Repubblica 11.3.14
“Io, abbandonata in bagno ad abortire”
Roma, l’accusa di Valentina: in ospedale erano tutti obiettori
di Caterina Pasolini
ROMA - «Io sognavo un figlio, un bambino che avesse qualche possibilità di una vita normale. Invece mi sono ritrovata ad abortire al quinto mese sola come un cane. Abbandonata in un bagno a partorire il feto morto, con il solo aiuto di mio marito Fabrizio. E tutto questo per colpa di una legge sulla fecondazione ingiusta, di medici obiettori, di uno Stato che non garantisce assistenza». Valentina Magnanti ha 28 anni, minuta e combattiva con un filo di voce racconta la sua storia. Fotografia di un’Italia condannata dall’Europa nei giorni scorsi per violazione della legge sull’aborto, dei diritti delle donne, proprio a causa dei troppi medici obiettori.
Cosa c’entra la legge 40?
«Ho una malattia genetica trasmissibile rara e terribile, ma in teoria posso avere figli, quindi per me non è previsto l’accesso alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impianto. A me questa legge ingiusta concede solo di rimanere incinta e scoprire, come poi è avvenuto, che la bambina che aspettavo era malata, condannata. Lasciandomi libera di scegliere di abortire, al quinto mese: praticamente un parto».
Quando ha deciso di abortire?
«Ci avevamo tanto sperato in quei mesi che il piccolo fosse sano, ne avevamo già perso uno per gravidanza extrauterina. È stato un colpo, ma la malattia è terribile per cui con mio marito Fabrizio abbiamo deciso...»..
E qui comincia la serie dei medici obiettori.
«Scopro che la mia ginecologa lo è, si rifiuta di farmi ricoverare. Riesco dopo vari tentativi ad avere da una ginecologa del Sandro Pertini il foglio del ricovero, dopo due giorni, però, perché soltanto lei non è obiettore».
È il 27 ottobre 2010 quando
entra in ospedale.
«Incominciano a farmi la terapia per indurre il parto, a base di candelette, mi dicono che non sentirò nulla. E invece...»
Cosa accade?
«É stato un inferno. Dopo 15 ore di dolori lancinanti, tra conati di vomito e momenti in cui svengo, con mio marito sempre accanto che non sa che fare, che chiama aiuto, che va da medici e infermieri dicendogli di assistermi, senza risultato, partorisco dentro il bagno dell’ospedale. Accanto a me c’è solo Fabrizio».
Medici e infermieri?
«Venivano per le flebo, ma nessuno li ha visti arrivare quando chiamavo aiuto. Nessuno ci ha assistito nel momento peggiore. Forse perché da quando sono entrata a quando ho partorito era cambiato il turno, c’erano solo medici obiettori».
È molto amareggiata.
«Già una arriva in ospedale disperata, perché in quel figlio ci hai creduto e sperato per cinque mesi, poi ti mettono ad abortire a fianco delle neo mamme e senti i bambini piangere, uno strazio. In più, mentre ero lì stravolta dal dolore entravano degli attivisti anti aborto con Vangeli in mano e voci minacciose».
Lei però non ha denunciato.
«Quando è finito tutto non avevo più la forza di fare nulla. L’avvocato parla di omissione di soccorso, io so solo che nessuno deve essere trattato così in un Paese civile. Il responsabile è lo Stato che non garantisce un servizio sanitario adeguato. Nel Lazio quasi tutti i ginecologi sono obiettori. Pensate la desolazione che troppi devono vivere, obbligati a implorare per un ricovero, per abortire, come me, un figlio desiderato».
Adesso il tribunale le dà ragione.
«Almeno sulla legge 40 sì. Mi sono rivolta all’associazione Coscioni e abbiamo fatto ricorso perché anche chi ha malattie genetiche possa accedere alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impanto, perché non ci si debba ritrovare ad abortire al quinto mese. E ora il tribunale, per la seconda volta in due mesi, ha sollevato dubbi di costituzionalità su questo punto della legge. Forse ora anch’io potrò diventare madre».
La Stampa 11.3.14
“Il mio calvario di esclusa alla fecondazione”
di Flavia Amabile
con un video
qui
La Stampa 11.3.14
Ancien Régime
di Massimo Gramellini
L’altra sera in televisione è accaduto qualcosa di inedito. Un premier apparentemente di sinistra, ma di sicuro installato da elettori di sinistra al vertice del principale partito della sinistra, attaccava i sindacati su una rete di sinistra, tra gli applausi incontenibili del pubblico in studio. Ascoltati dal retropalco, quegli applausi erano ancora più impressionanti: molti spettatori battevano addirittura i piedi. E non si trattava di una feroce setta di capitalisti o del fan club di Brunetta, ma di persone normali che avevano appena chiesto l’autografo a Sorrentino e un’ora dopo si sarebbero messe in coda col telefonino per farsi immortalare accanto alla Littizzetto. La cordiale ostilità verso i sindacalisti ricorda quella verso i giornalisti, gli uni e gli altri assimilati ai politici per varie ragioni. Intanto perché li frequentano assiduamente, al punto che talvolta diventano politici anche loro. E poi perché, a torto o a ragione, vengono considerati collusi col potere anziché suoi fieri contraltari.
La difesa dei garantiti ha tolto autorevolezza ai sindacati, vissuti dalle fasce sofferenti della popolazione come una forza conservatrice e ostile al merito, in nome di un concetto asettico di uguaglianza che finisce sempre per deprimere i più volenterosi. L’altro applauso, domenica sera, Renzi lo ha incassato quando ha detto che i cassintegrati andrebbero impiegati nelle biblioteche. A qualcuno sembrerà incredibile, ma a molti italiani persino un cassintegrato sembra un privilegiato. E la Cgil - come Confindustria, del resto - un simbolo dell’ancien régime che ha arrugginito il Paese.
il Fatto 11.3.14
Meno male che Renzi c’è
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, domenica 9 marzo, nel programma di Fabio Fazio “Che tempo che fa”, compare, in tutta la sua autostima, il promettente presidente del Consiglio Matteo Renzi. Domande: primo, perché? Secondo, c’era un pubblico da loggione tipo Pavarotti. A ogni affermazione del presidente del Consiglio gridavano “bravo!”, scrosciavano applausi da concerto. Terzo, Renzi ha raccontato ed elogiato se stesso tutto il tempo in una specie di “tavola rotonda one man”. Allora è vero che la somiglianza con Berlusconi è impressionante.
Alberta
LA RISPOSTA alla prima domanda (perché?) è nello “ius primae noctis” che i leader politici hanno sulla televisione pubblica in Italia. Il “grande” chiama, il conduttore risponde. C’è una cosa che è giusto dire a proposito della storica serata. Fabio Fazio ha fatto molte delle domande che tutti avrebbero voluto fare. Le risposte sono state sempre di regime, ma era Renzi che appariva avvolto in una sua bolla di missione superiore che lui solo può compiere. È in questo che la somiglianza con Berlusconi è apparsa impressionante, compreso l’aspro sorriso e la battuta finta allegra dietro barriera non penetrabile di potere necessario per la salvezza del Paese. E lo è anche nella sequenza di affermazioni che dicono: ogni mia scelta, umana o politica, è giusta, ogni decisione presa è necessaria, voi non avete visto niente e ancora non avete capito chi sono io. Come per il passato regime, tutto è annuncio, con sciolto linguaggio, che suggerisce la velocità ormai leggendaria e una irresistibile “cultura del fare” (ricordate?). Eppure sono annunci persino le cose che stanno per essere decise adesso o fra poco. Lo sono nel senso che - come in “Gravity” - appaiono cadere in un vuoto che, purtroppo, non permette recuperi. Ci ha detto che lui è come un equilibrista sul filo. Non è bello fare il tifo per una sua caduta, perché cadrebbe il Paese. È vero. Ma l’immagine ci fa ritornare alla domanda: perché è sul filo? Non era stato scelto per rimettere a posto il disastrato Pd? Di nuovo, diversamente nuovo, con lui, c‘è l’incontro di Monaco con Berlusconi e l’imprevista “profonda sintonia” che cancella la storia, ma non crea storia. Perché la “nuova legge elettorale” in una prima versione appare modesta e nella seconda appare mutilata (solo una Camera) e, al momento, inutile. Serve solo per proclamare: “Ecco qua, noi ce l’abbiamo fatta”. Presto detto ma niente fatto. È come guidare con una finta patente. Pensate che, nel monologo alla presenza di Fabio Fazio, Renzi ha detto testualmente: “Serve la competitività del sistema Paese”. Non avete l’impressione di avere già sentito questa frase fin dall’altro secolo? Poi abbiamo sentito affermare che “l’abolizione del Senato abbatterà finalmente i costi della politica”, una visione piccolissima, poco più di una feritoia, sia sui costi veri che sulla visione per affrontare l’immenso problema. A un certo punto il nuovo segretario del Pd (sia pure uno che, come si dice di certi medici, non ha mai esercitato) proclama testualmente con scandalo: “Venti anni di giustizialismo hanno equiparato l’avviso di garanzia alla condanna”. Per questo lui ha cercato quattro sottosegretari, non particolarmente famosi nelle loro discipline o nei nuovi incarichi, pur di dimostrare il principio che si può essere inquisiti e si può stare (si deve stare) al governo. Il padre, ad Arcore, si sarà certamente commosso. Dove lo trovi un figlio che dice ancora “giustizialismo” per dire indagini dovute sui reati, e porta gli indagati al governo, come una bandiera?
il Fatto 11.3.14
Alto tradimento
Primarie dem, la sconfitta del leader a casa sua
Pontassieve sceglie il candidato sindaco sostenuto dalla minoranza
Per sole 15 schede, la rappresentante dell’opposizione interna batte l’uomo appoggiato dal “numero uno” che vive con la famiglia nella cittadina toscana
Nonostante il tifo della moglie Agnese
di Davide Vecchi
Sono 60 anni ormai che va avanti questa storia: il sindaco in carica, come nelle antiche Signorie toscane, indica il suo successore e quello ovviamente vince”. La sconfitta alle primarie Samuele Fabbrini non se l’aspettava. Ha perso per appena quindici voti. Quindici schede che bruciano parecchio. Perché lui era il candidato renziano, tanto che sui volantini per sostenere la propria candidatura aveva messo il viso del premier accanto al suo, e perché la sfida era per correre a sindaco di Pontassieve, fortino del segretario. Come venti anni fa Pontida per Bossi e i leghisti, questo Comune ad appena 12 chilometri e venti autovelox da Firenze, è il feudo del nuovo leader, il gran casato di Renzi. Qui vive la famiglia, in una villetta arrampicata sul crinale di una collina che padroneggia il paese. La moglie Agnese "ha votato per me", rivendica Fabbrini. Qui il premier arriva ogni domenica, va in chiesa, stringe mani, bacia e accarezza bambini. “Qui dovevamo vincere a mani basse”, sospira Fabbrini. E sfoga la rabbia: “Quella lì domenica è andata pure a messa, forse per la prima volta in vita sua, per farsi vedere con Matteo”.
QUELLA LÌ è Monica Marini, cioè la vincitrice. Architetto, da dieci anni assessore comunale, “da sempre di sinistra”, dice iscritta “al Pds ai tempi dell’università: ho pianto sia per le lacrime di Achille Occhetto sia per quelle di Bersani”, dice. Agli schiaffi assestati da Fabbrini non ribatte. Arriva a metà pomeriggio nel circolo Arci primo Maggio. “Brava, ce l’abbiamo fatta”, le grida avvicinandosi Maurizio Poggi, padre locale di Sel. E scherza: “Certo io ho Vendola tu Renzi, i segretari ci fanno soffrire”. Lei ringrazia, sorride e si siede in disparte. “Ho dieci minuti: devo tornare al lavoro, questo mese di primarie mi hanno costretto ad allentare un po’ in Comune”. Taglia corto: “Gli attacchi di Fabbrini? Io credo che durante le primarie ci stia pure lo scontro, come nei congressi, ma poi bisogna lavorare tutti insieme dal giorno dopo perché la sfida è per conquistare il Comune mica per essere candidati”. Punto due: “Renzi mi ha deluso e con lui la parte del partito che ha trattato in quel modo Bersani e poi dopo l'8 dicembre gestito il Pd in maniera personalistica, deleteria però ripeto: c’è stato un congresso, ci sono state le primarie, ha vinto Renzi e ora lui è anche il mio segretario ed è giusto così”. Acqua sul fuoco necessaria. Del resto Pontassieve non è l’unica roccaforte dei renziani a essere caduta in mano nemica.
PURE EMPOLI, cittadina che ha dato i natali al fedelissimo Luca Lotti, è andata a Brenda Barnini, avversario di Filippo Torrigiani sponsorizzato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E tra lungo l’Arno e dintorni paese per paese i renziani, veri o presunti, sono caduti come pedine del domino: uno dietro l’altro. Castelfiorentino, Vinci, Cerreto, Certaldo, Capraia. Solo a Fucecchio si va al ballottaggio tra Alessio Spinelli e Silvia Melani.
“Le realtà locali sono diverse dal panorama nazionale, non risentono molto di quello che combina Renzi a Roma”, garantisce Stefano Gamberi, segretario comunale a Pontassieve e coordinatore dei circoli Pd. E aggiunge: “Tant’è che l'affluenza è stata praticamente identica alle primarie dell’8 dicembre, a conferma che c'è sempre una voglia di partecipazione notevole”. La sconfitta in casa di Renzi preferisce non commentarla. Neanche le polemiche di Fabbrini. "Domenica sera siamo andati insieme a fare i complimenti a Monica, certo perdere per 15 voti brucia e ovvio ma ora si deve lavorare tutti insieme”. Nel Pd lo ripetono tutti tranne lo sconfitto. Che anzi lascia il moschetto e spara a pallettoni. “A livello locale contano molto le amicizie, i potentati, chi ha interessi da conservare sul territorio e così è stato con la Marini”. Ancora: “Qui siamo in Bulgaria su certe cose, io sono entrato nel Pd nel 2009, ho 34 anni e non sono cresciuto nel partito né nel potere locale, io”. E ripete: “Il sindaco dice chi votare, gli assessori fuori dai circoli pure, è il sistema della politica del 900: attaccati al voto, da feudo”. La distanza con Firenze è poca, eppure lì Renzi ha incoronato suo successore Dario Nardella. “Ma è diverso”, in cosa? “Qui siamo a Pontassieve”.
il Fatto 11.3.14
Farinetti Vende il 20% di Eataly e pensa alla Borsa
Grandi manovre per Oscar Farinetti: ha ceduto il 20 per cento della sua Eataly, il gruppo di distribuzione alimentare di alta gamma, al fondo di investimenti Tip, di Giovanni Tamburi, storico protagonista di Piazza Affari (già socio di Carlo De Benedetti). Tamburi paga il 20 per cento di Eataly 120 milioni, quindi l’intero gruppo si trova ad avere un valore implicito di 600 milioni di euro. E questa è un’informazione utile perché Farinetti stesso spiega di aver venduto sia per avere liquidità sia come tappa verso la quotazione in Borsa “che ci piacerebbe raggiungere entro il 2017”. Farinetti, che resta presidente, passa così dall’80 al 60 per cento del capitale ma guadagna un partner finanziario importante : se Tamburi ha comprato è perché, probabilmente, conta di poter vendere a un prezzo maggiore quando l’azienda arriverà in Borsa. I numeri di Eataly oggi sono buoni e in crescita, anche se non è un gigante, a dispetto dell’enorme successo di immagine: dopo tre anni in cui la crescita è stata del 33 per cento, Fari-netti punta a raggiungere i 400 milioni di fatturato con un ebitda (la misura di quanto rende il business principale prima di contare tasse e interessi) di circa 45 milione. Forte del suo rapporto con il premier Matteo Renzi, il gruppo di Farinetti sta avendo un’enorme pubblicità gratuita e gli amministratori locali fanno a gara per ospitare i suoi supermercati-ristoranti.
Il prossimo 18 marzo aprirà un punto vendita al Teatro Smeraldo di Milano di 5500 metri quadri.
il Fatto 11.3.14
Rossi e permalosi La sinistra ride solo degli altri
Un satirico racconta le croniche proteste contro le sue vignette: “rimpiango Storace...”
di Stefano Disegni
La cosa peggiore che può capitare a uno come me che per mestiere piglia per il culo il prossimo non è imbattersi in un prossimo molto vendicativo e particolarmente robusto che ti esprime il suo disappunto, invertendoti gli zigomi a cazzottoni. Tipo un fascistone trinariciuto alla Storace, per capirci. Né una querela (in uso tra i più civilizzati popoli di centrodestra) può far tremare chi ha affinato le sue arti per meglio fare di qualcuno lo zimbello di un intero Paese. Le querele per noi satiri sono come le medaglie per i generali o le cicatrici per Rambo: motivo di orgoglio e credibilità, più ne hai più sarai ricordato. No, la cosa peggiore che può capitare al satiro (e a me è capitata spesso) in risposta a qualche spiritosata non gradita è la “telefonata amicale”.
LA TELEFONATA AMICALE nel 99,9 per cento dei casi è effettuata da gente di sinistra. I miei. La “telefonata amicale” della gente di sinistra si struttura in un prologo medio/breve in cui il chiamante esordisce con ilare autoironia raccontando al chiamato quanto si è divertito con la strip a lui dedicata. “Mi hai fatto davvero ridere” è il pentaverbo di cui potrei azzeccare il minuto esatto in cui viene espresso, tante le volte che l’ho sentito (di solito al sesto del primo tempo). Perché poi c’è un secondo tempo. Ma andiamo con ordine. Dopo il pentaverbo arriva immutabile la rievocazione, da parte del chiamante, del luminoso cammino professionale del chiamato con citazione di tappe salienti. Più o meno all’ottavo del primo tempo arriva così un quadriverbo, il ben noto “ti ho sempre seguito”, con cui il chiamante rinforza il concetto della grande stima che ha per il chiamato, che ha sempre letto, apprezzato e a volte ritagliato e appeso sul frigorifero. Poi arriva il secondo tempo. Inizia con il temuto triverbo (quadriverbo se arricchito dell’aggettivo “piccola”): “Solo una precisazione”. Un triverbo temuto, temutissimo: il chiamato sa che è la porta del secondo tempo della telefonata amicale, il chiamato è conscio della slavina di precisazioni e distinguo che lo sta per seppellire. Il secondo tempo della telefonata amicale della gente di sinistra cui brucia il culo per essere stata presa per il suddetto (che di questo si tratta, amicale un par de palle) è infatti un lungo, tedioso, capzioso e acidino monologo su questo o quell’aspetto della personalità del chiamante che il chiamato non ha capito, ha interpretato male, ha travisato, realizzando così una strip o vignetta “che poteva venire molto più divertente, se, perdonami, lo dico proprio perché ti stimo, non fossi stato un po’ superficiale, anche se il livello è sempre altissimo”. Dopo venti minuti di vivisezioni linguistiche e analisi semantiche della strip vignetta per vignetta, con cui il chiamante fa civilmente riflettere il chiamato sulla assoluta gratuità del suo attacco, il chiamato rimpiange il fascistone trinariciuto alla Storace che viene lì, in due minuti ti inverte gli zigomi, ma almeno non ti tiene un’ora al telefono per dimostrarti metafora dopo metonimia dopo sintagma che sei una merda, ché per questo ti ha chiamato, altro che cazzi. Perché quelli di sinistra, pure se civilmente e con alta qualità sintattica, si incazzano più degli altri.
È CHIARO perché. Perché noi siamo i buoni, noi siamo i tolleranti, noi siamo i corretti. Noi abbiamo a cuore le minoranze. Noi non siamo fascisti, razzisti, egoisti. Noi non siamo volgari. Noi non siamo Berlusconi. Pertanto non possiamo essere satireggiati. Anzi, sì, ci mancherebbe, siamo democratici e la satira deve essere libera, però non oltre i limiti di quello che a noi sembra corretto, siediti e sta a sentire che te li spieghiamo per una tua crescita. Ho fatto strip sul vulvomaniaco di Arcore e su Papa Ratzinger (satiricamente mai troppo rimpianti) che non farei vedere ai bambini, ma nessuno s’è mai fatto sentire. Le uniche “telefonate amicali” le ho ricevute da registi, presentatori, deputati, scrittori invariabilmente belli, buoni, civili e di sinistra. Loro. L’Ego, meno.
Repubblica 11.3.14
L’amaca
di Michele Serra
In quanto
proboviro (autonominato e autoconvocato) ho preso in esame la parodia
del ministro Boschi fatta da Virginia Raffaele a “Ballarò” e ho
stabilito che no, non si tratta di satira sessista; si rinfranchi la
presidente della Camera Boldrini. Si tratta del più che lecito dileggio
della bellezza come arma sociale. Nel pezzo della Raffaele non c'era
alcun riferimento allo scambio sessuale come scorciatoia di carriera
(quella sì sarebbe satira sessista: e se ne è abusato, in passato,
contro le donne politiche di destra, certo non tutte “a disposizione”),
solo uno svenevole bamboleggiare per distrarre l'uditorio da eventuali
risposte lacunose. Artefice del numero comico, per giunta, era una
femmina; e così come si concede solo agli ebrei di raccontare
barzellette antisemite, e di raccontarle con allegra ferocia, si conceda
alle donne di ridere e far ridere sulla propria seduttività di genere.
Dei politici uomini si deridono, di solito, la volgarità e il
pressappochismo, e si tratta senza dubbio di vizi “di genere”,
riassumibili - mi si scusi il latinismo - nella tipica minchioneria
maschile. Si lasci anche alle femmine qualche appiglio per essere
derise, e dunque non discriminate.
ULTIM’ORA:
Corriere on line 11.3.14
Pd spaccato, Renzi a muso duro
Renzi al Pd: «Legge elettorale, chi non la vota oggi lo spieghi fuori»
Ultimatum del premier al suo partito: «Vi chiedo, come Pd, di chiudere oggi o questo ricadrà su di noi»
qui
ULTIM’ORA:
Corriere on line 11.3.14
Italicum, Bersani: «Occorre cambiare. Berlusconi? Se ne farà una ragione»
«Al Senato dovrà essere cambiato qualcosa,è emerso nel dibattito. Capisco gli accordi e che Berlusconi sia affezionato ad alcuni punti, ma dovrà farsene una ragione pure lui. Se non c’e’ una spinta sulle regole, alla parita’ di genere non ci arriveremo mai». Lo ha detto, a proposito della legge elettorale e delle polemiche sulla bocciatura degli emendamenti per la parita’ di genere, l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, intervistato da Agorà su RaiTre
l’Unità 11.3.14
Italicum, niente parità rivolta delle donne
Vergogna alla Camera: bocciati tutti gli emendamenti sulla parità
Pd spaccato: più di cinquanta no alla proposta di mediazione
Le democratiche lasciano l’aula
di Federica Fantozzi
Emendamento al buio. Sulla parità di genere l’accordo non spunta. Si va alla battaglia in aula: a voto segreto, però. E la mediazione del 40% dei capilista donne - l’unica in campo - si schianta contro 298 no e 253 sì. Tra Pd e Sel mancano all’appello un’ottantina di voti, anche di più se si sommano i sì delle deputate forziste. È caos in aula, le Dem abbandonano l’emiciclo decise a far mancare il numero legale. Finisce nel baratro una giornata nerissima, fatta di stop and go, trattative nel comitato dei nove, tentativi Dem di ammorbidire Forza Italia e sospetti azzurri di fuoco amico sull’Italicum da parte della minoranza Pd. L’impasse è certificata: governo, commissione Affari Costituzionali e comitato ristretto alla fine si rimettono all’aula. Pd, Fi e Scelta Civica lasciano un’ambigua libertà di coscienza ai loro deputati.
Sono quasi le nove di sera, quando a Montecitorio cala il sipario. In rapida successione sono già stati bocciati gli emendamenti sull’alternanza di genere (335 no e 227 sì) e sull’alternanza dei capilista (344 no e 214 sì). Il fronte dei contrari cresce. A nulla valgono gli appelli di Epifani, Barbara Pollastrini («Viene da rimettersi alla clemenza della corte...»). Dal Pd si sfilano molti dei suoi 293 deputati, considerando anche i 36 vendoliani e i montiani. Che tirasse un’ariaccia si era capito quando, all’appello di Rosy Bindi ai colleghi maschi affinché ritirassero le firme dalla richiesta di voto segreto, due acconsentono (Sisto e Romano) ma tre si aggiungono, salendo a quota 41. Non si materializza il soccorso grillino, sperato anche dalle donne di piazza in Lucina: «Ipocriti, vogliamo asili nido e non quote rosa, cambiare la società, non avere ministeri senza portafoglio» denunciano in aula le pentastellate.
Lo scontro è feroce dentro Forza Italia, dove Berlusconi ha delegato tutto alle sapienti mani di Verdini. Amareggiata, prende la parola Stefania Prestigiacomo avvolta in uno scialle candido: «Parlo in dissenso dai miei, nel 2005 Bondi diede voto favorevole, oggi un partito liberale non lascia libertà di coscienza». Subito rimbrottata da Brunetta: «Sta prevalendo la più grande libertà». Ma l’onorevole siciliana sa che, di fatto, i giochi sono chiusi. I colleghi minacciano, se passa la parità di genere, di votare in massa l’emendamento di La Russa e Meloni sulle preferenze. Ma così salterebbe l’accordo complessivo: il Cavaliere non può permetterlo, Renzi nemmeno. Verdini, Brunetta, Sisto hanno puntellato il muro delle resistenze maschili. Solo Renata Polverini annuncia al microfono voto favorevole alla parità di genere, mentre Longo fa il contrario.
La partenza era già con il piede sbagliato. Al mattino, il comitato dei nove prima slitta e fa scivolare in avanti l’aula, prevista alle 11. L’accordo è lontano, la mediazione non decolla. Nella notte c’è stato l’irrigidimento di Forza Italia. Il relatore dell’Italicum Francesco Paolo Sisto si esprime con durezza: «Siamo contrari alla parità di genere per legge. È incostituzionale». Distribuisce fotocopie di tre sentenze della Consulta che, a liste bloccate, giudicano incostituzionale «la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature a cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quota in ragione del sesso dei candidati». Poi chiede un rinvio di tre ore e un nuovo comitato ristretto. Se ne riparla al pomeriggio, è chiaro che si finirà tardi. Accantonato il nodo al nodo al femminile, si passa agli altri. Maretta sulla delega al governo per ridisegnare i collegi. Passa l’emendamento Nardella che assegna il compito al Viminale (cioè ad Alfano). Il governo avrà 45 giorni di tempo per emanare il decreto. I collegi plurinominali, da 125 scremati a 115, salgono a un massimo di 120. Tornano le candidature multiple fino a un massimo di 8, sebbene Ncd avrebbe gradito portarle a 10.
Nel frattempo, si tratta a oltranza. Da una parte Verdini, Brunetta e Sisto. Dall’altra Guerini e Maria Elena Boschi. Il ministro delle Riforme si apparta e discute con Verdini e Daniela Santanchè. Il plenipotenziario di Berlusconi chiede al gruppo Dem di votare contro l’emendamento, Speranza rifiuta. E’ ancora stallo. Il governo rompe gli indugi e adotta la soluzione di ripiego: rimettersi all’aula. Non darà parere contrario all’emendamento sul 40-60. In teoria è uno strappo, secondo il patto ogni modifica dovrebbe essere respinta dal governo, ma Renzi forza. Sisto prende il toro per le corna. Chiede alla presidente Boldrini un’ora e un quarto di stop «per sciogliere gli ultimi nodi», ma c’è l’ennesima fumata nera. Forza Italia, Pd e Scelta Civica decidono di lasciare libertà di coscienza ai loro parlamentari. Gli azzurri ritirano il Salva-Lega. La libertà di voto diventa una scelta obbligata: «Il governo ci ha mollati». Non è una resa però: confidano che tutto sia sotto controllo. «Vedremo, la storia non si fa con i se» taglia corto Brunetta. Pronte le firme - più delle 30 necessarie - per chiedere il voto segreto che strangoli le quote rosa nell’urna.
l’Unità 11.3.14
Roberta Agostini: «Nel mio partito c’è chi ha tradito, ma non finisce qui»
«Il voto segreto ha coperto dissensi che non hanno avuto il coraggio di venire allo scoperto
Da Boschi ci aspettavamo maggiore incoraggiamento»
di Maria Zegarelli
Roberta Agostini esce dall’Aula con il volto scuro. «Il nostro partito, il nostro partito non l’ha votato». Furibonde le donne del Pd, un colpo basso. Onorevole, sono mancati prima di tutto i voti del Pd. Partiamo da qui:253 sì, molti meno dei deputati dem.
«Nel Pd c’è stato un tradimento da parte di alcuni di noi. Questo era un emendamento condiviso nel gruppo a parole, più degli altri, ma evidentemente il voto segreto ha coperto dissensi che non hanno avuto il coraggio di venire alla luce e di mostrarsi. Un atteggiamento irresponsabile e incomprensibile, tanto più perché il Pd applica già al suo interno norme e regolamenti stringenti che hanno consentito l’elezione di un gruppo che ha quasi il 40%di presenza femminile. Ma in questa vicenda è bene anche sottolineare la responsabilità di Forza Italia e di Berlusconi che ha manifestato una totale contrarietà ».
Incomprensibile l’atteggiamento di alcuni deputati Pd? C’è chi dice che il patto tra Renzi e Berlusconi veniva prima di tutto, anche della parità di genere. Non crede sia questa la spiegazione?
«Certamente la riforma elettorale si fonda sull’accordo prioritario tra Renzi e Berlusconi, ma il patto andava concordato meglio e di più con le forze dell’attuale maggioranza e soprattutto la discussione dentro il Pd doveva essere più approfondita. La legge elettorale andrebbe fatta presto ma anche bene. Tra l’altro il testo dell’Italicum ha già subito modifiche e alcune altre sarebbero auspicabili, come le modifiche delle soglie e la scelta da parte degli elettori. Credo che anche questo punto andava chiarito bene sin dall’inizio. Inoltre la direzione nazionale non ha dato solo mandato al segretario di raggiungere un’intesa sulla legge elettorale ma ha anche approvato all’unanimità un ordine del giorno che impegnava il Pd, qualunque fosse stata la riforma elettorale, ad inserire norme antidiscriminatorie cogenti. Ci siamo mosse su una decisione della direzione nazionale e abbiamo proseguito trovando un accordo trasversale con le donne delle altre forze politiche a partire da Fi».
Mentre noi stiamo parlandole sue colleghe del Pd sono riunite nella sala Berlinguer e minacciano di non votare la legge. Davvero c’è qualcuno che pensa di far saltare il patto di ferro con Fi?
«In troppi hanno strumentalizzato la vicenda minacciando che su questo tema potesse saltare un patto. Non credo che questo possa succedere, dobbiamo continuare la nostra iniziativa perché la legge elettorale non finisce alla Camera, ci sarà un voto al Senato e credo che, anche attraverso la spinta che arriverà dall’opinione pubblica e dalle associazioni, possa aiutarci a inserire a Palazzo Madama gli emendamenti qui bocciati».
Ma come crede di vincere una battaglia dove i numeri non sono certo gli stessi della Camera? Puntate sul voto palese?
«Intanto le regole sono diverse e il voto segreto non è previsto. Abbiamo visto come anche in passato sia stato utilizzato contro norme di parità, qui alla Camera ma anche nelle Regioni dove in alcune occasione è stata affossata proprio con il voto segreto la legge che introduceva la parità di genere».
Ma secondo lei il governo ha fatto bene a rimettersi alla Camera, o si aspettava una presa di posizione del premier che è anche il segretario del Pd?
«Mi aspettavo che il segretario del Pd inserisse dall’inizio nel testo dell’accordo norme per la parità facendo un punto qualificante dell’iniziativa politica del Pd. Il rimettersi alla Camera è stata la conseguenza dell’assenza di accordo a causa della contrarietà di Fi».
C’è chi pensa, nel suo partito, che sulla elettorale qualcuno facendo una battaglia sulla parità in realtà volesse creare solo problemi a Renzi.
«Chi pensa questo non ha capito niente. Né della battaglia che stiamo facendo né della storia politica che abbiamo alle spalle».
Masu questo emendamento c’è stata la mediazione della ministra Boschi con Verdini. Cosa non ha funzionato se il voto è andato così?
«Dalla Boschi ci saremmo aspettate un cenno di incoraggiamento un po’ più convinto. Qualcuno ha pensato che la questione potesse essere il grimaldello per far saltare tutto. Non si è guardato il merito».
Alcune sue colleghe hanno apertamente detto che adesso Renzi questa legge se la vota da solo. Come rientrerà tanta rabbia? «Solo il Senato rimedierà all’errore fatto approvando ciò che oggi è stato respinto».
l’Unità 11.3.14
Renzi punta a salvare la riforma ma l’ira delle donne scuote il Pd
di Vladimiro Frulletti
Da una parte i faldoni con dentro le misure economiche che annuncerà domani, dall’altra il filo diretto con i suoi alla Camera (e con Forza Italia) sulle quote rosa della legge elettorale. Ieri per tutta la giornata Matteo Renzi ha giostrato su questo doppio fronte. Sempre un po’ in bilico tra la vittoria e la battuta d’arresto. Del resto entrambi i terreni si sono fin qui mostrati scivolosi. E il rischio di cadere proprio nel momento in cui il suo governo dovrebbe dare il segno della svolta possibile non era remoto. E, nonostante lo scoglio quote rose sia stato superato, lo rimane. Come dimostra la dura reazione di un bel pezzo di deputati democratici, con le parlamentari in prima fila, a seguito della bocciatura degli emendamenti per la pari opportunità di genere. Un fronte che potrebbe creare più di un ostacolo all’iter dell’Italicum. Di «occasione persa» parla non a caso Gianni Cuperlo spiegando che «serve una buona legge e questa ancora non lo è». Mentre le deputate Pd lasciando l’Aula per protesta hanno chiesto la riunione del gruppo minacciando di far mancare il numero legale. Il che impedirebbe a Renzi di a mettere a segno l’uno-due fatto di Italicum e taglio delle tasse entro domani e quindi di dare un segnale probabilmente fondamentale per garantire al governo la possibilità di guardare con ottimismo a tempi lunghi.
È stato infatti lungo questo rettilineo che Renzi s’è mosso anche ieri. «Il Pd rispetta il voto del Parlamento sulla parità di genere, ma anche l’impegno della direzione Pd: nelle liste l’alternanza sarà assicurata», twitta in serata. Non a caso fin dall’inizio di questa diatriba ripete che la parità lui l’ha applicata, e non solo invocata o enunciata, fin da quando faceva il presidente della Provincia di Firenze. Che da sindaco aveva più donne che uomini in giunta e che poi anche come segretario del Pd prima e presidente del Consiglio poi s’è circondato di squadre rosa. «Un governo con metà ministri donne non c’era mai stato prima», annota Renzi. Quindi chi chiede norme che garantiscano la presenza femminile anche nel futuro Parlamento «con me sfonda una porta aperta ». Renzi si fida meno di chi invece usa que
ste argomentazioni con scopi strumentali. Che sarebbero quelli e quelle che si muovono, anche dentro e fuori il Pd, con l’obiettivo, appunto, di sgambettarlo proprio mentre ha iniziato la sua corsa. L’affondo velenoso di domenica sera alle parlamentari più preoccupate di essere rielette che non dell’effettiva parità di opportunità fra uomo e donna in tutti i campi della società, aveva proprio questo significato. Da qui l’avvertenza inviata a più riprese ai suoi: ok le quote rosa, ma non a costo di far saltare tutto. Quindi si fa solo se tutti i contraenti sono d’accordo. E vista la contrarietà di un pezzo significativo di Forza Italia c’è spazio per solo due ipotesi: o si convince Berlusconi, come è successo per l’emendamento che lega le sorti dell’Italicum alla fine dell’attuale Senato, o non se ne fa nulla. Problema però non da poco. Infatti ieri pomeriggio Renzi s’è accorto che Berlusconi non poteva essere convinto perché non è in grado di tenere unito tutto il proprio gruppo neppure su una mediazione 60-40.
Troppi e troppo forti i no, a cominciare da quello di Brunetta, per essere bypassati dalle passionarie azzurre, ieri in bianco come molte altre colleghe del Pd in difesa delle pari opportunità di genere. Uno sfaldamento di Forza Italia sarebbe stata una evidente mina innestata sul futuro dell’Italicum. Pronta a esplodere più avanti, al Senato, magari su tempi più indigeribili per Berlusconi: dalle preferenze al conflitto di interessi. Modifiche all’Italicum che a Renzi starebbero state anche bene, ma non al prezzo di far crollare tutta l’impalcatura delle riforme, facendo venire meno il pilastro di Forza Italia. Eventualità che, evidentemente, farebbe morire sul nascere qualsiasi ipotesi di riforma della carta costituzionale. Del resto l’avvertimento di Daniela Santanchè era stato fin troppo chiaro: «Se passano le quote rosa il vero sconfitto sarà Renzi».
Da qui la scelta del governo (ma anche del Pd) di non dare alcuna indicazione, come invece avrebbe voluto la minoranza democratica, e di lasciare all’Aula l’onere-onore di decidere. A voto segreto. Un particolare tecnico non trascurabile politicamente perché ha permesso anche a chi (anche nel Pd) le quote rose pur le voleva di poterle affondare per non far affondare tutta la nave dell’Italicum.
Ora però ci sarà da ricucire nel partito. Il portavoce della segreteria Lorenzo Guerini è ottimista: «Per noi non cambia nulla perché noi manteniamo ancora più forte l'impegno per il 50 e 50 nelle liste elettorali».
l’Unità 11.3.14
Un voto contro il Paese: chi ha paura delle donne?
Uomini e donne devono avere pari opportunità Niente di più niente di meno Lo afferma
la Costituzione
di Sara Ventroni
Chi ha paura delle donne? Il Paese no. L’Italia è pronta. Eppure s’è deciso di andare contro il sentimento del tempo, con il voto segreto in Parlamento, a sigillo di una convenienza camuffata da libertà di coscienza. Così, all’arma bianca, hanno bocciato gli emendamenti alla legge elettorale.
Come se si trattasse di un vezzo. Di un capriccio. E li hanno debellati senza troppi complimenti. Per ogni donna che entra, un uomo deve stare fuori. Non è la jungla, ma la rappresentazione plastica di una legge elettorale, l’Italicum (checché ne dica il relatore Francesco Paolo Sisto: la sentenza della Corte Costituzionale n. 422 del 1995 è stata superata dalla nuova formulazione dell’articolo 51 della Costituzione) - a rischio di incostituzionalità, per il premio di maggioranza, e per le liste bloccate. E dunque: se di liste bloccate si tratta, donne e uomini hanno lo stesso diritto di competere per la piena eleggibilità.
Non è una crisi di nicchia, non è una rivolta subalterna. Non è un computo piccolo-piccolo, da ghetto, ma l’indicazione di un correttivo essenziale.
La democrazia non è una quisquilia. O è democrazia paritaria, o non è. E se è paritaria, non lo è solo per nomina glamour, come gesto benevolo, attrattivo ancorché arbitrario. Alla mercé delle fantasmagorie del segretario di partito.
Lo afferma la Costituzione, non un’agenzia di sondaggi. Uomini e donne devono avere pari opportunità. Niente di più, niente di meno. Articolo tre, articolo cinquantuno. Tutto qui. Eppure non siamo ancora qua. In stallo.
Ma c’è chi si è dato da fare per descrivere la battaglia delle donne alla Camera come una questioncina vezzosa, da area protetta, oppure strumentale, di sabotaggio del governo. Non è così.
Pur di fraintendere le donne ci si appella a complotti inconsistenti.
Da un buon decennio siamo oltre la vulgata delle quote: le donne, oggi - al netto dell’Italicum - chiedono garanzie formali: tecniche, certo, noiose sicuramente, ma essenziali, per non essere escluse dalla competizione.
Le donne, al varo della legge, chiedevano solo una clausola di garanzia: cinquanta e cinquanta di capilista e alternanza uno a uno nelle liste: misure semplici, cui nulla osta, per garantire a tutti e a tutte le stesse possibilità di competere, per poter esser eletti.
Non è necessario essere dei costituzionalisti per capire che la legge elettorale Italicum non è la migliore delle leggi possibili. Tutt’altro. È piena di difetti: ancora una volta le liste bloccate, ancora una volta un premio incongruo di maggioranza. Emendarla non solo era legittimo, ma doveroso. Eppure, l’attenzione s’appunta sugli emendamenti eversivi, trasversali, delle donne. Come se si trattasse di un sabotaggio. Di un’oscura manovra per manomettere l’azione di governo; o peggio, il futuro degli uomini, obbedienti, che già aspirano al loro posto. Garantito, loro sì, in lista.
No. Non bastano le buone intenzioni dei leader. Non basta il carisma taumaturgico dei segretari di partito che impongono l’olio santo sulle teste delle preferite. Le donne vogliono - in mancanza di preferenze, nel cui caso hanno già pronta, come per la legge elettorale regionale della Campania, la doppia preferenza - le stesse condizioni di partenza.
Le novanta donne vestite di bianco alla Camera da giorni tentano di schivare in ogni modo i fendenti goffi dei luoghi comuni.
Eppure tutti - giornalisti, colleghi onorevoli, opinionisti - le ricacciano nel passato. Al ghetto delle quote. Ma l’unica a vestirsi di rosa è Daniela Santanchè, fuori tempo massimo, provocatoriamente contraria alle misure correttive per rendere la legge effettivamente a norma di Costituzione.
Le donne vestite di bianco non chiedono privilegi. Non reclamano riserve indiane. In modo trasversale, dal Pd a Forza Italia, affermano la necessità di esserci in questo passaggio. Perché l’Italia ha già intuito tutto. E perché deve essere chiaro, finalmente, che se il gioco è blindato, le donne vogliono essere della partita, non di meno. E non di più.
Il Paese ha capito. Il Parlamento ha bocciato, sapendo esattamente quello che stava facendo. Ci sono buoni motivi per sospettare che la partita non è persa. Anzi. Semmai si gioca altrove.
Corriere 11.3.14
Primo impatto con la realtà
di Massimo Franco
L’asse Renzi-Berlusconi ha affossato le «quote rosa»: a dimostrazione che il patto istituzionale tra i due prevale sulle logiche di partito. Il tentativo di mettere in difficoltà il presidente del Consiglio utilizzando in modo pretestuoso questo argomento è fallito. Ma il prezzo della sua vittoria è la rivolta di mezzo Pd: a cominciare dalla componente femminile che ieri, dopo la bocciatura, ha lasciato platealmente l’Aula della Camera. È la conferma che Renzi, al di là delle apparenze, deve fare i conti con sacche persistenti di ostilità nelle proprie file; e che per salvare le «larghe intese» è stato costretto a spaccare il proprio partito.
A votare contro la legge voluta dalle donne del Pd sono stati i deputati berlusconiani e del Nuovo centrodestra, ma anche i renziani. Si sapeva che il Cavaliere era contrarissimo, e la sinistra imbarazzata e divisa. L’epilogo riconsegna così un premier vincitore a metà; esposto all’accusa di avere fatto un regalo a Berlusconi; e costretto a giustificarsi con le proprie elettrici. Per questo, l’episodio di ieri sera rischia di prendere una piega insidiosa. Renzi adesso sa che il cosiddetto Italicum, la riforma elettorale concordata con Forza Italia, può diventare un bersaglio del Pd.
Per questo è difficile dire se si è trattato di una mossa scaltra o di un autogol. Certamente aumenta la confusione. E le tensioni nella coalizione di governo costringono il premier a prendere atto che l’idea delle riforme-blitz deve cedere il passo ad una visione più graduale e realistica. Bisogna rallegrarsene, dopo l’ubriacatura iniziale sulla «velocità» come primo comandamento del governo; e in parallelo meditare sul rischio di creare aspettative troppo grandi rispetto ad una situazione grave e complicata. L’esigenza di fare presto rimane la parola d’ordine a caratteri cubitali di Palazzo Chigi. Ma sotto, scritta in un «corpo» più piccolo, ne sta affiorando un’altra. È quella dei «due tempi».
Due tempi per la riforma elettorale: quello della Camera e quello del Senato. Due tempi per il piano contro la disoccupazione, che l’anglismo «jobs act» non rende più facile: prima la parte normativa, poi la realizzazione. E doppio registro anche per la riduzione del cuneo fiscale, in attesa di capire bene come saranno trovati e soprattutto distribuiti i fondi. D’altronde, quando il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ammette che le stime sul Prodotto interno lordo dell’Italia sono vicine a quelle della Commissione europea e decide di «tenersi basso», ridimensiona i margini di manovra governativi. Non significa che Renzi possa fare poco: può fare, ma a patto di misurarsi con la realtà.
La fretta sta partorendo un sistema elettorale sghembo, soffuso di dubbi di incostituzionalità e ostaggio degli attacchi delle opposizioni in Senato: ora anche di quelle interne alla coalizione. La stessa facilità con la quale è stata stabilita in prospettiva l’abolizione di fatto della «Camera Alta», probabilmente si ritorcerà contro la maggioranza; e la costringerà ad una progressiva marcia indietro. La votazione di ieri sulle «quote rosa» si inserisce in questo inizio di stallo, evocando non solo una sfasatura nei tempi ma anche maggioranze variabili. Cresce il sospetto che il governo del «fare presto» si insabbi in un indefinito «farò presto». Eppure, a volte, la lentezza non è segno di indecisione, bensì di maturità e di realismo.
Repubblica 11.3.14
Il cartello dei sessisti
di Chiara Saraceno
NON è passata l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali. La curiosa neutralità del governo e del decisionista Renzi su questo punto e il voto segreto hanno lasciato libero il campo al “cartello” che da sempre e trasversalmente difende strenuamente la quota azzurra. Anche parte del Pd, in contrasto con lo statuto e le dichiarazioni ufficiali, si è schierata a difesa del mantenimento dello status quo.
Una situazione che lascia alla discrezione delle segreterie dei partiti se e quante donne mettere in condizione di essere elette di fatto proteggendo lo status quo in cui gli uomini sono maggioranza. Perché solo di questo si tratta. È un errore, infatti, parlare di quote rosa ogni volta che si cerca di scalfire il monopolio maschile, di ridurre le “quote azzurre”, che molti uomini (ed anche qualche donna) continuano a ritenere un naturale diritto divino in tutti i luoghi di potere politico ed economico. Sarebbe molto più corretto parlare di norme antimonopolistiche, che impediscano la formazione di un “cartello” basato sul sesso. Sarebbe più chiaro qual è la posta in gioco e chi sta difendendo che cosa. E forse molte donne smetterebbero di sentirsi in colpa, o“panda”,ogni volta che si chiede una correzione. Perché la categoria (auto–) protetta, molto strenuamente, è quella degli uomini, che sono riusciti a far passare come ovvia e meritevole la loro presenza, mentre quella delle donne è sempre frutto o di usurpazione indebita, o di graziosa concessione, non di meccanismi che consentano di correre alla pari.
Renzi ha dichiarato che la “vera parità” c’è quando le donne che fanno lo stesso lavoro degli uomini sono pagate come loro. Ma questa è solo una parte del problema. La questione è che le donne, nel lavoro come in politica partecipano a corse con handicap. Non mi riferisco solo al peso del doppio lavoro, ma proprio al fatto chesonocorsetruccatedachidetienelechiavidiingressoedagliarbitri.Chedi“cartello” si tratti è evidente ovunque, che si tratti di consigli di amministrazione delle società quotate in borsa, di Corte costituzionale, di presidenze e membership nelle Authority, di presidenze dei vari enti pubblici e parapubblici, in generale di nomine nei posti che contano, chiunque sia chi ha il potere di nomina. È ancora più evidente nel caso delle liste bloccate. Perché, esattamente come era nel Porcellum, nulla è lasciato al caso e tanto meno alla scelta degli elettori (con in più la beffa delle candidature multiple. L’elezione o meno di un numero congruo di donne non dipende né dalla disponibilità degli elettori a votarle, né dalla disponibilità di un numero adeguato di donne con le competenze e riconoscibilità necessarie. Dipende esclusivamente dalla posizione in cui saranno in lista. Solo perché il Pd alle ultime elezioni ha messo molte donne in posizione alta nelle proprie liste, la percentuale di donne oggi presente in Parlamento è la più alta di sempre. Bene che ne siano diventate consapevoli anche molte parlamentari di altri partiti. Meno, apparentemente, le neo-ministre, stranamente silenti sul punto, come se la cosa non letoccasseenonnesentisseroalcunaresponsabilitàeconlorogranpartedellevecchie e nuove “renziane”. Sosterranno che pur di far passare l’Italicum si possono anche sacrificare le “quote rosa”, senza rendersi conto di difendere così quella azzurra einognicasodiavercontribuitoadulteriormenteindebolirelacredibilitàdel loro partito, sempre più inaffidabile nella difesa dei propri principi, quanto disposto a tutti i compromessi sulle richieste altrui (si veda anche l’accettazione delle candidature multiple). Chi si è opposto all’alternanza uomo-donna in lista non ha fatto altro che difendere la quota maschile, che, nel caso di alcuni partiti (ad esempio la Lega), può arrivare al cento per cento. Certo, ci sono molte altre cose discutibili in questa nuova legge elettorale dal punto di vista della democrazia e della rappresentanza. La democrazia non si risolve con una presenza equilibrata di uomini e donne nelle liste elettorali. Le donne come tali, inoltre, non sono necessariamente meglio degli uomini come tali. Allargare il pool degli eleggibili, tuttavia, potrebbe, chissà, persino far riflettere un po’ meglio sulle caratteristiche necessarie, mettere in moto dinamiche differenti, dentro e fuori i partiti e nella definizione delle priorità nelle cose da fare. Diverse ricerche hanno mostrato che una presenza consistentedidonneneiconsiglidiamministrazionemiglioralaperformancedelle aziende. Perché non dare questa chance anche alla gestione del Paese?
Repubblica 11.,3.14
La costituzionalista Carlassare: servirebbe la doppia preferenza
“Così questa riforma è incostituzionale bisogna dare le stesse chance a tutti”
intervista di Liana Milella
ROMA - Quote rosa? «Definizione inaccettabile». Donne elette? «Lo garantisce la Costituzione». Le soluzioni proposte? «Non me ne piace nessuna». La costituzionalista Lorenza Carlassare ha la “sua”, doppio capolista con possibilità di preferenza per chi vota.
Quote rosa, siamo dentro o fuori la Costituzione?
«Mi sono sempre battuta contro questa stupida denominazione di “quote rosa”, usata per abbassare la serietà e l’importanza di un discorso che riguarda la democrazia e l’integrazione della rappresentanza».
Una quota per le donne viola o è conforme alla Carta?
«La Consulta si è già pronunciata sul tema. Con la sentenza 49/2003 ha fugato ogni dubbio e ha respinto il ricorso del governo su una legge della Val d’Aosta che prevedeva la presenza obbligatoria di entrambi i sessi nelle liste elettorali».
Dalla Corte donne per forza in lista?
«Certamente sì, per garantire la parità di chance e d’elezione tra uomo e donna. Lo impongono importanti documenti internazionali e l’articolo 51 della Costituzione, rafforzato dalla modifica del 2003».
Una legge priva di questo sarebbe incostituzionale?
«Ritengo proprio di sì, perché l’articolo 51 è chiarissimo nel voler assicurare la parità di chance».
Alternanza uomo-donna, capilista alternati, il 40% di essi alle donne, quale promuove?
«Francamente nessuna perché non rispettano la parità di chance. L’alternanza non serve perché potrebbe essere eletto solo il capolista, e se è maschio il discorso è chiuso. La seconda è veramente stravagante, perché non vedo come si possano comparare collegi del tutto diversi tra loro. La terza è uguale alla seconda, ma ulteriormente peggiorata».
il Fatto 11.3.14
Il patto Renzi-Berlusconi affonda quote rosa e Pd
Regge il patto con B. sull’Italicum. Governo e aula sacrificano la rappresentanza di genere
di Wanda Marra
Il governo lascerà libertà di coscienza: evidentemente non siamo arrivati a un accordo con Forza Italia”. La ministra Maria Elena Boschi, rigorosamente vestita non di bianco, ma con una camicetta blu elettrico tono su tono con gli occhi che spalanca sull’interlocutore, lo ammette a metà pomeriggio. A voto segreto, gli emendamenti che chiedono la parità di genere saranno approvati? “Non ho la sfera di cristallo. Nessuno può saperlo”. E se le quote rosa dovessero passare, l’accordo Renzi-Berlusconi reggerà? “Non lo so”. La risposta arriva in serata, quando la Camera, a voto segreto, boccia tutti e tre gli emendamenti in questione: prima, quello che prevede l’alternanza di genere (335 no e 227 sì), poi quello che vorrebbe il 50% cento di capilista donne (i no sono 344 no, i sì 214) e infine anche quello che fino a un certo punto della giornata sembrava rappresentare un punto di mediazione, prevedendo una percentuale al al 40-60% tra donne e uomini nella indicazione dei capilista (298 i contrari, 253 i favorevoli). Solo il Pd fa 293 deputati: visto che il voto è trasversale è evidente che vengono a mancare almeno 60 deputati uomini. Perché più va avanti la giornata delle donne bianco vestite più si chiarisce la posta in gioco: da una parte ci sono le deputate che vogliono la parità di genere e gli anti-renziani (soprattutto i democratici) che vogliono far fallire l’Italicum, dall’altra gli uomini anti quote rosa e i renziani, che vogliono salvare l’accordo tra il premier e Berlusconi per fare la legge.
Matteo Renzi l’aveva preannunciato domenica da Fazio: “Se troviamo una soluzione che va bene a tutti sono felice, ma è giusto che sia una scelta politica”. Insomma, il premier che si è fatto un vanto di avere un governo composto da una metà di uomini e una metà di donne, sulle quote rosa non è disposto ad impiccarsi.
LUI CI PROVA, comunque, in mattinata in un colloquio con il capogruppo di Fi, Renato Brunetta, che però gli dice che i suoi non li tiene. Anzi, chiede che il governo dia parere negativo sugli emendamenti in questione. Renzi non cede. Che la mediazione è impossibile si capisce dopo una riunione tra la Boschi, Verdini e la Santanchè. Nonostante le pressioni di molte delle sue deputate, Berlusconi sulle quote rosa non molla. L’indicazione ufficiale allora è libertà di coscienza. Per il governo. E per Pd, Fi, Sc e Ncd. Un equilibrio difficile. In molti di Fi sottoscrivono la richiesta di voto segreto: un modo per rendere più facile l’affossamento delle quote. Ma l’Aula è in fibrillazione, sia nelle dichiarazioni, che nelle grandi manovre. Il lettiano Marco Meloni interviene per dichiarare il sostegno a “questi emendamenti che ho sottoscritto”. Lo stesso fa Gianni Cuperlo. Asse anti-renziano. Tra i banchi confabulano Luca Lotti e Lorenzo Guerini: devono evitare che l’accordo con B. salti. Molti renziani alla fine votano no. Anche se nessuno ci mette la faccia con un intervento in Aula. Fino all’ultimo i dem aspettano una presa di posizione del gruppo diversa dalla libertà di coscienza. Che però non arriva. Se il Pd è diviso, dentro Fi non va molto meglio. Denuncia la Prestigiacomo: “Il mio gruppo non ci lascia nemmeno la libertà di coscienza su questo tema”. La rimbrotta Brunetta: “La libertà di coscienza c’è”. I due dopo battibeccano lanciandosi accuse reciproche a vari banchi di distanza. Evidentemente la libertà di coscienza è indicazione più formale che sostanziale. O una decisione dell’ultimo minuto. I Cinque Stelle, nel frattempo, non approfittano dell’occasione per affossare il tutto. Il no lo annuncia Federica Dieni: “Norme ipocrite”.
Mentre si votano le quote, le donne bianco vestite mostrano il pollice alzato, Roberto Speranza, il capogruppo Pd, non dà segni di vita. Emendamenti bocciati. Le donne democratiche furibonde abbandonano l’aula. Denunciano: “Il gruppo non ha rispettato l’accordo di votare sì all’ultimo emendamento”. Rosato (Pd) in aula chiede immediatamente il rinvio a oggi. Seduta aggiornata a stamattina alle 10. Prima ci sarà un gruppo. Le democratiche minacciano di tirare fuori un emendamento sulle preferenze e di far saltare il banco. Nel frattempo Renzi twitta, cercando di fermare le polemiche: “Il Pd rispetta il voto del Parlamento sulla parità di genere. Ma rispetta anche l’impegno sancito dalla direzione su proposta del segretario: nelle liste democratiche l’alternanza sarà assicurata”.
Repubblica 11.3.14
“Sacrificata la Costituzione all’accordo con Berlusconi non voterò questa riforma”
L’ira della Bindi: questa ferita non si ricuce
intervista di G. C.
ROMA - «Non parteciperò al voto finale sulla legge elettorale, questa è una ferita molto grave e profonda». Rosy Bindi, l’ex presidente del Pd, è furibonda. Sono stati appena bocciati tutti gli emendamenti sulla parità, anche quello anti discriminatorio su cui uno schieramento di deputate bipartisan puntava.
Bindi, si aspettava andasse a finire così?
«Lo temevo. Lasciare la libertà di voto e la mancanza di indicazione a favore degli emendamenti sulla parità da parte del nostro partito, ci esponeva molto. Questo mi fa dire con molta amarezza che questo risultato è colpa dei Democratici. La responsabilità è tutta del Pd, il quale ha sacrificato la fedeltà alla Costituzione e ai propri valori all’accordo con Berlusconi. Una legge elettorale che nasce su questo tradimento non può essere una buona legge».
Non voterà l’Italicum?
«No, non parteciperò al voto finale. Continuerò a fare la mia battaglia contro le liste bloccate e contro le soglie di sbarramento, votando gli emendamenti che ancora ci restano in proposito. Ma al voto finale non ci sarò. Temo inoltre che una legge elettorale che esce dalla Camera così fatta non potrà avere vita facile al Senato ».
Ma il Senato potrebbe cambiarla, migliorarla?
«I numeri favorevoli erano in questa Camera. Il Pd ha perso l’occasione per fare una buona legge. Questa è una ferita molto grave che le donne italiane ricorderanno a lungo».
Quale è il vulnus?
«Un vulnus che non resterà senza conseguenze, perché non solo sono state bocciate le modifiche per la parità di genere, cioè l’alternanza nelle liste e il rapporto 50-50% dei capolista. Ma è stata anche norma anti discriminatoria per assicurare a ciascun genere almeno il 40% dei capolista. Questa non era una norma per la parità di genere, come appare evidente, ma contro la discriminazione delle donne».
Di nuovo molti “franchi tiratori” nel Pd?
«Sì. La responsabilità è del Pd, che da solo aveva i numeri per approvare questi modifiche. È tutta nostra la ferita e non si rimarginerà facilmente, mi ricorda i 101 di Prodi».
Cosa hanno avuto la meglio, gli interessi spiccioli, gli egoismi?
«La richiesta di voto segreto è stato il modo per offrire copertura a ogni forma di maschilismo che comunque c’è. Ma dal mio punto di vista, lo ribadisco, è prevalso l’accordo con Berlusconi».
Renzi ha invitato a non farne una tragedia. Ha anche detto che la parità non si misura sulle poltrone. Lei però non lo sta a sentire?
«Voglio rispondere al segretario del mio partito. Ha detto che noi chiedevamo poltrone. Se questo fosse il piano, allora dovremmo chiedere a tutti i colleghi uomini di lasciare le loro poltrone. La parità di genere non è occupare poltrone, è una battaglia di civiltà, di buona democrazia. Il problema è un altro».
E quale è il problema?
«Se non ci sono le donne, non ci sono le leggi per le donne. I paesi con le legislazioni più avanzate, sono quelli in cui da anni c’è una buona rappresentanza di donne. Anche in Italia le leggi di parità portano la firma delle donne».
Cosa farà ora?
«Non voto una legge elettorale che ha rifiutato una norma anti discriminazione. E la mia prossima proposta sarà la richiesta di abolizione del voto segreto in Parlamento, perché è lo strumento attraverso il quale tutti si coprono la faccia».
Repubblica 11.3.14
Nel Pd la tentazione del blitz “Possiamo far saltare la legge”
Spaccatura tra renziani e minoranza
La minaccia delle donne
Cuperlo: questo non è un buon testo
di Giovanna Casadio
ROMA - «Sarete spazzati via anche con i vostri scranni...». Sandra Zampa si sfoga dopo «lo schiaffo» sulla parità bocciata nella legge elettorale. Le deputate del Pd si autoconvocano in assemblea, ma tutto il partito è attraversato dai venti di rivolta. Un’altra volta i Democratici hanno covato in seno i “franchi tiratori”. Torna lo spettro dei “101” che impallinarono la corsa al Quirinale di Romano Prodi. E Zampa, che del Professore è stata la portavoce, nell’aula della Camera poco prima che sia bocciato anche l’emendamento anti discriminatorio, quello della soglia del 40% di capolista donne, interviene: «Mancano voti nostri, lo dicono i numeri. Fuori c’è un mondo che cambia, non lo fermeremo votando in modo ingannevole, coperti dal voto segreto, perderemo ancora di più credibilità».
Appello inutile. Cade nel vuoto come tutti gli altri. I “franchi tiratori” dem oscillano tra i 130/120 del voto sui primi due emendamenti sul riequilibrio di genere, a 70/80 che mandano all’aria anche l’ultima chance. Le deputate del Pd - che si sono presentate a Montecitorio vestite di bianco - minacciano di non partecipare al voto. Sotto accusa c’è l’accordo di Renzi con Berlusconi che ha portato all’Italicum. La riunione democratica è incandescente. Il partito è un calderone in ebollizione. È tempo di veleni. I renziani accusano la minoranza dem di avere tentato in questo modo di boicottare tutto l’accordo; i “cuperliani” denunciano la blindatura del patto con il Cavaliere e, in nome di questo, il tranello alle modifiche per la parità. «Con sdegno» i renziani rifiutano i paragoni con i 101: nessuna regia per boicottare le quote rosa. Però il rischio concreto è che oggi molti democratici, a cominciare dalle deputate, non votino l’Italicum.
Gianni Cuperlo, leader del “correntino” pressa: «Si è persa un’occasione sulla parità. L’Ita-licum non è una buona riforma, il Senato dovrà discutere diversi miglioramenti». Pippo Civati rilancia in un blog tutta la rabbia: «Non è passato nemmeno il 60-40. Complimenti a tutti. E scusate. Che vergogna. Ho perso una pizza con Rosy Bindi. Che diceva, purtroppo giustamente, che non sarebbe passato nemmeno questo: 298 no contro 253 sì. E il Pd che non dà indicazione di voto, ma lascia libere le coscienze su un emendamento che già era “diminuito” rispetto agli interventi e alle parole altisonanti che si sono udite in aula». Stefano Fassina a sua volta denuncia quanto è accaduto: «Vergogna per il voto contro norma antidiscriminatoria. Ora doppia preferenza di genere». Molti mormorii: «Quando c’è di mezzo il Caimano...», alludendo all’intesa del segretario-premier con Berlusconi. Paola De Micheli, lettiana, che coordina l’assemblea dem serale fa fatica a tenere a bada la ribellione. Invita a non perdere la fiducia: «Si potrà cambiare al Senato, le grandi conquiste richiedono grandi battaglie». Gli inviti alla cautela, alla calma, le rassicurazioni di Renzi sullo statuto del Pd che tanto la parità già la prevede, non bastano. Barbara Pollastrini, ex ministro delle Pari Opportunità, è delusa e furente. Stella Bianchi rassicura: «Otterremo la modifica al Senato ». Ma Giuditta Pini twitta: «Che lo spirito di Lorena Bobbitt accompagni stanotte i colleghi che hanno bocciato l'emendamento ». E ritwitta, dopo la bocciatura anche del 60-40%: «Il Pd ha un problema». Alessandra Moretti non ci sta: «La battaglia per la parità è per la qualità della democrazia ». E c’è Roberta Agostini, prima firmataria dei tre emendamenti bocciati, che attacca: «È gravissimo, ora riflettiamo sulla legge». Oggi l’ennesima resa dei conti in un Pd flagellato.
La Stampa 11.3.14
D’Alema si fa presentare il libro da Matteo
di Jacopo Iacoboni
qui
l’Unità 11.3.14
Il rebus del Senato che deve autoabolirsi
di Andrea Carugati
Il Senato lo cancelliamo», ha ripetuto più volte il premier Matteo Renzi ospite domenica di Fabio Fazio. E tuttavia questo obiettivo del premier rischia di essere così impervio da rendere l’approvazione della nuova legge elettorale, al confronto, una passeggiata.
La riforma costituzionale, infatti, passerà prima all’esame del Senato. I tempi si annunciano relativamente brevi, probabilmente i lavori in commissione Affari costituzionali partiranno entro fine marzo. Prima dunque che la stessa commissione inizi a esaminare l’Italicum. Ancora non è chiaro se ci sarà una disegno di legge del governo, o se il testo di matrice renziana sarà affidato alla proposta del gruppo Pd. In questi giorni sono al lavoro sul dossier il ministro delle riforme Maria Elena Boschi e il sottosegretario Graziano Delrio, che per ora non hanno mandato a palazzo Madama alcuna bozza. Riserbo assoluto.
Ma c’è un punto che ormai sembra delinearsi in modo abbastanza chiaro. Dei tre paletti fissati da Renzi alla direzione del Pd del 6 febbraio (una settimana prima della staffetta a palazzo Chigi) solo uno gode di un robusto sostegno dentro il gruppo Pd e nella maggioranza: il fatto cioè che il nuovo Senato non darà più la fiducia al governo. Sugli altri, a partire dalle modalità di elezione dei senatori, è ancora nebbia fitta. Un punto però appare chiaro: il «Senato dei sindaci », così come illustrato dal premier (composto dai 108 dei capoluoghi più i 21 governatori e una ventina di alte personalità) attualmente gode di una diffusa contrarietà da parte della maggioranza dei senatori. Compresa una larga fetta del Pd. Senatori che si preparano a dare battaglia già in commissione per stravolgere l’impianto renziano, e disegnare un Senato i cui membri «facciano i senatori a tempo pieno, non certo a mezzo servizio come sarebbe per sindaci e governatori che già governano le loro città». Se poi arriverà un ddl del governo, a quel punto ci sarà un braccio di ferro, e infine una qualche ipotesi di mediazione. Che dovrà avere al centro un tema fondamentale: il ruolo del nuovo Senato.
Quanto alle competenze, il premier ha parlato di «leggi europee e costituzionali », oltre all’elezione del Capo dello Stato e a un ruolo di «coordinamento tra lo Stato e il sistema delle autonomie sul modello tedesco». In Germania, che è uno stato federale, il Bundesrat è composto dai presidenti dei Lander e da un certo numero di “assessori” delle loro giunte. Il peso è tutto schiacciato dunque sui Lander, mentre Renzi pensa ai Comuni, individuandoli come più rappresentativi delle comunità locali. E qui torna il tema fondamentale: il ruolo del nuovo Senato in rapporto alla riforma, pure prevista, del Titolo V della Costituzione. Spiega il senatore Pd Giorgio Tonini, autore di una proposta di legge che traduce il sistema del Senato tedesco: «Bisogna capire bene come sarà riformato il Titolo V. Se restano poteri legislativi significativi in capo alle Regioni, una camera di raccordo è necessaria, per dirimere i conflitti tra centro e periferia che oggi sono risolti dalla Corte costituzionale ». Altrimenti, se cioè le Regioni venissero retrocesse al ruolo che avevano prima del 2001, allora potrebbe essere immaginabile il modello di Renzi. «Una Camera di tipo consultivo, che rischierebbe di essere la fotocopia del Cnel», dice Tonini. In nodo che emerge è il seguente: se il tema è la potestà legislativa, i sindaci non fanno leggi. E dunque un Senato di sindaci faticherebbe a risolvere le dispute legislative tra Stato e Regioni.
La proposta di Tonini, che vedrebbe un Senato di governatori e assessori regionali, rispetta tutti e tre i parametri fissati da Renzi, visto che non ci sarebbe elezione dei senatori e neppure indennità aggiuntive. Ma dentro la maggioranza Ncd continua a insistere per un’elezione diretta del Senato. Il risparmio sui costi arriverebbe riducendo a 420 i deputati. Un’idea, quella di lasciare l’elezione diretta, che gode di consensi anche dentro il Pd (Vannino Chiti l’ha detto esplicitamente). E che, secondo l’altoatesino Karl Zeller «è condivisa dalla maggioranza di questo Senato». Si vedrà. Di certo, nell’ipotesi di una mediazione accettabile dal premier, l’elezione diretta non c’è. Possibile invece un’elezione di secondo grado, da parte dei consigli regionali. Magari ipotizzando l’elezione di una quota di sindaci.
Resta aperto il tema delle competenze del nuovo Senato, rispetto alla grande mole di materie di cui sarebbe titolare la Camera: possibile un diritto di richiamo (ma solo se richiesto da una maggioranza qualificata), in tempi certi, e comunque l’ultima parola spetterebbe alla Camera. Il tema, come si vede, è molto complesso. E riguarda il cuore del sistema istituzionale. «In effetti quella che faremo è una operazione a cuore aperto, serve molta prudenza», avverte Tonini. Altre voci si levano per salvaguardare, almeno in parte, l’indennità dei senatori. «Pesiamo per soli 67 milioni su 500 milioni di bilancio del Senato», è il grido che si leva. «Si risparmi tagliando 200 deputati». La partita deve ancora iniziare. E Miguel Gotor, Pd, avverte: «Cerchiamo di liberare almeno questa riforma da ansie propagandistiche». Renzi ha già chiarito quale sarà il suo argomento per piegare i senatori: «Prima viene l’interesse del Paese». Ma anche tra i senatori a lui più vicini il lo «schema dei sindaci» scalda poco i cuori.
Repubblica 11.3.14
La fobia del voto e il sogno italiano
di Franco Cordero
Che il governo Letta vegetasse a credito, era premessa d’ogni discorso sul tema: aveva del macabro l’immobilità loquace, mentre i numeri della crisi italiana s’impennano; qualche ottimista gli concedeva un semestre. La via d’uscita naturale, se non fossimo in Italia, sarebbe andare alle urne ma erano troppi gl’interessati al regime consortile, incluso l’Ineleggibile, perché senza muovere dito accumula future rendite elettorali e tutela i suoi mille oscuri interessi. Non sappiamo chi abbia lanciato l’idea: liquidare l’esecutivo cadente tenendo in piedi le due Camere. Bis in idem? No e qui viene utile Matteo Renzi: nelle primarie ha sbaragliato muffe oligarchiche aprendo delle varianti. Arrembava: la segreteria è meta provvisoria; punta a Palazzo Chigi ma non subito; logora il rivale tenendogli il fiato sul collo; indica gli obiettivi; segnala impietosamente le défaillances (ad esempio, Angelino Alfano e Anna Maria Cancellieri, benedetta dal Quirinale, se ne sarebbero già dovuti andare a casa). Insediarlo a Palazzo Chigi è mossa doppiamente utile ai fautori della politica inaugurata nell’aprile 2013, quando l’uscente Capo dello Stato risale al Colle per starvi ancora sette anni e vara le lungamente covate larghe intese. Letta Nipote era malfermo. Lo junior dinamico garantisce quattro anni alla legislatura, senza contare l’attrito d’immagine: addomesticato nella pratica quotidiana, perde l’ascendente; il tempo d’imporgli il morso e dalla platea lo vedono politicante. L’idea incanta chiunque abbia paura dell’urna: peones nominati dal partito, gruppi evanescenti, anime oligarchiche, grassi parassiti; e gli aprono le porte d’un gabinetto sotto tali tare che gestirlo è fatica sterile. Chi lo tenti può solo perdervi.
Cosa farebbe R., dovendo combattere il morbo italico? Ingabbiato dall’equivoca maggioranza, Letta non poteva attuare terapie forti: le impediva un organico malaffarismo nel codice genetico (la cosiddetta anima moderata berlusconiana); era governo caduco e cada naturalmente. Estinta la creatura nella cui fortuna s’è infelicemente speso, Neapolitanus Rex prima o poi scioglierà le Camere: campione d’una credibile sinistra (senza D’Alema, Violante, Bersani, Penati, Speranza e simili), niente esclude che l’uomo nuovo vinca anche al Senato; in ogni caso viene in gioco quel terzo del corpo elettorale attivo volato sulle Cinque Stelle, non essendo pensabile un sequestro permanente dei voti. Male che vada, ripartiremmo da schieramenti migliori. Insomma, la risposta ovvia all’offerta avvelenata è no, e così suonava, rotondo: «Perché diavolo dovrei?»; ma dura poco la linea dura, sebbene siano chiari i segni d’arrière pensée. Basta vedere come Napolitano, giocatore inveterato, improvvisamente diventi notaio neutrale: Il tutto avviene in clima ecumenico: 316 voti consumano l’atto omicida, ammesso che sia definibile così la spinta al corpo esanime. Circolavano stati d’animo festosamente concordi, dalla soi-disante sinistra al macellaio finanziere d’avventura Denis Verdin. Solo i siderei puntavano allo show down.
L’assenso era pensabile a patto che l’incaricato esponesse un programma lapidario, cominciando dal conflitto d’interessi (l’uscente l’aveva provocato, subodorando una sottintesa linea morbida), e intavolasse scelte strategiche. Stiamo come la Grecia, peggio della Spagna, e non perché una cometa spieghi influssi maligni; le cause figurano nelle analisi che da anni la Corte dei conti va formulando sull’Italia dissanguata da corruttori, corrotti, mafiosi, evasori fiscali: finché il vampiro succhi 60 miliardi l’anno (e forse è conto in difetto), sarà più morta che viva. La terapia richiede norme penali adeguate e strumenti giudiziari. Pasticheurs disinvolti vanno nel senso contrario elaborando politiche criminofile (vedi i ricorrenti tentativi d’affossare le intercettazioni). Quando Napolitano negava la nomina alla giustizia d’un pubblico ministero esperto in materia, invocando inesistenti regole tacite, il minimo da rispondere era: «Tre anni fa Lei ha affidato i sigilli a un bellicoso berlusconiano ex pubblico ministero, senza contare il sottosegretario attualmente in carica; rebus sic stantibus, declino l’incarico non potendolo seriamente adempiere». Qui sopravviene il disvelamento. Quantum mutatus ab illo: remissivo, installa un ministro ignaro della materia; come non bastasse, gli mette a fianco un viceministro escandescente forzaitaliota, dei più aggressivi nella squadra che abusando dell’arnese legislativo, salvava Dominus Berlusco dai processi, e, a buon peso, conferma quel sottosegretario, esponente d’una magistratura riguardosa, sicché Casa d’Arcore non ha niente da temere. È anche incauto. Quale segretario del partito aveva consultato B. sulla legge elettorale in cerca d’un possibile accordo: niente da obiettare; non che riqualificasse un senatore decaduto: trattava col padrone dei voti, ma suona malissimo la frase «siamo in perfetta sintonia». Quando poi annuncia la lista dei ministri, l’Ineleggibile, spiritoso, commenta: ne abbiamo uno anche noi» (alludeva alla titolare dello Sviluppo economico e Comunicazioni).
Erano battute da blagueur i rigorismi con cui spaventava gli oligarchi. Messo piede nel santuario, trova accordi facili. Martedì 4 marzo negozia con Alfano e l’Olonese un prodotto d’alta teratologia: scienza dei mostri; tale è l’emendamento col quale Montecitorio stabilisce che la nuova legge elettorale non valga in Senato. Quest’elegante mossa garantisce ancora quattro anni alla legislatura. «Così - commenta sorridendo - dovremo abolire il Senato». La fobia del voto diventa scempio giuridico. Qualcuno confida nel Colle, come se le Camere blindate non fossero capolavoro quirinalesco. Abbiamo sotto gli occhi una storia sotto vari aspetti assurda. Cosa sia pronosticabile, è quesito arduo, labili essendo le lune italiane. Matteo Renzi, in particolare, risulta piuttosto incline ai soprassalti: corre, salta, rimbalza; l’aspetto teatral-motorio conta molto, perché gl’italiani vogliono sognare.
l’Unità 11.3.14
Padoan: tagli di spesa per il cuneo fiscale
Lettera al premier: ricordati che il lavoro ha già pagato
L’annuncio di pesanti interventi sulla spesa preoccupa la Cgil: «Ricadranno su lavoratori e servizi»
Non migliora il clima dopo le parole di Renzi. Bonanni: più rispetto, non spari nel mucchio
di Massimo Franchi
Prese sonoramente a schiaffoni dall’intervista del premier a Che tempo che fa, il giorno dopo le parti sociali rispondono a Matteo Renzi in ordine sparso. Se la Cgil preferisce mettere da parte i metodi e i toni, chiedendo risposte sui contenuti e dicendosi «preoccupata» dalle notizie provenienti da Bruxelles, Confindustria rimane in silenzio sperando ancora di poter spuntare un taglio dell’Irap. Se la Uil si conferma il sindacato più renziano, la Cisl di Bonanni invece si prende il merito di aver «costretto » Renzi a tagliare le tasse alle famiglie. Ieri Susanna Camusso era a Bari per il congresso della locale Camera del lavoro. In serata è stata raggiunta dalle notizie provenienti da Bruxelles e non le ha prese per niente bene. «Se veramente i dieci miliardi del cuneo fiscale saranno figli di soli tagli di spesa - ragionano da Corso Italia - saranno misure pesanti che avranno conseguenze gravi sul lavoro, sulle prestazioni e sui servizi ai cittadini». E su twitter arriva l’hashtag #abbiamogiàdato per ribadire il concetto.
In mattinata nel suo intervento Camusso aveva poi risposto al premier («la musica deve cambiare anche per i sindacati», «se la Cgil si mobilita ce ne faremo una ragione») senza alzare i toni. «Renzi mi è parso disattento al fatto che c’è una parte del Paese che ha pagato un prezzo altissimo durante questa crisi, che ha più volte cercato di invertire le politiche economiche proprio perché la crisi non continuasse a precipitare ». Il giudizio sul suo operato però dipenderà solo dalle decisioni che prenderà: «Renzi - ha spiegato il segretario generale della Cgil - deve sapere che quella parte del Paese e quella parte del mondo del lavoro e delle pensioni sta guardando ai suoi tanti annunci e alle coerenze che poi ci saranno tra gli annunci che fa e l’idea di avere una effettiva svolta di politica economica». Le richieste dalla Cgil sono chiare: il taglio del cuneo deve aiutare le famiglie veramente in difficoltà, per evitare di favorire gli evasori al posto del taglio dell’Irpef meglio aumentare le detrazioni. Poi c’è il tema della tutela per chi rischia o ha perso il lavoro: devono essere universali e coperte dai contributi di tutti. Se Renzi seguirà queste indicazioni - in tutto o in parte - la Cgil plaudirà. L’altolà arriva soprattutto sul tema degli ammortizzatori. Per Camusso «Renzi deve sapere che se risposte ai lavoratori non arrivano o se si tolgono risorse e si riduce la coperta degli ammortizzatori ci sarà un problema di risposta al mondo del lavoro».
BONANNI: TAGLI O MERITO NOSTRO. Chi invece in qualche modo mette il cappello sulla scelta - implicitamente annunciata da Renzi - di tagliare l’Irpef è il leader Cisl Raffaele Bonanni. «È ciò che abbiamo chiesto insistentemente e credo che Renzi l’abbia fatto perchè non poteva fare diversamente. Non tener conto delle famiglie dei lavoratori e dei pensionati, sarebbe stato per lui una prima sconfitta nella decisione sapendo che ha la campagna elettorale. Forse - ha insistito Bonanni - ecco perché ricerca un po’ di attrito col sindacato. È stato costretto a fare ciò che ha detto il sindacato e quindi ora deve mettersi contro il sindacato per rabbonire alcuni ambienti che gli chiedono invece differenti posizioni e differenti decisioni».
Anche la Uil di Luigi Angeletti plaude al taglio dell’Irpef in busta paga per i redditi bassi, pari a circa 100 euro lordi in più al mese. «Si trasformerebbe in un incentivo ai consumi, con riflessi positivi sulla produzione e sull’occupazione. Ecco perché - si legge in una nota dell’Esecutivo di ieri - la Uil ha preso favorevolmente atto della disponibilità espressa» da Renzi facendo «propria una storica rivendicazione della Uil. Tornando sul tema della concertazione la Uil poi insiste: «Se i fatti confermassero le anticipazioni, la Uil non riterrebbe necessario alcun confronto tra parti sociali e governo, poiché ciò che conta è che si risolvano i problemi dei lavoratori e dei pensionati».
Come detto da parte di Confindustria nessuna reazione ufficiale, ma un tentativo di lavorare dietro le quinte per spuntare un taglio dell’Irap alle imprese o maggiori tagli alla spesa, non a caso promessi ieri da Padoan a Bruxelles.
LANDINI: RENZI NON PARLI DI CGIL Ieri ha parlato anche Maurizio Landini. Colui il quale sta diventando un punto di riferimento - strumentale - per Matteo Renzi («Lui fa notare che parla con Landini per fare un dispetto a Camusso », sostiene Bonanni). Dopo la sua lettera aperta al premier su Repubblica ieri ha commentato: «Non ho avuto risposta da Renzi». Spiegando: «Abbiamo fatto delle proposte precise, mi auguro sia possibile un confronto, poi il sindacato decide autonomamente quali iniziative mettere in campo». E ancora: «Io sto al merito. Se il governo decide di ridurre l’Irpef ai redditi più bassi fa una cosa giusta. Del resto è una richiesta sindacale da tempo. Renzi dovrebbe essere più attento alle cose che fa e non alla dinamica interna della Cgil. Il governo - ha aggiunto a margine di un convegno di Sel - pensa di intervenire direttamente saltando gli organi di rappresentanza. Il problema non è lamentarsi per un tavolo ma la sostanza di quello che si fa».
l’Unità 11.3.14
Sergio Cofferati: Persino Berlusconi parlò coi sindacati, pure Renzi lo farà
L’ex leader Cgil: una strada da seguire per sostenere i redditi dei lavoratori sarebbe quella di mettere in busta paga il Tfr
Noi lo diciamo da anni
di Laura Matteucci
Nemmeno Berlusconi negò il confronto con i sindacati, anzi. Anno 1994, sul tavolo c’era la riforma delle pensioni: a luglio Berlusconi avanzò delle ipotesi, e per tutto settembre trattammo. E la rottura che in effetti arrivò a fine mese, in realtà fu sollecitata da Confindustria. Il confronto tra governo e parti sociali è inevitabile». L’europarlamentare Pd Sergio Cofferati, nel ‘94 nel ruolo che oggi ricopre Susanna Camusso di segretario generale della Cgil, invita a non drammatizzare i toni dei primi scambi tra il premier Matteo Renzi e i sindacati confederali. Toni non propriamente idilliaci: «se ai sindacati le nostre proposte non piaceranno ce ne faremo una ragione», dice Renzi; «Renzi è disattento, aspettiamo risposte per i lavoratori, e ancora non sappiamo che cosa ci sia nel Jobs Act», replica Camusso.
Crede che queste rigidità si scioglieranno a breve?
«Credo nel valore del confronto. Sui temi in questione - un piano per la crescita e l’occupazione - è inevitabile, dunque sarebbe bene programmarlo e prepararlo. Al confronto governo e sindacati ci dovranno andare: allora, meglio arrivarci portando in dote il minor numero di polemiche possibile, senza un conflitto in atto. Non dimentichiamo che dalla drammatica crisi del ‘92-‘93, che aveva ridotto l’Italia alla stessa stregua della Grecia di oggi, uscimmo in virtù di politiche mirate e anche in ragione del metodo della concertazione con le parti sociali».
Renzi però ha già chiarito: si parla con tutti, ma chi decide è il governo.
«Il fatto che mercoledì (domani, ndr) intenda annunciare le sue proposte non preclude affatto la possibilità di aprire un confronto con le parti sociali nel merito. Tra l’altro, sottolineo che il sindacato italiano dà da tempo prova di straordinaria disponibilità: vale la pena ricordare che nel 1992 fu firmato unitariamente un accordo durissimo, che tra l’altro prevedeva il blocco temporaneo delle pensioni e quello degli aumenti salariali. Firmare non fu per niente facile per l’allora segretario della Cgil Bruno Trentin: se lo fece, fu solo per il suo grande senso di responsabilità verso il Paese tutto».
Con Landini i rapporti sembrano più distesi: solo tattica o c’è anche altro?
«A me le richieste della Fiom sembrano, oltre che più che comprensibili, anche temi confederali. Che ci sia bisogno di regole per la rappresentanza, ad esempio, è fuor di dubbio, peraltro dando applicazione al dettato costituzionale. E la discussione sulla riduzione delle tasse sul lavoro o sull’aumento del reddito disponibile sono grandi temi di una società moderna. Anzi, io ho una proposta in merito».
Prego, quale proposta?
«In realtà, si tratta della riproposta dell’ipotesi di Stefano Patriarca, di cui si discusse nella seconda metà degli anni Novanta: mettere direttamente in busta paga il trattamento di fine rapporto, per chi lo desiderasse. Sono soldi che potrebbero venire utilizzati subito, per stimolare i consumi nel breve periodo, con una riforma che affiancasse quella sulla riduzione del cuneo fiscale, che va certamente portata a termine».
Per ricapitolare: il suo invito a non drammatizzare questi primi approcci tra governo e sindacati è chiaro. Ma non le sembra stia accadendo qualcosa di geneticamente nuovo e diverso, che Renzi dia quanto meno la sensazione di considerare il sindacato come un retaggio novecentesco non essenziale?
«Posso dire come la vedo io: il sindacato è un’organizzazione importantissima, che svolge un ruolo fondamentale anche nella società moderna, in Italia come in tutta Europa, pur nella difficoltà di rappresentare un mondo del lavoro molto cambiato rispetto anche a soli pochi anni. Le prime Camere del Lavoro sono datate 1891; eppure, quella forma di rappresentanza è ancora oggi in grado di attrarre consensi e di svolgere una funzione positiva. Nessun’altra organizzazione della rappresentanza - istituzioni, partiti - è così antica. Il sindacato ha un valore che va apprezzato, e utilizzato. Senza dimenticare che, nella sua storia, ha svolto funzioni anche improprie, come quella nella lotta al terrorismo degli anni Settanta e Ottanta, e quella per l’ingresso in Europa, attraverso adeguate politiche dei redditi».
La Stampa 11.3.14
La Cgil cerca di rompere l’assedio Renzi-Landini
di Federico Geremicca
In Corso d’Italia convinti che l’obiettivo sia scardinare il sindacato
La tentazione, effettivamente, sarebbe metterla sul piano dei caratteri: che è un pezzo del problema, ma non certo il cuore del problema.
«Per Renzi - confermano però dallo staff del premier - la simpatia personale conta, altroché. Con Landini c’è feeling, funziona: con la Camusso invece no».
La replica degli uomini della segretaria Cgil non nega il fatto e conferma - anzi - una certa, antica ruggine: «Renzi è vendicativo e rancoroso... I problemi cominciarono tempo fa intorno al destino del Maggio Fiorentino, quando lui era ancora sindaco, e si sono poi acuiti con le primarie. Una tregua? Mah...».
I caratteri, quindi: Matteo Renzi e Susanna Camusso non si stanno simpatici - come si direbbe tra ragazzini - e forse anche in quanto a stima reciproca, non è che si sia al top. Ma pur ammettendo che tutto ciò sia vero e pesi - e certamente pesa - è impossibile ridurre a questo la forte tensione che ha preso a correre sul filo Cgil-Palazzo Chigi e il fragoroso mulinar di sciabole tra il terzetto Camusso-Landini-Renzi. In controluce, infatti, si intravedono sempre più nettamente distanze profonde sul fronte dell’organizzazione e del ruolo del sindacato, dei rapporti tra governo e parti sociali e - in conclusione - della modernizzazione del Paese.
Sia come sia, il risultato è un inedito: e cioè, un presidente del Consiglio in carica da nemmeno tre settimane (Renzi ha giurato il 22 febbraio) che si trova già sotto minaccia di sciopero da parte della Cgil: «Il premier pensa - ha ripetuto ieri Susanna Camusso - che non ci sia un tema di rapporto con le parti sociali. La nostra opinione è che sbaglia». Questo dice la leader Cgil, e uomini del suo staff si incaricano di tradurre il concetto in termini più chiari: «La sua è un’idea di politica che salta qualunque mediazione. Come faceva Berlusconi, anche Renzi cerca un rapporto diretto coi cittadini. Il Cavaliere era bravissimo in tv; Matteo, che è più moderno, preferisce i 140 caratteri di un tweet...».
Matteo Renzi, insomma, come Silvio Berlusconi. E se la differenza è tutta e solo tra la tv e un tweet, la sostanza - secondo lo stato maggiore di Corso d’Italia - è chiaro che non cambia. L’attacco al sindacato (e per certi versi a Confindustria) è l’attacco - spiegano - alle uniche organizzazioni ormai radicate e presenti sul territorio, e capaci di mobilitazione e resistenza nei confronti del governo. Ed è anche così che si spiegherebbe l’eccentrico feeling tra Renzi e Landini: «Il primo usa il secondo per scardinare questo schema; e il secondo usa il primo per disarticolare e indebolire il sindacato».
Che Matteo Renzi e Maurizio Landini si usino reciprocamente, è una tesi: che si vedano e si parlino con più frequenza di quanto si potrebbe immaginare, è invece una realtà. Due tre incontri riservati a Palazzo Vecchio nelle settimane scorse; l’invio delle prime bozze del job act da Firenze ai piani alti della sede della Fiom (Landini fu tra i primi a riceverle, assieme a Francesco Giavazzi e una decina di altre persone); una analisi sostanzialmente simile delle incrostazioni che ingessano il Paese, anche se ricette e soluzioni spesso divergono (e non poco). Però tra i due un rapporto esiste, a differenza di quanto accade - è storia anche di queste ore - tra il premier e la leader Cgil...
Una dichiarazione di voto pro-Bersani alle primarie del dicembre 2012 (resa in diretta ad in 1/2ora, di Lucia Annunziata) aprì ufficialmente ostilità che già crescevano sottotraccia; il sostegno - certo ma mai ufficializzato - offerto a Gianni Cuperlo alle primarie 2013, fece il resto.”Questioni personali” arrivarono così a inasprire ulteriormente un rapporto già difficile per l’idea che Renzi ha del sindacato e della Cgil in particolare (un’organizzazione conservatrice e con un’idea vecchia della tutela del lavoro) e che Susanna Camusso ha del sindaco-segretario-premier: molta immagine, molti annunci ma pochi fatti e ancor meno coerenza...
La goccia che ha fatto traboccare il vaso - ma è bene ripeterlo: un vaso già del tutto colmo - è stata la “lettera al premier” scritta da Landini per “la Repubblica” con l’offerta di un “patto per il lavoro”. Guarda caso, tra i primissimi punti c’era una questione che Matteo Renzi pare abbia deciso di cogliere al volo: «Non serve a nulla una riduzione generalizzata e non selettiva del cuneo fiscale - scriveva il leader Fiom -. Per una ripresa dei consumi la tassazione va ridotta a partire da una riduzione dell’Irpef sui redditi da lavoro più bassi...». In Corso d’Italia l’hanno presa malissimo: «Lettera irrituale, questioni mai sollevate da una singola categoria».
E fuori dal giudizio di merito, infine, un’accusa pesante: «Landini vuole scardinare il sindacato. Ha un’idea dell’organizzazione dei lavoratori più vicina a quella di Marchionne che a quella di Lama». Vuole scardinare il sindacato... Una cosa che, se vera, somiglierebbe molto a certe già avvenute”rottamazioni”. E chissà che - alla fine di tutto e al di là dei caratteri - non sia questo quel che anima il feeling Renzi-Landini e nutre l’evidente “antipatia” tra il premier e la leader del più grande sindacato italiano...
La Stampa 11.3.14
Camusso: “Ora soluzioni, non battute”
Non si ferma il botta e risposta con il premier: ancora non si è capito quali interventi voglia realizzare
di Rosaria Talarico
Un botta e risposta a distanza. Che parte da lontano e che prosegue. Come ieri, tra il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso e il premier Matteo Renzi. Ieri in tv il presidente del Consiglio ha ribadito che «quando chiediamo a tutti di fare un sacrificio, dobbiamo anche dire ai sindacati che devono iniziare a mettere online anche loro tutte le spese che fanno», prima di entrare nel merito delle affermazioni della Camusso sul fatto che Renzi abbia il culto della personalità («sarebbe la cosa più carina che la Camusso ha detto su di me negli ultimi anni»). Per finire col «farsene una ragione se avremo i sindacati contro». E ieri, un nuovo affondo del segretario della Cgil: «Capisco che Renzi abbia una visione calcistica, ma il mondo non è fatto di derby. Il tema è a chi vuoi dare delle risposte». Secondo Camusso non si può interpretare la manovra economica come una specie di derby tra governo, sindacati e imprenditori quando invece la questione è politica. L’ombra di uno sciopero, che i renziani interpretano come una mossa pregiudiziale contro il premier, nasconde in realtà una questione politica molto più sostanziale: il futuro della concertazione. Un metodo che ha segnato il cammino di tutti gli ultimi governi e che il Rottamatore sembra deciso a superare, sebbene nel suo partito e anche nelle altre forze politiche ci siano molti dubbi. «Abbiamo detto in molte occasioni che bisogna far ripartire i consumi e l’economia di questo Paese - ha aggiunto la leader di Corso Italia - bisogna ridare potere d’acquisto a chi l’ha perso, cioè ai lavoratori ed ai pensionati. Lui stesso - ha concluso Camusso - dice che interventi erano stati fatti precedentemente sul cuneo fiscale ma non avevano dato risultati perché distribuiti a pioggia, credo che si risponda da solo sulle ragioni per cui chiediamo che queste risorse vadano a lavoratori e pensionati».
E a dar manforte alla Camusso arriva anche il suo collega della Cisl, Raffaele Bonanni che suggerisce a Renzi di non «sparare nel mucchio o addirittura ingaggiare una storia con un’organizzazione come la Cgil perché sbaglia, al di là delle posizioni che ciascuno può avere». A fine serata, poi, filtra dallo staff del premier la reazione sorpresa di Matteo Renzi, «penso sia la prima volta della storia che si minaccia uno sciopero contro un governo che vuole mettere direttamente i soldi nella busta paga del lavoratori».
Corriere 11.3.14
Renzi e Landini, due fronti di guerra per Camusso
di Enrico Marro
ROMA — Se un leader si misura dalla capacità di decidere anche a costo di scontrarsi con blocchi sociali consolidati, Matteo Renzi domani è atteso alla prova del nove. Mai nessun presidente del Consiglio prima di lui ha sfidato così sia il sindacato sia le associazioni imprenditoriali, con l’intento di scavalcarli, non riconoscendo loro una reale rappresentatività. Qualcosa che va oltre lo scontro fra Bettino Craxi e la Cgil di Luciano Lama sulla scala mobile nel 1984 o la battaglia tra Silvio Berlusconi e il sindacato sulla riforma delle pensioni nel 1994 o la sfida sulla modernizzazione lanciata da Massimo D’Alema alla Cgil di Sergio Cofferati nel 1997 o la guerra tra Berlusconi e Cofferati sull’articolo 18 nel 2002. Tutti scontri dove il presidente del Consiglio, fosse di destra o di sinistra, si impegnava contro un avversario di cui riconosceva la rappresentatività e temeva la forza, al punto da non essere mai sicuro di vincere. L’unico che ci riuscì fu Craxi, ma era il più decisionista di tutti. Ora invece Renzi si è permesso di dire in tv, a proposito delle decisioni che prenderà domani: «Avremo i sindacati contro? Ce ne faremo una ragione», scatenando l’applauso della platea di sinistra della trasmissione Che tempo che fa . Impensabile fino all’altro ieri. Renzi si è impossessato del sentimento diffuso nell’opinione pubblica di diffidenza, quando non ostilità, verso le parti sociali, percepite più come apparati di potere e fonte di privilegi che espressione di chi la mattina va in fabbrica o in ufficio o manda avanti un’azienda. «Ascoltiamo Confindustria, ascoltiamo i sindacati, ma cosa dobbiamo fare lo faremo non pensando alle associazioni di categoria ma alle famiglie e alle imprese». Più chiaro di così...
Una rivoluzione. Solo comunicativa per ora. Ma tanto è bastato a frastornare le vittime. Raffaele Bonanni, di prima mattina, ha spedito al presidente del Consiglio, che aveva anche invitato i sindacati a mettere tutte le loro spese online , il link al sito della Cisl dove sono pubblicati i bilanci del sindacato bianco e ha lanciato l’hashtag «Renzi rispetti il sindacato». Ma è da Susanna Camusso, che già il giorno prima aveva minacciato la mobilitazione del sindacato rosso, che è venuta la risposta più dura. Dopo aver invitato anche lei Renzi a visitare il sito Cgil per i bilanci, il segretario ha ammonito il premier: «Mi è parso disattento al fatto che c’è una parte del Paese che ha pagato un prezzo altissimo nella crisi. Una parte che attende una svolta e sta guardando ai tanti annunci di Renzi e alle coerenze che ci saranno con la politica economica che farà». Meno tasse per i lavoratori vuole Camusso e non sgravi Irap per le imprese. «A Renzi piace il calcio, ma il mondo non è fatto di derby. Il tema è a chi vuoi dare delle risposte», insiste.
Non c’è rapporto tra Renzi e Camusso, non c’è mai stato. Renzi salta gli schemi, le liturgie. Riconosce come sindacalista «dal quale imparo qualcosa ogni volta che lo incontro» Maurizio Landini, un leader di estrema sinistra, lontanissimo sui contenuti quindi, ma un rottamatore come lui, che da capo della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, sta terremotando il percorso congressuale della Cgil che, a maggio, rieleggerà con percentuali bulgare Camusso segretario generale. Di questo nessuno dubita nel sindacato rosso. Ma la domanda è un’altra: quanto può durare? Quanto ci metterà Landini, se continuerà a mettere in discussione la «democraticità» della Cgil, a far saltare equilibri di potere consolidati? Landini, come Renzi, è un animale mediatico. Se intercettasse lui la richiesta di un nuovo modo di fare sindacato? E cavalcandola riuscisse a imporre nuovi modi di selezione della classe dirigente, fino alle primarie per scegliere le candidature alla guida dell’organizzazione? Al momento nessuno nel sindacato ci crede perché l’apparato della Cgil, a differenza del Pd, è ancora molto forte per essere abbattuto da un rottamatore che ha la sua roccaforte nella Fiom, appena 350 mila iscritti su quasi 5,7 milioni di tesserati Cgil. Eppure Renzi irride Camusso e parla con Landini. Il buffo è che probabilmente non sa che se c’è un sindacato che tiene il bilancio segreto come fosse quello della Cia, questo è proprio la Fiom. E così i due rottamatori saranno pure diversissimi, ma a questo punto per Camusso sono uguali: due avversari da battere .
Repubblica 11.3.14
Scontro frontale tra Camusso e Renzi
“Cgil pronta alla mobilitazione”
La replica: “ Uno sciopero contro i soldi in busta paga”
di Luisa Grion
ROMA - Governo e Cgil: il duello continua. Fra il premier e Susanna Camusso soffia aria ghiacciata, ma il dibattito sulla concertazione, sui rapporti fra esecutivo e parti sociali, scalda invece gli animi dentro e fuori il Pd. Domenica scorsa - alle minacce di sciopero messe sul tavolo dalla Cgil se l’esecutivo non dovesse ascoltare le richieste su fisco e ammortizzatori -Matteo Renzi aveva risposto con un serafico «se il sindacato è contro ce ne faremo una ragione».
Ieri il tiro delle polemiche si è ulteriormente alzato. La leader della Cgil ha contrattaccato, il premier ha subito risposto. «Renzi mi è parso disattento al fatto che c’è una parte del Paese che ha pagato un prezzo altissimo durante questa crisi, e che ha più volte cercato di invertire le politiche economiche proprio perché la crisi non continuasse a precipitare» ha detto la Camusso. Quella parte di Paese, ha precisato, «attende una svolta», il governo «continua a lanciare titoli: ma non si vede il merito di quei titoli. Senza risposte il lavoro reagirà». E ancora: «Capisco che Renzi abbia una visione calcistica - ha detto a proposito del dibattito sulle risorse da destinare a Irpef e Irap - ma il mondo non è un derby».
Un atteggiamento di fronte al quale Renzi, impegnato a trovare le coperture finanziarie per le misure da portare al Consiglio dei ministri di domani, si è detto «sorpreso ». «Penso sia la prima volta nella storia che si minaccia uno sciopero contro un governo che vuole mettere direttamente i soldi nella busta paga dei lavoratori» ha commentato.
Uno scontro frontale che ha ricompattato il sindacato, ma diviso il Pd. Pur precisando che «non sarebbe la prima volta che la Cgil sciopera da sola», il leader della Cisl Raffaele Bonanni ha infatti invitato il premier «a moderare i toni, senza unirsi al coro di chi alimenta la spirale del populismo». Secondo una parte del Pd, quella della Cgil è invece «una mobilitazione a prescindere». Così ha twittato il senatore Andrea Marcucci, facendo notare che «il governo Renzi si è appena insediato e Camusso è già sul piede di guerra». Posizione condivisa dal responsabile Pd del Welfare Davide Faraone («Trovo veramente curioso che mentre il premier annuncia Jobs act e taglio delle tasse, Camusso minacci sciopero»), ma non dall’ex ministro Cesare Damiano cheha notato come ci sia «qualche elemento di conflittualità fra Renzi e le associazioni in generale, anche Confindustria». «Io farei attenzione a non abbassare il significato dell’associazionismo, è un tessuto molto prezioso, una rete che tiene» ha suggerito.
Il vero terreno di scontro è dunque quello della concertazione, ovvero il ricorso al confronto fra governo e parti sociali in merito a decisioni di politica economica. Un metodo che non riguarda solo i sindacati, ma anche il variegato mondo delle imprese. Ieri, infatti, vi è stato un giro di telefonate mattutino fra il presidente della Confcommercio Carlo Sangalli, il leader della Confindustria Giorgio Squinzi e la stessa Camusso. «Senza tenere in piedi inutili rituali della concertazione - ha poi specificato Sangalli in una nota - il dialogo con le parti sociali è necessario perché, soprattutto in momenti drammatici come l’attuale, aiuta il governo a comprendere le decisioni delle imprese, a prendere le decisioni giuste e a rafforzare la coesione sociale».
il Fatto 11.3.14
Camusso contro il premier per colpire Landini
La leader della CGIL in difficoltà, spiazzata dall’asse tra Palazzo Chigi e la Fiom. Domani i risultati del congresso
di Salvatore Cannavò
Lo scontro tra Matteo Renzi e la Cgil potrebbe essere più politico che di sostanza. Ne è convinta, ad esempio, la Cisl ma anche diversi settori interni alla Cgil. Ieri Susanna Camusso ha continuato con le frecciate al premier accusato di essere “disattento” rispetto al dato sociale e ribadendo l’ipotesi di una “mobilitazione” della Cgil se il governo non darà risposte adeguate. Solo che l’escalation polemica della Cgil non sembra convincere alleati e avversari interni.
È SINTOMATICA la battuta di Raffaele Bonanni, Cisl, che, riferendosi alla disponibilità di Renzi nei confronti di Maurizio Landini - “ogni volta che lo ascolto imparo qualcosa”, ha detto – ha parlato di un “dispetto”. Mentre Camusso e Renzi si sono punzecchiati, Landini ha inviato pubblicamente una lunga lettera al premier illustrando le posizioni della Fiom e le sue richieste. Un confronto “civile”, per quanto dialettico, molto apprezzato a Palazzo Chigi. Altro conflitto rivelatore: Camusso non ha gradito affatto la pubblicazione di un sondaggio organizzato dallo Spi-Cgil sulle “attese” dei pensionati nei confronti del governo. Circa il 70 per cento ha dichiarato di nutrire una qualche fiducia in Renzi. La leader Cgil ha definito poco opportuno che proprio mentre la Cgil alza il tiro nei confronti del governo, la categoria dei pensionati renda noto quel documento. E per quanto tenga alta l’attenzione, lo Spi conferma di voler mantenere
una posizione più “attendista”. La vicenda, quindi, è molto più complicata di come appare. Del resto, il “fuoco amico” di Cgil, Cisl e Uil su un governo di centrosinistra non c’è mai stato e oggi rappresenterebbe una novità assoluta, frutto dell’incognita Renzi e dell’inafferrabilità delle sue azioni.
“In realtà” spiega un sornione Raffaele Bonanni, “siccome si va verso la riduzione delle tasse sul lavoro, cioè quello che vogliamo noi, Renzi deve darci delle bacchettate”. In Cisl si dicono convinti che la partita in corso sia soprattutto politica: “Riguarda in primo luogo il Pd e le sue componenti interne”. Camusso è stata sempre dalla parte dell’attuale minoranza interna che oggi sembra incoraggiarne l’approccio battagliero. L’unico punto che riavvicina Cgil e Cisl è l’attacco sui bilanci poco chiari e sull’utilizzo dei soldi pubblici da parte del sindacato. Camusso ha risposto a Renzi con nettezza (che aveva criticato il sindacato da Fabio Fazio): “Cominciasse a consultare i siti dei sindacati e scoprirebbe che chiede una cosa che facciamo da 20 anni”. Bonanni ha invece chiesto di “abbassare i toni” per poi lanciare l'hashtag su Twitter #Renzirispettisindacato.
IN QUESTA vicenda, però, c’è anche il ruolo del congresso della Cgil. Camusso sceglie di indurire il profilo politico anche in seguito alla battaglia interna. Da un lato la minoranza di Landini sembrerebbe aver dimostrato, tra gli attivi, che il peso dei propri emendamenti è più ampio di quanto si pensasse all’inizio. Gianni Rinaldini, ex segretario Fiom e coordinatore della minoranza “La Cgil che vogliamo” ne è convinto: “Siamo sicuramente oltre il 30 per cento dei voti tra coloro che hanno partecipato alla discussione congressuale. Spero che nel computo finale non si mescolino le carte”. Mercoledì la Cgil renderà noti i risultati del congresso e molte cose saranno più chiare. Però, nei giorni scorsi, è avvenuto che a Bologna il segretario “camussiano” abbia dovuto lasciare la mano perché sfiduciato, che a Brescia si sia riaffermata una maggioranza non ostile a Landini, che la minoranza abbia vinto il congresso di Reggio Emilia, piccolo feudo camussiano, oppure che al congresso di Torino la Cgil abbia invertito la sua posizione “neutrale” sul Tav schierandosi contro.
Poi c’è la scelta della Fiom di svolgere una consultazione parallela – facendo votare tutti i lavoratori e non solo gli iscritti – sull’accordo del 10 gennaio. Un atteggiamento che nel corso del direttivo di domenica Camusso ha attaccato frontalmente spiegando che questa dualità interna alla Cgil deve finire possibilmente “prima del congresso”. Tanti punti di scontro che diventano un accerchiamento. Da cui la Cgil sembra voler uscire alzando il tiro su Matteo Renzi. Tutto dipenderà da come sarà davvero il piano del lavoro del governo. Ma anche da come si definiranno i rapporti interni del più grande sindacato.
il Fatto 11.3.14
Capitalismo di Stato, 30 mila partecipate e guerra per le nomine
Un dossier della Camera per i Renzi e Padoan mappa il potere del pubblico. Più forte di quello della politica
di Stefano Feltri
C’è un dossier che Matteo Renzi e il suo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan possono consultare come promemoria della stagione delle nomine pubbliche che sta cominciando. Si chiama “Ricognizione degli assetti organizzativi delle principali società a partecipazione pubblica”, lo ha preparato la Camera dei deputati ed è un utile promemoria dell'incredibile estensione dello Stato imprenditore.
I NUMERI SORPRENDONO un po’ anche gli addetti ai lavori: secondo l'ultima ricognizione del ministero del Tesoro, al 31 dicembre 2011 le amministrazioni pubbliche italiane hanno dichiarato di detenere ben 24.593 partecipazioni dirette e 5.540 indirette. Totale: 30.133. Le partecipazioni dirette dello Stato – nelle sue amministrazioni centrali – 231, altre 118 quelle indirette. Numeri che implicano migliaia di poltrone da assegnare, un sistema che si sviluppa dai grandi gruppi quotati come Eni e Finmeccanica fino al Circolo del Tennis del Foro Italico (una controllata del Coni) o alla Roma Convention Group, società di organizzazione di eventi il cui 50 per cento è detenuto da Eur, controllata dal ministero dell’Economia con il 90 per cento.
A volte anche la corsa alle poltrone subisce qualche rallentamento, dal dossier sulle imprese di Stato si scopre per esempio che ci sono società i cui vertici sono scaduti a fine 2012 e sono ancora “in corso di rinnovo”: per esempio Strategia Italia, un ramo del gruppo Invitalia che si occupa di risparmio, oppure l’Autostrada del Molise. Ma è l’allegato 5 quello che conta: tutte le società i cui consigli di amministrazione vanno rinnovati in primavera, tra aprile e giugno. Quelle più grosse sono ben note, dall’Enel all’Eni a Poste. Ma sfogliando le pagine del dossier si scopre l’esistenza di poltrone e consigli di amministrazione meno banali. Tipo la Sogesid, società al 100 per cento pubblica che si occupa di gestione di impianti idrici: scadono presidente e cda, chissà se saranno riconfermati due dirigenti come Vincenzo Assenza (presidente) e Lugi Pelaggi, ascesi ai vertici della tecnostruttura ambientale quando il ministro era Stefania Prestigiacomo, politicamente un’altra era geologica. Poi c’è la sterminata galassia Invitalia (scadono Italia Navigando e Italia Turismo). Tra le pieghe delle partecipazioni del Fondo italiano d’investimento, una delle propaggini del sistema della Cassa Depositi e prestiti, si scoprono cose come La Patria, società di vigilanza privata, o Rse, Ricerca sul sistema energetico che svolge “programmi a finanziamento pubblico nazionale e internazionale nel settore elettro-energetico e ambientale”. Scadono anche i cda di società interne a potenti ministeri di spesa, come Difesa servizi (che gestisce i beni delle forze armate) e l’Istituto Sviluppo Agroalimentare (una holding di partecipazioni e consulenza) in quello delle Politiche agricole.
Nell’albo del capitalismo di Stato figura ancora Alitalia, la bad company in amministrazione straordinaria da cui dipendono tuttora Alitalia Express, Volare e la Società italiana servizi aerei mediterranei, quest’ultima in liquidazione. Il dossier della Camera ha un obiettivo preciso: ricordare ai parlamentari che “la normativa relativa alle privatizzazioni ha lasciato indeterminato il problema delle modalità di esercizio del controllo pubblico sull’attività delle società derivanti dalla trasformazione degli enti pubblici economici”. Tradotto: la privatizzazione giuridica, la trasformazione in società per azioni, ha sottratto pezzi di economia italiana al controllo democratico, “in questo silenzio della normativa è venuto meno anche il controllo parlamentare”.
DALLA FINE degli anni Settanta era obbligatorio che il Parlamento esaminasse – in una apposita commissione bicamerale – nomine e programmi delle società di cui lo Stato era azionista. Una volta privatizzate le società (nella forma, ma non nel controllo che resta quasi sempre del pubblico), resta soltanto un tentativo di controllo della Corte dei conti, che però arriva quando i danni sono già stati fatti. E così sulle 30 mila partecipazioni pubbliche e sugli oltre 300 amministratori che saranno nominati nei prossimi mesi su input di Renzi e Padoan non vigilerà praticamente più nessuno.
Repubblica 11.3.14
Anche la Indesit parlerà straniero
La famiglia Merloni davanti alle offerte arrivate da Turchia, Cina e Stati Uniti
di Sara Bennewitz
MILANO - La famiglia Merloni si riunisce per esaminare le manifestazioni d’interesse non vincolanti raccolte da Goldman Sachs per la vendita del pacchetto di controllo di Indesit Company. Si tratta del primo passo formale che porterà il gruppo di elettrodomestici italiano a passare in mani straniere, un altro marchio e un’altra industria tricolore destinata a cambiare presto bandiera. Fonti vicine alla famiglia marchigiana riferiscono che tracoloro che di sicuro accederanno alla data room figurano i turchi di Arcelik, i cinesi di Haier e gli americani di Whirlpool. Ma potrebbero scendere in campo anche i principali operatori del vecchio continente Electrolux e Bosch-Siemens, che sarebbero i primi a soffrire se uno dei tre concorrenti extra-Ue rilevasse il controllo di Indesit.
La famiglia arriva a questa decisione dopo essersi spaccata in due, con Aristide Merloni che è appena stato nominato tutore del padre Vittorio e alla presidenza di Fineldo, la holding della dinasty marchigiana che controlla il 44,2% del gruppo di elettrodomestici. Si tratta della terza generazione di un’azienda familiare dove il passaggio di controllo da padre ai figli era rimasto incompiuto perché, prima della sua malattia, Vittorio aveva indicato come suo vice il figlio Andrea, ma non aveva provveduto a dividere le sue attività tra i quattro figli. Così la famiglia si è divisa sul futuro da dare a Indesit, tra chi come Andrea era pronto a investire per continuare a far crescere ilgruppo e chi come Maria Paola e Aristide avrebbe invece preferito essere liquidato. In passato si era provato anche a trovare un partner finanziario capace di affiancare la famiglia, una soluzione che si è risolta in un nulla di fatto, date le profonde divergenze dei soci circa l’impegno futuro da tenere nei confronti dell’azienda. E così, dopo aver provato a sondare varie ipotesi, vendere sul mercato il pacchetto di maggioranza è sembrata ai Merloni la migliore soluzione per l’azienda e per tutti gli azionisti del gruppo. Processo da cui invece Andrea Merloni si è dissociato rassegnando le sue dimissioni dalla presidenza di Fineldo: l’imprenditore non è infatti convinto che il miglior modo per salvare la Indesit sia venderla a un rivale straniero, soprattutto ora che tutta l’industria degli elettrodomestici attraversa una fase delicata.
E mentre Fineldo inizia a fare le sue valutazioni sulle offerte ricevute, il prossimo 21 marzo è stato convocato a Londra un cda di Indesit Company dal quale potrebbero emergere novità importanti per avviare il processo di vendita. La società guidata da Marco Milani avrebbe già assunto una piccola boutique finanziaria, Ondra, per assisterla a prescindere dalle decisioni che verranno prese ai piani alti di Fineldo. Ma ora il gruppo potrebbe scegliere anche alcuni advisor - si fa il nome di Banca Imi e magari di una merchant internazionale - che sarà chiamata a vigilare sulla due- diligence e sulla congruità dell’offerta per la quota di Fineldo, che poi comporterebbe il lancio di un’Opa obbligatoria sul gruppo. Il dado è tratto e la maggior parte della famiglia Merloni è decisa a passare la mano, tuttavia l’esito resta costellato da incertezze. Non è infatti scontato che le offerte vincolanti che saranno raccolte nei prossimi mesi risultino soddisfacenti per Fineldo. Inoltre, visto che il 44% delle azioni Indesit sono sotto il regime della tutela, il Tribunale di Ancona dovrà comunque avallare l’operazione. Un processo formale che però potrebbe allungare e complicare i tempi della trattativa.
l’Unità 11.3.14
Giannini: «Rafforzare la scuola paritaria»
di A.Com.
«Mi pare che la visita di oggi possa essere un segnale molto chiaro». Seduta in mezzo ai bimbi di una scuola dell’infanzia parrocchiale, il neo ministro a Istruzione e Università Stefania Giannini ieri da Padova torna a schierarsi in favore delle scuole paritarie, come già all’indomani della sua nomina. Mentre nel pomeriggio rilancia un altro di quelli che possono già essere individuati come suoi leitmotiv, e invoca il «merito» per valorizzare gli atenei virtuosi e garantire loro «la certezza dei finanziamenti».
In attesa del Consiglio dei ministri che domani darà molto spazio alla scuola (in particolare sul fronte sicurezza), Giannini comincia a tratteggiare la mission di viale Trastevere con il nuovo governo. E la prima notazione è tutta politica, come spiega lo stesso ministro in visita alla materna della parrocchia della Natività. «Lo dico da tempi non sospetti - rivendica l’esponente di Scelta Civica - la libertà di scelta educativa deve trovare anche in Italia un suo spazio politico e culturale concreto, occorre darle una visibilità politica. E servono misure perché le scuole paritarie possano essere una delle opzioni per le famiglie ». Di più, «la scuola paritaria è uno dei punti del sistema che funziona meglio quindi si tratta di rafforzarla ». Messaggio forte. Che peraltro segue lo stanziamento di 483 milioni, comunicato dal Miur pochi giorni dopo l’insediamento del governo Renzi, a sostegno della scuola paritaria. Allora come ieri, Giannini a frenare le polemiche cita «la raccomandazione del Consiglio d’Europa del dicembre 2012» per il rispetto di uguaglianza e parità nella scelta educativa, «ora sta a noi applicarla». Giannini si sposta quindi in un centro professionale, e qui riceva «due richieste nette» dalla Regione Veneto perché «la formazione professionale sia tolta dal Patto di stabilità (per poter almeno pagare con i nostri soldi i docenti e il sistema che regge questa scuola). E perché sia riconosciuto anche al Veneto il giusto equilibrio numerico tra studenti e docenti». La lista dei nodi anche economici all’attenzione di Giannini - «il mio è un ministero dove ogni giorno c’è una bomba da disinnescare», è la battuta che si concede - si allunga poi all’inaugurazione dell’anno accademico a palazzo Bo. E anche qui il ministro dà un’indicazione precisa.
«Siamo qui per incoraggiare l’Università di Padova e tutti gli altri atenei. Sarebbe importante darvi certezze sui finanziamenti e sul fatto che siano triennali e non annuali - premette Giannini -: è un’operazione complessa ma ci prendiamo questo impegno». Subito dopo auspica «merito e premialità» anche per diversificare il sostegno università, come prima li aveva promessi per il mondo della scuola, sollecitata sul tema degli stipendi degli insegnanti.
Ieri intanto il Miur ha pubblicato i numeri definitivi dei posti messi a bando per le facoltà a numero chiuso, riformulati tenendo conto dei fabbisogni professionali. Saranno 9.983 per Medicina, 774 per Veterinaria, 949 per Odontoiatria e 7.621 per Architettura.
Repubblica 11.3.14
Roberto Reggi, Pd e renziano: nessuno sa davvero quanti e quali sono gli istituti su cui dobbiamo intervenire, né conosce i fondi disponibili
Scuola, il sottosegretario si sfoga: “Renzi dà i numeri”
di Corrado Zuino
Sottosegretario, che significa che i numeri fin qui dati, che avete dato, sono falsi?
«Che nessuno sa davvero quante e quali sono le scuole su cui dobbiamo intervenire, né conoscei fondi disponibili».
Avete parlato di due miliardi e mezzo già trovati, quattro oggettivamente recuperabili. Dieci miliardi di euro in tre anni.
«Qui nessuno sa niente. Matteo Renzi spara razzi nel cielo, quello è il suo talento, ma poi noi arranchiamo dietro. Mancano tutti i dettagli, e che dettagli. Arriveranno a poco a poco, da giovedì prossimo, con i progetti dei sindaci. Abbiamo chiesto la collaborazione degli ottomila sindaci d’Italia».
Domani, quindi, presenterete in Consiglio dei ministri un piano sull’edilizia scolastica basato su numeri che non esistono?
«Un esempio, esperienza di questi giorni. Se chiedo un dato certo sulle scuole bisognose di intervento ai direttori generali dell’Istruzione, delle Infrastrutture e dell’Economia mi arrivano tre cifre diverse. Difficile lavorare così».
Impossibile.
«Il sottosegretario alla Presidenza, Graziano Delrio, tutte le sere alle dieci si mette a fare i conti e non tornano mai».
Qual è il problema?
«Un altro esempio. Io sono uningegnere elettrotecnico e nella mia azienda privata, prima, per avere un dato schiacciavo un tasto. Al governo non è così: non esiste un database unico per i ministeri, ognuno inserisce i suoi, di dati, e con i propri criteri».
Nessun numero certo sulle scuole. Sui fondi disponibili?
«Sono incagliati nei luoghi più disparati. Ci sono otto diverse fonti di finanziamento e dodici procedure attuative. Serve una cabina di regia al Miur».
Renzi voleva togliere gli investimenti sull’edilizia scolastica dal patto di stabilità, ma il viaggio a Bruxelles lo ha gelato.
«L’Europa chiede solo parità di saldo. Se vogliamo togliere dal deficit la scuola dovremo garantire un assegno pari su altre voci. E noi sulla scuola investiremo, vedrete. I sindaci, liberati dai vincoli, lavoreranno».
Avete chiesto a Renzo Piano un aiuto nel rammendo generale?
«Svelerà tutto Renzi, domani».
Gli addetti alle pulizie in esubero saranno reimpiegati nella manutenzione delle scuole italiane?
«A questo hanno lavorato i ministri Giannini e Poletti».
E oltre all’edilizia che cosa varerà il Consiglio dei ministri?
«Interventi sulla dispersione scolastica, addestramento degli insegnanti sugli strumenti digitali, un riconoscimento diverso per i docenti, stipendio e dignità».
l’Unità 11.3.14
Vendola: «Voto Tsipras Schulz ne ha bisogno»
No di Sel alla proposta di sostenere il Pse: «Il vigore del leader greco utile al socialismo europeeo»
di C. L.
«Ho avuto un incontro con Schulz molto affettuoso, molto utile politicamente e credo che Schulz abbia bisogno di Tsipras». Così Nichi Vendola, leader di Sel, risponde a chi gli chieda di esprimersi sull’invito rivoltogli dal leader dei Socialisti Italiani, Riccardo Nencini, circa un eventuale appoggio elettorale alla candidatura di Martin Schulz.
Sel appoggia la lista del leader greco Alexis Tsipras ma rispondendo a Nencini, Vendola sceglie la via di mezzo. «Il socialismo europeo, in troppe realtà ipotecato dai compromessi con la destra e dall’accettazione supina della religione dell’austerity, ha bisogno dell’esperienza, del vigore, dell’entusiasmo di Alexis Tsipras, simbolo di quella Europa mediterranea che è stata letteralmente massacrata dalle politiche dei tecnocrati di Bruxelles. Quindi Schulz ha bisogno di Tsipras. Se ne faccia una ragione anche Nencini».
Da parte sua, il leader dei socialisti (e viceministro alle Infrastrutture) aveva lanciato ieri il suo appello attraverso un’intervista al Corriere della Sera: «Vendola, ripensaci. Siamo ancora in tempo per dare unità elettorale alla sinistra riformista». Perché in questo momento la lista Tsipras potrebbe rischiare di portare avanti solo un’azione di disturbo. E «il risultato delle prossime elezioni europee è troppo importante - sostiene Nencini - e la posta in gioco è altissima: per i due candidati più rappresentativi, Schulz per il Pse e Junker per il Ppe, si prospetta un risultato al fotofinish». Di contro, per Nencini, se il centrosinistra italiano restasse unito e «si presentasse insieme come alle amministrative, sarebbe la prima forza della sinistra in Europa e questo potrebbe determinare la vittoria di Schulz».
Difficile forse da capire, per più di qualcuno è contraddittoria, non è però sorprendente la posizione del leader di Sel, che pochi giorni fa, a margine del cogresso del Pse, ripeteva: «Io considero Schulz una delle personalità più importanti della scena politica europea. Lavoro perché la lista Tsipras possa dialogare e immaginare un profilo di alleanza con Martin Schulz. Io sono nella terra di mezzo tra Tsipras e Schulz. La socialdemocrazia ha bisogno dello stimolo prodotto da Tsipras». E ancora, argomentava: «Le larghe intese sono una sciagura in ciascun Paese europeo e sarebbero una catastrofe per l’Europa. Sappiamo che i socialisti in diverse parti d’Europa hanno subito o hanno avuto un atteggiamento di ambiguità rispetto a queste politiche, e allora Tsipras serve a Schulz».
Del resto anche il congresso di Sel, a fine gennaio, si era chiuso con lo slogan un po’ sibillino di Vendola, che dopo aver rotto gli indugi ed essersi schierato con Tsipras annunciava: «Con Tsipras ma non contro Schulz, con Tsipras per incontrare Schulz».
il Fatto 11.3.14
Ritiri e pasticci: le convulsioni della lista Tsipras
Caos in Sicilia: cancellata la candidatura di Valeria Grasso perché partecipò a una manifestazione di Fratelli d’Italia
di Tommaso Rodano
Sullo sfondo ci sono i grandi temi cruciali della politica europea, in primo piano invece piccoli antagonismi, personali e partitici. La Lista Tsipras, ultima creatura della sinistra italiana, si avvia con passo incerto verso le elezioni di fine maggio. La presentazione delle liste, la scorsa settimana, non ha chiuso polemiche e battaglie di principio tra le anime del movimento e i singoli esponenti.
IN SICILIA, la candidatura dell’imprenditrice palermitana Valeria Grasso è stata cancellata con un colpo di matita. Scelta come simbolo della battaglia contro il pizzo e l’estorsione mafiosa, le è stata fatale una manifestazione di Fratelli d'Italia. Il 25 novembre scorso, Valeria Grasso prendeva la parola sul palco di “Officina per l'Italia”, piattaforma culturale e politica del partito di Meloni e La Russa. Un progetto a cui affermava di “credere moltissimo”: “Sono orgogliosa - disse - della nascita di una nuova antimafia di destra”. Parole che non sono passate inosservate. Un altro siciliano della Lista Tsipras, l’attivista No Muos Antonio Mazzeo, ha minacciato di ritirare la sua candidatura: "Siamo un movimento di sinistra. Grasso invece andava a braccetto con La Russa”. Alla fine l’imprenditrice si è fatta da parte da sola, comunicando la sua rinuncia. I garanti della Lista Tsipras ne hanno preso atto. “La situazione era diventata pericolante - ha spiegato con rammarico Barbara Spinelli all’Huffington Post - e rischiava di far saltare l’intera lista”. Il posto lasciato libero da Grasso è stato assegnato a un altro palermitano, Alfio Foti. Anche il suo profilo si distingue per l’impegno contro la mafia, con l’associazione di Rita Borsellino “Un’altra Storia”.
Nella circoscrizione Sud è saltato un altro nome: quello di Antonia Battaglia, esponente di Peacelink, famosa per le sue lotte contro l’Ilva di Taranto. Anche lei, dopo l’annuncio della sua candidatura, ha preferito rinunciare. Aveva posto come condizione l’assenza dei partiti, e in particolare di Sel. Nel suo collegio invece ce ne sono due: Dino Di Palma e Gaetano Cataldo, coordinatore di Sinistra e libertà in Puglia. Inaccettabile, per chi combatte l'inquinamento dei Riva.
Prima di loro, anche uno dei padri nobili della lista, Andrea Camilleri, aveva detto di no. Il rifiuto dello scrittore non è una reazione alla candidatura dell’ex leader no-global Luca Casarini - come è stato scritto - ma all’esclusione dalle liste di Sonia Alfano, giudicata incompatibile con le regole del movimento: è un’europarlamentare in carica e a Bruxelles fa parte di un gruppo (Democratici e Liberali) che a sinistra piace poco. Come si vede, una polemica non si nega a nessuno. Si sono lagnati anche i Comunisti Italiani di Cesare Procaccini, rimasti senza candidature. Lamentano “scelte non democratiche e inclusive” nella formazione delle liste. Mentre il Psi, per bocca del segretario Riccardo Nencini, ha dedicato un accorato appello a Nichi Vendola: “Ripensaci. Torna nella famiglia socialista europea per dare unità alla sinistra riformista”. Il leader di Sel non ci pensa: “C’è bisogno dell'entusiasmo di Tsipras”.
GUIDO VIALE, uno dei garanti della lista, prova a limitare i danni: “Ci sono stati solo due ritiri. Siamo un movimento inclusivo e le difficoltà nel conciliare le richieste di tutte le nostre componenti sono normali. Qualcuno forse non ha capito lo spirito con cui siamo nati”. Il primo obiettivo sono le 150 mila necessarie per essere sulla scheda elettorale: “La raccolta va benissimo - garantisce Viale - e c'è un entusiasmo straordinario ai banchetti e alle assemblee. Per chi è interessato alla nostra proposta politica contano le idee. I candidati molto meno”.
l’Unità 11.3.14
Suicidarsi con i figli o attraverso i figli
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
Le raccapriccianti sequenze di uccisioni non sui campi di battaglia, ma in famiglia, sono l’esito di micidiali cortocircuiti mentali, praticamente imprevedibili. La paura del futuro, la mancanza di stabilità economica, l’opprimente crisi, destabilizzano le menti più fragili, con sbocchi letali di follia collettiva.
FABIO SICARI
Il numero complessivo degli omicidi è diminuito, in Italia, di quasi quattro volte. La diminuzione, però, riguarda solo quelli legati alle attività delle organizzazioni criminali che hanno messo il colletto bianco e si arricchiscono utilizzando quasi esclusivamente, ormai, i reati finanziari. Coppie e famiglie restano sole, invece, mentre l’onda lunga della crisi appesantisce la vita dei più deboli e diminuisce, ogni giorno di più, la presenza e l’incisività dei servizi responsabili della prevenzione. Con un aumento progressivo del numero di quelli che entrano nel caos della disperazione. Come la madre albanese di Lecco che ha ucciso le figlie: per evitare loro di essere costrette a vivere una vita come la sua. Dall’interno di un movimento dell’anima universale (dalla Medea di Euripide a Steiner, il personaggio de La dolce vita di Fellini) in cui quello che si confonde fino a perdersi è il limite fra il Sé e l’altro, nella madre o nel padre che sente i figli come una parte del suo stesso corpo e della sua stessa vita. Suicidandosi con loro o attraverso di loro perché un passaggio difficile di ogni maternità o paternità è il rendersi conto del fatto che il figlio non è tuo, che ci sono dei confini fra te e lui e perché è nel momento della disperazione che può accadere di dimenticarsene. Tornando indietro. Diventando tragicamente anche se momentaneamente folli.
Corriere 11.3.14
Simona e la mamma amica che l’ha uccisa
di Giusi Fasano e Gianni Santucci
«Non trovo spiegazioni», ha detto ai carabinieri il padre delle tre bambine uccise domenica a Lecco. Bashkim Dobrushi è rientrato lunedì mattina dall’Albania. La madre, autrice del triplice infanticidio, si trova ancora in prognosi riservata all’Ospedale Manzoni. Su Internet, la figlia maggiore, la tredicenne Simona, aveva scritto un messaggio: «Mia mamma è la mia migliore amica».
LECCO — Anonima fino a essere invisibile, madre amorevole, donna senza eccessi. E, soprattutto, irrimediabilmente sola. Edlira era così. Il suo mondo erano le sue bambine, il resto era uno sfondo lontano di cui non le importava niente. Non più da quando suo marito l’aveva abbandonata per un’altra donna. C’erano soltanto Simona, Keisi e Sidny, «le mia bellezze», «la mia forza», «i miei angioletti» , come le chiamava lei. E soprattutto con Simona, la più grande, era come una sorella, una guida nelle inquietudini dei suoi 13 anni. Madre e confidente, tanto che la ragazzina scriveva di lei su Ask «mia mamma è la mia migliore amica» e alla domanda: se la tua vita fosse un film quale sarebbe il titolo? rispondeva «Simona e la lotta contro la vita».
Può darsi che Edlira abbia curiosato nella vita segreta che sua figlia viveva sulla Rete. Se lo ha fatto ha visto l’ultimo post che la tredicenne ha scritto poche ore prima di essere ammazzata: «Sono arrivata al limite». Esattamente come lei e proprio nello stesso giorno: arrivata al limite, sull’orlo del burrone.
Per Edlira, che tutti chiamavano Eda, il giorno del non ritorno è stato sabato, il più anonimo di sempre. Nessuno l’ha vista, se è uscita di casa l’ha fatto senza incontrare nemmeno un volto conosciuto da salutare, nessuno ha potuto cogliere un segnale, un campanello d’allarme dell’ultima ora. Con il senno del poi i vicini ragionano sul fatto che in effetti era strano che lei, abitudinaria com’era, non fosse nemmeno uscita per buttare via il sacchetto della spazzatura. Che la sua Ford Focus grigia fosse rimasta lì fuori parcheggiata tutto il giorno. Piccoli dettagli che raccontano di una giornata passata a nascondersi e sicuramente, come racconta sua madre Atlije, a piangere. Un pianto disperato. «Ho telefonato a mia figlia nel pomeriggio» dice la donna in un’intervista a una televisione albanese «ed è stata l’ultima volta che l’ho sentita. Non la chiamo mai, di solito è lei a farlo, ma avevo come un presentimento, sentivo qualcosa dentro, una voce che mi diceva “chiamala, senti se va tutto bene”. Abbiamo parlato a lungo, mi ha detto che non ce la faceva più. Le ho chiesto se aveva litigato ancora con il marito o con i fratelli di lui ma mi ha risposto che almeno per quel giorno no, non avevano litigato. L’ho supplicata di lasciar stare, di non darsi pena per le questioni economiche. Le ho detto “stai su col morale, venderò tutti i miei terreni, ti aiuterò io”. Ma lei niente, ha continuato a piangere. Piangeva perché la situazione economica a casa era peggiorata. Mi ha detto: ho in testa mille pensieri e non so da dove cominciare».
Perché Eda ha scelto proprio sabato per decidere che tutto era ormai perduto? Può darsi che una spiegazione venga dal giorno precedente. Venerdì mattina suo marito Bashkim — separato formalmente dal 12 febbraio ma che già da mesi vive in un’altra casa — si era presentato di buon’ora nell’appartamento della moglie. Voleva salutare le bambine prima che andassero a scuola perché quella stessa sera sarebbe partito per il suo paesino albanese ai confini con il Kosovo: andava dalla sua famiglia a presentare la nuova fidanzata. Eda lo ha guardato mentre baciava le piccole, l’ha salutato senza troppe parole e ha richiuso la porta alle sue spalle più depressa che mai.
In quest’ultima settimana erano successe poche cose ma importanti. La più grave era stata una lite con lui, per la prima volta su questioni di soldi negati non a lei ma alle bimbe. Era stato per la gita scolastica di Simona: 230 euro per andare a Roma che lui voleva conteggiare nei 1.100 euro degli alimenti del mese e che invece lei avrebbe voluto a parte. Già ossessionata dall’idea di non poter garantire una vita dignitosa alle sue figlie, Eda era rimasta sconvolta da quella lite. Forse è per questo, per provare a spendere il meno possibile e pagare la gita, che martedì si è presentata alla sede locale della Caritas per chiedere uno dei loro pacchi alimentari: qualche chilo di pasta, zucchero, sale... Anche quel giorno senza far trapelare emozioni. Nessuno l’avrebbe detta disperata.
Si vedeva sempre mentre accompagnava le bambine a scuola con la sua aria mesta o mentre faceva la spesa al centro commerciale. Sorrisi pochi e poca voglia di chiacchierare. Invisibile fra la gente. Sola e triste. E si capisce anche dalle frasi che condivideva su Facebook o dalle fotografie che postava quasi ogni giorno da un paio di settimane. Più si va indietro nella sua «macchina del tempo» sul social network più si incontrano immagini di giorni felici. Lei al mare, lei ai bordi di una piscina, panorami estivi, le sue bimbe sorridenti, baci e abbracci. Da fine febbraio in poi soltanto frasi amare da condividere, le faccette meno allegre della sua Sidny, la piccolina di 3 anni, oppure risposte malinconiche a chi le faceva domande. Il 3 marzo Mimoza le chiedeva «ma che ti succede sorella?» dopo aver letto una citazione postata da Eda sui figli. «Sto diventando sentimentale...» è stata la risposta alle dieci di sera. Quello stesso giorno un altro post parlava dei tormenti di una donna che stava andando alla deriva: «Non possiamo mai giudicare
dal testo dell’articolo: la sua capacità di intendere al momento dei fatti non era «totalmente assente» e quella di volere era «sufficientemente conservata».
Corriere 11.3.14
il commento
Dolore e vendetta: i buchi neri dell’esistenza
di Giuseppe Panissidi
Dopo l’8 marzo, giorno di festa e di lotta, purtroppo la parte materna dell’umano, «metà di un intero», secondo Platone, rischia di divenire colpevolmente «altra», ogniqualvolta essa non esiti a sopprimere i propri contributi viventi al creato. Sembra dunque maturo il tempo per recuperare margini di senso nella tradizione culturale occidentale, costituitasi nella temperie aurorale della cultura greca classica, entro il testo della filosofia e nell’opera dei grandi tragici. Quasi venticinque secoli fa ad Atene andava in scena «Medea» di Euripide, un capolavoro assoluto, autentica rivelazione dei «buchi neri» dell’esistenza. Medea uccide i suoi due figli, preda lucida e cieca ad un tempo, della disperazione vendicativa verso il marito, deciso ad abbandonarla per un’altra donna, a dispetto della sua completa dedizione. La condanna non riguarda soltanto la donna, ma anche il marito, spinto dalla brama di potere a infrangere il patto d’amore e di lealtà che li aveva uniti. Compiuto l’orrendo misfatto, Medea, impietosamente si giudica detestabile e mentre invoca la morte, con altrettanto vigore contesta al marito la sua inumana tracotanza, la celebre «hybris» del mondo culturale greco. «Li ho uccisi perché devi soffrire, né hai il diritto di affermare che li amavi, dal momento che li hai abbandonati». Cerca la sofferenza di quell’uomo, perché confusamente e grecamente percepisce valori di verità nel cuore tragico dell’esistenza: «La sofferenza è sapere». Madre ferita, crede che anche il suo uomo è «giusto» che soffra, per umana volontà. Questioni umane, insomma. Ad esse il testo tragico intona un inno per un’auspicabile, pur ardua, saggezza, di contro alla «grande bruttezza», entro eque relazioni di effettiva parità di genere, secondo una terminologia invalsa di recente. Perché, soltanto a pronunciarlo, vi leggiamo, il «nome della saggezza appare vincente». Viverla è ancora meglio. Medea, infine, si allontana sul carro del sole, da cui vanta la discendenza: efficace metafora che illumina l’idea profonda del tragico quale «conflitto tra ragioni». Ché, tra ragione e torto, si dà conflitto, non mai tragedia.
La Stampa 11.3.14
Uccise a colpi di piccone tre passanti
Il pm chiede 20 anni per Kabobo
Processo rinviato per problemi di traduzione. Per il pm uno dei possibili moventi potrebbe essere “rancore verso la società da cui si sentiva escluso”
qui
Corriere 11.3.14
Tra le buche, la Magliana e Parigi
Lo slalom di Marino: mi fanno la guerra perché do fastidio a molti
di Aldo Cazzullo
Non sono avvelenate e neppure cattive, le due torte mandate da ignoti al sindaco più criticato d’Italia e quindi del mondo. È il compleanno di Ignazio Marino (anche se in tutto il giorno risponderà a poche telefonate, quasi tutte della madre novantenne)
Alle 8 meno un quarto c’è già la prima riunione — per preparare il viaggio a Parigi — e la prima contestazione da destra: cosa va a fare il sindaco a Parigi? «Mi pare giusto ricambiare la visita del mio collega Bertrand Delanoë». Guardi che Delanoë scade tra due settimane, il 23 si elegge il suo successore. «Appunto, farò un comizio in piazza a sostegno della candidata di sinistra, Anne Hidalgo. In Campidoglio dopo cinque anni di black-out abbiamo ripreso i contatti con l’estero: Spagna, Paesi Bassi, Corea, Messico, Perù, Croazia, Bulgaria, Estonia…».
Sindaco, Roma è un disastro. Alluvioni, buche, traffico, incidenti mortali, dissesto finanziario. Non a caso va salvata di continuo: ogni governo deve varare un decreto «Salva-Roma». Com’è possibile? «Detesto il nome di quel decreto. Ma ho dovuto alzare il tono per evitare il blocco della capitale. Renzi ha capito, e ha firmato. Non è vero che abbiamo litigato. I giornali inventano. Mi accusano di tutto. Il Tempo è arrivato a pubblicare una mia fotografia travestito da donna nomade: mi rimproverano di aver mandato la polizia, durante l’alluvione, a evacuare i campi rom abusivi alla foce dell’Aniene. Confesso: sono colpevole. Ho mandato la polizia perché non volevo che la piena si portasse via un bambino». Contro l’alluvione non si poteva fare di più? «Certo: cinquant’anni fa si poteva fare molto di più. Interi quartieri, da Ostia a Primaporta, sono sorti in zone alluvionali. Ci sono condomini con dentro le idrovore che a ogni pioggia pompano via l’acqua. Dicono che sono case condonate; però il fiume quando straripa non guarda i condoni. Ma io ho un piano...».
I collaboratori lo portano via: «Sindaco, è tardi, la aspettano alla Magliana» (quasi tutti gli danno del lei). «Benissimo, prendo la bici». «Guardi che sono venti chilometri». «Non è vero! L’altro giorno dicevate lo stesso di Casalpalocco e ci sono arrivato in un attimo». «Oggi non può, è in ritardo». «Almeno usiamo Car2Go». «Cosa?». «Non sapete? Da oggi si può scaricare sul telefonino un programma che ti fa vedere l’auto in car sharing più vicina. Guardate: ce n’è una a 235 metri, ha il 78% di carburante. Con la stessa carta si può prendere un’auto a Parigi, Berlino, Londra, Denver...». Alla fine lo convincono a prendere la macchina del Comune, una Punto bianca. «Ci sono troppe auto in centro. Entro la fine di questa consiliatura via dei Fori Imperiali sarà interamente pedonale. Lo sa che le sculture della colonna Traiana si stanno sgretolando?». Quando va in bici, come fanno a scortarla? «Non creda alle leggende. Non esistono poliziotti ciclisti. Io non ho scorta. Ogni tanto viene organizzata una protezione sui luoghi dove devo andare».
Sulle scale del Campidoglio trova Paolo Cirino Pomicino, che però non è qui a dare consigli sul bilancio: «Marino mi deve sposare, sono venuto a vedere la sala». Un passante lo saluta: «A sindaco, te fanno ‘a guera, eh?». E lui: «È vero, un po’ la guerra me la fanno. In un anno abbiamo chiuso la discarica di Malagrotta, e il proprietario, Cerroni, è finito in galera. Ho appena cambiato i vertici dell’Ama, la municipalizzata dei rifiuti. Ho disdetto contratti d’affitto assurdi: un garage di Scarpellini, quello degli affitti d’oro alla Camera, ci costava da solo un milione l’anno. Le Assicurazioni di Roma rimborsavano cifre folli, a un tronista che guidava ubriaco hanno dato un milione e 200 mila euro. Ora cambierò i trasporti. Stiamo rivedendo tutti i contratti di servizio al ribasso. Ho toccato parecchi interessi forti. Qualche nemico me lo sono fatto». Compreso Caltagirone? «Con lui c’è rispetto reciproco. Ci siamo visti due volte. La prima per parlare dell’Acea: voglio diminuire i consiglieri d’amministrazione e i loro stipendi. La seconda per parlare della linea C della metro: voglio completarla, ma con tempi certi. Alla voce “stazione san Giovanni” era scritto: “Data da destinarsi”. Ma scherziamo?».
La prima tappa è una scuola della Magliana che prende il nome dal proprio indirizzo, «Via Cutigliano». Ad attenderlo c’è un attore travestito da Geronimo Stilton, che distribuisce libri sui diritti dell’infanzia. Il sindaco si è preparato in macchina e lo saluta come a Topazia: «Stratopico!». I bambini gli danno il cinque come a Renzi, per fortuna la preside non ha preparato canzoncine. I genitori sono meno entusiasti: i bagni sono rimasti rotti per anni, il giardino è pieno di oleandri che fanno venire le allergie. Marino promette che li farà sradicare: «Ma voi in cambio dovete piantare un orto. Con i pomodori, la lattuga, il prezzemolo...».
Si riparte per la stazione Termini. Il sindaco fa rallentare a ogni cassonetto per ispezionarli: «Vede? Sono stati tutti svuotati. A dirigere l’Ama ho chiamato un esperto di rifiuti; prima c’era un esperto di razze equine. Il personale va rimotivato. L’assenteismo è del 18%: ogni giorno mille persone non vanno a lavorare». E l’Atac, il carrozzone dei trasporti? «Alemanno ha assunto duemila persone. Quasi tutti impiegati. Ora li manderò sugli autobus, come controllori: tra il 30 e il 60% dei passeggeri non paga il biglietto. Faremo in modo che tutti entrino dalla porta anteriore». Allora ci vorranno molti, ma molti più autobus... «Sì, e anche più autisti. Quelli di adesso meritano un plauso. Hanno tutti 50 giorni di ferie arretrati». Ci sono più dirigenti all’Atac che alla Nasa. «Li ridurremo. La loro carriera deve essere legata ai risultati. Chi non li porta viene allontanato». Privatizzare? «Non lo escludo. Ma il controllo deve restare pubblico».
A Termini lo aspettano il capo delle Ferrovie Moretti e i clochard del centro di accoglienza Binario 95. Uno di loro sta scrivendo al computer una poesia per il sindaco: «Quanno è l’ora de parlà/ batti i pugni e nun ce pensà/ poi se davvero ci rispetti/ dà una mano ai senza tetti/ che ce n’hanno de bisogno/ te lo dico e mi vergogno». Si scopre una targa a Modesta Valenti, morta in stazione senza soccorso. Poi si va in tribunale, a firmare il protocollo per la gestione dei beni sequestrati: «Vi ringrazio per aver scoperto che la catena di Pizza Ciro era in mano alle mafie, e per aver consentito a chi ci lavorava di continuare a farlo. L’altra sera ero in un locale sequestrato, Pummarola Drink, al Pantheon, e mi sono trovato molto bene...».
Sulla via del Campidoglio si torna a parlare di bilancio. «Monti ha tolto i 500 milioni che il governo passava a Roma. Alemanno ha fatto il bilancio 2013 come se quei soldi ci fossero. Da qui il disavanzo di 816 milioni». In Italia tutti dicono che il predecessore ha lasciato un buco. «Io però l’ho fatto certificare dalla Guardia di finanza. Ora avremo i fondi europei: 200 o 300 milioni. E il principe-sultano dell’Arabia Saudita, che conosco da quando trapiantai il fegato a sua madre, finanzierà un progetto archeologico». Arriva una serie di sms: «Sono gli amici americani che si stanno svegliando. A Pittsburgh, a Philadelphia...». Come intende rilanciare l’economia della capitale? «Ho un piano. Manutenzione delle strade e delle scuole. No a nuove costruzioni: riqualificare il costruito, a cominciare dalle caserme. Più turismo religioso. Ne ho parlato con il Santo Padre, lavoreremo insieme. Sa che l’83% degli alberghi è già prenotato per fine aprile, quando Wojtyla sarà fatto santo? E poi il turismo congressuale. L’Italia è rimasta indietro: la prima al mondo è Vienna, Roma non è neanche nelle prime venti. Termineremo la Nuvola di Fuksas, perché serve una grande struttura. Nel 2016 ci sarà il convegno mondiale dei cardiologi: 15 mila persone che possono spendere anche mille euro al giorno». Suona il telefono: «Mamma anche io ti voglio bene. Sì, passami Helder, così mi fa gli auguri» (Helder è la badante peruviana).
A Primavalle lo aspettano in un’altra scuola elementare. «Non è vero che non conosco Roma. Questa zona ad esempio mi è familiare. Da neolaureato lavoravo al pronto soccorso del Gemelli. Arrivavano poliziotti e terroristi feriti negli scontri a fuoco. Vedevi l’umanità dolente delle periferie». Davanti alla scuola c’è il centro anziani: qualcuno si alza a salutare Marino, altri rimangono seduti a giocare a carte. «Cosa posso fare per voi?». «Siccome lei è anche dottore, io avrei un dolorino allo stomaco...». L’accoglienza non è entusiasta ma neppure polemica. È quasi buio, una bambina romena gli regala un disegno con un sole rosso e la dedica: «Grazie sindaco per avere visto il tramonto con me». Alla fine di una giornata trascorsa a ritmi folli resta soprattutto il respiro di una città immensa, soffocato dalla crisi, dallo smog, dal traffico. «Ha detto traffico? Ma io ho un piano...».
l’Unità 11.3.14
Siria: bombe, fame e polio Tre anni di guerra ai civili
Rapporto-denuncia di Amnesty: a Yarmuk la privazione del cibo usata come un’arma
Save the children: assistita al parto una donna su quattro
di Umberto De Giovannangeli
La fame come arma contro civili inermi. Morire di inedia. E di poliomielite. L’orrore siriano. Prime vittime i più deboli, indifesi: i bambini. Un nuovo rapporto diffuso da Amnesty International documenta crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei civili palestinesi e siriani residenti a Yarmuk ,il campo alla periferia della capitale Damasco sotto assedio da parte delle forze governative. Il rapporto, intitolato «Vite schiacciate: crimini di guerra contro i civili sotto assedio» e pubblicato alla vigilia del terzo anniversario dell’inizio della crisi siriana, denuncia la morte di quasi 200 persone da quando, nel luglio 2013, l’assedio si è fatto più stringente ed è stato tagliato l’accesso a cibo e medicinali fondamentali. Secondo le ricerche di Amnesty International, 128 delle vittime sono morte di fame. «La vita a Yarmuk è diventata sempre più insopportabile per persone disperate, affamate e intrappolate in un ciclo di sofferenza da cui non sanno come poter uscire. La popolazione è trattata come una pedina di guerra in un gioco mortale di cui non ha il controllo», rimarca Philip Luther, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
ORRORE SENZA FINE. Secondo il rapporto, le forze governative e i loro alleati hanno ripetutamente compiuto attacchi, compresi raid aerei e pesanti bombardamenti, contro edifici civili tra cui scuole, ospedali e una moschea. Alcuni degli obiettivi degli attacchi erano stati adattati a rifugi per profughi interni provenienti da altre zone di conflitto. Sono stati presi di mira anche medici e operatori sanitari. «Lanciare attacchi indiscriminati contro le aree civili, provocando morti e feriti, è un crimine di guerra. Colpire ripetutamente una zona densamente popolata, da cui i civili non hanno modo di fuggire, dimostra un’attitudine spietata e un vile disprezzo per i principi più elementari del diritto internazionale umanitario», insiste Luther.Almenoil60 per cento di coloro che si trovano ancora a Yarmuk soffre di malnutrizione. Gli abitanti hanno detto ad Amnesty International che non mangiano frutta o verdura da mesi. I prezzi sono saliti alle stelle e un chilo di riso può costare anche più di 70 euro. «Le forze siriane stanno commettendo crimini di guerra usando la fame dei civili come arma di guerra. I terrificanti racconti delle famiglie che si sono ritrovate costrette a mangiare gatti e cani e di civili attaccati dai cecchini mentre cercavano cibo fuori dal campo, sono diventati familiari in questa storia dell’orrore che si è materializzata a Yarmuk»,denuncia Luther. Il campo è senza fornitura di energia elettrica dall’aprile 2013. Nonostante la fornitura a intermittenza di razioni alimentari da parte dell’agenzia delle Nazioni Unite Unrwa tra gennaio e febbraio 2014,gli aiuti arrivati sono del tutto inadeguati a sopperire alle necessità di base. Gli operatori umanitari li hanno definiti «una goccia nell’oceano». La ripresa dei bombardamenti negli ultimi giorni ha significato ancora una volta l’interruzione delle forniture. «Il numero dei morti aumenta e la situazione è disperata. È atroce pensare che in molti casi si sarebbero potute salvare vite umane se fossero state disponibili cure mediche adeguate», conclude Luther. Amnesty International ha avuto notizia di donne morte durante la gravidanza. Anche i bambini e gli anziani sono stati colpiti in modo particolarmente grave: 18 tra bambini e neonati sono morti. Tra le complicazioni riferite, quelle dovute all’ingerimento di cibo non commestibile, di piante velenose e di carne di cane. La maggior parte degli ospedali ha dovuto chiudere e quelli aperti sono privi persino dei medicinali di prima necessità.
BAMBINI IN OSTAGGIO. Da un orrore all’altro. Oltre 4,3 milioni di bambini sfollati interni, intrappolati nel conflitto in Siria, subiscono tutti i giorni le gravi conseguenze di un sistema sanitario al collasso e hanno disperato bisogno di cibo, medicine, supporto psicologico e un riparo sicuro. Due ospedali su 3 sono distrutti o inservibili, come il 38% delle strutture mediche di base, e quasi tutte le ambulanze. La metà dei medici ha abbandonato il Paese, altri sono stati uccisi o imprigionati, e tra il personale sanitario rimasto, in media, solo 1 su 300 è un medico in grado di affrontare le emergenze. Questi alcuni dei dati evidenziati nel rapporto internazionale «Un prezzo inaccettabile: l’impatto di tre anni di guerra sulla salute dei bambini in Siria», presentato da Save the Children.
Ad Aleppo, una città che, secondo le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dovrebbe avere almeno 2.500 medici, ne sono rimasti solo 36, per assistere più di 2 milioni di persone. In Siria i bambini non muoiono più soltanto perle violenze subite ma anche a seguito di malattie e ferite che sarebbero state altrimenti prevenibili o curabili. In uno degli ospedali dove opera Save the Children, il 24% dei pazienti ha meno di 14 anni. In tutto il paese, è più difficile o ormai impossibile fornire cure anche ai tanti bambini con malattie croniche, che sono parte dei 70.000 malati di cancro o dei 5.000 in dialisi, o di quelli affetti da leucemia. Ma tra i più vulnerabili, ci sono i bambini non ancora o appena nati. Tre donne su 4 non hanno infatti più accesso all’assistenza per il parto, prima disponibile per chiunque (96%). Per il timore di un travaglio sotto le bombe, è raddoppiato il numero di parti cesarei (passati dal 19al 45%),che avviene però spesso in condizioni mediche critiche. In una città sotto assedio, si è arrivati al75%di parti cesarei. I neonati prematuri, o che necessitano comunque dell’incubatore, corrono rischi ancor più gravi, per i frequenti blackout dell’energia elettrica, che in un solo giorno hanno ucciso 5 bambini nell’area nord del Paese.
Repubblica 11.3.14
Siria, cinque milioni di bimbi colpiti dalla guerra
L’Unicef presenta il suo studio a tre anni dall’inizio del conflitto
Uno su quattro è sfollato, mancano l’istruzione e l’assistenza sanitaria
di Alix Van Buren
LA GUERRA di Siria già fa storia dopo avere piombato il Paese - la più antica popolazione al mondo - nella «più grave crisi umanitaria della storia moderna», come vanno ripetendo organizzazioni umanitarie e uomini politici con la supplica di arrestare le violenze. Molto meno, invece, è stato detto a proposito dell’immensa, sofferente umanità che sono i bambini di Siria: vittime sacrificali di un osceno conflitto la cui violenza ha pochi precedenti. Già il loro numero è da record: sono oltre 10 milioni in un Paese dove la metà degli abitanti - i più giovani del Medio Oriente - ha meno di 15 anni d’età, e gli anziani sono uno scarno 3 per cento. E ancora: qualcosa come 6 milioni sono ostaggi di «un posto dove essere bambini è fra i più pericolosi al mondo». Tanto che l’Unicef non esagera quando intitola il rapporto pubblicato oggi «Sotto assedio: una generazione perduta», e in un fascicolo di 20 pagine fitte di dati riassume lo strazio di tre anni di conflitto.
Fino a quando? è l’interrogativo martellante dell’Unicef nello snocciolare le atrocità: i diritti violati, le migliaia assassinate da cecchini, torturate, giustiziate; le centinaia di migliaia mutilate, sequestrate, arruolate nei combattimenti o come informatori e contrabbandieri; i milioni destinati a un futuro d’infermità a causa della malnutrizione e delle malattie; i 3 milioni senza tetto in Siria, l’altro milione e 200 mila fuggito verso i campi profughi all’estero, i 38 mila nuovi nati nelle tende; gli altri milioni privati dell’istruzione.
Sopra a tutto pesa la consapevolezza dell’impatto psicologico che questo avrà su un’intera generazione. Bambine nei campi profughi date in spose a ricchi pedofili del Golfo, infanti plagiati nei campi d’addestramento allestiti dai jihadisti stranieri nel Nord della Siria, costretti a partecipare a decapitazioni in piazza, femminucce di pochi anni sepolte sotto il niqab, adolescenti imprigionati assieme alle famiglie, umiliati e a volte seviziati per estrarre informazioni dagli adulti. In uno della pletora di video che su YouTube raffigurano la quotidiana pornografia degli orrori siriani, un undicenne racconta con distacco la sua parabola da cecchino. Un altro si fa vanto di maneggiare la sciabola del boia. Un altro ancora si chiede che fine abbiano fatto i 250 bambini sequestrati dai jihadisti in agosto a Lattakya, di cui restano le foto sorridenti e nessuna traccia.
Fino a quando? insiste l’Unicef giacché il patibolo continua a inasprirsi e ogni giorno aggiunge numeri ai milioni. «Fermare il circolo vizioso delle violenze», incalza l’organizzazione con la richiesta di «accesso immediato al milione di bambini» intrappolati nelle aree sotto assedio, privi d’acqua e cibo. Poi, per il futuro, si vedrà: servono 276 milioni per improvvisare scuole, almeno 110 milioni per il sostegno psicologico. Un miliardo per finanziare la strategia di una «generazione da riscattare ». Con la speranza e la preghiera che gli artefici della guerra depongano le armi.
La Stampa 11.3.14
Israele, dagli ultraortodossi ai liceali
“No al servizio di leva obbligatorio”
Proteste nelle piazze di Gerusalemme e di New York: l’esercito israeliano si conferma lo specchio di attriti e trasformazioni dello Stato Ebraico
di Maurizio Molinari
qui
La Stampa 11.3.14
A Kharkiv nella tana dei filorussi
“Maidan, malattia da estirpare”
Il sindaco putiniano guida la repressione: basta, pensiamo a lavorare
di Domenico Quirico
A Kharkiv le rivoluzioni le fanno i filosofi e i poeti, le posson fare solo i filosofi e i poeti. Perché qui per scendere in piazza con la bandiera ucraina e fischiare Lenin ci vuole la loro folgorante follia. Bisogna che la vita sia amputata di netto, come da un colpo di scure: il mondo nuovo, Maidan. Per sempre.
A trenta chilometri dal confine russo e a mille da Kiev la rivoluzione marcia educatamente sul marciapiede, con una certa cautela, con l’aria di ospiti non sicuri. A Kharkiv comanda già un piccolo Putin ucraino, Ghennadi Kernes, e non bisogna disturbarlo perché è di cattiveria fegatosa e cannibalesca. Azzanna come il gigantesco leone impagliato che tiene nel suo ufficio di sindaco.
Per lui Maidan è «una malattia contagiosa» che si sta provvedendo a eliminare.
Eppure i rivoluzionari sfilano anche stasera in centro, nonostante le botte, le minacce la sorda ostilità della maggioranza della gente, che preferisce la Russia o peggio ancora è indifferente. Sotto le statua del poeta nazionale Shevchenko passano, come ombre, trecce arruffate di ragazze, pensionati, madri di famiglia e le bandiere gialle e blu. Non sono certo così ingenui da pensare che la giustizia abbia unghie sufficienti per potersi difendersi da sola. Hanno provato ingenuamente a occupare il palazzo del governo locale, una settimana fa. I prorussi li hanno tirati fuori a pugni e bastonate. Sono rimasti per un po’ oppressi dalla verità che li ha investiti; poi hanno ripreso a restar saldi nelle loro convinzioni, grazie a una sorta di elasticità interiore.
Dal Kgb ai picchiatori palestrati
A Kharkiv c’è ancora il garage del Kgb dove nel 1940 liquidarono tremila ufficiali polacchi caduti prigionieri, tra loro c’era il padre del regista Andrzej Wajda. In questa città le vite umane sono state spiaccicate come lucertole. Quello era il tempo dei cekisti, delle giacche di cuoio. Oggi fanno la ronda, con i fuoristrada neri gli «oplot», giovinastri delle scuole di lotta libera che si sono assunti il compito di tener l’ordine e gridar viva la Russia.
Dei mali dell’Ucraina personaggi come Kernes, ancora al potere, sono rappresentazione, catalogazione e apoteosi di notevole vastità e invadenza. All’ingresso del suo municipio ancora faleneggia la patacca dell’ordine di Lenin. Nell’androne i sudditi di questa isola felice si ammassano in lunga fila, per prelevare il denaro al bancomat: qualcuno non si fida che il paradiso reggerà. Un sintomo dei tempi. Nel suo ufficio tre telefoni bianchi dell’epoca brezneviana, una libreria, chiusa a chiave, con edizioni in pelle di una storia dell’umanità in 40 volumi di un autore ucraino: evidentemente intonsa. Sulla scrivania una monumentale scatola di kleenex e decine di matite finemente appuntite. Lo schermo del computer è pietrificato sulla pagina pubblicitaria di Kharkiv: alberghi siti turistici locali notturni. Le segretarie sono flessuose, altissime e arrampicate su tacchi memorabili da cui spandono tesori di sensualità. Kernes è minuscolo ma anche le sue scarpe di vernice dispongono di tacchi memorabili. La semplice menzione di un concerto sinfonico o di un dramma di Puskin dà l’impressione di procurargli il brucior di stomaco. Nella stanza c’è anche una statua in bronzo di un cane da caccia. Omaggio alla memoria. Al tempo degli europei di calcio ha fatto eliminare tutti i randagi con il veleno.
La sua presa è quella di un mastino, di un affarista, lancia ordini come saette. Asfalto strade una televisione, attrezzature per parchi giochi (che guarda caso, come mediocri baccanali amministrativi, spuntano ovunque in città): passa da un settore a un altro, il signor sindaco, copiosamente, non appena le cifre del guadagno cominciano a ridurre gli zeri. Fa costruire decine di chiese. Fervore mistico? Impossibile cicalano i detrattori: il losco deve essere appiccicato anche qui: che la spiegazione sia nei connessi parcheggi?
La palestra accanto all’ufficio
Nella sua biografia si rammentano un paio di condanne, furto e truffa: suvvia, il capitalismo a Est non è un mestiere per gente in guanti bianchi. Quando il presidente e capo del suo partito Yanukovich fuggì, è scomparso momentaneamente anche lui, con il suo socio, un ex governatore, in Russia. Nega con vigore: «Ma che scappato! Sono andato in Russia, una mezza giornata da amici, non ho il diritto di ritagliarmi un week end?». Quando parla ha una certa gioia sorniona, con lampi improvvisi di rabbia cattiva: «La gente che lavora non ha tempo per Maidan, gli imprenditori i funzionari non hanno tempo da perdere. Il popolo dice che per vivere come in Europa ci vorranno ancora 50 anni… Io mi occupo della mia città, di piscine, di acqua calda, di giardinetti. Il sessantacinque per cento dei cittadini è schierato con me, non ci crede? Andiamo in giro a chiedere…».
Per ora mi fa salire sul tetto del palazzo comunale per ammirare la città. Passiamo nella stanza accanto allo studio dove pronti all’uso ci sono gli attrezzi di una palestra (esibisce bicipiti da statua greca, un’ora di corsa tutti i giorni e 40 chilometri in bici). Usciamo sul tetto. Le nubi nella sera conservano un inspiegabile orlo color sangue. «Là abbiamo risanato un quartiere, lì abitano duecentomila persone... ecco il mio lavoro... chi se ne frega di Maidan…?». La voce, impolpata di nuovi bocconi, mi descrive il suo dominio: «In questa direzione è Mosca, là Kiev…», con le braccia incrociate nella posa di Pietro il grande mentre concepisce l’idea di fondare San Pietroburgo. Sulla piazza immensa come un pianura un gruppetto di uomini e di donne anziani è raccolto a pattuglia sotto la statua di Lenin: sono coloro che hanno consacrato la loro vita a ravvivare, con la parola e la passione il fuoco di Lenin purificato dal fetore degli anni postcomunisti. «Tutti i comunisti rimasti a Kharkiv, anzi meno due perché hanno marcato visita...», ironizzano i ragazzi di Maidan.
Come un alveare a più piani fumiga rumoreggia e vive la città del sindaco, si gonfia, si slarga, trabocca all’orizzonte come una pasta lievitata: sul fondo si alza il fumo da innumerevoli ciminiere, le case i palazzi del costruttivismo staliniano si alzano a cinque sei dieci piani. Di notte ardono in fila sul cielo azzurro.
Nella stessa città di Kernes vive Evgen Maslov, insegna giornalismo e documenta meticoloso la storia travagliata del Maidan locale: «Quando i dimostranti in piazza sono cresciuti di numero ha inquadrato i dipendenti pubblici contro di noi: insegnanti, ospedalieri, gli spazzini e gli addetti alle strade, gente che dipende dal municipio per vivere. Stavano in piazza a stramaledire Maidan, “fascisti… scioperati...’’ e risultavano regolarmente al lavoro. Ma quando ci sono le elezioni non succede forze la stessa cosa? Gli dicono per chi devono votare, qualcuno resiste, gli altri non vogliono guai».
I dissidenti: zittiti come nell’Urss
E vive anche Nastya la cui espressione è vibrante e sottile; studia architettura, e piange la sua città devastata dai centri commerciali e dai giardinetti del sindaco: «All’epoca dell’Urss in cucina si mormorava, a bassa voce: il potere fa schifo, ma poi si scuoteva la testa e si andava al Konsomol e alla sfilata. I dissidenti si contavano sulle dita di una mano, ora abbiamo un’altra dignità. Anche ora la gente dice in cucina che il potere fa schifo, ma poi va a gridarlo anche in piazza».
«La Russia è un ideale? Mah c’è della manipolazione. Danno l’immagine di uno stato forte, dove c’è tranquillità la gerarchia c’è qualcuno che ci può dare dei soldi insomma la retorica del potere. Putin e Yanukovich hanno fatto una magnifico lavoro per rendere più saldo il popolo ucraino: l’identità ucraina è cresciuta grazie a loro, neppure i russofoni vogliono la guerra. Maidan certo non è tutta l’Ucraina, non è l’Est, ma ora la gente è cambiata, pensa in modo diverso. Non ha paura. È questo che li fa impazzire di rabbia».
Con quali radici si pianta la felicità nel cuore dell’uomo! Perfino in questi giorni terribili continua a gettare qualche germoglio.
La Stampa 11.3.14
Nessun voto contro, affluenza al 100%
Nord Corea, rieletto Kim Jong Un
Più che di elezioni si è trattato di un censimento: chi ha attraversato illegalmente la frontiera con la Cina e può permetterselo, sgaiattola di nuovo nel Paese, per prendere parte alle elezioni. Chi invece è scappato per lidi più lontani, viene schedato come tale
di Ilaria Maria Sala
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il Fatto 11.3.14
Nord Corea, tutti pazzi per Kim Jong-un
Elezioni legislative, il dittatore ha incassato il consenso assoluto ma all’opposizione non c’è neanche un partito e votare ò obbligatorio
di Alessio Schiesari
Cento per cento di voti a favore, astensione sotto l’uno per cento. Non c’è stato bisogno di sondaggi, proiezioni ed exit-poll per sapere che a vincere le elezioni legislative in Corea del Nord è stato il Partito dei lavoratori. Su ogni scheda era impresso il nome di un solo candidato e gli elettori avevano solo la possibilità di scegliere tra due caselle: “sì” o “no”. I 687 eletti andranno a comporre l’Assemblea del popolo supremo, una sorta di Parlamento che – nonostante il nome ridondante e gli ampi poteri formalmente attribuitogli dalla Costituzione – non serve quasi a nulla, tant’è che si riunisce mediamente una volta l’anno. Eppure anche questo finto plebiscito ha un’utilità: il modo in cui la nomenclatura viene ripartita tra i collegi permette di capire quali politici siano in ascesa e quali, invece, siano caduti in disgrazia.
QUELLE DI DOMENICA erano le prime elezioni da quando, nel 2011, Kim Jong-un ha ereditato il potere. Stando alle informazioni fornite dalla Kcna, l’agenzia di stampa ufficiale, il giovane dittatore ha vinto “senza alcun voto contrario, un’espressione del supporto assoluto e della profonda fiducia del popolo nel leader supremo”. Jong-un è stato eletto nel collegio del monte Paektu, la nobile montagna bianca, da cui proviene la prima dinastia coreana (i Gojoseo, saliti al potere 4300 anni fa) e dove, secondo la propaganda di regime, sarebbe nato primo leader della Repubblica Popolare: Kim Il Sung (anche se fonti più accreditate sostengono fosse nato in Unione sovietica). Kim Jong-un può ora affiancare il titolo di parlamentare a quelli di Leader supremo, Supremo comandante delle forze armate del popolo, Presidente della commissione nazionale di sicurezza, Segretario del Partito dei lavoratori e Praesidium del Politburo.
Alle elezioni di domenica ha fatto il suo esordio politico Kim Yo Jong, la più piccola dei tre fratelli Kim. La tv di Stato ha trasmesso le immagini della 26enne che ha accompagnato il fratello alle urne e ha votato insieme a lui. Per la prima volta lo speaker tv ha pronunciato il suo nome completo ed è stata definita “compagna Kim Yo Jong”, anche se l’ex cuoco di famiglia, Kenji Fujimoto, ha spiegato che il titolo con cui viene chiamata nei palazzi del potere di Pyongyang è “principessa”. Secondo le indiscrezioni pubblicate dalla stampa di tutto il mondo, Yo Jong avrebbe preso il posto di Kim Kyong Hui, zia di Jong-un e moglie di Jang Song Thaek, il numero due del regime giustiziato dal regime in circostanze misteriose nel dicembre scorso (era circolata perfino la voce fosse stato fatto sbranare da una muta di cani). Dopo avere rottamato a modo suo i membri più influenti della famiglia, Jong-un ha bisogno di inserire forze fresche per rafforzare il potere della dinastia. La scelta delle giovanissima sorella non è casuale: da sempre è una delle persone più vicine al leader supremo, anche perché ha condiviso con lui quattro anni di studi in un prestigioso collegio svizzero. Secondo la tv locale, le elezioni si sono svolte in un clima festoso: in molte località il voto è stato accompagnato da canti e balli in costume tradizionale. Il comitato centrale degli scrittori ha pubblicato per l’occasione una collezione di poesie. Tra i titoli scelti dagli intellettuali locali per stimolare il dibattito politico, Foreign Policy ne segnala alcuni: Esulta la Corea, È il nostro deputato, Noi voteremo per te, Andiamo alla cabina elettorale e Ci gonfiamo di gioia ed emozione.
LA REALTÀ è ovviamente diversa da quella raccontata dalla propaganda ufficiale: il voto è obbligatorio, una regola che il regime utilizza per trasformare le elezioni in un censimento ufficioso. I nomi degli astenuti, spesso lavoratori emigrati in Cina alla ricerca di un salario migliore o persone che viaggiano all’interno del Paese senza un permesso ufficiale, vengono analizzati dall’intelligence, che ne ricava liste di persone da monitorare e, spesso, far incriminare. A nord del 38° parallelo anche l’esercizio di democrazia per eccellenza viene svuotato di ogni significato, e diventa un’occasione di controllo e repressione.
La Stampa 11.3.14
“E se il tuo vicino di casa fosse nazista?”
Manifesti con foto di gerarchi del Terzo Reich che puntano pistole verso donne e bambini saranno nei prossimi giorni attaccate alle fermate degli autobus di New York. Parte così la campagna dell’eccentrico esponente del partito democratico americano Dov Hikind: “ci sono ex nazisti anche negli Stati Uniti, non è mai troppo tardi per fare giustizia”
di Flavio Alvernini
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l’Unità 11.3.14
L’eterna Primavera di Jan Palach
Cos’è rimasto del suo sacrificio e delle speranze di una generazione
di Francesco Leoncini
SE L’ANDAMENTO DELLE BORSE E DELLE BANCHE È L’INDICE DELLO STATO DI SALUTE DELLE DEMOCRAZIE, SE TUTTA LA COMPLESSITÀ SOCIALE È RIDOTTA A LOGICA ECONOMICA e la logica economica a logica aziendale, la Primavera di Praga può andare in soffitta e con essa tutto l’anelito libertario che animò dal 1953 al 1989 i movimenti di opposizione in quell’ «Occidente sequestrato» (Kundera) che fu l’Europa centrale sovietizzata.
Il succedersi delle commemorazioni, ora del ’56 polacco-ungherese, ora della Primavera cecoslovacca, di Solidarnosc oppure della caduta del Muro, può diventare uno stanco rituale o un’operazione puramente accademica e un’occasione eminentemente celebrativa, se non si tenta di dissequestrare questi eventi dall’ambito spazio - temporale in cui si manifestarono, e valutare qual è il messaggio che da essi promana, qual è il contributo che essi possono dare a un’opera di trasformazione politica e culturale nelle società contemporanee percorse da profondo malessere e ad uno snodo forse epocale.
Cosa significa parlare oggi di Jan Palach, rievocarne la sua figura e il suo sacrificio in un mondo in cui spesso la protesta, l’affermazione di un’alternativa rispetto a quello che sembra essere il «pensiero unico», vengono duramente represse o emarginate verso un destino di inutilità?
Il suo corpo ardente, ai piedi del Museo Nazionale nella famosissima Piazza Venceslao, voleva esprimere tutto il suo insopprimibile attaccamento a quella che era stata una rivoluzione pacifica fortemente partecipata avvenuta tra il gennaio e l’agosto del ’68 nel suo Paese e che aveva portato alla ribalta il «socialismo dal volto umano». Forse una tautologia, perché il socialismo deve essere «umano», nasce dall’esigenza di dare una vita degna di essere vissuta a quelle classi sociali alle quali questa possibilità viene negata, e tuttora sempre più si allarga la platea degli esclusi. Ma la forma di governo che si era imposta con quel nome in Cecoslovacchia a partire dal 1948, non aveva avuto nulla a che vedere con quell’ideale. Era nata però una speranza e a quella speranza Jan era indissolubilmente legato.
Ce lo conferma la dottoressa Jaroslava Moserová, che lo assistette nei tre giorni dell’agonia, dal 16 al 19 gennaio, in una vibrante testimonianza pubblicata nel volume Alexander Dubcek e Jan Palach. Protagonisti della storia europea, curato dallo scrivente per Rubbettino nel 2009. «Egli apparteneva a quella generazione che credeva che la Primavera di Praga di Dubcek potesse avere successo. Molti di noi, non solo la sua generazione, nutrivano ammirazione per tutti quei giornalisti, scrittori, insegnanti, scienziati e persino politici di talento che erano emersi improvvisamente durante la Primavera di Praga e avevano sostituito la falsità e l’ipocrisia del totalitarismo con la verità e la sincerità. Dopo l’occupazione da parte degli eserciti del Patto di Varsavia, alcune delle persone che ammiravamo negavano le loro precedenti affermazioni, altri persino si scusavano per le opinioni espresse qualche mese prima. Questo era senza dubbio insopportabile per Jan, giovane di altissima integrità che amava la verità. (...) Per tutto il tempo che rimase al Reparto Ustionati egli desiderava solo sentire che il suo sacrificio non era stato vano».
Una persona, quindi, un giovane, uno studente che sa di morire e muore felice perché sa di essere stato compreso. Ma da dove veniva tutta questa sua forza d’animo tanto da fare olocausto di se stesso? Non per un atto terroristico, non per un’azione diretta a colpire dei nemici o degli innocenti, ma affinché la fiamma del suo corpo illuminasse la sua gente, fosse di luce ai suoi concittadini. Veniva da una profonda fede nell’uomo. Alexander Dubcek, parlando all’Università di Bologna in occasione del conferimento della laurea honoris causa nel novembre 1988, volle sottolineare: «abbiamo combattuto lungo l’intero corso della nostra storia, meglio sarebbe a dire che abbiamo sofferto a causa dell’umanesimo. Forse non sopravvaluto il carattere delle nostre due nazioni (ceca e slovacca) sostenendo che nel suo profondo, nella sua sostanza sono fissati la serietà, il rispetto per l’uomo e per i grandi valori umani». In precedenza aveva citato il fondatore dello Stato cecoslovacco Tomáš Garrigue Masaryk, allorquando aveva dichiarato: «L’umanesimo è il nostro obiettivo ultimo, nazionale e storico». Nei suoi colloqui con lo scrittore Karel Capek nella seconda metà degli anni 20 Masaryk confessava: «La filantropia aiuta solamente qui e là, ma l’umanesimo cerca di migliorare le condizioni di vita tramite le leggi e il governo. Questo è il socialismo ». E non poteva esserci sintonia più chiara con quello che avrebbe scritto qualche anno dopo Carlo Rosselli nel suo Socialismo liberale: «Il socialismo non è che sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà», poiché «la libertà non sorretta da un minimo di autonomia economica è un mero fantasma».
Ma veniva ancora da molto più lontano quel desiderio di giustizia e di libertà che portava Jan Palach ad immolarsi, quella spinta antiautoritaria e antirepressiva, quel suo disaccordo, quella sua rabbia nei confronti di una dirigenza politica che stava capitolando ai diktat di Mosca. Nasceva dall’humus della storia boema, da Jan Hus, da Petr Chelcický, il precursore della non violenza, da Jan Amos Komenský (Comenio), il fondatore della moderna pedagogia, dalla contestazione di Jan Hus e dell’hussitismo al primato di Roma, dall’esigenza allora espressa di una profonda rigenerazione del Cristianesimo, dall’affermazione del primato della coscienza sull’autorità, cosa che aveva anticipato di un secolo il protestantesimo di Lutero. Hus afferma la necessità di un rapporto diretto con le Scritture, con la parola di Dio. E Palach si era confrontato sin dall’adolescenza con esse. Ne dà testimonianza il fratello in un’intervista televisiva condotta da Enzo Biagi nell’aprile del ’90. Alla domanda del giornalista: «Suo fratello era credente?» Jirí risponde: «Sto pensando quanti anni aveva mio fratello, forse sedici, forse meno, quando mi ha detto che studiava la Bibbia e che l’aveva già letta quasi tutta. Io credo che considerasse la Bibbia un’opera storico-letteraria e per questo la studiasse»
UN BLOCCO GENERAZIONALE. Erano tutti questi gli elementi che componevano quella straordinaria «Primavera» del ’68 cecoslovacco ed era la «Primavera » dei giovani. Come ha osservato Gabriella Fusi nella sua analisi sociologica che compare nel citato volume edito da Rubbettino : «Di fatto si era creato un blocco generazionale e ora una generazione giovane, cresciuta nel socialismo, si presentava sullo scenario storico, una generazione critica nei confronti della realizzazione e destinata a partecipare in modo attivo agli avvenimenti». Era quindi tutta «sua», di Palach, quella stagione così coinvolgente e che si sarebbe presto dimostrata «irripetibile».
Burning Bush, «il roveto ardente», il film, andato in onda su Rai 3 il 14 e il 15 febbraio, ha opportunamente voluto rievocare quegli eventi ma si è soffermato troppo sugli aspetti polizieschi e arbitrari del sistema nel quale Jan si era trovato a vivere e contro il quale combatteva, poco o niente ha detto da dove veniva e per che cosa era impegnato, riducendo poi gran parte della rappresentazione a una controversia giudiziaria, a una fiction processuale di sapore nordamericano, pur con ottime interpretazioni del ruolo dei protagonisti, la madre, il fratello, l’avvocatessa.
Potremmo invece ricordare quanto scrisse Angelo Maria Ripellino su L’Espresso a un anno di distanza da quel tragico evento osservando come lo studente fosse «il portavoce di una splendida gioventù maturata in tempi di cecità e di caligine (...) che è venuta scoprendo le tradizioni bandite dagli accoliti di Novotný (...) e la dottrina dell’umanesimo e della tolleranza di Masaryk. Una gioventù ostile alle transazioni e incapace di rassegnarsi».
Quando ci si domanda a quali esiti sarebbe giunta la Primavera di Praga qualora avesse potuto continuare il suo corso, penso non si vada lontano dal vero se si risponde che sarebbe approdata a un tipo di sistema sociale quale venne prefigurato nella nostra Costituzione, a quella saldatura tra socialismo, inteso come realizzazione dei diritti sociali, e libertà che è l’anima stessa della Costituzione del 1948 e che si inseriva organicamente nel processo di riscatto democratico che pervadeva i Paesi dell’Europa occidentale nell’immediato secondo dopoguerra con i vasti programmi di riforma approntati dal laburismo inglese, dalla Resistenza francese e dalla socialdemocrazia tedesca. Quest’ultima giungerà al potere con Willy Brandt proprio un anno dopo le vicende luminose e tragiche della Cecoslovacchia.
Palach e la sua ostinazione a non arrendersi precorre già Charta77 , il pensiero del filosofo Jan Patocka e di Václav Havel nella loro irriducibile lotta contro la «vita nella menzogna».
La Stampa 11.3.14
Disarmati di tutto il mondo unitevi
Per scongiurare la catastrofe
In un discorso del 1982 le ragioni del dialogo contro la logica della potenza
di Norberto Bobbio
La logica della potenza è quella delle antitesi assolute, dell’incompatibilità tra due sistemi di valori o d’interessi, dell’aut aut. O Roma o Cartagine. Se Roma vince, non si salverà di Cartagine pietra su pietra. Vae victis! C’è in ogni soggetto della volontà di potenza il miraggio della soluzione finale. Coloro che appartengono alla mia generazione hanno bene appreso che cosa s’intenda per «soluzione finale». Per fare un esempio attuale, se si pone il problema del conflitto tra lo Stato d’Israele e i palestinesi come rapporto di antitesi radicale, «o noi o loro», la soluzione finale sarà o la distruzione dello Stato d’Israele da parte dei palestinesi o lo sterminio dei palestinesi da parte dello Stato d’Israele.
Nell’universo dominato dalla logica della potenza ogni accordo è sempre sottoposto alla clausola rebus sic stantibus: ciò equivale a dire che ogni trattato di pace è in realtà una tregua che dura sin che dura, che dura sino a che una delle parti non ritenga che sia venuto il momento opportuno di risolvere il conflitto nell’unico modo con cui si risolve un conflitto radicale, con la totalizzazione dei propri fini e con la nullificazione dei fini altrui.
Ho forzato un po’ il tono, lo riconosco, anche a costo di essere considerato un profeta di sventure o, più dimessamente, un uccello di malaugurio. L’ho fatto perché riporre le nostre speranze sull’equilibrio del terrore, che è, badate bene, l’unico argomento addotto dai cosiddetti «minimizzatori», è un errore e una colpa. Vuol dire non rendersi conto della tremenda gravità della situazione e di conseguenza non mettersi in condizione di cambiarla. Cambiarla? Ma come? Dovremmo partire dall’osservazione che coloro che non hanno armi, e non intendono averne, e anche se le avessero non le userebbero, sono la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne su questa terra.
In base a questa semplice e irrefutabile osservazione, l’unica formula di salvezza che mi sentirei di proporre è: «Disarmati di tutto il mondo unitevi!». Chi non ha altra arma che l’intelligenza, la capacità di capire e di valutare, e di comunicare con gli altri attraverso la parola, deve fare ogni sforzo per ristabilire la fiducia nel dialogo. E prima di tutto nel dialogo con coloro che sono dall’altra parte e che sino a ieri abbiamo creduto fossero incapaci di ragionare e di discutere. È difficile, lo so. Ma per l’inerme (e qui parlo a inermi) non vedo altra strada. Bisogna far cadere i molti muri di Berlino che ciascuno di noi ha innalzato fra sé e i diversamente pensanti. Tanto per cominciare bisogna evitare di dividere il mondo in rossi e neri e dopo averlo diviso star sempre dalla parte dei rossi contro i neri o dalla parte dei neri contro i rossi. Non accettare lo spirito di crociata, lasciarlo ai fanatici di tutte le sette. La tolleranza delle idee altrui è la prima condizione per pretendere dagli altri il rispetto delle proprie. Non dobbiamo mai dimenticare che un mondo diviso in parti contrapposte, che si considerano incompatibili fra di loro e non riescono a intravvedere altra soluzione al loro antagonismo che quella che può scaturire dall’uso della forza, è destinato presto o tardi alla conflagrazione universale, a una catastrofe senza precedenti. Abbiamo mille e una ragione per sostenere che se la volontà di potenza conduce all’aumento indiscriminato delle macchine di morte e alla giustificazione del loro uso come extrema ratio, coloro che ne sono i portatori e i servili difensori sono dei folli o dei criminali oppure tutte e due le cose insieme.
Ho parlato del dialogo. L’etica del dialogo si contrappone diametralmente all’etica della potenza. Comprensione contro sopraffazione. Rispetto dell’altro come soggetto contro l’abbassamento dell’altro a oggetto. (Diceva Aldo Capitini con un’espressione che mi è tornata spesso alla mente di fronte ai tanti morti assassinati da fanatici agitati dal delirio di potenza: per costoro uccidere un uomo è soltanto «un rumore, un oggetto caduto»). Il dialogo presuppone la buona fede e si instaura soltanto sulla base del riconoscimento dell’altro come persona, non solo nel senso giuridico, ma anche nel senso morale. Al contrario, la potenza riconosce soltanto sé stessa. Si attribuisce un «diritto assoluto» nel senso in cui Hegel attribuiva un diritto assoluto all’«eroe», al fondatore di Stati, a colui che in forza della sua missione storica ha solo diritti e non doveri, e tutti gli altri nei suoi riguardi hanno soltanto doveri e nessun diritto.
Beninteso, non basta parlarsi per dialogare. Anche i potenti qualche volta parlano tra loro. Ma della parola si servono più per nascondere le loro vere intenzioni che per manifestarle, per ingannare più che per trasmettere una verità, oppure per minacciare, intimorire, ricattare, portare su una falsa strada. Anche la parola può essere usata come strumento di dominio.
Altro dovrebbe essere il modo di parlare del dialogante, di colui che accetta il dialogo come mezzo di comunicazione con l’altro. Il discorso del dialogante o è un discorso razionale o non serve allo scopo; anzi rischia di servire allo scopo contrario. Discorso razionale vuol dire discorso tutto intessuto di argomenti pro e contro, critico ma nello stesso tempo disponibile a essere criticato, quanto è più possibile oggettivo e spersonalizzato (non deve mai essere ad hominem). Un discorso che deve contare più sul rigore del ragionamento e la prova dei fatti che non sulla mozione degli affetti. E deve diffidare delle semplificazioni, degli slogan ritmati, delle frasi urlate agitando i pugni chiusi.
Con questo non voglio sostenere che un discorso razionale non debba fare appello ai valori: c’è un valore primordiale, il diritto alla vita, che deve sempre essere tenuto presente, e quando parlo di diritto alla vita parlo anche del diritto di coloro che non sono ancora nati, che non potrebbero nascere se dovesse avvenire l’olocausto atomico. Voglio dire che deve tener conto anche degli interessi in gioco, di ciò che può essere meticolosamente calcolato. [...]
Purtroppo il cammino è lungo e, quel che è peggio, non abbiamo molto tempo di fronte a noi. Ma che cosa possiamo fare se non percorrere l’unico cammino che lascia intravvedere una meta diversa da quella cui conduce inevitabilmente la gara delle opposte volontà di potenza, anche se la meta non è assicurata?
Non bisogna farsi illusioni, ma neppure accettare remissivamente un destino di morte. Non molto tempo fa, alla fine di un convegno sulla pena capitale, a un interlocutore che mi faceva osservare che chi ne invoca l’abolizione è una minoranza di dotti lontani dal cosiddetto «senso comune» della gente, risposi citando il racconto del tiranno sanguinario che si agita sul letto di morte e ai suoi cortigiani che gli si fanno attorno premurosi a chiedergli perché è così sconvolto, risponde: «Ci sono nel mio regno trenta giusti che m’impediscono di dormire».
Noi siamo più di trenta. Anche se il sonno dei tiranni è duro come la pietra non dobbiamo disperare che qualcuno ci ascolti. E del resto che altro potremmo fare?
Corriere 11.2.14
La psiche alla prova del pensiero
Ridiscutere Freud sulla scia di Darwin e di Popper
La cura dei disturbi mentali ha bisogno dei classici
di Giancarlo Dimaggio
Sono a cena con i miei amici psicoanalisti, Giulio e Tullio, amicizia di cui non rivelo le origini. Una pizzeria a Trastevere è il teatro della conversazione. Chi scrive è uno psicoterapeuta cognitivista. Parte dei nostri dialoghi è la ripetizione di un copione. Giulio è un’esegeta di Lacan, Tullio si posiziona nel mondo post-freudiano (il protagonista del serial tv In Treatment è un esempio verosimile di quel tipo di psicoanalisi) in cui la psicoanalisi è costruzione intersoggettiva del significato, posizione con la quale concordo — per me ho scelto una psicoanalista di quell’orientamento. Poco prima che ci servano la pizza, la recita è già al secondo atto: disaccordo completo.
Giulio sostiene un’ermeneutica radicale (si parte da Heidegger, si passa per Gadamer), per cui l’analisi è un incontro idiosincratico tra soggetti, comprensibile solo all’interno dello scambio analitico. Ogni osservazione esterna è impossibile, depriverebbe il soggetto parlante della sua voce, in nome di un’oggettività che ne schiaccerebbe la libertà.
Dissento per due motivi. Il primo è la mia avversione per Lacan, per me nulla più di una sorta di paralinguaggio. Il secondo è nel nome di Darwin e Popper. Dopo Darwin, considero le teorie pulsionali di Freud una reliquia del passato, che sopravvive in cenacoli a dimostrare che nel mondo post-moderno nulla scompare davvero. Gli umani si sono evoluti guidati da motivazioni che permettevano sopravvivenza, adattamento all’ambiente e coesione del gruppo. L’istinto di morte, postulato da Freud, è inutile, è sufficiente l’entropia a fare quel lavoro. Una psicoterapia che si basi sull’idea che siamo guidati da tale istinto nasce fallace. Popper è l’altro motivo del contendere. Si tratta della responsabilità dello psicoterapeuta verso la società. C’è qualcosa di unico e irriproducibile nell’incontro tra paziente e psicoterapeuta? Sì. Questo esime il clinico dal dovere rendere conto della sua azione? Ritengo di no. Memore delle critiche di Popper a Freud, mi colloco in una comunità di scienziati cognitivi che operazionalizza idee falsificabili e si affida alle prove per decidere cosa è buona pratica e cosa va lasciato in disuso nelle periferie della storia delle idee. Gli psicoterapeuti cognitivisti sono educati a questo. Molti psicoanalisti oggi condividono tale assunto e, per esempio, la teoria freudiana del transfert, in formulazioni più moderne e ostensibili, è stata investigata e corroborata da dati.
Ci servono la pizza, birra artigianale italiana influenza il tono della conversazione. Il cognitivismo trascura la costruzione del significato, sostiene Giulio, riduce l’uomo ai suoi sintomi e l’animo umano non è misurabile. So che in parte dice il vero. Parte della psicoterapia cognitiva resta miope al significato personale sottostante ai sintomi. Per gran parte invece vi è attenta. Sulla misurabilità mi scaldo. Si tratta di essere quanto più popperiani possibile. L’ineffabile del discorso terapeutico resterà, ma tutto ciò che si può trasformare in variabile oggetto di verifica beh, io lo voglio misurare. E vedere se cambia in una psicoterapia di successo. E voglio che parametri esterni al mio giudizio clinico valutino se ho ben lavorato o commesso errori. Tullio fa da arbitro. Tutti noi abbiamo fallimenti e successi nella nostra pratica clinica. Vero. Ma, obietto, una disciplina che riuscisse a salvare 7 persone su 10, e fornisse dati a supporto, non sarebbe preferibile ad una che ne salvasse 5 su 10? Per questo vogliamo misurare il misurabile.
Concordiamo, non senza una nota di compiacimento, di sentirci personaggi di un dialogo platonico. Foucault interviene nella conversazione e qui siamo più d’accordo. Nel frattempo abbiamo espresso diverse scelte nelle birre: io sono per le ambrate di stampo belga. Innanzitutto me ne piace il colore. Giulio e Tullio optano per delle chiare di frumento, Weizenbier. Non considerate le osservazioni sul cibo marginali. Lasciando Cartesio alle spalle, il corpo è considerato il nucleo della nascita delle idee, la conoscenza è conoscenza incorporata. Dicevo: Foucault. Da cognitivista sono abituato a fidarmi dei dati empirici che indicano cosa è efficace in psicoterapia e cosa no. Questo rende noi cognitivisti facilmente proni a presumere di avere un sapere superiore. Ma, chi controlla i controllori? La scelta delle variabili da misurare e dei protocolli da valutare empiricamente non è un fattore da trascurare. I cognitivisti sono influenti politicamente, ben piazzati nelle commissioni che erogano i finanziamenti. Quindi un gruppo di potere. Che tende a perpetuare se stesso e accrescersi, niente di strano. Gli psicoanalisti — enclave dominante per decenni — lo sanno, lo hanno notato e hanno osservato che l’efficacia maggiore delle terapie cognitive dipendeva in parte da cosa si sceglieva di misurare.
La comunità più ampia di psicoterapeuti e ricercatori ha considerato la critica ragionevole. Di conseguenza, gli studi più recenti sull’efficacia delle psicoterapie tendono a includere misure del funzionamento interpersonale (tema psicoanalitico) e non solo il cambiamento sintomatico. I cognitivisti hanno imparato qualcosa. Gli psicoanalisti, almeno i più illuminati, si allenano a sottoporre la loro pratica a verifica. Il confronto si svolge sul campo. Cosa funziona meglio? Oggi è difficile dirlo. La psicoterapia cognitiva è sicuramente molto più studiata. Le basi della sua efficacia più solide e ampie. Ma in generale il cosiddetto equivalence effect sembra prevalere: le psicoterapie manualizzate e studiate empiricamente tendono a generare risultati di efficacia paragonabile.
Forse le psicoterapie cognitive offrono risultati migliori degli altri approcci, ma di poco e non è per niente certo. Intanto gli psicoanalisti modificano i protocolli, imparano le regole del gioco. Già, le regole del gioco. Perché alla fine di quello si tratta. Esiste una componente ineffabile, irripetibile, non misurabile nella seduta psicoterapeutica? Sì. Esiste una componente misurabile? Sì. Qual è il gioco che preferiamo giocare? Io mi sento più a mio agio nella partita in cui si debba rendere conto ad un osservatore terzo che analizza i dati.
Ma a quel punto non è più importante. Tullio onora Gigi Proietti e racconta la storiella del cavaliere bianco e del cavaliere nero. Giulio replica con qualcosa di irriferibile. La gentile ombra di Epicuro si è posata sul nostro tavolo.
Corriere 11.3.14
Aristotele, scienziato dell’antichità e logico moderno
di Ida Bozzi
In edicola oggi il quinto titolo della collana «Grandangolo» del «Corriere della Sera» dedicata a 35 grandi filosofi e pensatori: il nuovo volume è una monografia su una delle personalità fondative del pensiero occidentale, Aristotele , a cura di Roberto Radice (ogni libro e 5,90, in ebook e 3,59). Come ricorda lo studioso, nella parte relativa ai dati biografici di Aristotele, nella Scuola di Atene dipinta da Raffaello Sanzio i due grandi greci «Platone e Aristotele, sono raffigurati mentre passeggiano. Il primo indica il cielo; il secondo, sorreggendo l’Etica nicomachea , tende la mano davanti a sé, verso l’uomo e la Terra». Aristotele era considerato infatti, e lo fu per secoli, autorità suprema nel campo delle conoscenze umane, della «scienza» — ben illustra Radice nel saggio — e la sua categorizzazione del mondo fu indiscussa a lungo, tra sfere celesti perfette e centralità della Terra nel cosmo (lo mostra l’ipse dixit con cui ci si riferiva a lui). E dal punto di vista logico filosofico, la costruzione conoscitiva di Aristotele non ha cessato di essere elaborata e discussa dai maggiori autori moderni come, ad esempio, Hegel. Il 18 marzo, in edicola il volume dedicato a Schopenhauer.
Repubblica 11.3.14
Francesco e l’ateo devoto
Il saggio del direttore del “Foglio”: “troppe concessioni al relativismo mettono la fede a rischio”
Il non credente Ferrara e gli ultra-tradizionalisti che temono la rivoluzione di Bergoglio
di Adriano Sofri
Ci si chiede se il pontificato di Francesco sia una rivoluzione nello stile, o anche nella dottrina, o almeno nelle conseguenze che se ne tirano. Molti lo sperano, credenti e no, e alcuni lo temono. Temono che la simpatia benevola sia il cavallo di Troia di un cedimento al mondo e alle sue licenze. Sono cattolici difensori della tradizione, ma anche non credenti assetati di assoluto, per così dire - un altro modo di dirlo è: assolutisti. Il campione dei secondi è Giuliano Ferrara, che ha appena messo in ordine il suo pensiero e il suo stato d’animo nella fiammeggiante prefazione a una raccolta di scritti suoi e di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, oggi in libreria, Questo Papa piace troppo, ed. Piemme.
La partita, avvertono, si gioca nel giro di mesi. In autunno si terrà il sinodo straordinario, che loro chiamano, con allarme, Concilio Vaticano III, al cui centro staranno la famiglia, la sessualità, il modo di venire al mondo e di andarsene. Ferrara, ateo confidente nella fede altrui («non ho fede ma considero perduta un’umanità senza fede») con una passione selvaggia per la teologia, rivendica il primato di questi temi sull’agenda gonfiata della politica e dei suoi accidenti quotidiani, che peraltro gli sta assai a cuore anche lei.
Ferrara deve riconoscere - Chiesa a parte - i veri precursori nei radicali della legalizzazione dell’aborto e del divorzio, poi del percorso “dal corpo del malato al cuore della politica”. Precursori alla rovescia, s’intende, antiproibizionisti assoluti loro, inibizionista lui: ma i temi sono quelli. L’ecologismo, che prometteva di essere un ponte verso la trasformazione della politica, fu tentato a sua volta da un dialogo “scandaloso”: successe a proposito della manipolazione genetica fra Alex Langer e il Ratzinger del Sant’Uffizio, 1987. Ora i cattolici tradizionalisti - Palmaro e Gnocchi ne sono esponenti combattivi e di scrittura vivace - hanno preso le mosse da una ribellione alla familiarità di modi di Francesco, in cui denunciano una ricerca di popolarità e una banalizzazione. Nel papa che fa l’“uomo come noi”, lamentano di aver perduto il Padre. Partiti da lì, hanno presto scovato una minaccia ai fondamenti della fede. (Qualche voce grossolana non esita a trattare Francesco da Antipapa, tanto più che in Vaticano ce ne sono due). Dietro l’affabilità di Francesco e i suoi gesti (lavare i piedi a un carcerato appare inedito e toccante agli uni e scontato e corrivo agli altri) è emersa la figura rocciosa del cardinale Walter Kasper. Emerito oggi, a 81 anni, Kasper era stato grande elettore di Bergoglio, a soli cinque giorni dalla scadenza. Forte teologo, era stato citato nel primo Angelus di Francesco, che gli ha affidato poi la preparazione del sinodo, preceduta da una consultazione internazionale di fedeli.
Il suo testo, elogiato pubblicamente dal papa, destinato (come se fosse possibile) a restare provvisoriamente riservato, è stato pubblicato, con un bel colpo, dal Foglio. Possono leggerlo istruttivamente oltre che piacevolmente i profani, per nettezza di linguaggio: «Tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso (…) Tutti sanno che esistono situazioni in cui ogni ragionevole tentativo di salvare il matrimonio risulta vano». Da lì la partita si è sdoppiata: da una parte il tentativo rimpianto di Benedetto XVI e il rigore ortodosso del cardinale Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, dall’altra la suggestione umana di Francesco e la brillantezza storico- teorica di Kasper. Obbligati tutti alla necessità di contemperare giustizia e misericordia, si può dire che i primi tengano più al Dio, dunque alla Chiesa e al reamente della giustizia, i secondi della misericordia. (Se non il peccato, come si augurava Scalfari, Francesco ha abolito l’ergastolo, che è l’inferno in terra, e piace troppo a certi laicisti e costituzionalisti devoti). Oppure che i primi siano fer- ancorati al ripudio del relativismo, mentre per i secondi, come ha detto Francesco, «i valori non negoziabili» sono un’espressione incomprensibile.
Però: lo stesso Ratzinger, prima che la dannazione del relativismo diventasse lo stendardo nel cui segno vincere, o almeno vivere, aveva riconosciuto per inciso che senza una misura di relatività non c’è conoscenza. E però: nella battuta sui valori non negoziabili (rincarata da Kasper) c’è un’ambiguità, perché può voler dire che i valori sono valori e la non negoziabilità è un sovrappiù, o all’opposto che anche sui valori scritti in cielo si può, sulla terra, doversi adattare. Più interessante è il rilievo che ha preso in questa puntata del rapporto fra continuità e cambiamento il tema della casistica, ridotta al catalogo di circostanze in cui la norma contrasta con la voce della coscienza. Sia Francesco che Kasper si premurano di allontanare da sé la tentazione della casistica, che suona nel loro discorso come un sinonimo del relativismo. Forse perché i gesuiti furono, nel bene e soprattutto nel male, se non gli inventori i perfezionatori della casistica, e il papa gesuita vuole sbarazzarsi di quell’ombra: «Dietro la casistica c’è sempre una trappola contro noi e contro Dio». Ferrara, entusiasta delle Lettere provinciali di Pascal, detesta anche lui la casistica, e ne fiuta le tracce a Santa Marta.
Tuttavia c’è una casistica non cavillosa né pretestuosa. Certo, quando il papa dice (a proposito della comunione ai divorziati): «Bisogna vedere i diversi casi», non intende far discendere da una casistica codificata il trattamento di ogni nuovo caso. (Kasper: «La pastorale e la misericordia ... dietro ogni causa scorgono non solo un caso da esaminare nell’ottica di una regola generale, ma una persona che, come tale, non può mai rappresentare un caso e ha sempre una dignità unica»). Ma è lo stesso papa a evocare una figura singolare, esemplare del pensare per casi, nel dialogo con padre Spadaro: «Penso alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?».
Ferrara dubita che la distinzione di Francesco tra «discernere e relativizzare » sia fragile, e che «lo stile pastorale porterà inevitabilmente a una svolta di rottura dottrinale». Può darsi di no, e che la Chiesa proceda lungo aggiustamenti che, senza scalfire le norme, ne riducano la lontananza “abissale”, come avviene già per la comunione ai divorziati, o per il funerale ai suicidi. Ancora nel 1953 una signora in bianco amata da Fausto Coppi sarebbe stata deplorata da Pio XII come adultera, e messa in galera dalla Repubblica italiana. All’Avvenire, Kasper ha detto riguardo alle donne, che vorrebbe anche alla testa di Consigli pontifici: «Sono convinto che anche con le vigenti regole canoniche si possa già fare qualcosa nelle Congregazioni, valutando le singole possibilità». Formulazione che sembra augurarsi qualcosa di più, oltre le vigenti regole canoniche. Quello che i tradizionalisti offesi vedono già compiersi e Ferrara, cui cautelarmente il Papa “piace”, scongiura. Altri lo augurano.
Repubblica Salute 11.3.14
Anoressia
Modelli di perfezione fisica
Fobie, disfagia, immagine di sé i segnali dei disturbi alimentari Mezzo milione di ragazzini soffre di queste patologie in Italia
Indagine su preadolescenti e teenager Allarmanti fenomeni precoci e interventi di cura.
di Tina Simonello
Oltre 500.000 ragazzi e ragazze - anche minori di 14 anni- soffrono in Italia di disturbi del comportamento alimentare. Sono soprattutto femmine (ma non solo) e nel 90 per cento dei casi si tratta di anoressiche. Al dato, allarmante, che ci arriva alla vigilia della celebrazione della III Giornata internazionale contro i disturbi del comportamento alimentare (15 marzo), se ne aggiungono altri. Sconfortanti. Da un recente studio multicentrico del ministero della Salute sui Dca adolescenziali e preadolescenziali - anoressia, bulimia, Dai (disturbo di alimentazione incontrollato) e Disturbi non altrimenti specificati - condotta su oltre 1300 ragazzini tra gli 8 e i 17 anni (20% maschi e 80 femmine) con questi disturbi - è risultato che ben il 63% del campione soffre anchedi fobie, ossessioni, depressione, panico. Sul piano fisico, 43 volte su cento l’anoressia molto precoce compromette definitivamente la crescita ossea. L’indagine ha evidenziato elementi che predicono la malattia (predittori clinici): il perfezionismo clinico (nel 75% delle anoressie), traumi infantili (nel 38). Nel 27% disfagia psicogena (la paura di inghiottire alcuni cibi), nel 38 un disturbo selettivo (la tendenza a rifiutare molti alimenti). Molto intensa e dolorosa è la dispercezione corporea (immagine distorta di sé) in questa fascia, e in quantità quasi doppia rispetto a quella registrata tra i 20-30enni. «Disturbi precoci - commenta Laura Dalla Ragione psicoterapeuta e referente scientifico dell’indagine – sono molto più gravi di quelli tardivi: predispogono e si accompagnano ad altre malattie psichiche severe. E necessitano di anni di cure che devono coinvolgere la famiglie e molti specialisti.
«È importante un intervento precoce - dice Giuseppe Romano, psicologo e psicoterapeuta, docente presso le Scuole di Psicoterapia Cognitiva SPC e APC di Roma - perché i Dca tendono a strutturarsi. Secondo studi recenti 66,8 anoressiche su 100 se trattate entro i 5 anni dall’esordio guariscono, ma già 2-3 anni di ritardo possono fare la differenza». Ma perché si ammalano i bambini? Dalla Ragione: «Sono malattie del profondo, ma il momento storico pesa. I bambini sono esposti a modelli di perfezione fisica nei confronti dei quali non hanno strumenti cognitivi o culturali per rispondere, e lo fanno con il sintomo. Molti bambini con Dca (60%) hanno condotte autolesionistiche: si tagliano per esempio... Poi ci sono fattori familiari: aspettative insostenibili per i bambini. Un fattore di rischio importante è l’obesità infantile, specie per i maschi». Di fatto si tratta di patologie multifattoriali, in cui «il problema alimentare è solo la punta dell’iceberg», come sottolinea lo psichiatra della Sapienza (Centro disturbi del comportamento), Camillo Loriedo.
il Fatto 11.3.14
Energy Pod
Dormire fa bene al lavoro
La nuova frontiera di Google? Una capsula per la pennica che aumenta la produttività e riduce le spese per il caffè
di Chiara Daina
Immaginatevi i dipendenti di Google sul posto di lavoro: quasi 48 mila individui sparsi in oltre 70 uffici di 40 Paesi del Pianeta che per otto ore al giorno, come minimo, devono trattare il computer come un collega, parlargli come si fa con le piante o il gatto, rovesciarlo come un calzino, affidargli speranze e paure degli umani, nonché l’evoluzione della specie, fissarlo finché i loro occhi escono dalle orbite.
Capite che ci vuole un attimo perché si mettano a baciare lo schermo, prenderlo a pugni o sbatterselo in testa. Per scongiurare il pericolo, il colosso di Mountain view si converte alla siesta. Come? Offrendo napping pod, delle capsule dove gli impiegati si infilano e schiacciano pisolini di 20 minuti. Scaduto il tempo si accende la luce e partono dei suoni per rimettere sull’attenti l’umano addormentato. Google le ha definite “Energy pod” perché restituiscono persone più produttive e meno rabbiose. Internet dà alla testa , si sa. Il rischio che alla forza lavoro di Google neanche la pennichella sia sufficiente a ripristinare la sobria distanza tra carne umana e periferica elettronica di output c’è. Allora ecco le altre coccole da contratto anti panico: camere per la meditazione, palestra, massaggi, parrucchiere.
L’ELOGIO DEL SONNO postprandiale non è un’esclusiva di Google. Ben and Jerry’s, l’azienda americana che confeziona gelati e sorbetti, mette a disposizione dei suoi dipendenti delle vere e proprie stanze per dormire in pausa pranzo. Aol, multinazionale mass media, invece si serve delle stesse capsule di Google. Ovviamente crede nel sonno diurno anche l’azienda che produce le capsule, cioè la Metronaps. Riposino previsto anche negli uffici di Nike, Pizza hut, City bank, Cisco (leader nella fornitura di apparati di networking), Zappos (negozio online di scarpe e abbigliamento con base a Las Vegas) e nella redazione di Newsweek. Di più, il sonno è concesso anche in volo. Non ai passeggeri a bordo ma al pilota, non quello che guida, ma al collega prima che scatti il suo turno, nelle trasferte che superano le sette ore. British airways lo prevede.
I vantaggi del pisolino sulle nuvole sono assicurati perfino dalla Nasa. Secondo l’agenzia spaziale Usa, 40 minuti di sonno migliorano le prestazioni del pilota. Il test della pennica in volo risale al 1994. Un’indagine, sempre curata della Nasa, del 1989, dimostra che l’80 per cento dei piloti di 26 compagnie regionali americane cadono nelle braccia di Orfeo per non fare cadere l’aereo. Mentre chi ha i piedi per terra e si trova a Toronto può usufruire di mini hotel, gratuiti, lungo la strada, in realtà tubi stretti vietati ai claustrofobici, per il riposino dopo pranzo.
Il sonno è una roba seria. Matt McFarland sul Washington post spiega otto ragioni per cui vale la pena non sentirsi in colpa per la siesta. Innanzitutto, dormire migliora lo stato d’animo, rende più arzillo il fisico e aumenta l’attenzione. Evitando incidenti sulla strada dopo il lavoro. In secondo luogo, abbassa la pressione del sangue e diminuisce il rischio di infarto e malattie cardiache. Terzo: il sonno è naturale. Quarto: è low cost. Alla faccia della tazzina di caffè, che tra l’una e le tre del pomeriggio non tira su nessuno, tantomeno gli assuefatti da caffeina.
Quinto: se dormi, diventi creativo come Salvador Dalì (habitué della pennica). Sesto: Winston Churchill russava mentre l’Inghilterra veniva bombardata. Lo ha fatto lui, possiamo farlo noi che viviamo in pace. Settimo: Leonardo da Vinci, Benjamin Franklin, Thomas Edison, Napoleone e Albert Einstein erano pro siesta. Non vi basta? Otto: il Giappone. Qui anche il sonno è professionale: l’individuo si accovaccia alla scrivania mantenendo i glutei sulla sedia. I nemuri: versione nipponica per siesta, significa “essere addormentati mentre si è presenti”.