
Renzo Andreoli
Caro Andreoli,
quando il marxismo esercitava una forte attrazione, i suoi seguaci parlavano volentieri di socialismo scientifico, di materialismo dialettico e di nuove «leggi della storia». Erano profondamente convinti che la filosofia di Marx avesse un solido fondamento razionale e non avrebbero esitato a definirla «vera». Ma nella storia dell’uomo sono vere, in ultima analisi, soltanto le teorie che realizzano i risultati annunciati. Una prima crisi di credibilità investì il marxismo alla fine dell’Ottocento quando un socialista tedesco, Eduard Bernstein, cominciò a formulare qualche dubbio. Constatò che i ceti medi, nonostante le catastrofiche previsioni di Marx, non si stavano proletarizzando e che il capitalismo non aveva i giorni contati. Ne trasse la conclusione che non fosse ragionevole, in quelle circostanze, puntare sullo scontro finale. Anziché aspettare che le masse, esasperate dalla povertà, insorgessero contro i padroni, era preferibile organizzare le loro rappresentanze sindacali, migliorare le loro condizioni di vita, allargare la sfera dei loro diritti sociali e politici. Sembrò che l’ala revisionista del socialismo europeo fosse destinata a trionfare sull’ala massimalista quando la Grande guerra scompigliò le carte e creò le condizioni per la rivoluzione bolscevica e per quelle che scoppiarono in tutti i Paesi sconfitti. Da quel momento, per parecchi decenni, i fedeli ebbero una patria in cui riporre fiducia e speranza. Il marxismo divenne nuovamente «vero».
Ha smesso di esserlo quando fu evidente che il comunismo sovietico non aveva mantenuto le sue promesse e il regime non era riformabile. Il Papa non ha torto, quindi, quando sostiene che l’ideologia marxista non è vera. Qualcuno potrebbe sostenere che anche l’ideologia cristiana non ha realizzato il mondo di carità e di pace annunciato dalla sua Chiesa. Ma la sua grande forza risiede in un’altra promessa, la vita eterna, che non è razionalmente contestabile perché non è pragmaticamente verificabile.
Aggiungo, caro Andreoli, che le parole di papa Francesco sul marxismo non sono interamente nuove. Nell’Enciclica «Pacem in terris», Giovanni XXIII ha scritto che bisogna distinguere gli insegnamenti filosofici dai movimenti politici e sociali che ne derivano. Mentre gli insegnamenti rimangono immutati, i movimenti sono condizionati dalle vicende storiche e possono subire cambiamenti di natura profonda. In altre parole: il marxismo è sbagliato, ma i suoi seguaci possono essere rispettabili e stimabili.
l’Unità 10.3.14
Lista Tsipras già in crisi, nuovi abbandoni e polemiche
di Natalia Lombardo
Ancora tormentata la composizione della lista Tsipras in Italia, che ha perso due candidati: Antonia Battaglia, militante di punta dell’associazione Peacelink di Taranto, molto impegnata nella lotta sull’Ilva. Già era avvenuta l’uscita controversa di Valeria Grasso, l’imprenditrice che si è battuta contro il racket, testimone di giustizia, e che è stata vissuta come un corpo estraneo nella lista della sinistra europea, perché ha partecipato a delle iniziative con i Fratelli d’Italia, quindi con la destra.
A giorni saranno presentati i nomi della lista italiana per le europee «L’Altra europa con Tsipras», il leader di Syriza che si candida per la sinistra come candidato alla presidenza della Commissione Europea. Stefano Rodotà dopo aver espresso le sue perplessità ha dichiarato comunque che voterà la lista Tsipras. Ma, dopo il ritiro di alcuni nomi di peso come Andrea Camilleri e il dibattito (pubblicato anche su l’Unità) sulla scelta di alcuni personaggi di spicco, come Moni Ovadia e Barbara Spinelli, di candidarsi e poi lasciare il seggio a chi viene eletto dopo di lui, magari meno noto, ora lo sprint della lista nata all’insegna del cambiamento, rischia di incepparsi su polemiche particolari.
Valeria Grasso ha scritto una lettera amareggiata «ai garanti, ai candidati, ai siciliani e ai sardi» per dare la sua spiegazione su quanto è accaduto, ovvero la sua esclusione dalla lista nel collegio Isole. L’imprenditrice anti-racket racconta di aver accettato la candidatura nel movimento (che esclude chi ha ricoperto cariche elettive europee, nazionali e regionali) racconta di aver «accettato la candidatura nella lista Tsipras perché credo che le politiche europee dell’austerità abbiano rafforzato le mafie e la loro capacità di sostituirsi ad uno Stato senza più liquidità economica, liquidità che certo non manca alle organizzazioni criminali». Valeria Grasso è testimone di giustizia, ora lamenta che «da troppi anni la lotta alla mafia non è più una priorità». In questo senso rivendica l’aver accettato l’invito all’iniziativa «Rifare l’Italia» promossa dai Fratelli d’Italia, di Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto, e la frase incriminata, «sono orgogliosa di questo progetto» confidando in una «nuova antimafia di destra», Grasso la spiega così: «Di certo non mi riferivo al partito Fratelli d’Italia, ma al “progetto legalità”» che avrebbe accolto alcune sue proposte. Ma questo fatto è diventato incompatibile con altri candidati e Barbara Spinelli, promotrice della lista in Italia, le ha chiesto un passo indietro comunicandoglielo direttamente, al contrario di quanto sostiene l’imprenditrice. «Mi chiedono di ripensarci», conclude Grasso, e sembra di capire che sarebbe anche disponibile a farlo, ma vuole sapere «se posso contare su di voi», conclude la lettera ai garanti.
L’altro caso è scoppiato nella circoscrizione Sud, dove Antonia Battaglia si tira fuori perché nella lista ci sono persone riconducibili a Sel. Il nodo sono le posizioni sull’Ilva di Taranto. Una «conditio sin qua non» per la corsa alle europee dell’attivista di PeaceLink era che non vi fossero esponenti di partito e soprattutto non quelli di Sel, con i quali è in totale contrasto riguardo alle posizioni sull’Ilva di Taranto.
Insomma, Antonia Battaglia si ritiene incompatibile con Dino Di Palma, ex presidente della provincia di Napoli, e Gaetano Cataldo, coordinatore regionale di Sel in Puglia, entrambi candidati come lei nel collegio Sud.
Certo la presenza di Sel nella lista italiana che sostiene il trentanovenne greco Aléxis Tsipras è visibile e lo stesso Nichi Vendola ha dato un imprinting all’«Altra Europa». Comunque i tempi stringono per la raccolta di firme per presentare la lista stessa, che nei sondaggi è data piuttosto bene.
Corriere 10.3.14
Nencini a Vendola: serve unità, lascia Tsipras
di Mariolina Iossa
ROMA — «Vendola, ripensaci. Siamo ancora in tempo per dare unità elettorale alla sinistra riformista». L’appello al segretario di Sel Nichi Vendola, perché lasci Tsipras, rinunci ai suoi candidati in quella lista e aderisca alla lista Pd-Psi che appoggia Schulz, arriva dal segretario del partito socialista e vice ministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini. Nencini si appella a Vendola nello stesso giorno in cui si registra una nuova defezione tra i candidati pro- Tsipras: lascia infatti l’attivista di Taranto Antonia Battaglia. «Il risultato delle prossime elezioni europee è troppo importante — spiega Nencini — la posta in gioco è altissima: per i due candidati più rappresentativi, Schulz per il Pse e Junker per il Ppe, si prospetta un risultato al fotofinish». Nencini è convinto che «far vincere Schulz significa avere l’opportunità per la sinistra riformista italiana di fare pressioni per spostare il baricentro verso una nuova politica europea, in grado di armonizzare bilanci e politiche fiscali, di creare nuove regole che imbriglino la finanza e restituiscano alla politica il ruolo di protagonista, di proporre una nuova politica estera comune». La sinistra in Europa, continua il vice ministro socialista, deve potersi giocare la sua partita come alternativa concreta «all’atteggiamento populista di destra che è quello della Lega e di Beppe Grillo, cui si aggiungono Fratelli d’Italia, che sono su posizioni neofasciste di uscita dall’euro, e l’atteggiamento germanocentrico. Crescono infatti — conclude il vice ministro — i partiti che aderiscono al Ppe e, può piacere o no, il Ppe è nelle mani non della Germania ma della Merkel». Per Nencini se il centrosinistra italiano restasse unito, se si presentasse insieme, come del resto farà alle Amministrative, sarebbe la prima forza della sinistra in Europa e questo potrebbe determinare la vittoria di Schulz.
l’Unità 10.3.14
Il marito la lascia uccide le tre figlie: «Ero disperata»
di Felice Diotallevi
Avevano 13, 11 e 4 anni. Le più piccole le ha colpite nel sonno, la terza ha lottato disperatamente. I loro corpi insanguinati sono stati trovati, l’una accanto all’altra. In un’altra stanza, ferita, la madre Edlira Dobrushi, 37enne di origine albanese: ha tentato il suicidio. Due sono morte nel sonno, la più grande ha cercato di difendersi ma inutilmente dalle coltellate. È la tragica fine di Simona, Keisi e Sidnei, 13, 11 e 4 anni uccise dalla madre all’alba, durante un raptus, uno stato di depressione delirante che ha portato Edlira Dobrushi, una trentasettenne di origine albanese, ad assassinare le sue figlie e cercare - senza riuscirci - di togliersi la vita. La tragedia è accaduta sabato notte, a Lecco, in un piccolo appartamento del rione Chiuso alla periferia Sud della città, dove la donna era rimasta a vivere con le bambine dopo la separazione dal marito Bashkim Dobrushi. Ecco, la separazione. I carabinieri e il magistrato ci tengono a precisare che la donna è completamente fuori di sé e non è in grado di spiegare perché ha ucciso. Mauna rapida ricognizione delle testimonianze raccolte tra parenti e vicini fanno ritenere altamente probabile che sia proprio la recente separazione dal marito la causa che l’ha fatta impazzire fino a giungere a un gesto così estremo. L’uomo è stato raggiunto in Albania dove era da appena due settimane e dove gli è stata comunicata la notizia.
Il raptus è scattato all’alba, alle 6,30, poche ore dopo la partenza del marito per l’Albania. Ma non è stato possibile chiarire di più, solo che la coppia era separata già da qualche mese, che l’uomo viveva a casa del fratello e aveva una relazione con un’altra donna. Edlira mal sopportava la situazione. E i compagni di scuola di Simona, la più grande delle bambine, hanno raccontato ai carabinieri che questa tensione familiare era trapelata anche a scuola. «Simona era bravissima - raccontano - prendeva sempre otto. Ma negli ultimi tempi si chiudeva in bagno a piangere».
Cosa è successo. La dinamica esatta è ancora da chiarire, ma verosimilmente Edlira si è alzata di notte ed è entrata in una delle stanze dove dormivano le figlie più piccole. Una prima ricognizione della scena del delitto dice che le bambine sono state uccise in stanze diverse e che poi la madre ha ricomposto i corpi adagiandole su un unico letto. Dunque Edlira è entrata nella stanza dove Keisi e Sidnei dormivano e l’ha uccise con un coltello da cucina. Dovrebbero essere morte nel sonno. Poi la donna ha chiuso la porta ed è entrata nella stanza dove dormiva Simona, in mano aveva un altro coltello. La ragazzina si è svegliata, ha visto la madre armata e ha cercato di difendersi senza però riuscire a salvarsi. A questo punto Edlira ha riunito tutte le sue figlie in una stanza e ha cercato di uccidersi tagliandosi le vene. Ma invano. Coperta di sangue, con diversi tagli sui polsi, sulle braccia e sul collo e oramai completamente fuori di sè, è uscita sul pianerottolo e ha suonato il campanello della vicina: «Le mie figlie non ci sono più. Sono stata io». Ed è rimasta sul pianerottolo, delirando, fino a quando non sono arrivati gli uomini del 118 che a loro volta hanno chiamato i carabinieri.
Edlira è stata portata in caserma e interrogata per diverse ore. Gli investigatori raccontano che non è stato facile, ma alla fine, in un momento di lucidità, la donna ha confessato. È stata poi portata in ospedale, al Manzoni di Lecco, dove è tutt’ora ricoverata e piantonata.
Una tragedia difficile da accettare, eppure nessuno può dire adesso che ci fossero stati degli avvisi. Anche se guardando la sua pagina Facebook una frase postata dalla donna lo scorso 25 febbraio lascia di sale. «Ricordati sempre che non è il coltello in sé che ferisce, ma la mano che lo impugna ». Per il resto solo foto delle figlie e nessun accenno alla recente separazione. «Si è trattato di logiche familiari saltate - ha dichiarato il sindaco di Lecco Virginio Brivio - . Quando mi hanno comunicato l’accaduto ho provato un senso di disorientamento totale. Mi sono sentito chiamato in causa. Nelle attività di sostegno delle famiglie che ci vede già impegnati abbiamo il dovere di fare sempre e comunque di più». «Casi come quello della donna di Lecco - ha spiegato invece lo psichiatra Roberto Brugnoli - sono dovuti a depressioni gravissime. Poi arriva una causa scatenante... e si pensa che quello delle persone care sarà un futuro di dolore e sofferenza. E nella visione distorta di queste persone, l’omicidio è quasi un atto d’amore».
Repubblica 10.3.14
L’infelicità che acceca
di Mariapia Veladiano
ERO sola. Non potevano vivere in questa disperazione».
Le parole per dirlo le ha trovate lei e forse raccontano tutta la verità possibile su questo dramma che non si può quasi pensare.
UNA mamma ha ucciso tre figlie, non ha ucciso un neonato che ha appena preso forma nella realtà esterna a sé e può ancora rappresentare l’informe delle paure di una mamma giovane, abbandonata o depressa. Questa volta si tratta di tre bambine, una è quasi una ragazza, tre persone, con un carattere ben preciso, piene di pensieri e progetti e anche capricci le due più piccole, ma ormai limpidamente persone. Amano la mamma, e anche lei le ama. Lo raccontano le sue cure, i vicini, addirittura i social network che continuano a riportare le sue belle parole di mamma innamorata delle figlie e le sagge mature parole della figlia più grande. Questo rimane, bisogna impedire che il male annienti il bene che c’è stato.
Poi le ha uccise, una a una, e per farlo tre volte ci vuole un mare di quella disperazione di cui lei parla. Anzi ancora di più per uccidere con un coltello, perché non c’è la distanza dell’arma da fuoco, o del farmaco, che permette di non vedere gli occhi di una bambina, due, tre, che muoiono. Bisogna vincere una quantità di inibizioni e tabù. Bisogna non vedere proprio per niente quella promessa di felicità, anche per se stessi, che è un figlio. Non poterla vedere e vedere invece qualcosa d’altro: la madre inadeguata che ci si sente, resa orrenda ai propri occhi dall’oltraggio di un abbandono o di una propria incapacità percepita come assoluta. Questo sì lo si può voler uccidere.
Con gesti che annientano anni di cure, giorni di coccole e di orgoglio di genitore, notti passate a vegliare febbri e pianti, pomeriggi trascorsi a preparare cibo e vestiti, a comprare quaderni e scarpette, perché tutto si tenga insieme, tutto deve tenersi insieme.
Giusto per parlare e rassicurarci possiamo addormentarci di luoghi comuni: vendetta per un abbandono, lo si è detto anche qualche giorno fa quando un’altra mamma ha ucciso il proprio bambino dopo essere stata lasciata dal marito, oppure si può parlare di follia, perché sta fuori di noi e mai ci toccherà grazie al cielo, e se ci toccherà non saremo in noi. Ma capita che le mamme uccidano, e anche i papà lo fanno, e ieri ci hanno raccontato che mamme e figli possono uccidere i papà.
Nel modo assolutamente confuso e distorto in cui solo la disperazione può farci sentire, questa mamma ha potuto percepire, certo non pensare, che con quel gesto avrebbe sottratto le figlie alla disperazione presente e futura. Almeno loro non avrebbero vissuto quella infelicità che la possedeva tutta e nemmeno avrebbero vissuto il suo abbandono. Non sarebbero state donne sole e disperate, un giorno. È qualcosa che possiamo capire perché tutti conosciamo la paura.
Poi c’è la violenza, che la nostra società accetta come se fosse scritta sulle sacre tavole della modernità, ma non si può leggere e vedere e respirare violenza verbale, fisica, rappresentata, immaginata e pensare che questo non abbia conseguenze sui nostri comportamenti. Si può pensare che la violenza sia un modo normale per risolvere i problemi. E anche questo ci riguarda.
E poi c’è la solitudine. «Ero sola» ha detto questa mamma. Vive in città, da anni, con tre bambine, con le mamme di scuola e del parco giochi, con i vicini del condominio, con gli abitanti del quartiere. Anche la costruzione di queste nostre solitudini ci riguarda eccome. “Quando accade il male - come ha scritto E.M. Foster - esso esprime l’intero universo”.
La Stampa 10.3.14
Gli psichiatri: “Non è depressione”
“Non parliamo di depressione ma di relazioni affettive caotiche”
“Importante capire il rapporto tra marito e moglie”
di Stefano Rizzato
È il tipo di episodi che mai si vorrebbe sentire o raccontare. E invece è successo due volte in pochi giorni e nel giro di pochi chilometri. Ieri, l’orrore ha visitato Lecco e si è portato via tre bambine, per mano della loro madre.
Il 12 febbraio era accaduto a Giussano (Monza), a trenta chilometri di distanza. Un padre aveva spezzato le vite di una bambina di otto anni e quella di un maschietto di due. In entrambi i casi, s’è aggiunto il tentato suicidio dell’assassino. In questi casi, e per molti simili, s’è cercato di spiegare, s’è parlato di separazioni dolorose e di povertà, di disagio e depressione. Tentativi di dare un nome all’indicibile, una risposta allo sgomento.
«Ma bisogna essere cauti e capire che in questi scenari operano tanti fattori diversi». Lo spiega Filippo Bogetto, docente di psichiatria all’Università di Torino. «Omicidio e suicidio - continua - sono i due atti più totali e angosciosi. Spiegarli dicendo di chi li compie “era depresso” è quasi un insulto a chi soffre di questo male. Certo, c’è un profondo cammino di dolore, una visione cupa e angosciosa del proprio passato, presente e futuro».
Quando i delitti si consumano in famiglia e le vittime sono i figli, l’aspetto delle relazioni non può che essere messo in primo piano tra tutte le possibili cause della ferocia. «L’omicidio-suicidio è a sé stante e impone di guardare alle spinte passionali», dice Maurizio Pompili, professore di psichiatria all’Università La Sapienza di Roma. «Quando si arriva ad uccidere i figli, a privarsi del bene più caro che si ha, significa che ci sono motivi più forti di tutto, che vanno ricercati nella sfera affettiva. Per questo nel caso di Lecco sarà decisivo ricostruire la relazione con il padre delle bambine».
Guai anche in questo caso, però, generalizzare o voler trovare una sola spiegazione. «È chiaro – aggiunge Pompili – che chi arriva ad atti del genere lo fa in uno stato psicotico grave, di dissociazione dalla realtà e dal senso comune, quasi sempre senza consapevolezza di quello che sta compiendo. Insomma, c’è una componente psichiatrica vera e propria di cui tenere conto e può far riferimento a disturbi diversi. È su questa che agisce il substrato di sofferenza a livello sociale, di relazioni e di integrazione».
A rendere impossibile ogni statistica o analisi scientifica, c’è che per fortuna gli infanticidi commessi in famiglia sono rari. Così, a 12 anni da Cogne e dall’uccisione di Samuele Lorenzi – era il 30 gennaio 2002 e nel maggio 2008 la Corte di Cassazione ha confermato la colpevolezza di Annamaria Franzoni, la madre – gli episodi di questo genere restano inspiegabili.
«Trovare un filo conduttore per numeri così bassi è impossibile», conferma Massimo Picozzi, criminologo e psichiatra. «Ci sono comunque una serie di tipologie di figlicidio che si possono prendere in considerazione. C’è quello altruistico, che parte dalla convinzione della rovina imminente e inevitabile per tutta la famiglia. Ma ci sono anche casi dove non c’è una motivazione razionale: i figlicidi legati a una psicosi acuta, come la schizofrenia. E ci sono i delitti motivati da vendetta nei confronti del compagno o della compagna: il bambino viene ucciso come rivalsa a un torto subito e, di nuovo, lo sfondo sono relazioni affettive caotiche».
La Stampa 10.3.14
Le vite deboli dei genitori
di Elena Loewenthal
Quale cieco impulso di ferocia potrà mai spingere una madre a prendere un coltello in mano e sgozzare le sue tre figlie, una dopo l’altra?
Provare a spiegarsi un delitto come questo e come purtroppo non pochi altri consumatisi nell’ultimo scorcio di tempo significa inoltrarsi su un terreno terribilmente minato dove ogni bussola razionale o emotiva non può che impazzire. Ma purtroppo i casi di genitori assassini dei propri figli – tanto padri quanto madri, in una pari opportunità della violenza – sono ormai una costante di cronaca con la quale non possiamo fare a meno di fare i conti, provare non certo a capire ma quanto meno a interpretare. Quasi sempre a innescare il gesto (quanto è improprio tale frasario: per uccidere un bambino ce ne vogliono tanti, di gesti. Ci vuole una determinazione, per quanto folle) è il conflitto con il partner. L’abbandono. Una separazione tormentata. Quella che in termini molto eufemistici si definisce «incompatibilità di coppia». Di cui fanno le insanguinate spese i figli bambini.
Eppure, in questo tremendo copione che ultimamente si ripete con una frequenza niente affatto insignificante, è difficile ravvisare il movente più «logico», per quanto distorto. Medea, la protagonista della cupa tragedia euripidea, uccide i figli per vendetta contro Giasone che l’ha abbandonata. Per castigare lui, toglie la vita a coloro a cui l’ha data. Ma la madre di Lecco e il padre di Giussano, giusto per citare gli ultimi casi, non sembrano aver agito fondamentalmente per ritorsione nei confronti del coniuge che li ha abbandonati. C’è qualcosa di ancor più tragico e insensato nella determinazione a rincorrere delle bambine per casa e finirle con un coltello. C’è l’incapacità di accettare la realtà e c’è soprattutto la resa alla propria inettitudine di fronte alle scelte subite e a quelle da prendere nel futuro. Armati di tale inettitudine che tutto decreta, questi genitori disperati si accaniscono sulle sole esistenze che riconoscono come più deboli delle loro: i figli.
L’incapacità di vivere produce dunque una morte violenta e dissennata, che in fondo è anche il frutto assurdo dell’incapacità di vedere e affrontare le conseguenze che ogni gesto della vita porta con sé, dal più innocuo al più drastico. Se una volta mandare a catafascio una famiglia era qualcosa di fatale e per lo più inammissibile, oggi è diventata una questione di libera scelta. Si tratta indubbiamente di un gran passo di civiltà e di rispetto dell’individuo, donna o uomo che sia. Ma la possibilità di fare questa scelta e abbandonare il proprio tetto e chi ci dorme sotto non dovrebbe mai prescindere dalla consapevolezza che ogni scelta comporta delle conseguenze ed esige un minimo di lungimiranza. Sia da parte di chi prende la decisione, sia da parte di chi la subisce suo malgrado. In questo impulso che trasforma una madre in mostro assassino c’è una abissale assenza del principio di responsabilità, che dovrebbe essere il motore della genitorialità, insieme all’amore. Invece, nessuna delle parti in causa in queste storie sembra in grado di vedere al di là del momento, della decisione immediata - che si tratti di andarsene di casa o di inforcare il coltello per ammazzare i bambini. Tutto avviene in un presente accelerato e ingovernabile, che innesca a sua volta un iter di violenza inarrestabile, in un domino in cui a cadere è immancabilmente l’ultima tessera, la più fragile e inerme.
Corriere 10.3.14
Imparare ad Ascoltare per difendersi dalla sindrome di Medea
di Silvia Vegetti Finzi
Di fronte a fatti così atroci si resta ammutoliti perché sembrano smentire le sicurezze più convalidate della nostra vita: la naturale salvaguardia dei bambini, l’amore materno, i buoni sentimenti della famiglia. Visto che è impossibile comprendere quali baratri si celino dietro la coscienza, molti preferiscono passare oltre rifugiandosi nell’indifferenza emotiva. Ma la maggior parte delle persone avverte un profondo senso di compassione (proprio nel senso etimologico di «patire insieme») per le vittime di una violenza inaudita che, in questo caso, ha ucciso tre bambine e distrutto una famiglia. Definiti «normali» dai vicini di casa, i protagonisti di questa tragica vicenda mostrano la difficoltà, particolarmente in casi così complessi, di cogliere e decifrare i segnali di malessere che preannunciano ogni gesto estremo. Eppure la nostra cultura contiene, in proposito, numerosi avvertimenti. I Greci, come illustra il teatro tragico, consideravano la famiglia il luogo della tragedia e i miti ne svelavano le componenti passionali. Tra questi, il mito di Medea, maga, straniera e regina, mostra di quanta violenza possa essere capace una donna tradita e abbandonata. Nella versione di Euripide, Medea uccide i due figli per vendicarsi del marito ma, invece di essere condannata a morte, viene trasportata in cielo dai cavalli alati del Sole. Questa fantasia collettiva denuncia il pericolo insito nella distruzione del patto coniugale, la centralità dei figli nei conflitti di coppia e il rischio che l’amore materno si rovesci nel suo contrario, in pulsione violenta. Una inversione dalla vita alla morte che la donna, da sola, non riesce a contrastare e che richiede pertanto di affinare la sensibilità e mobilitare la responsabilità di coloro che le stanno accanto.
Repubblica 10.3.14
Il coraggio di un professore
di Antonio Gnoli
Poteva essere solo un tranquillo professore di filosofia greca, in un regio liceo della capitale. Un promettente studioso. Allievo di Giovanni Gentile. E poi di Guido Calogero. Gli toccò in sorte un’altra vita. Impegnata e rischiosa. Quando pensò che il fascismo fosse il peggiore dei mali, decise di combatterlo. Divenne uno dei capi della resistenza romana. Fu catturato. Morì settant’anni fa nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Si chiamava Pilo Albertelli. Il liceo, che ha preso il suo nome, l’ha ricordato la scorsa settimana. E l’editore Mimesis ha pubblicato due libri che dedicò all’eleatismo e a Platone. Se fosse sopravvissuto, avrebbe ripreso a insegnare, tormentando gli occhiali davanti a un frammento di Parmenide. I suoi studi, dedicati al mondo antico, non gli impedirono di provare indignazione per il contemporaneo. E di cercare la libertà che i moderni avevano smarrito. Per essa lottò e si sacrificò. Con coraggio. Consapevole che il coraggio fosse una virtù misteriosa. Che non tutti possedevano. E si sorprese, di vederla crescere in lui, in quei giorni in cui la banda Koch lo torturò orrendamente. Non fece nomi. Strizzò gli occhi miopi. E rivide la sua Grecia. Simbolo dell’Europa migliore.
La Stampa 10.3.14
“Burocrazia, caste e camorra: perché Pompei si sgretola”
L’ex sottosegretario alla Cultura: così i francesi fuggirono
intervista di Mattia Feltri
Senatore Riccardo Villari, lei era sottosegretario alla Cultura quando Epadesa offrì 200 milioni di euro per Pompei: che successe?
«In realtà arrivai a questione già cominciata. Se ne parlava molto ma non c’erano documenti ufficiali. Allora convocai tutti gli interessati per fare il punto della situazione. Vennero i francesi di Epadesa con l’Unesco, la sovrintendenza di Pompei, il sindaco, la camera di commercio di Napoli, l’Unione industriali...».
Viene già il mal ti testa.
«Un momento: c’erano la presidenza della Campania, i dirigenti del ministero, una quantità di persone. Volevo capirne di più, e capii solamente che c’erano resistenze incredibili».
Che resistenze?
«Devo fare un premessa: a Pompei manca tutto tranne il denaro, ma non è mai speso bene né chiaramente. Del consorzio Epadesa attraevano non soltanto i 200 milioni, che è una gran cifra, ma le competenze delle loro aziende. Ma non c’era la volontà di farli entrare».
Perché?
«Perché Epadesa, mettendo a disposizione tutto quel denaro, voleva capire che succedeva dentro e fuori dagli scavi. Soprattutto fuori».
La malavita.
«Racconto un episodio. Una mattina vengo informato casualmente che c’è stato un piccolo crollo. Siccome ero a Napoli vado a Pompei e lì assisto a una scena incredibile: il procuratore di Torre Annunziata, Diego Marmo, stavo rimproverando con un certa veemenza il direttore degli scavi perché regolarmente, a ogni crollo, la procura veniva avvisata per ultima, anche all’indomani. Eppure dentro agli scavi c’è un presidio dei carabinieri».
E perché succedeva?
«Perché si doveva modificare, diciamo così, la scena del delitto».
Dice che i crolli erano colposi?
«Non ne ho gli elementi, ma il sospetto viene, no? Penso lo avesse anche il procuratore Marmo: certe volte le ditte arrivavano prima dei magistrati».
Attorno agli scavi c’è la camorra e questo fece scappare i francesi.
«Di certo i francesi furono terrorizzati dalla nostra paralizzante burocrazia e dalle guerre di casta dentro al ministero. Quanto alla camorra voglio dire che gli scavi sono in una zona ad alta densità malavitosa e non penso che, arrivata a Pompei, la malavita si fermi sui marciapiedi. Lì le famiglie camorriste ci sono e sono attive».
Infatti i francesi volevano coordinare le gare d’appalto, impedire i subappalti e presidi della polizia sui cantieri.
«E li capisco. Il problema è che gli interventi su Pompei sono disciplinati dal Consiglio superiore dei beni culturali, allora presieduto da Andrea Carandini, mentre il segretario generale Cecchi rivendicava alle sovrintendenze...».
Si fermi, senatore. Davanti a un garbuglio così fuggirebbe chiunque.
«Chiaramente! Non è soltanto la camorra come tutti la intendiamo, ma anche la camorra di un sistema vischioso, chiuso, corrotto, in cui girano molti denari, posizioni di potere, un sistema che si nutre di Pompei e tenuto insieme dalla tacita intesa per cui dentro non ci deve entrare nessuno».
Una follia.
«Esatto, e tutto, ripeto, parte da un ministero castale come quello della Cultura».
Senatore Riccardo Villari, lei era sottosegretario alla Cultura quando Epadesa offrì 200 milioni di euro per Pompei: che successe?
«In realtà arrivai a questione già cominciata. Se ne parlava molto ma non c’erano documenti ufficiali. Allora convocai tutti gli interessati per fare il punto della situazione. Vennero i francesi di Epadesa con l’Unesco, la sovrintendenza di Pompei, il sindaco, la camera di commercio di Napoli, l’Unione industriali...».
Viene già il mal ti testa.
«Un momento: c’erano la presidenza della Campania, i dirigenti del ministero, una quantità di persone. Volevo capirne di più, e capii solamente che c’erano resistenze incredibili».
Che resistenze?
«Devo fare un premessa: a Pompei manca tutto tranne il denaro, ma non è mai speso bene né chiaramente. Del consorzio Epadesa attraevano non soltanto i 200 milioni, che è una gran cifra, ma le competenze delle loro aziende. Ma non c’era la volontà di farli entrare».
Perché?
«Perché Epadesa, mettendo a disposizione tutto quel denaro, voleva capire che succedeva dentro e fuori dagli scavi. Soprattutto fuori».
La malavita.
«Racconto un episodio. Una mattina vengo informato casualmente che c’è stato un piccolo crollo. Siccome ero a Napoli vado a Pompei e lì assisto a una scena incredibile: il procuratore di Torre Annunziata, Diego Marmo, stavo rimproverando con un certa veemenza il direttore degli scavi perché regolarmente, a ogni crollo, la procura veniva avvisata per ultima, anche all’indomani. Eppure dentro agli scavi c’è un presidio dei carabinieri».
E perché succedeva?
«Perché si doveva modificare, diciamo così, la scena del delitto».
Dice che i crolli erano colposi?
«Non ne ho gli elementi, ma il sospetto viene, no? Penso lo avesse anche il procuratore Marmo: certe volte le ditte arrivavano prima dei magistrati».
Attorno agli scavi c’è la camorra e questo fece scappare i francesi.
«Di certo i francesi furono terrorizzati dalla nostra paralizzante burocrazia e dalle guerre di casta dentro al ministero. Quanto alla camorra voglio dire che gli scavi sono in una zona ad alta densità malavitosa e non penso che, arrivata a Pompei, la malavita si fermi sui marciapiedi. Lì le famiglie camorriste ci sono e sono attive».
Infatti i francesi volevano coordinare le gare d’appalto, impedire i subappalti e presidi della polizia sui cantieri.
«E li capisco. Il problema è che gli interventi su Pompei sono disciplinati dal Consiglio superiore dei beni culturali, allora presieduto da Andrea Carandini, mentre il segretario generale Cecchi rivendicava alle sovrintendenze...».
Si fermi, senatore. Davanti a un garbuglio così fuggirebbe chiunque.
«Chiaramente! Non è soltanto la camorra come tutti la intendiamo, ma anche la camorra di un sistema vischioso, chiuso, corrotto, in cui girano molti denari, posizioni di potere, un sistema che si nutre di Pompei e tenuto insieme dalla tacita intesa per cui dentro non ci deve entrare nessuno».
Una follia.
«Esatto, e tutto, ripeto, parte da un ministero castale come quello della Cultura».
l’Unità 10.3.14
Il grande imbroglio della spesa farmaceutica
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
In merito alla vicenda Roche-Novartis la condotta loro addebitata non è un mal comune? Leggo in «Le cellule della speranza», sul caso Stamina, di un’alleanza tra aziende del mercato nero e di quello ufficiale utile solo ad allentare le regole di vigilanza sui farmaci. Con metodi di criminalità organizzata? VINCENZO CASSIBBA
Il rapporto fra consumo dei farmaci e livelli di salute della popolazione non è un rapporto lineare perché troppi sono i farmaci inutili e molti quelli che, se usati male, diventano dannosi. Anche per quelli utili, d’altra parte, assai incerto è il rapporto fra il costo reale e quello possibile se venissero pagati per quello che costano. Come ben dimostrato, mi pare, dall’episodio Novartis e Roche, i due colossi farmaceutici che hanno nascosto al Servizio Sanitario Nazionale che il principio attivo di Lucentis (che costa circa 900euro è contenuto, in dosi analoghe, da Avastin (che costa dai 15 agli 80 euro). La terapia della maculopatia senile, un disturbo piuttosto frequente e che può portare alla cecità è costata venti volte di più di quello che sarebbe costata se fra le due ditte non fosse intervenuto un accordo illegale. Di cui si sapeva già tutto nel 2010 quando Garattini ne parlò in un articolo pubblicato sul British Medical Journal. Come e perché nessuno sia intervenuto prima lo spiegherà, forse, il ministro Lorenzin. Al di là dei dettagli che verranno forniti per giustificare questa follia, però, una cosa mi sembra certa. Che nessuno pagherà per gli omessi controlli perché proprio sulla spesa farmaceutica è il sistema attuale di controllo ad essere carente. Per l’invadenza dell’industria e per la debolezza dell’amministrazione. Inammissibili ambedue. Sempre e soprattutto adesso. In tempi di crisi e di tagli alla sanità.
il Fatto 10.3.14
La politica schiacciata
Bruxelles assediata da 15mila lobbisti
di Andrea Valdambrini
Forse non ci sono grandi industrie a Bruxelles, ma tra quelle che ci sono, le lobby sono sicuramente le più importanti”. Con questa battuta il giornalista Gareth Harding descrive per il Washington Times - quotidiano di una città che di gruppi di interesse che condizionano la politica se ne intende – la pervasività a Bruxelles di uno dei fenomeni più complessi e sfuggenti di tutto il funzionamento dell’Unione europea: le lobby. Secondo Corporate Europe Observatory – una ong che a Bruxelles lavora per contrastare le pressioni delle corporation – il numero dei lobbisti presenti nella capitale europea si può stimare tra i 15 e i 30.000. Un vero e proprio esercito in giacca e cravatta, ben organizzato e cresciuto a dismisura negli anni. In origine, la farraginosità del processo decisionale europeo ha certamente permesso l’intervento di soggetti non istituzionali che fanno capo soprattutto agli interessi della grande industria. In seguito l’espansione delle lobby è stata favorita dal progressivo aumento delle competenze e dei poteri dell’Unione, che all’inizio si occupava quasi esclusivamente di politiche energetiche, agricoltura o poco più, mentre oggi esprime un potere ben più ampio: circa l’80% della legislazione dei 28 Paesi dell’Unione prende corpo a Bruxelles. Tutti questi elementi rendono oggi la piccola città belga uno dei più grandi catalizzatori di potere lobbistico di tutto il mondo. In sostanza, il secondo polo al mondo per presenza di gruppi di interesse subito dopo Washington DC.
Basterebbe guardare una mappa, o fare una passeggiata nel cosiddetto quartiere europeo di Bruxelles. Tutti i palazzi del potere si raccolgono meno di quattro striminziti chilometri quadrati. Il Berleymont, sede della Commissione ovvero del governo che per primo scrive le leggi, è di fronte al palazzo del Consiglio, dove invece i rappresentanti degli Stati membri dell’Unione dicono l’ultima parola. A poche centinaia di metri ecco l’unico organo elettivo che approva regolamenti e direttive provenienti dalla Commissione, il Parlamento. Tutto intorno ai tre edifici chiave, in uno spazio ad altissima concentrazione, gli uffici dove hanno sede i rappresentanti della grande industrie e, in proporzione decisamente minore, anche i gruppi di pressione della società civile, le ong, le associazioni per i diritti dei cittadini. Sempre il Corpo-rate European Observatory si è divertito a fare la sua guida turistica al quartiere europeo di Bruxelles, sarcasticamente targata “Lobby Planet” (sul modello della celebre collana di guide Lonely Planet). Perché in quel fazzoletto di terra brussellese si trova veramente di tutto: lobby del farmaco, alimentari, chimiche della metallurgia, dell’automobile, della comunicazione. Nessun settore industriale europeo, nessuna multinazionale sembra perdere l’occasione per marcare fisicamente la propria presenza in un territorio che decide della vita di mezzo miliardo di cittadini e consumatori europei. In origine lobby non è nemmeno una brutta parola. In inglese il verbo lobbying esprime semplicemente l’atto di esercitare pressioni sui decisori al fine di influenzare a proprio vantaggio il processo di decisione politica. Quindi dipende tutto da chi e perché vuole orientare o modificare un provvedimento di legge. Ma soprattutto rappresentando quali interessi.
“Tutti pensano che i legislatori siano le istituzioni. Ma c’è anche un altro mondo dietro di esse, che consiste in come influenzarle per scrivere una legge, per dare una buona idea, per proporre emendamenti”. In questo consiste il lavoro del lobbista secondo Pascal Kerneis, managing director dello European Services Forum. Il forum è una lobby che rappresenta l’industria dei servizi assicurativi e finanziari in Europa. I suoi associati sono, solo per citarne alcuni, le assicurazioni Lloyds, Deutsche Bank, Royal Bank of Scotland, Goldman Sachs e le banche europee (con a loro volta circa 5000 gruppi di banchieri in ogni nazione, tra cui l’Italiana Abi), senza dimenticare giganti della telefonia come British, Deutsche e France Telecom. Il giro d’affari delle società rappresentate dall’European Service Forum supera i 25 miliardi di euro. É proprio Pascal il loro uomo a Bruxelles, il punto di contatto con la politica. Ed è al tempo stesso il Caronte che guida lo spettatore alla scoperta del labirinto del decision making europeo nel documentario The Brussels Business, realizzato nel 2012 dal belga Mathieu Lietaert con il filmaker austriaco Fridrich Moser. Il documentario sottolinea il ruolo giocato dalla grande industria nel processo di costruzione dell’Europa dagli anni ’60 in poi. I rappresentanti delle istituzioni, emerge dall’inchiesta di Lietaert, non hanno fatto che assecondare il European Round Table of Industrialists – una sorta di lobby delle lobby di cui fanno oggi parte, solo per limitarsi all’Italia, Carlo Debenedetti per Cir, John Elkann per Fiat, Paolo Scaroni per Eni, Franco Bernabé per Telecom e Vittorio Colao per Vodafone. Una micidiale concentrazione di potere che non sembra agire propriamente alla luce del sole.
“A Bruxelles ci sono circa 2500 organizzazioni, l’80% delle quali è costituito da gruppi di interesse industriali. Il vero problema è che nessuna legge li obbliga a dire cosa fanno con il mare di soldi che usano per influenzare i legislatori, e neppure che ci sono”, spiega al Fatto Quotidiano Mathieu Lietaert di The Brussels Business. Eppure Apple o Monsanto, Goldman Sachs o Google sono ben istallati a Bruxelles. “ Ma il registro delle lobby europeo, istituito dopo molte pressioni da parte della società civile solo nel 2008, viene compilato su base volontaria. La prima cosa che i cittadini europei devono esigere è quindi la trasparenza, in modo da poter sapere quali interessi rappresentano questi signori delle lobby, quanti soldi spendono e per modificare a loro vantaggio quale legge”. Perfino Washington, incalza Lietaert, è meglio di Bruxelles: “Grazie all’obbligo di registrazione delle lobby americane siamo al corrente del fatto che negli Usa vengono spesi circa 4 miliardi di dollari l’anno per attività di lobbying come incontri, cene, studi universitari sponsorizzati dalle corporation”. Ovviamente la trasparenza da sola non elimina il problema. Ma l’Europa, al confronto, sembra ancora all’a n-no zero.
Repubblica 10.3.14
L’Europa al tempo dell’impopolarità
Crisi, Merkel, burocrazia per gli italiani l’Europa è diventata impopolare
Dal 2000 a oggi dimezzata la fiducia nella Ue
di Ilvo Diamanti
BEPPE Grillo ha incitato a recuperare «l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle Due Sicilie». Perché l’Italia sarebbe solo un’arlecchinata di popoli, lingue e tradizioni. In altri termini: non esiste. Solo la Lega, fino ad oggi, si era spinta a tanto. E non a caso Matteo Salvini ha sottoscritto entusiasticamente queste affermazioni. Ma a Grillo la Lega non interessa.
E, IN fondo, non gli interessano neppure i suoi voti, visto che, in larga misura, li ha già intercettati alle elezioni dell’anno scorso. A Grillo e al suo ideologo, Gianroberto Casaleggio, interessa, piuttosto, avviare la campagna anti-europea in vista delle prossime elezioni di fine maggio. D’altronde, il legame fra il progetto anti-europeo e quello macro-federalista, spinto all’estremo, nella percezione sociale, è molto stretto. La componente di chi ritiene che «Nord e Sud sono troppo diversi e dovrebbero andare da soli», infatti, cresce in base alla fiducia nella Ue. Nel passaggio fra il livello minore e maggiore di fiducia, raddoppia: dall’8% al 16% (sondaggio Demos, ottobre 2013).
D’altronde, la Ue è una Unione di Stati nazionali, non di popoli. Non a caso, negli anni Novanta, la Lega cambiò atteggiamento al proposito, dopo la svolta secessionista del 1996.Che la Ue condannò in modo aperto. Fino ad allora, invece, la Lega, come recitavano i suoi slogan, aveva guardato «più vicino all’Europa più lontano dall’Italia ». Da Roma. D’altronde, anche il messaggio di Grillo appare, soprattutto, anti-romano. Rivolto contro l’Italia dei partiti e delle burocrazie. Del Palazzo. E, a differenza della Lega, evoca la Repubblica di Venezia e il Regno delle Due Sicilie. Il Nord e il Centro- Sud. Dove il M5S ha ottenuto molti consensi. In vista delle prossime elezioni europee, intende tenere insieme l’anti-centralismo “romano” (e italiano) con l’anti-europeismo. Un sentimento che sta crescendo in modo rapido. In Italia, infatti, la fiducia nella Ue, rispetto al 2000 – alla vigilia dell’introduzione dell’Euro - è, letteralmente, dimezzata. Dal 57% al 29%, rilevato nelle ultime settimane (Sondaggio Demos). E negli ultimi mesi, da settembre 2013 ad oggi, è caduta di 5 punti. Toccando il punto più basso rilevato da quando il processo di costruzione dell’Unione Europea è stato avviato. Fin qui, tuttavia, si è tradotto, soprattutto, sul piano economico e, soprattutto, monetario. L’Europa, cioè, si è trasformata in un soggetto freddo, lontano. Una moneta senza Stato e senza politica. Senza identità e senza passione. È stata percepita, dunque, come un problema più che una risorsa. Un Grande Esattore, senza volto, se non quello della Merkel (e delle Banche), che esige senza garantire nulla. Per questo, ormai, pressoché un terzo degli italiani (per la precisione, il 32%) si dice d’accordo con l’affermazione che sarebbe meglio «uscire dall’euro e tornare alla lira». Si tratta di un atteggiamento che abbiamo già testato e spiegato in passato. Gli italiani accettano l’Europa dell’euro per forza. E per paura. Temono, cioè, che uscirne sarebbe pericoloso. Ma, al tempo stesso, guardano alla Ue e alla sua moneta con insofferenza crescente. Di giorno in giorno. Come si coglie ricomponendo gli orientamenti verso la Ue e verso l’euro in un unico profilo. Dal quale emerge che, in Italia, il peso degli europeisti (29%),che hanno fiducia nella Ue, supera di poco quello degli antieuropei (27%). Che si oppongono all’Euro e non credono nella Ue. Mentre gran parte degli italiani (44%) si rifugia in un atteggiamento euroscettico oppure eurocritico. Sopporta, cioè, l’euro senza aver fiducia nella Ue. Ma, visto che la Ue, nella percezione (non del tutto distorta) dei cittadini, coincide, in larga misura, con il sistema monetario, ecco che il sentimento dominante, fra gli italiani, è la sfiducia verso l’Europa - della moneta e, insieme, dei governi e degli Stati Nazionali. È, peraltro, interessante osservare come il maggior grado di anti-europeismo si raggiunga fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi: 43%. Un dato, in effetti, altissimo. Come quello delle casalinghe (44%) e dei disoccupati (38%). Mentre il maggior livello di europeismo si incontra, invece, fra gli studenti (43%), i liberi professionisti (48%) e fra gli impiegati del settore pubblico (39%). Sul piano territoriale, l’anti-europeismo è spalmato dovunque. Raggiunge il massimo livello nel Mezzogiorno e nel Nordovest (quasi 30%), mentre è un po’ meno diffuso nel Centro e nel Nordest (dove, comunque, supera il 20%). Insomma, il sentimento anti-europeo fornisce un bacino elettorale molto ampio, in vista delle prossime elezioni. Che hanno l’Europa come ambito e come posta in palio. I “Grilli d’Europa”, d’altronde, sono molti (come titolava Le Monde ancora un mese fa). I partiti antieuropei e anti-euro. Che potrebbero attingere anche dal grande serbatoio del sentimento euroscettico ed eurocritico. Fino ad oggi si è travasato nell’astensione. Oppure in un voto ispirato alla logica del “meno peggio”. Per paura. Ma potrebbe, in questa occasione, scegliere il voto di protesta oppure di “avvertimento”. Per esprimere la propria insoddisfazione e la propria delusione verso un’Europa identificata con i mercati, con lo spread e la crisi. D’altronde, già adesso vi sono partiti il cui elettorato è in ampia misura anti-europeo. Oltre alla Lega (53%), che ormai pesa poco (3-4%), il M5S, appunto, e, insieme, FI (entrambi: 37% di anti-europei e altrettanto di euroscettici). È lecito attendersi, dunque, che i richiami al federalismo macroregionalista e, implicitamente, anti-europeo, si rinnovino, sempre più accesi. Non solo da parte di Grillo e della Lega, ma anche di Berlusconi. In fondo, condividono il bacino elettorale anti-europeo, molto ampio. Che ha grandi margini di espansione, vista la contiguità con l’area degli euroscettici. Di certo, stavolta, contrastarli sarà difficile. Perché l’europeismo è poco popolare. Sostenuto per paura più che per convinzione. E per sfidare gli anti-europei sullo stesso terreno, in modo efficace, ci vuole il fisico…
Repubblica 10.3.14
Euroscettici, estremisti e nazionalisti alla presa del parlamento di Strasburgo
Così potrebbero cambiare gli equilibri dopo il voto di maggio
di Andrea Bonanni
BRUXELLES -I sondaggi preelettorali danno i partiti e i movimenti anti-europei in crescita in tutta la Ue. Le previsioni assegnano loro tra il 20 e il 30 per cento dei voti. Ma calcoli più precisi sono resi praticamente impossibili dalla difficoltà di definire quali siano in effetti i partiti anti-europei. Su alcune formazioni politiche generalmente di estrema destra, come il Front National in Francia, lo UK Independence Party in Gran Bretagna, il Vlaams Belang in Belgio, il PVV di Geert Wilders in Olanda o la Lega Nord in Italia, non ci sono dubbi. Ma altri partiti sfuggono ad una definizione più precisa. Come classificare la destra fiamminga NVA diBart de Wever in Belgio, o il Movimento 5 Stelle di Grillo in Italia, e le liste di Tsipras che mobilitano l'estrema sinistra in tutto il continente?
Le ultime proiezioni di VoteWatch per le prossime elezioni Ue danno in leggero vantaggio come primo partito europeo i socialisti e democratici del PSE, guidati da Martin Shulz, che dovrebbero superare di poco (209 seggi contro 202) il Partito popolare europeo, che ha indicato come capolista il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Secondo queste proiezioni, i partiti euroscettici di destra che oggi si riconoscono nel gruppo EFD (Europe of Freedom and Democracy), dovrebbero restare sostanzialmente stabili confermando 31 eurodeputati. Ma questo dato inganna. Infatti il numero di deputati non immediatamente riconducibili ad un gruppo politico già esistente (i cosiddetti 'Non Iscritti'), balza secondo i sondaggi da 32 a 92 deputati. Questo esercito di neoeletti, in cui sono inseriti anche gli italiani del M5S, di fatto sarebbe il terzo gruppo politico del Parlamento europeo e si può considerare che sarà composto in larghissima parte da anti-europei.
Infine, sempre secondo VoteWatch, il gruppo politico dell'estrema sinistra a cui aderisce anche Tsipras (che però ha lasciato libertà di scelta agli eletti nella sua lista), dovrebbe quasi raddoppiare i propri consensi passando 35 a 67 deputati e diventerebbe il terzo partito scavalcando i liberali. Infine ci sono da considerare i 45 eletti nelle liste ECR (European Conservatives and Reformists) che sono guidati dai conservatori britannici, usciti dal Ppe proprio su posizioni anti-europee.
Se dunque si mettono insieme i 31 eurodeputati di estrema destra, i 45 ECR, i 92 non iscritti e i 67 dell'estrema sinistra si arriva ad un totale di 235 deputati che, spesso con argomentazioni contrapposte, sono comunque contrari alla moneta unica e all'Europa come viene definita dalle attuali istituzioni e trattati. Messi tutti insieme (cosa fortunatamente impossibile) sono circa di un terzo dei 751 parlamentari europei e costituirebbero il gruppo politico più numeroso. Una prospettiva che rende assai probabile la creazione in Parlamento di una grande coalizione tra socialisti e popolari, magari con l'apporto dei liberali, per garantire una maggioranza democratica pro-europea.
Ma non basta. Infatti in alcuni Paesi, tra cui l'Italia, il voto anti europeo finirà per incanalarsi anche in direzione di partiti che pure aderiscono al Ppe. È il caso, come spiega bene Ilvo Diamanti in queste pagine, di Forza Italia che prenderà una percentuale di voti euroscettici pari a quella del M5S. Oppure è il caso del Fidesz (Unione civica), il partito di estrema destra ungherese del premier Orban, che pur professando un euroscetticismo molto spinto aderisce al Partito popolare europeo.
C'è dunque da temere che anche una ipotetica futura Grande Coalizione tra socialisti e popolari, che in teoria potrebbe contare su oltre 400 voti, possa trovarsi a fare i conti con defezioni importanti quando sarà costretta a misurarsi su questioni di principio che coinvolgono l'integrazione europea. Più che uno scontro tradizionale tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, le prossime elezioni europee si preannunciano dunque come una battaglia tra filo-europei e anti europei. E sarà una battaglia all'ultimo sangue.
Repubblica 10.3.14
Le macerie degli imperi
di Timothy Garton Ash
Traduzione di Emilia Benghi
GLI avvenimenti in Ucraina possono essere interpretati anche in maniera diversa: come l’ultima tappa della autodecolonizzazione d’Europa. Dopo la demolizione dell’impero sovietico gli europei hanno portato a termine l’opera già iniziata di smantellamento degli imperi austro-ungarico e ottomano.
Compresi gli stati successori, come la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Ora è la volta dell’impero russo pre-sovietico. Pensate al presidente russo come a Vladimir, l’ultimo zar.
Smantellare gli imperi è un bel problema. Non sono mica fatti col Lego, smontabili in blocchetti compatti, uno rosso qui uno giallo là. Su che base si decide quale gruppo di individui su quale pezzo di terra diventerà uno stato? Senza dubbio le affinità culturali, linguistiche, etniche e storiche hanno un peso. Come lo hanno i retaggi di accordi diplomatici internazionali da tempo dimenticati e le divisioni interne ad un impero o ad uno stato successore multietnico. Importantissime sono la volontà politica e la leadership sul territorio. Forse più importante di tutto è la sorte storica, quella “fortuna” che Machiavelli definisce “arbitra della metà delle azioni nostre”. È stato un misto di storia, volontà, abilità e sorte che ha portato al Kosovo la sua indipendenza, tuttora non universalmente riconosciuta.
Quest’idea circa lo smantellamento dei vecchi imperi mi colse qualche anno fa visitando il parastato separatista di Transnistria, all’estremità orientale della Moldavia, accanto all’Ucraina. A Tiraspol, la capitale, strana città dallo stile retrò sovietico, mi imbattei in un’imponente statua equestre del feldmaresciallo Alexander Suvorov, celebrato come fondatore della città alla fine del diciottesimo secolo. In precedenza, a Uzhhorod, città sul confine occidentale dell’Ucraina con la Slovacchia, avevo avuto occasione di incontrare il sedicente governo provvisorio della Rus sub-carpatica, o Rutenia, per praticità. Il primo ministro era un professore medico che mi ricevette cortesemente in un piccolo studio dell’ospedale locale. Il ministro degli esteri era arrivato in macchina dalla sua casa in Slovacchia. Il ministro della giustizia preparò il tè. Riuscii quasi a persuaderli a cantare l’inno nazionale che inizia così: “Russi dei sub Carpazi, svegliatevi dal sonno profondo”. Da ridere, direte voi. Operetta! Ma poi la fortuna fa girare il caleidoscopio della storia e ad un tratto appare un paese riconosciuto a livello internazionale chiamato, che so, Moldavia o Montenegro. I suoi figli e le sue figlie cedendo al potere normativo del dato di fatto e fuorviati sui banchi di scuola dai libri di storia nazionalisti crescono dando per scontata la realtà di stato nazione.
Poi però, eversivamente, le frontiere dei vecchi imperi riemergono sulle mappe elettorali delle nuove democrazie, quasi fossero tracciate in inchiostro invisibile. Usiamo i colori per mappare il voto di maggioranza espresso per i partiti e i candidati alla presidenza in quelli che erano nell’Ottocento i territori dei grandi imperi. Per gli ex appartenenti all’impero austro-ungarico e tedesco il colore è l’arancione, per quelli dell’impero russo o ottomano il blu. In Ucraina, Romania e Polonia i partiti e i colori variano, ma il fenomeno è lo stesso.
I liberali sono bravi a enunciare principi universali a favore della pari sovranità e l’autodeterminazione dei singoli individui. Entrano totalmente in crisi quando si tratta di popoli. Perché i kosovari dovrebbero aver diritto all’autodeterminazione e i curdi no? Perché se vale per la Scozia non vale per la Catalogna? E se vale per la Catalogna perché non per la Padania? Con l’indebolirsi degli imperi e degli stati multinazionali sale il grido “perché noi dobbiamo essere una minoranza nel vostro stato quando voi potreste essere una minoranza nel nostro?” (mutuo la geniale formulazione dell’economista macedone Vladimir Gligorov). Oppure, come ha detto recentemente a titolo di provocazione il nazionalista russo Vladimir Zhirinovsky, se l’Ucraina può fare la sua rivoluzione perché la Crimea no?
Come i lettori ormai hanno appreso dai giornali la Crimea venne donata alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina per ordine di Nikita Krusciov 60 anni fa, nel febbraio 1954, in occasione del tricentenario del trattato di Perejaslav, che i propagandisti sovietici reinterpretarono come segno della “riunificazione dell’Ucraina con la Russia”. Nikolai Podgorny, comunista dell’Ucraina sovietica, definì la decisione di Krusciov come “ulteriore affermazione del grande amore fraterno e della fiducia nutriti dal popolo russo per l’Ucraina”. Oh, oh. Anche se Krusciov non fosse stato sbronzo quando decise, come talvolta viene malignamente insinuato, certo nella sua scelta non ci fu nulla di inevitabile né di “naturale” sotto il profilo storico, o , se è per questo, di “innaturale”. Se non fosse accaduto, la Crimea oggi farebbe parte della Federazione Russa con un’ampia maggioranza di Tartari e Ucraini di Crimea che si lamenterebbero all’insegna del “perché noi dobbiamo essere una minoranza nel vostro paese quando voi potreste essere una minoranza nel nostro”. Ma è accaduto, e la rabbia sale alla rovescia.
Non c’è necessità storica in questi esiti, né giustizia universale, ma da più di un secolo di autodecolonizzazione europea dovremmo imparare due cose. Innanzitutto che dal momento in cui un popolo ha uno stato tendenzialmente non vuole rinunciarvi. Un amico macedone subito dopo l’indipendenza del suo paese dalla ex Jugoslavia mi disse: «Sai, credo che la Macedonia non dovesse diventare necessariamente uno stato indipendente, ma ora che lo è mi piace così». Non a caso il numero degli stati dell’Onu continua a crescere, non a diminuire. Dietro le quinte sono in attesa i membri dell’Unpo, l’Organizzazione della nazioni e dei popoli non rappresentati, tra cui i Tartari di Crimea.
Ancor più importante è la seconda lezione. Come ribadiva il grande antimperialista Mahatma Gandhi, tra mezzi e fini non esiste una netta distinzione. La violenza genera violenza. Le modalità non sono soltanto importanti quanto l’azione; in realtà determinano l’esito finale. Un divorzio di velluto, come in Cecoslovacchia, porta ad una situazione diversa rispetto al divorzio sanguinoso. Lo stesso vale per una convivenza pacifica e volontaria (Scozia e Inghilterra forse?) rispetto ad una forzosa. L’uso della forza porta sempre conseguenze indesiderate. Lo Zar Vladimir può riconquistare il dominio sulla Crimea, ma la sua azione andrà infine a rinforzo dell’indipendenza dell’Ucraina.
La Stampa 10.3.14
Dal “socialismo gulash” alla delusione per l’Europa
Nell’Ungheria tentata dall’Est dove i giovani disertano la politica o votano destra
di Francesca Paci
«Bruxelles è diventato il capro espiatorio di tutti i nostri problemi, l’ho capito un anno fa all’Opera House di Budapest quando, in una scena del “Mefistofele” di Boito, ho visto una bandiera europea sventolare sulla casa del diavolo...» racconta Lili Mark, 24 anni, analista del Budapest Institute, mangiando insalata di legumi in un caffè sul Danubio, nel cuore di quella capitale ungherese che, secondo «Foreign Policy», a 100 anni dalla prima guerra mondiale, a 25 dalla caduta del muro di Berlino e a 10 dall’ingresso in Europa guida la marcia verso est dei paesi nostalgici del passato.
Dove guarda l’Ungheria, mentre una parte della vicina Ucraina darebbe la vita per emularne l’emancipazione dall’eredità sovietica? Di certo non alle elezioni europee del 25 maggio, un appuntamento che le persone sentono lontano nel significato più ancora che nel tempo.
«L’Europa? Bella, elegante, buon cibo» afferma il 22enne Tamas Kass dietro al bancone del Zangio Artisan Chocolate. Il voto però non lo interessa. Nel 2004 la partecipazione degli ungheresi fu del 38,5%, nel 2009 era scesa al 36,3%, stavolta, prevedono all’Institute for Public Policy KKI, le aspettative sono perfino più cupe. Dopo due disastrose legislature socialiste riformiste il paese si è affidato alla svolta promessa dei conservatori di Fidesz salvo ritrovarsi, dopo aver sforato da subito i parametri di Maastricht, con 500 mila emigrati, la disoccupazione al 10% (25% tra gli under 30), l’entusiasmo per la politica a picco e il sogno europeo infranto sulla burocrazia di Bruxelles a cui i governanti attribuiscono ogni loro fallimento. Il voto nazionale del 6 aprile confermerà probabilmente Fidesz, ma sarà una vittoria di Pirro, nel deserto ideologico dove a trionfare sono lo scetticismo e l’ultradestra nazionalista di Jobbik, che tra i minori di 24 anni seduce un elettore su tre.
«Non è l’Europa ad aver deluso ma la democrazia, il premier Orbàn paragona Bruxelles a Mosca, l’impressione della gente è che votare sia inutile e allora era meglio il comunismo» ragionano tre amici nella Ervin Library. Zsolt Szabo, 23 anni, studia finanza, il coetaneo Rasko Laszlo è ingegnere e il 28enne Tamas Soproni è economista. Figli del crollo dell’URSS, sono cresciuti viaggiando, guardando i film di al Pacino, leggendo Orwell. Ma dicono di essere tra i pochi a rendersene conto: «La libertà è data per scontata, l’Europa non è l’orizzonte dei valori ma del benessere economico, i giovani non parlano di politica e non si sentono parte di niente: altro che generazione europea, quelli come noi sono più simili a un liberal spagnolo o americano che al compagno di banco cattolico».
Budapest è cosmopolita, lavanderie pakistane e take away di falafel s’intrecciano alle botteghe di design nei vicoli del vecchio quartiere ebraico.
«Sei anni fa il paese ha svoltato a destra, ora i ragazzi si ricredono un po’ ma sono confusi, si definiscono anti-capitalisti eppure ne vedo tanti che progettano start-up» racconta Attila Nemes, 41 anni, anima del Media Lab KitchenBudapest. Alle sue spalle, tra computer high tech e radio anni ’30, Marianna, Daniel, Judith, molti ex borsisti dell’Erasmus Student Network, ammettono che l’Europa è la chance di fuggire. Solo il 4% degli ungheresi si vede imprenditore: gli altri vogliono un posto, fisso, qualsiasi.
«Il nostro era noto come il “socialismo gulash” perché se non parlavi di politica vivevi bene, ma così abbiamo alzato parecchio il livello del cinismo» nota Imre Korizs, docente di letteratura alla Eötvös Loránd University, un ateneo nel nord del paese, in quella periferia lontana dalla capitale dove Bruxelles è un totem ostile. È lì, come nel sud rurale, che il soft power europeo ha fallito e le famiglie che guadagnano meno di 500 euro al mese preferiscono il miraggio del welfare a quello della libertà.
«Gli ungheresi sono depressi perché speravano che l’Europa li arricchisse, la destra estrema è più attiva e si avvantaggia di questa apatia» osserva la scrittrice 38enne Noemi Noémi in un ristorante vicino al museo del terrore dove si sono alternati carnefici nazisti e comunisti. Nel romanzo «La vampira snob» (Baldini&Castoldi) ironizza sul nazionalismo della nonna che si lava i denti in un bicchiere con la mappa della Grande Guerra e slogan nostalgici sull’Ungheria mutilata.
Il malcontento cova tra le matricole delle facoltà di legge e storia. «I miei studenti più politicizzati votano Jobbik, un partito nuovo e vivace online che esprime la rabbia popolare per rivoluzioni che qui, come in Ucraina, hanno sostituito un'élite corrotta con un’altra» ragiona al banco del pub Pesti Sorcsarnok il professor Bence Fehér dell’università Károli Gáspár. I giovani bevitori di birra sono a dir poco adirati con Bruxelles che da maggio consentirà agli stranieri di comprare la terra ungherese, più fertile e economica di quella austriaca. E pazienza se, sottolinea il pubblicitario 46enne Attila Dobak, con la retorica della terra Jobbik diffonde «il veleno antisemita». Leggenda, sminuiscono i governativi. Storia, replicano gli anziani.
Padre Lazlo Vértesaljai, parroco del Cuore di Gesú ed elettore di Orbàn, giura che pur snobbando l’Europa gli ungheresi non se ne andrebbero mai. «Nessuno pensa seriamente di voltare le spalle a Bruxelles e quanto accaduto in Ucraina servirà forse a correggere qualche eccesso» conferma una fonte del ministero degli esteri.
Il comunismo è morto, le illusioni di emanciparsene sono morte, ma anche la generazione europa, se c’è, non si sente tanto bene. Dov’è la via Pal, quella dei ragazzi del libro di Molnár che leggiamo in Italia imparando di essere europei? Qui a Budapest non sono in molti a saperlo.
La Stampa 10.3.14
Pechino e l’incubo degli uiguri jihadisti addestrati da Al Qaeda
Si temono legami con l’assalto a Kunming. Kuala Lumpur: indaghiamo per terrorismo
di Ilaria Maria Sala
Le indagini su cosa possa essere accaduto all’aereo di linea Kuala Lumpur-Pechino MH 370 si stanno ormai concentrando sulla possibilità di una «disintegrazione in volo», spiegabile o con un grave deterioramento del velivolo, un errore o un attacco terroristico. Sulla prima ipotesi, non scartata dagli inquirenti, pesa che il Boeing 777 sia uno dei velivoli più sicuri al mondo, sottoposto a una continua manutenzione.
La pista terroristica, dunque, è come un macigno su chi cerca di trovare un senso all’accaduto. Non per nulla le autorità di Kuala Lumpur hanno aperto un fascicolo per terrorismo. E si è pure mosso l’Fbi. Nel giallo sui passaporti rubati utilizzati da quattro passeggeri, è impossibile non chiedersi se gli impostori non avessero motivi sinistri per trovarsi su quel volo.
Mentre proseguono le indagini, gli inquirenti non speculano troppo apertamente, ma secondo alcune fonte citate da «Reuters» alcuni funzionari di pubblica sicurezza della Malaysia avrebbero detto, di «non escludere la pista uigura». Tesi che fa rabbrividire Pechino. Tanto che subito si è levata a distanza la replica di Li Jiheng, governatore dello Yunnan: «Non vi è connessione», ha detto, fra la scomparsa del MH370 e quanto avvenuto sabato scorso alla stazione di Kunming, quando un gruppo di terroristi si è scaraventato, coltelli alla mano, contro le persone in coda, uccidendone 29 e ferendone più di un centinaio. Eppure non solo i social network, più sensibili in materia, ma anche analisti ed esperti non scartano la pista uigura e le connessioni con quanto ha vissuto la Cina solo la scorsa settimana: se non altro, perché l’attacco alla stazione a Kunming ha modificato le regole del gioco, presentando al mondo un tipo di attacco terroristico inedito.
Da anni la Cina sostiene che il «terrorismo islamico» degli uiguri del Xinjiang, è una realtà che si deve affrontare con decisione. Gli uiguri sono il gruppo etnico maggioritario nello Xinjiang, cuore dell’Asia centrale, sotto controllo cinese, divenuto minoritario nella sua terra in meno di cinquant’anni, dopo massicci trasferimenti di popolazione.
Islamici con forti tradizioni sufi, turcofoni, di aspetto europeo (il che non può comunque non richiamare ai passaporti rubati all’austriaco e all’italiano), gli uiguri hanno molto più in comune con l’Asia Centrale e la Turchia che non con la Cina. Ma sono controllati da Pechino, con pugno sempre più forte.
Negli ultimi dieci anni la politica di Pechino nei confronti tanto del Tibet che dello Xinjiang è stata di cercare di accelerare l’integrazione, con nuovo incentivi per la migrazione e investimenti economici massicci – e un progressivo smantellamento dei luoghi culturali e delle tradizioni. Nel 2009, poco dopo che il governo centrale decise di abbattere la città medievale di Kashgar (ex capitale del Turkestan Orientale) per salvaguardarne solo una piccola parte a fini turistici, lo choc fra gli uiguri fu profondo. Pochi mesi dopo si ebbe la più grave rivolta anti-cinese a Urumuqi che fece circa 200 vittime. Da allora la polarizzazione aumenta, e i controlli sul Xinjiang si sono fatti opprimenti. Chi ha cercato un dialogo che non passasse per la forza è stato messo a tacere – come è avvenuto con il recente arresto di Ilham Tohti, professore universitario moderato, che ha invano cercato un dialogo che consentisse la convivenza, ritrovandosi accusato di «separatismo».
Alcuni, in questa situazione, si sono lasciati sedurre dal jiahadismo, giunto nello Xinjiang dal Pakistan confinante (e del resto, alcuni uiguri sono stati trovati nei campi di addestramento afghani dagli Usa e portati a Guantanamo). La violenza è andata aumentando – ma non solo da parte uigura, se consideriamo la serie di secche notizie rilasciate dalle autorità cinesi nel corso dell’anno che comunicavano l’uccisione di 10, 12, 15 «terroristi».
Dopo l’attentato di Kunming la polizia cinese ha mostrato bandiere e magliette nere, con scritte in arabo: non più le bandiere turchesi del Turkestan Orientale, dunque, ma il ben più minaccioso colore con cui si firma Al Qaeda. Una metamorfosi inquietante, un jihadismo fino a poco tempo fa solo temuto, ma che potrebbe essere una delle piste per ricostruire gli ultimi minuti del volo MH 370.
l’Unità 10.3.14
Austerità: effetti collaterali
«Lancet» dimostra come abbia influito sulla salute
La Troika sbaglia i conti e la Grecia paga carissimo: aumentati suicidi, mortalità infantili, zero coperture delle spese sanitarie...
di Cristiana Pulcinelli
POCHI GIORNI FA IN UN’INTERVISTA RILASCIATA ALL’EMITTENTE AUSTRALIANA ABC, CHRISTINE LAGARDE, PARLANDO DELLA GRECIA, HA AMMESSO CHE LA TROIKA (Banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) aveva fatto male i suoi calcoli e che questo ha portato a soluzioni economiche sbagliate per affrontare la crisi greca. Tuttavia, ha detto il direttore del Fmi, le istituzioni avevano fatto in modo che nel Paese ci fosse una rete di sicurezza sufficiente a garantire che le persone più esposte non avrebbero sofferto troppo. Il giorno dopo, sulla rivista medica inglese «The Lancet» è uscito un articolo firmato da alcuni ricercatori di Oxford, Londra e Cambridge che all’elegante signora francese avrà fatto venire qualche dubbio sull’ultima parte della sua affermazione. A tutti gli altri ha sicuramente fatto venire i brividi.
L’articolo in questione infatti racconta come le misure di austerità chieste alla Grecia proprio dalla Troika abbiano avuto un effetto devastante sulla salute dei cittadini greci. Qualche numero: oggi ci sono 800.000 greci senza nessuna copertura per le spese sanitarie. Sono aumentate le malattie dovute a malnutrizione e le morti per violenza. I bambini sono forse la categoria più colpita: la mortalità alla nascita è aumentata del 21% dal 2008 al 2011 a causa del mancato accesso ai servizi prenatali delle donne incinte, mentre la mortalità infantile è cresciuta addirittura del 43% in soli due anni (dal 2008 al 2010) probabilmente a causa del deterioramento delle condizioni socio-
economiche delle famiglie. I suicidi sono aumentati del 45% tra il 2007 e il 2011. Non è strano se di pensa che negli stessi anni moltissimi servizi di igiene mentale pubblici sono stati chiusi o drasticamente ridotti: lo Stato ha abbattuto la spesa per la salute mentale prima del 20 e poi di un’ulteriore 55%. Contemporaneamente il numero delle persone che si rivolgono a centri per la salute mentale sono aumentate del 120 %, un segnale del fatto che la crisi economica e la disoccupazione hanno inciso fortemente sul benessere psichico della popolazione. Anche l’Aids ha rialzato la testa. In seguito al fatto che il numero di siringhe e di preservativi distribuiti gratuitamente è crollato, le infezioni da Hiv tra i tossicodipendenti sono passate da 15 nel 2009 a 484 nel 2012, mentre l’incidenza della tubercolosi è più che raddoppiata solo nei 12 mesi che vanno dal 2012 al 2013.
Quello che gli autori dello studio sottolineano è l’atteggiamento negazionista del governo greco e delle agenzie internazionali. «La risposta predominante è stata negare che esista qualsiasi seria difficoltà», si legge nell’articolo. E ancora: «Questa rimozione risponde ai criteri del negazionismo che rifiuta di riconoscere, e anzi tenta di screditare, la ricerca scientifica».
Il negazionismo, peraltro, si diffonde: anche il governo spagnolo non ammette che le politiche adottate abbiano avuto effetti negativi sul sistema sanitario del Paese e quindi sulla salute dei cittadini, denuncia un altro articolo pubblicato qualche mese fa sul «British Medical Journal».
Eppure alternative ci sarebbero. Ad esempio, scrivono gli autori dello studio di «Lancet», le esperienze di altri paesi che sono sopravvissuti alla crisi finanziaria, come l’Islanda e la Finlandia, dimostrano che conservando i budget per la spesa socio-sanitaria e concentrando i tagli su altre settori, i governi possono evitare gli effetti peggiori della crisi economica sulla salute della popolazione. «Nel momento in cui scriviamo - si legge nell’articolo - la Troika è ad Atene e sono stati annunciati altri tagli per 2,66 miliardi di dollari alla sanità e alla sicurezza sociale nei prossimi anni». Il peggio, forse, non è passato.
il Fatto 10.3.14
De Masi ci svela la mappa del mondo
di Furio Colombo
Un grande lavoratore” si diceva una volta, nel mondo borghese, per descrivere qualcuno degno di stima e di fiducia. Mappa Mundi, di Domenico De Masi ( Rizzoli ) non userebbe questa definizione come elogio ma come allusione al passato e illusione del presente. Mappa Mundi è una vasta guida ragionata al mondo contemporaneo e alle sue radici, classificate a volte attraverso i luoghi (modello cinese, modello indiano, modello giapponese) a volte secondo la storia (modello classico, modello ebraico, modello illuminista), a volte secondo la religione (il modello cattolico, il modello musulmano, il modello protestante), a volte lungo linee economiche (il modello liberale, il modello capitalista), a volte fondandosi sulla dottrina politica (socialisti, comunisti) a volte temporali (società postindustriale, modello brasiliano). Seguite il vasto e ricco percorso di De Masi e vi rendete conto che la frase (“un grande lavoratore”) non sarà mai più ripetuta, certo non come lettera di referenza e di raccomandazione. Perchè, qualunque sia il modello, esplorato per orientare meglio il lettore, il lavoro finisce qui. Ho usato di proposito la parola “orientare” perchè nel libro è una parola chiave. Questo, dice De Masi con una intuizione felice, è un mondo disorientato. Per ritrovare, insieme ai lettori, l’orientamento, l’autore fa un giro del tempo e del mondo, in 870 pagine. Non aspettatevi, però, nonostante l’accurata e a momenti minuziosa rappresentazione dei “modelli” un testo scientifico. Lo è, ma senza mai perdere di vista la necessità di una vasta discussione in pubblico, e non solo fra tecnici, di questo punto cruciale: chi siamo, dove siamo, dove andiamo.
Accade, però, che, una volta orientati dal Mappa Mundi, noi lettori (e noi cittadini e noi docenti e noi politici) restiamo sulla sponda del non ancora avvenuto. Ovvero sappiamo tutto dello stato delle cose (e non è un contributo da poco, in una situazione in cui la negazione o la non conoscenza della realtà sono il primo problema ). E cioè sappiamo molto (molto di più) del dove siamo e da dove veniamo. Ma restiamo disorientati sul dove andare.
Finisce il lavoro, ma io nel tempo libero che cosa faccio? Ho capito che non c’è (non c’è più) il lavoro. Non ne farò un funerale. Posso anche far festa alla novità. Ma vivo come? A carico di chi ? Qui il lettore scopre che il Mappa Mundi è una guida intelligente, ricca, vivace, in un viaggio molto più promettente di quanto mi insegnavano e mi promettevano in passato (un passato nel quale dovevo prima conquistarmi la libertà, poi la cultura, poi la carriera e solo dopo andare al concerto). Adesso vado direttamente al concerto, ma senza casa, senza soldi e senza una qualche forma di attività che, al minimo , dà da vivere e al massimo mi definisce come persona che incontra e cambia, almeno in un piccolo punto, la realtà. So benissimo che sto toccando gli argomenti chiave di un bel libro. Però, a differenza di Fantozzi, vorrei poter dire, subito dopo: segue dibattito.
Corriere 10.3.14
Un saggio di Luciano Canfora sul contenuto della commedia “Le donne all’assemblea”
La sfida di Aristofane a Platone sul campo di battaglia dell’utopia Sarcasmo feroce contro l’ipotesi di profonde riforme sociali
di Umberto Curi
Il difetto principale dei filosofi — scriveva Giambattista Vico — è di non aver «accertato le loro ragioni con l’autorità dei filologi», mentre dall’altra parte è imputabile ai filologi il non essersi curati «d’avverare la loro autorità con la ragione dei filosofi». Per ovviare a queste opposte unilateralità, sarebbe necessario nutrire la «scienza del vero», in cui consiste la filosofia, con «la coscienza del certo», assicurata dalla filologia, sviluppando dunque fra l’una e l’altra un rapporto di complementarità. Se ci si riferisce al panorama degli studi riguardanti in particolare il pensiero classico, non si può dire che l’appello vichiano sia stato effettivamente raccolto. In termini generali, si è da tempo cristallizzata una distinzione fra ricerche di carattere microfilologico, insensibili all’esigenza di «inverare il certo», e testi filosofici incapaci di «accertare il vero».
Il merito principale dell’opera di Luciano Canfora La crisi dell’utopia (Laterza) può essere indicato nel risoluto superamento di ogni sterile distinzione disciplinare, alla quale si sostituisce una ricostruzione accurata e rigorosa, finalizzata a fare emergere alcune importanti questioni propriamente filosofiche. Con un’aggiunta che rende ancor più prezioso, e per certi aspetti perfino «necessario», il contributo arrecato da questo libro, e cioè il fatto che la sinergia tra filologia e filosofia non si limita a gettare luce su alcune questioni circoscritte, relative al rapporto tra Aristofane e Platone, ma è invece messa al servizio di un interrogativo di persistente e anzi rinnovata attualità, quale è quello che riguarda il ruolo dell’utopia.
L’obbiettivo programmatico del testo è esplicitamente dichiarato fin dall’esordio. Si tratta di dimostrare che la commedia di Aristofane intitolata Le donne all’assemblea (Ecclesiazusai ), colpisce con l’arma del sarcasmo quel progetto di riforma radicale della società che viene proposto da Platone, in particolare nei libri IV, V e VI del dialogo dedicato allo Stato. Attorno a questo nucleo problematico si addensano poi una molteplicità di temi più specifici, ciascuno dei quali esigerebbe una adeguata valorizzazione: il carattere «scenico» dei dialoghi di Platone, opportunamente trattati alla stregua di vere e proprie drammaturgie; l’identificazione del misterioso Aristillo, personaggio che compare in due commedie aristofanee, con il filosofo, il cui vero nome era come è noto Aristocle; il perfino sorprendente parallelismo strutturale, analiticamente documentato, fra la Kallipolis descritta da Platone e il modello di società messo alla berlina nelle Ecclesiazusai ; la ricognizione delle affinità e delle differenze fra alcune utopie, più o meno direttamente riconducibili a Platone, dal mito di Atlantide, fino alla Città del sole di Tommaso Campanella.
Se è vero che l’importanza di un libro si misura sul rilievo delle questioni che è in grado di suscitare, più ancora che sulle risposte specifiche in esso contenute, il testo di Canfora offre un contributo di primissimo ordine nella prospettiva ora accennata. Per prima cosa, pur lavorando sul nucleo propriamente «utopistico» della teoria politica di Platone, l’autore offre argomenti idonei a ridimensionare energicamente la tradizionale interpretazione «idealistica» del filosofo, mostrando al contrario fino a che punto la stessa Kallipolis descritta nella Politeia non possa essere assimilata senza residui ad un modello astratto, non abbia affatto i contorni di quello «Stato perfetto» che si è soliti attribuire all’autore ateniese. Con ciò, non importa se talora in maniera indiretta, Canfora aiuta a riconoscere un punto di fondo, abitualmente rinnegato dalla critica, vale a dire il fondamentale «realismo» dell’approccio platonico al problema dello Stato, e di conseguenza l’assunzione della politica come pharmakon , destinato a «curare» — ma insieme mai a «guarire» completamente — i mali che affliggono gli Stati.
Un secondo e decisivo ordine di considerazioni può essere proposto in relazione alla trattazione dei dialoghi platonici in termini di drammaturgie. Questo suggerimento, per lo più ignorato o sottovalutato dagli studiosi, andrebbe invece ulteriormente approfondito, cogliendo il drama non soltanto in alcuni aspetti attinenti alla struttura esterna dei dialoghi, o in alcune «citazioni» da coeve opere sceniche, ma nell’articolazione stessa dell’argomentazione filosofica. Nel Sofista , ad esempio (testo più volte citato dallo stesso Canfora), più ancora della «scena» d’esordio, che funge come mera «cornice» introduttiva, genuinamente drammatica è l’alternativa di fronte alla quale i due interlocutori vengono a trovarsi, stretti fra la necessità di ricorrere al parricidio e la rinuncia alla possibilità di usare il logos .
Come accade anche nel Teeteto (che costituisce notoriamente il preambolo narrativo del Sofista ) la ricerca condotta assume i caratteri di una intensa drammaturgia, proprio perché in gioco è una questione letteralmente di vita o di morte, quale è quella connessa all’ipotesi di dover rinunciare a parlare e a pensare.
Un’ultima considerazione, apparentemente marginale, fra le molte a cui per brevità si è costretti a rinunciare. Secondo un uso da tempo tanto consolidato, in Italia e fuori, quanto totalmente immotivato, il titolo del dialogo platonico riguardante lo Stato — in greco: Politeia , che designa ciò che attiene allo «Stato», o la «Costituzione» — è tradotto con l’italiano Repubblica . La giustificazione abituale per questo vero e proprio abuso linguistico è che i titoli italiani delle opere greche vanno tradotti attraverso la denominazione latina. Ma anche uno scolaro della prima liceo sa che l’espressione latina res publica , con la quale si traduce il greco politeia , indica lo Stato , e non una forma specifica di governo, quale è appunto la repubblica. Come peraltro confermano i titoli di altre opere coeve (si veda ad esempio l’Athenaion politeia , la Costituzione degli ateniesi di Aristotele, che a nessuno verrebbe in mente di tradurre con «la repubblica degli ateniesi»).
L’auspicio è allora che, giovandosi della sua indiscussa autorità di antichista, Canfora possa accreditare una dizione corretta del titolo di un testo così importante.
Corriere 10.3.14
Disperati di tutto il mondo, unitevi
Un divertente racconto filosofico dove il futuro è da archiviare
di Errico Buonanno
Se non esiste più un futuro per l’umanità, figuriamoci allora per un genere umanistico come può essere il romanzo! E se davvero siamo giunti al termine ultimo della storia, forse nemmeno abbiamo tempo per l’antiromanzo, per le polemiche spicciole, per le provocazioni, macché. Il nuovo libro di Tommaso Pellizzari, Movimento per la disperazione (Baldini e Castoldi), è qualche cosa di diverso. Narrativa, di sicuro, ma in cui la trama è secondaria. Ed è un gustoso esperimento formale, ma solo perché la forma scelta è la più efficace, se non l’unica, per arrivare dritti al punto. Quasi il faldone di un’inchiesta, ricostruito, divertendosi, con un puntuale gioco grafico: una raccolta di articoli, lettere, intercettazioni, appunti, che descrivono il cuore, più che le vicissitudini, dell’immaginario Movimento fondato dal protagonista.
Un nuovo partito rivoluzionario, guidato dall’ex giornalista Michele Rota, che in fondo ha come ideologia la fine di ogni ideologia, come valore la svalutazione. Il Movimento per la disperazione, che irrompe sulla scena politica nostrana, in un alternativo periodo successivo al crollo del governo Letta, e che in sostanza vuole abbattere l’ultimo fra tutti i tabù: la fede nel nostro domani. Sogni, riforme, ecologia, amore, afferma Rota, non sono altro che fantasmi con cui l’uomo cerca di negare l’unica verità possibile, ovvero che la civiltà è al collasso, e forse, con essa, l’umanità e il mondo intero.
Perciò? Qual è la soluzione? Nessuna; o meglio la più semplice: accettare cioè la nostra disperazione. Accoglierla, riempirsene, e agire con tutto il materialismo del caso. Basta con il culto della famiglia: se un domani non c’è, accettiamo sereni l’incompatibilità eterna tra l’uomo e la donna! Basta con l’animalismo, con la raccolta differenziata, con tutti i vani tentativi di garantirci una sopravvivenza non solo impossibile, ma persino insensata! E basta, infine, insiste il Movimento, col più intangibile degli idoli, basta con la sacralità della vita: se siamo soli in mezzo al nulla, che ognuno scelga la propria morte, a piacere. Questo il programma, disperatamente serio. Questo il messaggio su cui impostare il futuro, che durerà molto poco.
Il libro ruota intorno ai comizi e alle riflessioni di Rota, che smonta i miti civili e sociali e riesce inquietantemente convincente nel non lasciarci vie di scampo. In ciò, però, nella sua arte di convincerci, Movimento per la disperazione dice qualcosa più di sé, e svela qualcosa della sua natura.
Se questo non è proprio un romanzo, non è chiaramente per la mancanza di intreccio, ma perché tutto sembra nascere dall’esigenza dell’autore (feroce, a volte, e divertita) di dire la propria verità. Chi legge non può mai fare a meno di pensare che nella voce paradossale e provocatoria di Rota si rispecchi Pellizzari stesso, le sue convinzioni, le sue paure reali. Non sarà un caso, d’altra parte, che il Movimento per la disperazione trovi riscontri puntuali e concreti fuori dal campo della letteratura. Il Vhemt per esempio, citato nel libro, ossia il Movimento per l’estinzione umana volontaria che da anni, negli Usa, invita a smettere di riprodursi come via di salvezza per il pianeta al collasso. Lo stesso principio dei Transumanisti estremi attorno a cui persino un provocatore blando come Dan Brown ha fatto ruotare il suo ultimo Inferno (Mondadori).
Tutto ciò esiste veramente. Perché allora scegliere la via della fiction? Perché usare il filtro del romanzo, se la realtà ha già dato forma, più o meno grottesca, al lato più cinico e disperato della contemporaneità? Perché, insomma, non dire apertamente che qui non si provoca, non si vuole far scandalo, ma si parla sul serio? Viene un sospetto, perfino banale: Pellizzari l’ha fatto per essere creduto. Non ha costruito né un romanzo, né una «modesta proposta» iperbolica, né un manifesto politico. Piuttosto un conte philosophique che gridasse il messaggio proprio fingendo di scherzare.
Il Vhemt è costretto ogni giorno a rispondere a chi lo considera uno scherzo? Pellizzari ha fatto altro: con grande finezza di scrittura e vero talento per la commedia e la satira, ci ha regalato una visione spietata. L’ha fatto con una finzione, conscio che quella di avere un domani è sempre l’ultima delle illusioni da cui il mondo vuole risvegliarsi. Lui scherza, romanza. Ed è così, portando chi legge ad abbassare le difese, che può innestargli un feroce sospetto: il Movimento non esiste, ma se ne sente la mancanza. E dopo aver riso, chiuso il libro, forse la rivoluzione cinica ha guadagnato un membro in più.
Il libro di Tommaso Pellizzari «Movimento per la disperazione» è edito da Baldini&Castoldi, pagine 208, e 14,90
Corriere 10.3.14
L’autocoscienza dello spirito
di Armando Torno
Robin George Collingwood (1880-1943), filosofo, professore a Oxford, autore anche di scritti di storia e archeologia romane, pubblicò nel 1939 un’Autobiografia. Ora, con prefazione di Corrado Ocone, ritorna in italiano dopo oltre mezzo secolo (Castelvecchi, pp. 160, e 18,50). Collingwood, che tradusse testi di Benedetto Croce a cominciare dal saggio su Vico, è considerato un riferimento dell’idealismo britannico. Anche se tale qualifica non la gradiva.
L’Autobiografia , «dalle pagine davvero brillanti», non ripercorre soltanto le sue vicende personali e accademiche, ma offre uno spaccato prezioso di alcune questioni filosofiche del primo Novecento. Essa, tra l’altro, ben illustra la «logica della domanda e della risposta»; tratta dei «filosofi minuti» o della «decadenza del realismo», della stessa «storia della filosofia», disciplina che divenne per Collingwood «fonte di interesse e di soddisfazione continua e strettamente filosofica». Non più un campo «chiuso», ma «aperto», o meglio «un’inesauribile fonte di problemi». Non a caso fu amico di Guido De Ruggiero, del quale tradusse la Storia del liberalismo europeo e una parte della monumentale Storia della filosofia.
Vi sono nell’Autobiografia capitoli che vale la pena rileggere e che gettano luce su talune intuizioni dell’idealismo: per esempio il decimo, dedicato a La storia come autocoscienza dello spirito. Da parte sua Ocone fa un buon lavoro nelle pagine introduttive ed espone le coordinate che portano da Collingwood a Croce o il rapporto del pensatore inglese con Gadamer e Rawls; utile è anche la parte sul «critico» Leo Strauss. Chiudiamo con un’affermazione dello stesso Collingwood: «Nella mente dello storico la conoscenza storica è la ricostruzione del pensiero la cui storia egli sta studiando».
Repubblica 10.3.14
Raccontare la Grande Guerra
“Non dobbiamo vergognarci di aver vinto”
Intervista allo storico Mario Isnenghi che ripubblica il suo classico “Il Mito”
“In questo centenario prevale il pensiero unico: il conflitto fu assurdo. Ma non è così”
di Simonetta Fiori
PADOVA. Per molte generazioni di lettori italiani Mario Isnenghi è la Grande guerra. Il suo celebre Il Mito è uno dei pochi saggi di storia contemporanea che resiste al passare del tempo. Oltre quarant’anni fu accolto come un libro strano, un ibrido storico- letterario, oltre che ideologicamente sovversivo. «Ero considerato accademicamente un bisessuale», racconta lo studioso nel suo studio di Padova. «Con un doppio peccato originale. Agli occhi dei letterati riducevo la scrittura letteraria a testimonianza. E agli occhi degli storici usavo come fonti documentali diari, romanzi e articoli di giornale. Il massimo dell’impopolarità». Della grave colpa l’avrebbero liberato Paul Fussell ed Eric J. Leed, e «quella che mi era stata addebitata come una defaillance per un irredimibile provincialismo italiano divenne improvvisamente una straordinaria scoperta metodologica. Legittimata solo perché scritta in inglese». Ora Il mito della Grande guerra è di nuovo in libreria con una introduzione che - come spesso capita nei libri dello storico veneziano - è un terreno disseminato di mine. Pronte a esplodere contro larga parte della storiografia «grandeguerresca». E contro la memoria pubblica coltivata in Italia anche in occasione di questo centenario.
Professor Isnenghi, cosa ci apprestiamo a celebrare?
«Celebrare? La parola è assolutamente da evitare. Chiunque oggi le direbbe: non c’è nulla da festeggiare. Lo stesso accadde per l’Unità d’Italia, tra leghisti e municipalisti, neoborbonici e clerico intransigenti. Ma allora si oppose la variopinta falange degli unitari. Mentre per il centenario della guerra prevale una sorta di pensiero unico».
Qual è questo senso comune?
«Intanto un’affermazione preliminare di carattere generale: ogni guerra è un male in sé. Questo è il punto di vista dei pacifisti, condiviso dai più. Poi interviene una considerazione specifica sulla Grande guerra, che appare ormai un ferrovecchio della storia, distante nel tempo, lontano negli scopi e nei moventi. E se non bastasse, s’aggiunge una ragione attualissima legata alla cittadinanza europea: appare incongruo oggi celebrare la rottura, l’essersi sparati addosso tra popoli tra cui bisogna una fraterna cittadinanza. Assolutamente fuori luogo».
E non è forse vero?
«Ma certo che lo è. Questo va bene sul piano della politica della memoria o dell’educazione civica. Ma non va bene sul piano della storiografia. Sa qual è la frase più ripetuta anche in ambito storico? Il non senso di quella guerra. L’assurdo di quella catastrofe, vana e sanguinosa apocalissi. Questo è il portato della storiografia francese, planato senza trovare resistenze sulle nostre ricerche storiche».
A chi si riferisce?
«Cominciarono Annette Becker e Sthephane Audoin-Rouzeau con il memoriale di Peronne, costruito vicino ai luoghi della battaglia della Somme. Una sorta di museo della sanguinosa guerra di posizione, di fronte al quale era naturale calcare il pedale dell’orrore. Intendiamoci, un’angolatura radicalmente innovativa».
E allora perché oggi la contesta?
«Perché è diventata l’unica chiave interpretativa della guerra. E ha finito per contagiare anche la nostra storiografia. Ora non voglio polemizzare con Antonio Gibelli o Giovanna Procacci che hanno scritto libri importanti. O con Bruna Bianchi e altre studiose delle donne sensibili al tema della non violenza. Più in generale dico: va benissimo dedicarsi alle vittime, alle vedove, agli orfani, ai mutilati, ai malati psichiatrici, ai disertori. Ma la maggioranza degli italiani non diserta, non diventa pazza e non si ammutina. E va a fare la guerra, anche senza volerlo. Perché? Questa è la domanda su cui mi arrabatto da qualche decennio».
Ma non è stato lei a scrivere I vinti di Caporetto, attribuendo alla diserzione un valore di ribellione politica?
«Ma certo. Sono stato a lungo considerato un sovversivo della storiografia, collezionista di ammutinamenti, proteste e di ogni possibile dissenso sociale. Proprio per questo non mi pare di avere molto da imparare su quel terreno. Ma non trovo giusto sovrapporre le nostre gerarchie di valore a quelle di uomini e donne di cent’anni fa. È vero che anche io presi sul serio quel che dicevano Cadorna e Mussolini sui ribelli di Caporetto. Sono andato a vedere se c’era stata la rivoluzione. Se l’avessi trovata, ne sarei stato contento. Ma non l’ho trovata, così mi sono messo a studiare come si arriva a Vittorio Veneto, dove e come termina la guerra. Bisogna farsene una ragione e pronunciare quella parola indicibile: vittoria».
È diventato patriottico?
«È passato mezzo secolo da allora. E non sono io che sono cambiato: è il mondo che è girato. E il mio spirito di contraddizione oggi si esercita così: essere statalista è il massimo della perfidia anticonformista. Ed essere unitari contro il municipalismo è il massimo del pensiero controcorrente. Ma posso fare un passo ulteriore?».
Prego.
«A me pare che per diversi miei colleghi, tra la fine del Novecento e oggi, il “tutti a casa” di Caporetto - che si poteva leggere come una stanchezza diffusa dei fanti - sia diventato un valore in sé. Per me non è mai stato un valore in sé. La mia generazione l’aveva incontrato l’8 settembre del 1943, e non era un bel paesaggio civile. Allora perché dobbiamo ragionare diversamente passando dalla seconda alla prima guerra?».
Lei lamenta il rischio di celebrazioni fortemente localistiche, tanto da aver coniato la formula di «storiografia a chilometro zero».
«È solo l’ultimo paragrafo di un processo in atto da anni. Soprattutto nel Nord-Est, ossia nei luoghi in cui la guerra fu combattuta, esiste una foltissima bibliografia legata al campanile: a ognuno la sua valle, il suo reggimento, il suo forte, la sua battaglia. È una bi-bliografia che si autoalimenta, fatta da piccoli editori che possono contare su un continuo nuovo flusso di studiosi profondamente radicati sul territorio. Non ho nulla contro la microstoria, tutt’altro: serve a rendere più leggibile la grande storia. Buona parte di questi studi, però, tende a chiudersi nel microcosmo».
Con quali rischi?
«Che questa diventi l’ottica prevalente dell’anniversario: ossia l’angolatura del piccolo è bello, piccolo è nostro, molto in sintonia con gli amministratori di quei luoghi. E ancora una volta mi ritroverò in rotta di collisione non perché non mi piacciano gli atteggiamenti comunitari, ma perché si tratta di una comunità chiusa in se stessa e autocentrata. Così quella che ricorderemo sarà una guerra non solo destoricizzata per le ragioni che abbiamo detto prima, ma anche depoliticizzata o almeno appannata nella sua dimensione statuale».
Perché dice questo?
«Molti amministratori municipalisti - leghisti o variamente localisti - non vogliono avere a che fare con le ragioni dello Stato italiano, né di allora né di oggi. E così sarà ricordata una guerra di contrada, con i nostri nomi, le nostre umane sofferenze, le nostre virtù civiche. Tenga anche conto che il grosso dei finanziamenti arriverà non dallo Stato italiano ma dalle Regioni, specie quelle a statuto speciale. Questo aiuterà a pensare la guerra in termini decentrati e periferici. E i luoghi della memoria diverranno la meta di gite, più o meno come si va a Santiago di Compostela. Un tempo si chiamavano pellegrinaggi, oggi si chiama turismo consapevole».
Lei ora ripropone il suo Mito senza cambiarne una virgola.
«Controcorrente all’epoca in cui uscì, nel 1970. E controcorrente oggi. Non c’entra niente con l’attuale senso comune sull’“assurdo della guerra”, semmai indaga motivazioni e valori attribuiti al conflitto, le virtù e non solo l’orrore dei combattimenti, in altre parole il vissuto loro, non il nostro. Parla dei miti, senza volere demitizzarli. E se posso dire una cosa da cittadino, rinunciando per un momento alla veste di storico: era meglio non farla la guerra? D’accordo. Ma se proprio si deve fare, è meglio vincerla che perdere. Senza dovercene poi vergognare».
Repubblica 10.3.14
La strage lenta e inutile dal fronte degli scrittori
Le opere di De Roberto, Hemingway e Lussu in una trincea spietata e farsesca
di Paolo Mauri
Non è la prima volta che La paura, un antico racconto di Federico De Roberto che risale agli anni Venti, viene riproposto. E con ragione: è un bellissimo racconto, per molti aspetti esemplare. Ma ripubblicarlo oggi, come fa e/o unendolo ad altri racconti sempre di De Roberto sulla grande guerra, ha un valore speciale perché il centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale ci obbliga ad una riflessione una volta tanto davvero epocale. Quando De Roberto, che era stato interventista, scrive i suoi racconti di vita militare (tra l’altro basandosi su esperienze altrui, visto che lui al fronte non c’era andato) la retorica bellica, nazionalista, futurista e via seguitando, era ancora molto diffusa. L’Italia era in gran parte dannunziana e in molti erano stati a suo tempo gli interventisti, anche di gran nome. Adesso, a guerra conclusa, con alle spalle Caporetto e una carneficina immensa, oltre seicentomila morti, il fascismo nascente aveva buon gioco a gettare sale sulle ferite aperte, sulle delusioni degli ufficiali e sui rimpianti per quella che a molti pareva una vittoria “mutilata”. Intanto D’Annunzio compiva l’impresa di Fiume e ancora una volta la retorica della guerra era merce apprezzatissima.
De Roberto scrive La paura per descrivere l’assurdità della guerra e naturalmente, siamo nel ‘22, trova difficoltà a pubblicare il racconto. L’azione ci porta in trincea, al fronte. Noi, grazie a De Roberto, siamo in mezzo alla truppa. Ascoltiamo i militari mentre commentano ciò che accade, sentiamo i loro dialetti diversi mescolarsi tra loro e all’italiano degli ufficiali. Non sono soldati paurosi: devono andare e vanno, impavidi, sotto il fuoco nemico. «Una lenta, metodica e inutile strage», pensa il tenente Alfani e quasi è sfiorato dall’idea di porre fine a quella tragedia, magari bloccando lui stesso l’azione, che poi voleva dire insubordinazione. Ma ecco che il capoposto chiama il soldato Morana, un veterano della guerra d’Africa. Il tenente Alfani parla di dovere da compiere, ma certo non si aspetta la reazione di Morana che due volte ripete: «Signor tenente, io non ci vado». È un vigliacco? Per tale la retorica bellica lo avrebbe sicuramente spacciato. In guerra bisogna morire. Anzi, è bello morire. Ma Morana non ha paura della morte: ha orrore di una morte stupida, stupida perché, oltretutto, inutile. Invano il tenente cerca di convincerlo: Morana è irremovibile e, mentre sopraggiunge il maggiore in ispezione, prende il moschetto e si spara. Antonio Di Grado, nel concludere la sua finissima prefazione al volume di racconti, illumina l’immagine di quest’uomo con l’arma in pugno collocandolo nella schiera dei “vinti”, ultimo personaggio creato «dal nostro spietato naturalismo» la cui tragica ostinazione ricorda quella del personaggio verghiano Rosso Malpelo.
All’insegna del grottesco, ma con risvolti drammatici, è Rifugio.
La storia di un ufficiale che viene sorpreso da un temporale furibondo. Si rifugia, bagnato e infangato, nell’ospitale casa di una famiglia di contadini. Lì viene rifocillato, asciugato e rivestito con i panni di un figliolo che è sotto le armi e che da qualche tempo non dà notizie di sé. Ma quel figlio è un disertore e proprio l’ufficiale in questione sa bene che è stato passato per le armi e pian piano scopre che proprio di lui stanno parlando i suoi cortesi ospiti. Da un lato dunque i valori della solidarietà umana, del sostegno reciproco, della generosità e dall’altro il codice di guerra che non ammette ripensamenti. Dovette finire un’altra guerra e con essa il fascismo perché un romanzo come Addio alle armi, pubblicato in America nel 1929, potesse guadagnare le librerie italiane nella traduzione di Fernanda Pivano. E d’altra parte, su un piano ben diverso, Gadda rimuginò molto a lungo sulla opportunità di dare alle stampe il suo diario di guerra e di prigionia, secco referto di una sconfitta difficile da accettare per chi aveva coltivato guerra e patriottismo come “Dovere” tra i più alti immaginabili. D’altra parte la memorialistica della grande guerra è quasi sempre appannaggio della classe colta: Soffici con il suo Kobilek, Lussu con Un anno sull’Altipiano e via elencando. Bisognerà aspettare anni molto recenti per veder spuntare dal nulla le memorie di un soldato siciliano quasi analfabeta, Vincenzo Rabito, che nella sua Terra matta racconta la trincea “dal basso”, dalla parte di chi seppelliva cadaveri.
La paura di De Roberto mi ha fatto, per altri versi, tornare in mente il capolavoro antimilitarista di Kubrick, Orizzonti di gloria. È un film del 1957 e racconta, siamo sul fronte franco tedesco, i deliri di un generale francese, pronto a sacrificare i suoi uomini per un’impresa impossibile. Ma proprio perché fortemente antimilitarista il film venne bloccato dalla censura francese (uscì solo nel ‘75) e persino negli Stati Uniti ebbe le sue difficoltà, superate grazie al fatto che c’era Kirk Douglas tra gli interpreti. Ma mi ha fatto anche tornare in mente Jaroslav Hašek e il suo immortale soldato Švejk che ha dato della vita militare un ritratto spietato, essendo egli un idiota notorio, pronto ad eseguire ogni comando alla lettera. Secondo Švejk, il succo della guerra consisteva in un supplente di matematica che cercava di uccidere nella trincea opposta un altro supplente di matematica. Aveva torto?
Almeno in Europa i supplenti di matematica hanno oggi impegni molto più pacifici, ma la guerra infuria da tante parti e i nostri militari sono in perenne e spesso pericolosa missione di pace. Leggere De Roberto può essere istruttivo. E persino divertente: avrei messo anche La “Cocotte” tra i racconti, insieme alla Retata e all’Ultimo voto che chiudono la silloge, perché c’è sempre un’altra faccia della guerra, accanto a quella tragica, ed è quella farsesca. Magra consolazione dopo tanto sangue, ma argomento degno, io credo, di riflessione.
Repubblica 10.3.14
Manuale del perdono
Recalcati: Così l’amore sopravvive al tradimento
“Non è più come prima”, il nuovo libro dello psicanalista sui rapporti di coppia nell’epoca del consumo della felicità “tutta e subito”
di Concita De Gregorio
Si chiede, Massimo Recalcati, se la forza dell’amore possa vincere lo spirito dei giorni. Si chiede se sia ancora possibile, come in qualche raro caso superstite è possibile, ritrovare dentro di sé la forza e il tempo che servono a sconfiggere l’imperativo dell’epoca: l’iperedonismo del discorso capitalista, lo chiama. Avere, avere, avere. Possedere. Tenere in mano ciò che procura piacere al massimo grado quel giorno, qualcosa di nuovo ogni giorno. Accaparrarsi il piacere e identificarsi in quello, godere della titolarità costosa ed effimera di un nuovo modello di auto, l’ultimo uscito, dello smartphone più moderno, del televisore al plasma a più alta definizione. Dell’amore nuovo, dell’uomo o della donna che riaccendono il desiderio adesso. Effimero, il piacere dell’ultimo modello, perché ciò che è nuovo oggi sarà vecchio domani, forse già stasera. E però sostituire, rottamare, decidere in fretta e decidere possibilmente da soli: queste sono le parole guida del tempo, nella vita privata come in quella pubblica, a casa e in politica. Fare presto, fare a meno dell’eccesso di dialogo che potrebbe appesantire e frenare, fare senza il dubbio che rallenta e l’ascolto che distrae. Stare bene. Essere liberi di scegliere e farlo. Muoversi, cambiare, correre. Flessibilità, cinismo, opportunismo, infine e sempre: decidere il meglio per sé, prenderlo. È questo che ci rende felici? Davvero lo fa?
Non è più come prima, s’intitola il libro, ed è un «elogio del perdono nella vita amorosa». Giacché di questo si parla: di amore. Tutto il resto ne discende. In particolare va in cerca, Recalcati, di quella particolare modalità di amore che è «l’amore che resiste, che insiste». L’amore capace di durare nel tempo e di non cedere alla lusinga della nuova sirena, alla rabbia dell’onore offeso, alla delusione dell’imperfetta corrispondenza con le attese e coi bisogni. Capace di perdonare la sua stessa imperfezione. Fuori metafora, e molto più semplicemente: è ancora possibile, oggi, conservare un amore e perdonare il tradimento? Decidere di restare con qualcuno che torna? Oggi, perché in passato sì che lo era: per intenzione o per forza questo assai spesso si faceva, lo raccontano i nonni ma più ancora le nonne. E qualche superstite c’è, si diceva: come sopravvissuti a un’epidemia di peste ci sono, attorno a noi, alcuni indenni dalla schiavitù del nuovo, del sostituto, dell’arbitrio scambiato per libertà di scelta. Recalcati racconta la storia di un uomo, in chiusura del suo libro. La storia di O. Dice quanta fatica costi restare dentro il perimetro dell’amore tradito, ma di quanta profonda gioia sia colma la meta. Perché spesso perdonare è alla fine più facile che essere perdonati, e perdonarsi. Le 130 pagine che precedono il “diario di un dolore”, l’epilogo che racconta la storia di O., sono un trattato sull’amore che non vuole morire. Un abbecedario delle insidie e degli ostacoli. Un dizionario delle parole e dei gesti da ritrovare e da mandare a mente, cancellati come dopo un disastro nucleare dalla bomba. Libertà e schiavitù. «La ricerca compulsiva del nuovo non è libertà, è la nuova schiavitù». Abbandono e attesa. Ciascuno di noi esiste solo nel riconoscimento dell’altro. Il neonato che grida sta chiamando solo se c’è qualcuno che ascolta e che accorre. «Eccomi», dice l’altro. Dunque esisti, se ti sente. Se chi ami ti abbandona cessi di esistere: entri in un mondo fuori dalla scena del mondo. Fedeltà e sacrificio. È davvero la fedeltà una rinuncia al desiderio? Gelosia e libertà. Si può tenere prigioniero un amore? Esiste una libertà prigioniera della domanda dell’altro, anche se l’altro domanda solo - solo - di essere desiderato nel corpo? Scrive Recalcati: «Il lavoro del perdono è un lavoro che esige tempo: la memoria dell’offesa viene attraversata e riattraversata al fine di raggiungere un punto di oblio che rende possibile un nuovo inizio». Somiglia al lutto ma lì l’oggetto è morto, qui è vivo. Anzi: è vivo e morto allo stesso tempo. Bisogna riuscire, vincendo l’orgoglio narcisistico e le sue espressioni tanto spesso violente, a perdere il primo oggetto d’amore per trovarne un altro. Come tastando alla cieca un corpo nel buio. Si può? Si può. Per gli uomini è più difficile perdonare. «Per l’uomo l’identità è un’uniforme», l’offesa è un’umiliazione sociale. Se l’imperativo categorico è il godimento, ogni ostacolo sarà rimosso con violenza. L’uomo può uccidere in nome dell’amore e può uccidere in nome di Dio, con la stessa cecità sorda. La tragedia di molte donne, al contrario, non è solo essere picchiate ma non riuscire a vivere lontano da chi le picchia.
Eppure esistono, mostra l’autore, amori rari che «rispettano le distanze, si nutrono delle differenze, amori che si sostengono sulla solitudine reciproca degli amanti». Esiste la possibilità di sottrarsi alla menzogna del nostro tempo senza per questo rassegnarsi a una vita priva di desiderio. È un sentiero stretto, ma c’è e qualcosa tutto attorno a noi ci dice che si sente il bisogno di tornare a percorrerlo. Lo raccontano Roth e Mc-Carthy, Tornatore e De André. Lo dice la politica: cambiare solo in nome del nuovo non soddisfa il bisogno profondo, i bisogni reali. Lo indica la saggezza popolare, perché il meglio è nemico del bene. La luce, dice Recalcati, è piena d’ombra. Sempre più rara è la solitudine eppure la vera pienezza non nasce che dall’incontro con se stessi. Poi serve è vero, come al neonato, la risposta dell’altro. Che tuttavia è imprevedibile, sempre, e mai risiede nelle attese. Ogni amore è in pericolo. Saper accogliere quella risposta, attenderla, salutarla con sollievo quando torna. Questo il segreto, fin dalla culla.