domenica 9 marzo 2014

l’Unità 9.3.14
L’aborto e quelle «strane» obiezioni
Aborto, se l’obiezione è contro le donne
di Carlo Flamigni

IERI, 8 MARZO, IL COMITATO EUROPEO DEI DIRITTI SOCIALI DEL CONSIGLIO D’EUROPA HA RICONOSCIUTO UNA VIOLAZIONE DELL’ITALIA NELL’APPLICAZIONE DELLA LEGGE 194, LA LEGGE CHE REGOLA LE INTERRUZIONI VOLONTARIE DELLA GRAVIDANZA. Questa decisione ha fatto seguito a un reclamo collettivo dell’associazione non governativa International Planned Parenthood Federation European Network assistita da Marilisa D’Amico e Benedetta Liberali, due donne straordinarie che da anni si battono con tenacia e grande saggezza in favore dei diritti dei cittadini. Il Comitato ha ufficialmente riconosciuto che l’Italia viola i diritti delle donne che intendono interrompere la gravidanza, a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza. Il ricorso era stato presentato contro l’Italia al fine di accertare lo stato di disapplicazione della legge 194/1978 e il Comitato Europeo ha accolto tutti i profili di violazione prospettati.
Ci sarà tempo per eseguire un’analisi delle ragioni per le quali il Comitato è arrivato a queste conclusioni: per il momento mi limito a commentare lo stato dell’applicazione della legge e più generale il problema dell’obiezione di coscienza. Malgrado i molti tentativi di nascondere la verità, ignorando e falsando dati concreti che sono sotto gli occhi di tutte le persone coinvolte in questo problema - e sono bene evidenti ai medici che non si sono dichiarati obiettori - l’applicazione della legge è in crisi. Ci sono Regioni e città nelle quali la percentuale di medici obiettori si avvicina al90%,unfatto che costringe molte donne a cercare soluzioni alternative: trovare una soluzione negli ospedali delle regioni nelle quali l’obiezione non è diventata un vero e proprio “complotto” contro la legge, come l’Emilia e la Toscana; rivolgersi ai procuratori e alle procuratrici d’aborto; scegliere la strada del “fai da te”, utilizzando farmaci pericolosi e insicuri; andare all’estero, scelta limitata alle persone abbienti. Non c’è medico che non possa elencarvi i drammi che possono conseguire a queste scelte, di aborto clandestino muoiono più di 100.000 donne ogni anno e il numero di ragazze che soffrono di complicazioni e di sequele patologiche non lo si è mai riuscito a calcolare. Il disegno che si può facilmente scorgere dietro a questa continua incitazione a rinunciare alle proprie responsabilità, approfittando di una legge sin troppo generosa con i medici inetti e disonesti, è ben evidente: convincere il legislatore che la legge è sbagliata, che il Paese non l’accetta, che bisogna fare un passo indietro e modificarla.
Per quanto riguarda la legittimità dell’istituto dell’obiezione di coscienza, mi limito ad alcune osservazioni. Prima di tutto, mi sembra assurdo configurare un diritto alla disobbedienza: il diritto, inteso come insieme di norme, ha la funzione di assicurare la convivenza degli individui, perciò la disponibilità di beni e risorse utili alla loro esistenza. Esso può essere idealmente concepito come frutto di un contratto sociale in virtù del quale i membri di una comunità politica si impegnano, a prescindere dalle loro convinzioni filosofiche, politiche e morali, ad osservare le regole che sono state approvate per il vantaggio comune. Queste regole giuridiche non sono precetti divini e pertanto non sono né sacre né inviolabili, così che quando vengono contestate sul piano etico debbono trovare soluzioni razionali e legittime. Quelle che mi vengono in mente sono solo due: dev’essere riconosciuta la facoltà degli obiettori di proporre l’abrogazione o la revisione delle norme ritenute inaccettabili; in alternativa deve essere considerato il diritto alla ribellione, un diritto che peraltro si può ammettere solo su un piano etico-politico, dinanzi ad un ordinamento rifiutato per i suoi valori. Il riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza presenta questa incongruenza: si traduce nella legalizzazione di una pretesa alla inosservanza delle leggi che può trovare, se mai, solo giustificazione etico-politica e quindi extra giuridica.
Del resto, il dovere di rispettare le norme giuridiche è rafforzato dall’osservazione secondo cui nelle democrazie ci sono Costituzioni che recepiscono istanze morali ben più di quanto facciano i regimi autoritari e prefigurano strumenti di tutela. Anchela nostra Costituzione ha fatto propri molti principi etici inerenti alla persona umanae di ciò si può avere conferma se leggiamo i discorsi dei membri della Costituente, in primis dei deputati cattolici che furono fra i più attivi nella redazione della nostra Carta fondamentale. Certo, la Costituzione, nella lettera ed ancor più nella sua evoluzione, riconosce e tutela valori morali condivisi e lascia libero campo a diversi orientamenti etici e agli indirizzi legislativi conseguenti, ma è certamente vero che le norme giuridiche introdotte da Costituzioni come la nostra, o hanno un minimo di liceità etica, oppure possono essere eliminate attraverso congegni di garanzia (rendendo superflua l’obiezione di coscienza). Infine, mi sembra una vera bizzarria il fatto che lo Stato riconosca il diritto all’inosservanza alle proprie leggi perché ritenute immorali. Che la maggioranza parlamentare non sia un’autorità morale e che le leggi possano essere criticate (nonché oggetto di proposte di modifica) per motivi anche di natura etica è fuori discussione. Ma da ciò al riconoscimento di una ripugnanza verso leggi dello Stato e alla tutela di questa ripugnanza c’è certamente un abisso. Il rifiuto morale, la criminalizzazione di una norma giuridica, potranno essere tollerate se non si traducono in comportamenti illeciti, ma che debbano trovare una consacrazione giuridica non sembra molto razionale. Per concludere, voglio solo osservare che nel caso della legge 194 sono in gioco una serie di valori che riguardano il rispetto e la tutela dell’esistenza e delle libertà fondamentali dei cittadini e che in linea di principio l’obiezione di coscienza potrebbe essere lesiva di questi valori. Poiché essi sono sanciti dalla Costituzione, è evidente che la loro violazione renderebbe costituzionalmente illecita la norma.
Adesso si tratta di trovare una soluzione e di riportare ordine in un terreno che sta diventando sempre più paludoso. Non dovrebbe essere difficile, ho letto numerose proposte fondamentalmente sagge e di non difficile realizzazione. È però prioritaria una maggior saggezza e abbiamo bisogno che le persone che verranno coinvolte dimostrino un maggior senso di responsabilità. Un ministro della Salute non può commentare i dati delle interruzioni di gravidanza dicendo che va tutto bene perché, se è vero che aumentano gli obiettori, è anche vero che diminuiscono gli aborti: una frase che mi ricorda un vecchio detto romagnolo secondo il quale, se è morto il nonno ma ha partorito la somara, i conti tornano e non è cambiato niente. E un Comitato Nazionale di Bioetica non può definire la 194 una «legge creontea» (cioè non democratica e indifferente alla sensibilità etica dei cittadini): è sin troppo evidente che nessuno dei membri ha mai letto l’Antigone e il discorso di Creonte ai vecchi della città, altrimenti avrebbero capito che le norme imposte da quel vecchio fascista hanno ben poco a che fare con una legge approvata.

l’Unità 9.3.14
Aborto, la Ue ci bacchetta: troppi obiettori Il ministro: non sono ostacolo
di Nicola Luci

«A causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne che, alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978, intendono interrompere la gravidanza». È quanto si legge in un documento del Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa in risposta al reclamo collettivo, presentato da oltre un anno dalla Cgil insieme ad altre associazioni, tra cui l’associazione non governativa «International Planned Parenthood Federation European Network» (Ippf). Secondo il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso - che lo rende noto - «è un atto forte che sancisce un diritto fondamentale e incontrovertibile per le donne: quello della libertà di scegliere della propria vita e del proprio corpo, con un’assistenza sanitaria adeguata, come prevede la legge». Una risposta, fa sapere la Cgil, che sancisce come «l’Italia violi i diritti stabiliti dalla legge 194, l’obiezione di coscienza non può impedire la corretta applicazione della norma». Secondo la leader della Cgil «che proprio nella Giornata internazionale della donna, il Comitato europeo dei diritti Sociali del Consiglio d’Europa abbia ufficialmente riconosciuto la violazione dei diritti delle donne che intendono interrompere la gravidanza, ha poi un grande valore, anche simbolico. A dimostrazione che i diritti non sono irreversibili e che, specialmente quando vengono messi in discussione con tanta perseveranza, richiedono altrettanta determinazione. È questo - conclude Camusso - il messaggio più significativo che possiamo oggi trasmettere alle giovani generazioni».
La difficoltà di applicazione della legge 194 è un fatto ormai noto. L’Unità aveva documentato come la presenza dei medici obiettori negli ospedali di fatto costringeva molte coppie a una penosa ricerca di ospedali attrezzati per tutta Italia. Molte coppie, poi, sistematicamente scelgono di operare l’interruzione di gravidanza fuori dall’Italia, in Inghilterra, ad esempio, o nella più vicina Spagna, ma anche in Francia o in Slovenia.
L’uscita del Consiglio d’Europa però non ha smosso troppo le acque. Il ministero della Salute ha risposto dicendo che «in Italia il carico di lavoro per i ginecologi non obiettori negli ultimi trent’anni si è dimezzato, passando da 3.3 aborti a settimana nel 1983 agli attuali 1.7». I dati del ministero sono però confutati dalle associazioni come la Laiga, che associa i ginecologi non obiettori, una delle poche a fare un indagine a tutto campo proprio sull’impossibilità di avere un servizio seppur garantito dalla legge.
Una realtà che il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, fa finta di non vedere fissando il numero di obiettori a una cifra che balla, per ogni regione, intorno al 70%. Ma si tratta di una media semplice, fuorviante. In certe realtà l’applicazione della 194 è complicata. Nel Lazio, ad esempio, su un numero totale di 391 ginecologi strutturati nei reparti solo 33 non obiettori eseguono l’interruzione di gravidanza volontaria. Neanche uno su dieci. Non che da altre parti vada meglio. In Sardegna negli ospedali Civili di Bosa e di Ozieri, sono quasi tutti obiettori. In Campania solo il 16% dei ginecologi è non obiettore, in Calabria la percentuale si abbassa anche di più (sfiorando appena il solo il 7%).

il Fatto 9.3.14
L’intervista Gustavo Zagrebelsky
“Questo renzismo è una girandola di parole a vuoto”
Il costituzionalista analizza la nuova politica e i rapporti istituzionali, tra Parlamento, esecutivo e Colle: “Un sistema di potere incartapecorito aveva bisogno di rifarsi il maquillage Se è vero, è chiaro che occorrevano riverniciature Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica. Sono la paralisi”
di Silvia Truzzi

Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in una cucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè al gelsomino. E capita pure che l'intervistato t'interroghi all'improvviso sui romanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà, Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stesso tempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky, Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l'orrore in cui vivevano gl'immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i propri simili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell'Ilva, non è nelle condizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamo in un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dalla violenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Che salvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti, l'hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell'Oscar a La grande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non dire nulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è detto in certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, una ragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo nei valori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c'è nel tempo presente”.

Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?

Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par di vedere, dietro una girandola di parole, il blocco d'una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchico del potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’. Un'interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno. Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voi stessi, a non prendere troppo sul serio la vostra novità.

Il filo rosso di queste conversazioni è come sta l'Italia. Le risposte non sono quasi mai state incoraggianti: ci siamo chiesti quali responsabilità abbia la classe dirigente.

La classe dirigente - intendo coloro che stanno nelle istituzioni, a tutti i livelli - è decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile, contraddittoria. Potremmo usare un'immagine: c'è una lastra di ghiaccio, sopra cui accadono le cose che contano, sulle quali però s'è persa la presa; cose rispetto a cui siamo variabili dipendenti: la concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l'impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni, per esempio. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause. Tutto ciò, sopra la lastra. Sotto sta la nostra ‘classe dirigente’ che dirige un bel niente. Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica. Che cosa resta sotto la crosta? Resta il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici, un formicolio che interessa i pochi che sono in quella rete, che si rinnova per cooptazione, che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori. La politica si riduce alla gestione dei problemi del giorno per giorno, a fini di autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri. Pensiamo a chi erano gli uomini che hanno guidato la ricostruzione dell'Italia dopo la guerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti, per esempio. Se li mettiamo insieme, non è perché avessero le stesse idee ma perché ne avevano, e le idee davano un senso politico alla loro azione. Le cose che, oggi, vengono dette e fatte sono pezze, sono rattoppi d'emergenza, necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro ‘potere per il potere’, è gestione tecnica. La tecnica guarda indietro; la politica dovrebbe guardare avanti.

Il governo Monti qualche disastro tecnico l'ha fatto.

La tecnica come surrogato della politica è un'illusione. Se lei chiama un idraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato, lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all'idraulico di cambiarle la cucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. I governi tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l'esistente facendolo funzionare . Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucina nuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società, programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi come quello che attraversiamo, perfino modelli di società.

Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un'idea del mondo.

Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione. Una volta si parlava di blocco sociale, pensando alle ‘masse’ organizzate in partiti di appartenenza, in sindacati d'interessi consolidati. Si pensava alle classi sociali. Oggi, siamo lontani da tutto questo, in attesa della ricomposizione di qualche struttura sociale che possa esprimere esigenze, richieste e forze propriamente politiche. In questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l'appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi. Ecco la parola: il rinnovamento sembra molto spesso un ‘allevamento’. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo ecc. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l'arteriosclerosi politica che dominava. Ma, la novità di sostanza dov'è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce? Tanto più che nelle posizioni-chiave del ‘nuovo’ troviamo continuità anche personali che provengono dal ‘vecchio’ e la soluzione di nodi che ci trasciniamo dal passato è continuamente accantonata, come il cosiddetto conflitto d'interessi.

L'impellente necessità di modificare l'assetto costituzionale è un refrain che abbiamo ascoltato da più parti, negli ultimi anni.

Sì. Le istituzioni possono sempre essere migliorate, rese più efficienti, eccetera. Ma, a me pare che esse siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove, precisamente nelle difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse, e in presenza per di più d'una contestazione diffusa. Anche in passato, al tempo di Berlusconi al governo, è accaduto qualcosa di simile, ma non di uguale. L'insofferenza nei confronti della Costituzione a me pare derivasse allora dalle esigenze di un potere aggressivo. Oggi, l'atteggiamento è piuttosto difensivo. I fautori delle ‘ineludibili’ modifiche costituzionali dicono: c'è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma lo scopo dominante sembra l'autodifesa. Si tratta di ‘blindarsi’, per usare una parola odiosa molto in voga. Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i ‘congelamenti’ istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione.

“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in una democrazia.

La grande maggioranza degli elettori si è espressa a favore della fine del berlusconismo. Invece è stato ricreato un assetto governativo-parlamentare nel quale un cemento tiene insieme tutto quel che avrebbe dovuto essere separato. Il Parlamento attuale, sebbene non possa considerarsi decaduto per effetto della legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, dovrebbe considerarsi gravemente privato di legittimazione democratica . Ma si fa ormai finta di niente. Non bisognerebbe far di tutto per rimettere le cose a posto?

Larghe intese versus Grillo.

Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica. Sono il regime della paralisi, della stasi. Platone paragona il buon politico al buon tessitore, al buon nocchiero, al buon medico. Nei suoi dialoghi, non è mai detto che il politico è colui che s'immagina come debba essere la convivenza nella polis: non si aveva nell'antichità l'idea che la politica fosse fatta di contrapposizione di modelli. L'idea della politica come scelta è una novità moderna. Oggi sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c'è politica, e se non c'è politica non c'è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d'immunità.

Quindi siamo senza futuro.

Finché la palude non viene smossa. Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva ‘son tutti uguali’, intendendo ‘sono tutti corrotti’. Ma oggi è peggio, si pensa: ‘tanto non cambia nulla’. È un effetto della stasi politica. Il Movimento 5 Stelle è nato col dichiarato intento di smuovere la palude, addirittura di investirla con una burrasca che rovesci tutto. Una negazione, dunque. Ma, la politica deve contenere anche un intento costruttivo. Questo, finora, non è visibile o, almeno, non è percepito. Non che sia molto diverso, presso gli altri partiti, solo che questi sono già radicati e godono perciò del plusvalore che viene dall'insediamento istituzionale. Per chi si affaccia, un'idea chiara e forte del ‘chi siamo’ e ‘per cosa ci siamo’ è indispensabile. La tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d'essere solo una competizione per la sostituzione d'una oligarchia nuova a una vecchia. Oltretutto, la storia e la stessa ‘materia del potere’ mostrano che nella politica la lotta contro la corruzione è senza prospettiva. Contro la corruzione devono valere le istituzioni di controllo e l'intransigenza dei cittadini. La politica è intrinsecamente debole. La ragione sta in quella che, all'inizio del secolo scorso, è stata definita la ‘ferrea legge delle oligarchie’, il che significa che i grandi numeri, per essere governati, hanno bisogno dei piccoli. I piccoli - e l'osservazione vale per tutti, anche per i 5 Stelle - prima o poi si chiudono in se stessi e si alimentano con la corruzione, alimentandola a propria volta. In difetto di politica, alla corruzione non c'è limite perché essa, nei regimi autoreferenziali, non è la patologia, ma la fisiologia del potere. Se si vuole: è la fisiologia dentro una patologia.

Senza speranza, dunque?

Siamo di fronte a un bivio. Da una parte c'è il progressivo arroccamento che, prima di implodere, passerebbe attraverso misure, dirette o indirette, contro la democrazia e la Costituzione. Dall'altra, la rianimazione della politica e la riapertura dei canali della partecipazione, che dovrebbe portare al rafforzamento della democrazia e della Costituzione. La prima strada è pericolosa anche per chi volesse percorrerla, perché l'inquietudine sociale, prima o poi, esploderebbe con esiti che non vorremmo nemmeno immaginare. La seconda è difficile perché la politica non s'inventa a tavolino scrivendo documenti, ma si costruisce quotidianamente nel rapporto con i bisogni, le aspirazioni, le difficoltà e i dolori dei cittadini.

Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro ai sottosegretari indagati?

La giovane ministra per i rapporti col Parlamento ha detto che non si chiede a qualcuno di dimettersi solo perché inquisito. Giusto. Altrimenti, la politica sarebbe in balia non solo, o non tanto, della discrezionalità dei giudici, ma soprattutto di denunce pretestuose o calunniose, alle quali il magistrato deve dare corso. La questione però sta in quel “solo”. Politica e giustizia hanno logiche diverse. Nulla vieta al governo di difendere - fino a un certo punto - i suoi inquisiti con le ragioni che gli sono proprie, cioè con ragioni politiche. Ma deve spiegare perché lo fa, pur in presenza di motivi di sospetto; deve assumersene la responsabilità; deve giustificare perché abbandona uno e protegge un altro. Non basta dire che si tratta ‘solo’ di procedimenti penali avviati e non conclusi (con una condanna). La presunzione d'innocenza non c'entra nulla con la dignità della politica.

Lei è mai stato tentato dalla politica?

Ciò cui mi sento più adatto è l'insegnamento. Per la politica, soprattutto per la politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza di Max Weber intitolata, per l'appunto, la politica come professione-vocazione? Ecco: non sento la vocazione. C'è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflitto d'interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere disinteressato personalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di mettere se stesso, e i suoi interessi, davanti all'oggetto dei suoi studi. Potrebbe esserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non per amore della verità (la piccola verità che si può andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quel potente che ti può offrire, arruolandoti, una carriera politica.

Perché la politica non attrae più i migliori?

Una volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere un cardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti ‘rifiuti eccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se la politica non ha prospettive ma è semplicemente un girone d'affari, non servono politici, servono affaristi.

Vota?

Ho sempre votato, malgrado tutto. C'è una pagina di Non c'è futuro senza perdono del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo, Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo Paese che, acquistati i diritti politici dopo l'apartheid, per la prima volta vanno a votare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un orpello.

Cosa pensa dell'Italicum nato dall'accordo tra il Pd e Forza Italia?

Non so che cosa ne verrà fuori. Mi colpisce, comunque, che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d'interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano), invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l'attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si pensi a una legge che, contro un'indicazione precisa della Corte costituzionale, creerebbe una profonda disomogeneità politica tra le due Camere. Mi colpisce che si dica con tanta leggerezza che non importa, perché il Senato sarà abolito. Mi colpisce che nel frattempo, comunque, si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle. Mi colpisce che non ci siano reazioni adeguate a questa passeggiata sulle istituzioni.

E l'idea di “diminuire” il Senato?

Vedremo la proposta. Fin da ora, vorrei dire che piuttosto che un pasticcio - interessi frammentati di politici locali con una spruzzata di cultura -, piuttosto che una cosa indefinita, senza una funzione, una propria ragion d'essere stabile e continuativa, meglio l'abolizione radicale. Meglio il nulla, piuttosto che l'umiliazione. Esistono già commissioni paritetiche, per la bisogna. Si cerchi di non trattare le istituzioni come merce vile che si vende al qualunquismo antiparlamentare al prezzo di qualche piccolo risparmio sul ‘costo della politica’. I Senati, o ‘seconde Camere’, o ‘Camere alte’ hanno profonde ragioni d'esistenza. Le loro funzioni, quali che esse specificamente siano, si giustificano con l'esigenza di introdurre nei tempi brevi della democrazia rappresentativa la considerazione d'interessi di più lunga durata, che riguardano - come si dice - le generazioni future. Sono assemblee moderatrici rispetto all'incalzare del consenso elettorale che deve essere incassato a intervalli brevi dall'altra assemblea. La prima Camera è necessariamente miope; la seconda Camera deve essere presbite. Deve far valere le ragioni della durata su quelle dell'immediatezza. La sua composizione e le sue funzioni dovrebbero tener conto di questa vocazione, essenziale affinché la democrazia rappresentativa non dilapidi in tempo breve le risorse di tutti, nell'interesse elettorale di qualcuno. Mi pare che i discorsi dei nostri riformatori restino molto in superficie, rispetto alla profondità della questione.

Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.

Le istituzioni di garanzia sono la magistratura, dunque anche la corte costituzionale, e il presidente della Repubblica. Poi c'è la libera stampa, che dovrebbe vigilare nell'esercizio della sua funzione al servizio della pubblica opinione. Siccome nelle oligarchie, come si è detto, le segrete cose - trattative, patti non dichiarati e dichiarabili, corruzione delle funzioni pubbliche - sono fisiologiche, le istituzioni di garanzia e libera stampa dovrebbero fare da contraltare quando occorre. In ogni caso, non mescolarsi e non omologarsi.

Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal rapporto tra Rai e politica: è una commissione parlamentare che vigila sul servizio pubblico - e sull'informazione che produce - e non il contrario. Ben più che un paradosso.

È uno dei grandi rovesciamenti che ci tocca osservare in questi tempi. Non l'unico. Pensiamo ad esempio al sistema elettorale. Dovrebbe garantire che la base della vita politica stia presso i cittadini elettori. La logica della legge che abbiamo avuto fino a ora e, con ogni probabilità, di quella che avremo se la riforma andrà in porto, è invece quella della nomina dall'alto (delle segreterie dei partiti), con ratifica degli elettori. Uno dei principi del Fascismo era: ‘il potere procede dall'alto ed è acconsentito dal basso’.

Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommo quale l'autonomia?

Le risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C'è però, credo, la tentazione dell'apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’: pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato a Norimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il nazismo a essere schmittiano’.

Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?

Se si riferisce all'atteggiamento di molti costituzionalisti nei confronti dell'ultima fase della presidenza di Giorgio Napolitano, direi che è prevalsa l'idea che il presidente della Repubblica fosse l'ultimo baluardo, al di là del quale il caos, il disastro, il fallimento. Ciò ha portato a giustificare l'assunzione di compiti e il compimento di atti che nella storia costituzionale repubblicana, non si erano mai incontrati. Al punto che si parla ormai come cosa ovvia, non problematica, d'una repubblica presidenziale che ha preso il posto del sistema parlamentare. Tutto ciò si è manifestato in un attivismo finora sconosciuto. Ma è stato un attivismo orientato a quella che si dice essere la stabilità e la continuità, e che si traduce in conservazione. Mi pare che si possa dire che è prevalsa la paura del nuovo, il pessimismo politico. Solo apparentemente per paradosso, l'attivismo costituzionale è coinciso con il conservatorismo politico. La Costituzione, prevedendo un ruolo neutrale e super partes, del presidente della Repubblica, dà, mi pare, un'indicazione opposta: l'imparzialità costituzionale per consentire le innovazioni politiche, il rinnovamento della vita politica. Ottimismo politico.

il Fatto 9.3.14
Renzi, il centometrista della mattonella
di Furio Colombo

È possibile che duri ancora per un po’, il caso Renzi. È possibile che il risucchio del vuoto continui, come una tromba d’aria nella fase ascendente. Porterà altro consenso stordito e privo di argomenti, solo una litania di “è bravo, è giovane, ha tanta energia, lasciatelo lavorare”. Insomma un effetto Berlusconi junior che è accasato a sinistra, ma decisamente estraneo. Qui però non conta giudicare Renzi dalla distanza verso la sinistra. La sinistra non c’è e dunque non ci offre riferimenti per giudicare. Conta giudicare Renzi dalla distanza verso la realtà.
Aveva ragione Shakespeare. O si è o non si è, è davvero questo il problema. Proviamo a dire, con tutto il margine di errore possibile e i dubbi, sia a suo carico che a nostro carico, dato un tempo così breve: chi è Renzi? Renzi è un leader? Certamente sì. C’era un vuoto pauroso di leadership in una parte dello schieramento politico. Renzi è andato dritto a quel punto, come un missile aria-aria. Ha centrato in pieno il Pd e lo ha conquistato in un attimo. Lo ha trovato vuoto. Persone vagavano nell’area senza meta, a tutti i livelli. Certo, alcuni avevano una stanza, una segreteria, un portavoce. Sembravano felici di privilegi così a lungo procrastinati, ma l’angoscia era la stessa degli iscritti e simpatizzanti sparsi in tutto il Paese: che fare? Con chi? Perché? Come mai non basta neppure accasarsi con tutto il Pdl (quando era intero) per vivere tranquilli e governare come Dio comanda?
QUI PASSA una linea di demarcazione che nessuno (tra coloro che al Pd avevano le stanze) sembra avere davvero notato. Il problema dei senza lavoro, passato o futuro, cominciava a dividere una parte (sempre più grande) degli italiani dagli altri, creando da un lato (i senza lavoro) rancore, solitudine e un “mai più” (mai più credere, mai più fidarsi) che ha creato una visione fatalmente offuscata e vendicativa contro i sindacati. E, dall’altra, gli scampati, almeno per il momento, che si sono adattati a uno strano mood di subordinazione che non esclude l’inganno (evasione, elusione, in nero), ma suggerisce accettazione di un governo (Monti), di un altro governo (Letta) e poi dell’irrompere del giovane Renzi, tanto più apprezzato quanto più deciso a occupare ruoli e spazi che nessuno vuole occupare. In mezzo, tra il Renzi niente (anche se impaziente, rumorosa promessa) e il Renzi tutto (“il presidente del Consiglio rappresenta tutto il Paese” dice la preside dell’Istituto Raiti di Siracusa che non ha presente la Costituzione), c’è un trampolino. È la carica, guadagnata con una lotta breve e accanita, di segretario del Pd, qualcosa per cui il “vecchio” Bersani ha quasi dato la vita. Appena avuta quella carica, che voleva dire rifare una parte del Paese, della sua cultura, della sua organizzazione, della sua politica, Renzi non vi ha dedicato un pensiero, ha buttato via tutto ed è corso a Palazzo Chigi. Inevitabile la seconda domanda. Renzi, che non vuole essere capo di partito, è un capo di governo? Noi sentiamo (a volte addirittura ammiriamo) gli spostamenti d’aria del suo continuo, velocissimo muoversi. Ma c’è altro? Vediamo.
Un capo di governo è sotto o sopra un partito (Fanfani o Andreotti erano sopra, tanto per dire, Rumor era sotto), però bene ancorato a quel partito, per farsi riconoscere. Renzi conta talmente su se stesso che non vuole altra identità che la sua. Verifichiamola. Programma: tutto, una riforma al mese, una riforma al giorno, dite voi, lui mantiene. Il problema non è il troppo ma l’altrove. I cittadini aspettano un cambiamento e lui fabbrica rapidissimamente oggetti in un’altra stanza, per committenti difficili che ancora non si sa ancora se compreranno. Ministri e sotto-ministri. Renzi ha scelto due strati. Di uno si doveva poter dire che sono nuovi (il più possibile giovani, tranne un ospite venuto dalla finanza internazionale, per mostrare il cambiamento). Degli altri (secondo strato) si deve esibire la spregiudicatezza del giovane e diverso primo ministro. Indagati? Io posso. Qui si colloca una strana imprudenza per uno che sembra attento a non perdere di vista il sentiero e a non lasciare scorie. Le scorie restano.
GLI INDAGATI al governo non saranno la banda dei Quattro, ma il loro peso negativo è destinato a durare, a crescere. Come fai a non   saperlo? Come puoi pensare che una simpatica ministra junior senza autorità e senza autorevolezza, possa annunciare in aula, senza ragioni o motivazioni, la nuova regola, mai prima enunciata o discussa, secondo cui l’avviso di garanzia non richiede il gesto rispettoso di dimettersi? Quella di Renzi è una linea a zig zag di cui non capiamo niente se non seguiamo lui. Lui fa il salto mortale e cade in piedi, e lì per lì sembra infrangibile. Poi va a Bruxelles e lo guardano poco. Forse si domandano: di questo leader, di questo segretario, di questo capo di governo così fortemente identificato quasi solo con se stesso, possiamo dire che ha un progetto, un piano? È interessante che gli europei (in particolare Olli Rehn) abbiano scelto proprio lui, il “migliore”, il più veloce, efficiente, carismatico, popolare in Italia, per un giudizio così negativo: “È un Paese squilibrato”. Certo lo è, se pensate allo strano destino (o percorso) della legge elettorale che se non c’è fa crollare tutto (fiducia, legislatura, speranza) e se c’è fa crollare tutto perché giuridicamente viola una regola base del diritto: nessuno è tenuto a una prestazione impossibile. Infatti la legge, se ci sarà, non riguarderà il Senato, che resta intatto, con una sua legge elettorale diversa. Le due leggi sconnesse impediscono di votare. Intanto Renzi continua a girare in fretta, credo perché non può fermarsi a lavorare a una sola cosa in solo luogo. In tanti ripetono ancora che è giovane, è veloce, e ha così tanta energia. Ma, come per Berlusconi, da lontano non si nota. E non si vedono cambiamenti. E nessuno comunica piani, dopo tanta attesa e tanta festa e tanti annunci. Forse per questo hanno detto, un po’ bruscamente, che siamo “un Paese squilibrato”.

il Fatto 9.3.13
La vera colpa del Senato
risponde Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, non capisco la voglia di abolire il Senato. È un organo istituzionale di controllo delle leggi approvate dalla prima Camera. Dovremmo essere felici di averlo. Non le sembra che la sua abolizione sia tartufesca e anche incostituzionale? Angela

CREDO DI POTER DIRE, essendo stato membro dell’una e dell’altra Camera, che il nostro “bicameralismo perfetto” soffre di problemi evidenti. Il più grave è il ritorno continuo da una Camera all’altra di quasi ogni testo di legge anche minimamente modificato. Ma poiché esistono nel mondo democratico sistemi di bicameralismo perfetto liberi da questo e dai molti altri problemi che affliggono il nostro, è evidente che le soluzioni per rendere il bicameralismo efficiente e utile come lo aveva immaginato la Costituzione ci sono, ma sono state purtroppo ignorate da ogni partito, sotto ogni governo e durante 15 legislature. L’esempio più semplice è il regolamento, sia all'interno di ciascuna Camera (dove il flusso di leggi è tuttora disordinato, determinato dal governo oppure dalla nomenclatura dei partiti, senza che sia comparso, finora - in una Camera o nell’altra - un presidente capace di ridisegnare i percorsi) sia nel rapporto fra le due Camere. Esempio: negli Stati Uniti il problema della differenza fra parti della stessa legge, modificate dall’una o dall’altra Camera, viene risolto non mandando indietro la legge modificata, a volte con varie andate e ritorno, come in Italia, ma con la Conferenza di due gruppi (deputati e senatori) nominati dai presidenti, che lavorano insieme a risolvere il problema. A meno che si tratti di uno scontro politico, che si risolve, come in ogni democrazia, cercando il sostegno dei cittadini e la capacità di imporsi, se c’è, del presidente. Anche senza Senato, la Camera dei deputati italiana non sarà né più veloce né più efficiente se mantiene l’attuale regolamento. Prescrive che tutto è in mano alla volontà e ai cambiamenti di umore dei partiti, e attribuisce ai singoli deputati quasi nessuna iniziativa individuale. Ma questi problemi, veri, gravi e risolvibili, non sono la ragione di tanta irritazione verso “l’inutilità” del Senato. La ragione è che si deve vendicare l’oltraggio fatto a Berlusconi quando, per legge, lo hanno espulso dal suo seggio in quella Camera. Quale miglior modo di cancellare la non onorevole espulsione dal Senato, che cancellare il Senato?

Repubblica 9.3.14
La rappresentanza come valore
di Nadia Urbinati

Abbiamo due articoli della Costituzione, il 3 (sull'uguaglianza) e il 51 (sulla promozione delle pari opportunità) e metà della nostra popolazione è costituita da donne, eppure vi è il fondato sospetto che la nuova legge elettorale voglia dare un’interpretazione riduttiva della parità di genere: questo è il senso delle dichiarazioni fatte dalla presidente della Camera Laura Boldrini e da numerose parlamentari di tutti gli schieramenti politici. La preoccupazione è legittima e pertiene al diritto di equa rappresentanza, un diritto che le liste bloccate senza norme che regolino il criterio di collocazione nella lista fatalmente violerebbero.
Nel diritto di parità di genere si riflette il diritto di eguale partecipazione alla rappresentanza: non è un diritto “per” le donne e non è una concessione alle richieste delle donne. La rivendicazione della parità non è una rivendicazione di rappresentanza corporativa. È, al contrario, l’attuazione coerente di una visione della democrazia nella quale tutti i cittadini e tutte le cittadine debbano potere godere di uno stesso diritto di contare ed essere contati, di votare ed avere un’eguale opportunità di essere eletti, senza strategie truffaldine che vanifichino il principio mentre lo proclamano. La causa femminile è dunque una causa generale di cittadinanza. Mette in evidenza una lacuna di questa proposta di legge, la quale mostra di avere troppe evidenti resistenze nell’accettare il principio di giusta rappresentanza: per una soglia di sbarramento troppo alta; per la premiazione eccessiva di chi guadagna una maggioranza relativa; e per il piano di favorire l’eleggibilità dei cittadini di sesso maschile più di quella dei cittadini di sesso femminile. Una proposta, insomma, che è sproporzionata verso una parte: verso chi è più forte e chi è meglio posizionato.
Perché la sottorappresentanza di genere è un problema? E perché avere donne nelle istituzioni rappresentative è importante? Negli ultimi decenni, queste due questioni hanno intersecato il tema della giustizia politica e messo in discussione la qualità della democrazia nelle società europee, che con poche eccezioni (i paesi scandinavi) sono ancora troppo sproporzionatamente maschili. Si tratta di una discrepanza che pesa ancora di più se si pensa alla presenza fondamentale delle donne in tutti i settori della vita sociale ed economica. Ma non è questa la ragione che dà forza alla richiesta di giusta rappresentanza: perché il diritto di voto nelle democrazie non viene dal contributo delle persone alla vita collettiva, ma dal loro fatto di esistere come cittadini; i diritti politici sono diritti fondamentali, come lo è quello di voto e di opportunità di essere eletti.
Anne Phillips, che lottò nel partito labourista di Tony Blair per conquistare quote di genere nel suo partito, ha alcuni anni fa esaminato le buone ragioni per le quali le democrazie devono accrescere il numero delle donne in lista. Il riequilibrio di genere giustifica anche la temporanea violazione dell’eguaglianza cieca. L’articolo 51 della nostra Costituzione chiede al legislatore di “promuovere” con “appositi provvedimenti” le pari opportunità perché, evidentemente, queste non si affermano da sole. Per questo, diversi paesi hanno adottato quote; altri, come la Francia, hanno cercato di andare oltre le quote e affermato il criterio della parità di donne in lista (usando l’incentivo economico per indurre i partiti ad adottarlo); altri infine hanno scelto la strada della rappresentanza proporzionale (con basse soglie di sbarramento) per correggere la sottorappresentanza delle donne.
Queste diverse strategie riflettono il riconoscimento che la rappresentanza è un valore e una forma di partecipazione. La ricerca di ridisegnare o correggere strategie di rappresentanza è un fatto di indubbia rilevanza che testimonia il mutamento degli stessi movimenti femminili verso la rappresentanza politica, vista non più come un ripiego rispetto a una più genuina partecipazione. La comprensione del valore del suffragio e della rappresentanza hanno marciato insieme: non godere di una eguale possibilità di essere elette è una forma di decurtamento del diritto politico.
Queste riflessioni seguono due fenomeni correlati che pertengono ai mutamenti della democrazia nei paesi europei: la richiesta delle donne di essere egualmente rappresentate ha marciato in parallelo alla crisi dei partiti di massa e al declino della fiducia dei cittadini nei partiti. La crisi dei partiti ha reso le donne meno rappresentate e ha reso più forte la necessità di far sentire la loro voce direttamente, con la loro presenza. Quindi la parità è oggi più che mai un’esigenza di giustizia, proprio perché la rappresentanza non può contare più solo sulle piattaforme generali dei partiti nelle quali le donne possano riconoscersi. Presenza e voce stanno insieme ora più di quanto non succedesse nell’età dei partiti di massa. Pertanto, la resistenza nel nostro Parlamento verso la pari opportunità delle donne di essere elette ci induce a rivolgere ai rappresentanti uomini la seguente domanda: come spiegate all’opinione pubblica che volete i voti delle donne ma non volete dare loro la stessa opportunità di essere elette?

Corriere 9.3.14
il primato inesistente
di Giuseppe De Rita

Sotto la costellazione della nuova legge elettorale e del nuovo governo, viviamo da settimane il trionfo del primato della politica. Ci sono tutti gli ingredienti di enfasi: sulla rapidità decisionale, sulla governabilità, sul bipolarismo, sulla personalizzazione delle leadership, sugli accordi di vertice, sulle convenienze di gruppo e personali, addirittura sulle trappole predisposte da tutti per tutti. E la dimensione mediatica aiuta e potenzia.
Nel turbinio delle parole manca però attenzione alla non marginale questione se e come il primato della politica possa trasformarsi in potere reale, cioè in atti concreti. Senza tale passaggio la politica rischia di ballare sempre più su se stessa, con i suoi protagonisti condannati all’egoismo individuale e corporativo, in una logica tutta sovrastrutturale (per usare un vecchio termine).
Disporre di una adeguata potenza decisionale ed operativa sta diventando per la politica un obiettivo altamente improbabile. E per tre motivi. Il primo è relativo al fatto che oggi è crollata l’identificazione fra potere della politica e potere dello Stato. Oggi assistiamo alla crisi irrevocabile della sovranità statuale e alla crescita consistente dei poteri formali e informali delle istituzioni europee, delle cancellerie internazionali, della grande finanza mondiale. Siamo un sistema sempre più eterodiretto, spesso in modo mortificante per chi lo governa. Altro che primato della politica...
Il secondo motivo rinvia a quando, nei decenni precedenti, la politica esercitava il potere di nomina dei vertici delle imprese pubbliche, dando forza operativa alla filosofia dello Stato soggetto di iniziativa, anche imprenditoriale. Certamente nelle prossime settimane la sottile voluttà di nominare i presidenti delle aziende pubbliche tornerà a scorrere nelle vene della politica; ma subito dopo si tornerà ad una sostanziale impossibilità di indurli a perseguire obiettivi definiti da un sempre più ipotetico primato della politica.
Ed in terzo luogo è difficile pensare che la classe politica possa conquistare potere reale attraverso l’antica strada della manovrabilità della azione amministrativa. Vale a questo proposito l’esperienza negativa degli ultimi governi, dove la volontà politica ha lanciato corposi e ambiziosi decreti legge che, rinviando ad una selva di complicati decreti attuativi, sono poi o rimasti sulla carta o finiti nel condizionamento e forse rafforzamento dei poteri burocratici.
Se siamo un sistema eterodiretto dall’esterno; se siamo un sistema che non ha strumenti di iniziativa imprenditoriale; se siamo un sistema incastrato negli interessi della alta burocrazia; allora che senso concreto ha parlare di un primato della politica? È una domanda che farei volentieri a qualche politico che a tale primato ci ha creduto con determinazione e passione, tipo De Mita e D’Alema; ma è una domanda che va posta più semplicemente a chi ci governa oggi, sperando che abbia capacità di riprendere concretamente in mano le tre indicate crisi di potere. Altrimenti il primato della politica resterà un ballo solitario, e di puro spettacolo.

Repubblica 9.3.14
Caro Matteo, chi fa da sé non fa per tre
di Eugenio Scalfari

LA PRIMA comparsa di Matteo Renzi a Bruxelles è stata funestata da due donne: la commissaria europea agli affari regionali ha avvertito il giovane presidente del Consiglio che i fondi destinati dalla Ue all’Italia per finanziare le regioni economicamente depresse non possono essere utilizzati per l’abbassamento del cuneo fiscale o per altre finalità diverse da quelle istituzionalmente previste. Quanto ad Angela Merkel, la Cancelliera l’ha buttata sul calcio come lo stesso Renzi ha raccontato al suo ritorno, parlando del calciatore Gomez che provenendo da una squadra tedesca è stato recentemente assunto dalla Fiorentina. E ha detto: «È un giocatore molto bravo, ma atleticamente fragile; bisogna stare molto attenti alla sua fragilità ». Gomez infatti ha giocato benissimo sul campo della Fiorentina ma poi ha avuto un incidente al ginocchio, è stato operato, è rimasto in convalescenza per cinque mesi ed ora è tornato ma ancora in panchina perché deve completare l’allenamento per tornare in campo. «Ha ragione la Merkel - ha commentato Renzi - io non me ne ero accorto » ma forse non si è accorto neppure che la Merkel parlava di Gomez ma pensava a lui. Ah, queste donne!
In Italia la macchina della legge elettorale ancora è ferma. Alla Camera tra qualche giorno sarà approvata con pochi e piccoli emendamenti accettati dalla “triplice” Renzi-Alfano-Berlusconi.
Ma al Senato la battaglia sarà più dura per le quote rosa ed anche per altre modifiche volute da una notevole dissidenza interna al Pd oltreché da tutti i gruppi di opposizione, in particolare sulle soglie e sulle preferenze. Il rischio che gli emendamenti passino nonostante la contrarietà della “triplice” esiste e potrebbe mettere a rischio il governo Renzi-Gomez. Speriamo bene ma il rischio c’è e non è da poco.
Il centro del problema Italia tuttavia non è questo ma riguarda l’economia. Le notizie che arrivano non sono impreviste ma neppure consolanti. Sembra che gli interventi fattibili siano già stati avviati e in gran parte già contabilizzati da Enrico Letta e dai suoi ministri a cominciare da Fabrizio Saccomanni. Renzi sta studiando qualche passo in più ma si è reso conto che non può trascurare i vincoli europei. A Bruxelles e a Berlino bisogna tentare la strada della convinzione ma non quella dei pugni sul tavolo.
Per saperne di più ho interrogato Letta, rientrato due giorni fa in Italia e da lui ho avuto la sua versione dei fatti e delle prospettive. Eccone il resoconto.

1. Il cuneo fiscale già figura nella legge di stabilità approvata dal Parlamento e prevede una riduzione di tre miliardi per il 2014 e di dieci miliardi per il 2015. La copertura proviene dalla “spending review” per l’anno in corso e di metà per l’anno successivo: l’altra metà dovrebbe esser fornita dal recupero dell’evasione fiscale. Saccomanni ritiene che la “spending review” possa dare di più, non meno di cinque miliardi quest’anno e forse sette nel successivo.
2. Il pagamento dei debiti dalla pubblica amministrazione alle imprese è già contabilizzato e i fondi già stanziati per 20 miliardi da erogare quest’anno. La copertura è fornita dalla Cassa depositi e prestiti che può agire subito e mobilitare altri fondi per i prossimi mesi.
3. La legge di stabilità ed altre leggi specifiche prevedono una serie di investimenti da parte di imprese pubbliche, a cominciare da Rete Imprese, dalla Fincantieri e da altre aziende. I fondi sono già stanziati e il totale supera i tre miliardi 4. Il debito pubblico sarà ridotto attraverso la privatizzazione di “asset” patrimoniali, anche questi già previsti e contabilizzati con apposita legge approvata il 20 gennaio e già in via di esecuzione.
5. L’andamento dello “spread” fornirà dai tre ai quattro miliardi che Letta aveva previsto di utilizzare per le scuole e l’occupazione giovanile.
6. La Commissione europea è disponibile a fornire fondi per la crescita economica e per l’equità sociale per somme rilevanti, da destinare al nuovo sistema di ammortizzatori sociali e di investimenti pubblici e privati. L’obiettivo è di ridurre le imposte sul lavoro e ripristinare con norme semplificate il credito di imposta per la creazione di nuovi posti di lavoro.
7. Durante il semestre di presidenza europea spettante all’Italia era previsto un decisivo passo avanti dell’Unione bancaria e interventi della Bce che stimolassero le banche ad accrescere i loro prestiti alle imprese.
8. L’Italia avrebbe visto la diminuzione del deficit-Pil dall’attuale 2,6 al 2,3 con un miglioramento dell’avanzo delle partite correnti al 5 per cento al netto degli oneri del debito pubblico.
9. In quello stesso semestre e in piena intesa con la Bce, l’Europa avrebbe dovuto affrontare un tema di grandissima importanza e cioè un mutamento del tasso di cambio tra l’euro e il dollaro. Proprio in questi giorni quel tasso ha visto una ulteriore rivalutazione dell’euro che sfiora ormai 1,40 dollari per un euro, una situazione intollerabile per le esportazioni europee verso l’area del dollaro. L’ideale sarebbe un tasso di cambio attorno all’1,20 o addirittura all’1,10 che rilanciando massicciamente le esportazioni europee ed italiane provocherebbe un apprezzabile aumento degli investimenti e della base occupazionale.

Questo è quanto il governo Letta ha avviato e in gran parte messo in opera e queste sono le prospettive che avrebbe fatto valere nel corso del semestre europeo.
Difficilmente Renzi potrà fare di più e di diverso. Quanto alle contestazioni della Commissione di Bruxelles sui conti italiani, il parere di Letta è che esse siano state fatte con l’obiettivo di dare al nostro governo un’arma in mano per vincere le resistenze della maggioranza che lo appoggia e che ora comprende di nuovo Berlusconi. Si tratterebbe insomma di una iniziativa figurativa, tanto più utile oggi che la maggioranza comprende di nuovo Forza Italia, contraria al programma che Letta avrebbe voluto presentare alla direzione del suo partito e che invece fu superata dal massiccio voto contrario che lo fece fuori.
Ho riferito, spero con fedeltà e chiarezza, quanto lo stesso Letta mi ha detto e Saccomanni per quanto lo riguarda mi ha confermato.
Se posso dare un suggerimento a Letta è di riferire questi suoi ricordi alla Camera della quale fa parte stimolando Renzi a proseguire con la stessa filosofia. Di fatto questo sta già avvenendo ma - sempre che gli elementi informativi che ho qui riferito corrispondano interamente alla verità dei fatti - Renzi ci sta rivendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione dal suo predecessore.
Se Letta seguirà il suggerimento ne verrebbe una conseguenza positiva: questa volta sarebbe Letta a stimolare il governo esattamente come fece Renzi per un paio di mesi, prima di scomunicare il governo Letta. Questo rischio Renzi non lo corre, la sua maggioranza è infatti senza alternative salvo che Berlusconi non mandi tutto all’aria. È un’ipotesi improbabile ma fa parte della patologia berlusconiana contro la quale non c’è alcun valido rimedio.
Di Berlusconi però si può fare a meno come ne fece a meno Letta quando dalle cosiddette larghe intese passò alle piccole intese favorendo il distacco di Alfano dal Pdl.
È opportuno avere buona memoria di questi fatti e di questi passaggi ricordando il passato prossimo per costruire un futuro più solido. Passare da un Renzi-Gomez ad un Renzi-Letta sarebbe un netto miglioramento per un Paese così disastrato.

il Fatto 9.3.14
Lecca Renzi
“Io Donna” in rima celebra il renzismo

DA NON CREDERE a cosa può arrivare il giornalismo italiano, non finisce di stupire. L’editoriale non firmato, quindi attribuibile al direttore Diamante D’Alessio, dell’ultimo numero di Io Donna, il femminile del Corriere della sera, per celebrare l’Otto marzo regala una sviolinata al nuovo governo firmato Matteo Renzi, addirittura con una poesia: “8 Marzo / Si festeggia in tutto il mondo (in Alaska / e a Macondo) la giornata delle donne, siano figlie, / mamme o nonne. Dopo scontri centenari, cari / maschi siamo pari. C’è voluto un grande inferno, / ma... siamo otto anche al go-ve r n o”. Roba che non succedeva neppure nei lunghi anni di berlusconismo spinto. La Terza Repubblica ha già ottime basi.

Corriere 9.3.14
Lo slalom incerto della ministra fra la satira e il doppiopesismo
di Aldo Grasso

Parità di genere, parità di satira (un genere dalla storia antica). L’imitazione che a Ballarò Virginia Raffaele ha fatto di Maria Elena Boschi era molto divertente. La ministra per le Riforme costituzionali veniva descritta come una maestrina che ha imparato a memoria il programma di governo da recitare in pubblico. Ma ogni volta che il povero cronista le chiedeva qualcosa di concreto partiva la colonna sonora di Un uomo e una donna e la Nostra si trasformava: occhioni da cerbiatta, sguardo ammaliatore, movenze seducenti. La gag finiva con la trasformazione della ministra in una graziosa gattina.
Pregiudizi sessisti? Stucchevoli stereotipi di genere che si usano contro le donne? Quote rosa o pinkwashing , il belletto maschilista? La settimana prima, la Raffaele aveva preso in giro Francesca Pascale, non si possono pretendere da lei imitazioni di uomini, e poi, in studio, quando la finta Boschi scuoteva la chioma, c’era Ale Moretti (Pd) che rideva di gusto.
Non saremo feroci come Jena (Riccardo Barenghi) che su La Stampa aveva cartavetrato la ministra: «Se esistesse il reato di manifesta incapacità la ministra Boschi sarebbe indagata». Molto meglio Marianna Rizzini che sul Foglio la incorona «Regina Maria Elena». Né considereremo la ridicola protesta che Michele Anzaldi (Pd, segretario della commissione di Vigilanza Rai) ha inviato alla presidente di Viale Mazzini Anna Maria Tarantola o tutte le polemiche fiorite sul Web. Più tardi, è intervenuta saggiamente la stessa ministra con un tweet : «Virginia Raffaele è una imitatrice straordinaria. A me piace molto. Sull’imitazione di Ballarò ho riso sopra. #bastapolemiche ». Ho riso sopra? Satira alla sintassi?
La prova più difficile, però, la Boschi l’aveva dovuta affrontare in Parlamento per rispondere all’interrogazione che il M5S aveva presentato riguardo alla nomina di Francesca Barracciu (Pd), indagata per una storia di rimborsi elettorali: il doppiopesismo non conosce né diete né glamour . Si applica, e basta.
Ma torniamo all’imitazione della Raffaele, spiritosa, efficace, più renzista del renzismo. La satira è una forma di stupore: «Col cappello da buffone non si possono fare riverenze», diceva Stanislaw Lec. Né sconti, nemmeno a una ministra, nemmeno a una bella donna. Lo impone il genere.

il Fatto 9.3.14
Finocchiaro e gli altri L’Italicum atteso al varco
Deve ancora passare a Montecitorio, ma al Senato sono già pronti a smontare in diversi punti la riforma voluta dal duo Renzi-Berlusconi
di Sara Nicoli

Si fa finta di non vederlo, ma il naufragio è ad un passo. L’Italicum dovrebbe
- in pura teoria - essere licenziato dalla Camera entro martedì, ma sono ancora da superare (cioè da votare) alcuni punti cardine della nuova legge elettorale; le soglie di premio di maggioranza e quelle di sbarramento, la suddivisione dei collegi, le quote di genere e un mucchio di emendamenti (più di 100) che non promettono nulla di buono. Basta un niente, insomma, una distrazione, un blitz e l’intero castello rischia di venire giù di botto. Dicono che non esiste la volontà politica di affossare la riforma, ma è altrettanto vero che il malumore cresce, che è palpabile e che la “fronda” è trasversale. Al punto che, ad oggi, non è più così chiaro chi sta con il governo (e con quella strana maggioranza coesa solo per fare le riforme) e chi, invece, punta ad evitare troppi sconquassi per timore di perdere anzitempo la poltrona.
FACCIAMO DUE CONTI. Alla Camera, il Pd con Sc supera di 5 unità la maggioranza assoluta. Al Senato, invece, la maggioranza è 161, Renzi ha 184 voti, ma solo sulla carta. Di sicuro, ad ora l’Italicum è schernito quasi più di quanto lo fu il Porcellum, il che è tutto dire. Per fare un esempio: solo pochi giorni fa, a chi l’interrogava alla Camera, un lettiano doc come Francesco Boccia rispondeva ai cronisti di “non avere alcuna intenzione di votare questa legge elettorale come uscirà da qui”. E un altro onorevole, il moderatissimo Giuseppe De Mita dell’Udc, se la prendeva con il fatto che “ogni ragionevole osservazione sulla introduzione delle preferenze, di una soglia unica, della possibilità di un vero doppio turno viene platealmente ignorata; noi faremo questa battaglia fino in fondo anche al Senato”. Già, il Senato. È lì che molte questioni subiranno non solo una scossa, ma forse addirittura un terremoto. Il primo scoglio da superare sarà quello rappresentato dalla commissione Affari Costituzionali e da una presidente, Anna Finocchiaro, tutt’altro che disposta a lasciare che l’acqua scorra sulla sua testa senza far niente. Certo, la posta è alta e “so bene - ha detto - su quali equilibri politici si regga la possibilità di un esito positivo della riforma, ma per ottenere questo risultato lavorerò con il massimo equilibrio”. Che vuol dire tutto, ma anche il suo contrario. D’altra parte, per dirla con un salace Ignazio La Russa, “l’Italicum è un accordo tra macellai, Renzi e Berlusconi si sono trovati e il Cavaliere ha detto al premier, ti do un po’ di prosciutto in più; così è nata la soglia al 4,5%”, dunque di che sorprendersi se poi le cose quadrano male. “Questa bozza - sintetizza mirabilmente Pino Pisicchio, capogruppo del Misto alla Camera - è simile al Dracula di Bram Stoker, a venir fuori dalla letteratura dell’orrore, per questo lo chiamiamo vampirellum, per come spreme e butta via le forze che concorrono a costituire il risultato dell’alleanza”. In politica, si dice, tutto alla fine poi si tiene, ma quello che deve temere Renzi è anche - e soprattutto - il fuoco amico. Che se non mostrerà i denti a Montecitorio, poi farà venire fuori tutto il suo splendore a palazzo Madama. Gianni Cuperlo lo ha detto chiaro: “La ragione che ha portato la minoranza del Pd a un atteggiamento di responsabilità non è la rinuncia a miglioramenti successivi su questioni che restano non risolte”. Che è anche un po’ quello che sostiene Angelino Alfano: “Noi siamo chiamati a una scelta - ha detto - facciamo saltare tutto? Ci facciamo orientare dal buon senso... Speriamo che il tema si possa sbloccare al Senato con un ulteriore negoziato”.
“FIN DALL’INIZIO - gli ha fatto eco Quagliariello - il nostro ruolo è stato di correzione e di coesione al tempo stesso, ma pure di evitare che il tentativo di riforma fallisse creando un alibi per il partito dello sfascio e delle elezioni anticipate”. Vietato, però, tirare troppo la corda, altrimenti non ci sarà più solo Grillo a dire che è una legge “pensata per fermare l’M5s con grave silenzio di Napolitano”. Comunque, il fuoco amico contro l’Italicum alla fine potrebbe arrivare da qualunque parte, anche se si dichiara il contrario. Perché, dice Andrea Romano di Sc, “il testo non ci piace su moltissimi punti, ma dobbiamo dare agli italiani qualcosa di migliore del Porcellum”, anche se poi migliore forse non sarà. Vendola, almeno, non cambierà passo, “voteremo contro l’Italicum”, perché “introduce sbarramenti che non esistono in nessuna parte dell’Europa - dice Gennaro Migliore - non prevede il conflitto di interessi, non esprime nessuna certezza, neanche sull’attribuzione dei seggi elettorali stessi; è una legge sbagliata, tra l’altro anche ai limiti della verifica che compete alla Corte Costituzionale”. E ci manca solo quello...

Corriere 9.3.14
Roberto D’Alimonte
«Renzi? Non lo sento. L’Italicum rischia di essere un pasticcio»
di Monica Guerzoni

ROMA —«L’Italicum è il frutto di un compromesso tra Renzi e Berlusconi...». Roberto D’Alimonte nega di essere il «padre» della legge elettorale e sceglie di definirsi «zio». Non che il politologo si sia pentito di aver dato una mano al premier, ma avrebbe preferito un sistema diverso: «Voglio chiarire il mio ruolo. Quando ho collaborato con Renzi, le decisioni fondamentali le hanno prese lui e Berlusconi. Sono loro i veri protagonisti, che fin dall’inizio si sono appoggiati a consigli di altri». Denis Verdini? «È il tecnico elettorale di Berlusconi e il rapporto tra loro è stato molto più stretto di quello, assai più frammentario, tra me e Renzi. Io sono un tecnico-tecnico, il senatore Verdini è un tecnico-politico, il che mi ha impedito di far valere il mio punto di vista sulle parti che non mi piacevano». La imbarazza aver contribuito a resuscitare politicamente l’ex premier? «Io non c’entro nulla, è una responsabilità politica di Renzi — si smarca il professore, “seccato per la sovraesposizione” —. Mi ha chiesto di dare dei pareri e io glieli ho dati. Gli sono servito nella fase più delicata, dopodiché lui adesso ha la Boschi. Renzi non mi cerca e io non lo cerco, sono tornato a fare il mio mestiere». A ottobre D’Alimonte suggerì a Renzi di andare a votare con il Porcellum e resta convinto che sarebbe stata la scelta giusta: «Avrebbe vinto lui. La storia del Paese è cambiata per la sentenza della Consulta, arrivata nel momento sbagliato e sulla quale io sono ultracritico». È vero che fu Napolitano ad affossare l’accordo sul sistema spagnolo? «No — chiarisce D’Alimonte —. Il capo dello Stato non mise alcun veto, si limitò a segnalare garbatamente la preoccupazione che quel sistema fosse troppo distorsivo, nel senso di favorire i grandi partiti e penalizzare i piccoli, quando invece la Consulta chiedeva equilibrio tra rappresentatività e governabilità». Chi fu allora ad affossare lo spagnolo? «Una coalizione di interessi formata dal governo Letta, dalla minoranza del Pd e dai piccoli partiti, a cominciare dall’Ncd di Alfano». Torniamo all’Italicum, professore: «Migliora la situazione, però è il frutto di un compromesso e quindi ha diversi limiti. Consente di conoscere chi ha vinto la sera stessa delle elezioni e il doppio turno è un primo passo importante, su cui Renzi è stato bravissimo a strappare il via libera. Però il premio di maggioranza è troppo basso. Il fatto che chi vince abbia 321 deputati è troppo poco». E la soglia per ottenere il premio? «Berlusconi non si muove dal 37%, perché gli dà la speranza di vincere al primo turno. Ma bisognerebbe portarla al 40». Se si andasse a votare con l’Italicum, Renzi rischierebbe di perdere? «Questo sistema va bene a Berlusconi, ma Renzi rischia solo se perde la sua scommessa di governo. L’unico sistema con cui non può vincere è il proporzionale della Consulta. Ecco perché l’obiettivo assoluto di Renzi, che non è un ingenuo, è modificare quel modello. Ha cercato di tirar fuori da Berlusconi il meglio, forse però si poteva fare qualcosina di più». Lei cos’altro cambierebbe? «Le soglie sono troppe e non mi piacciono gli sconti. Bastava una soglia unica al 4%, come nella legge Mattarella. Su questo punto mi sono battuto e ho perso e così sulle liste fasulle tipo Forza Milan o No Equitalia». E la parità di genere? È d’accordo? «No, il 50 e 50 è una soluzione estrema, che non c’è neppure in Svezia».
Alla Camera la legge dovrebbe farcela, ma il problema è il Senato: «Il rischio che possa saltare c’è. I numeri sono più ballerini e i senatori non si accontenteranno di fare i notai della riforma approvata alla Camera, la vorranno modificare significativamente». Cosa pensa del dimezzamento dell’Italicum? «È un mezzo pasticcio, a cui Renzi è stato costretto pur di portare a casa la riforma. Se non si abolisce il Senato il pastrocchio sarà inenarrabile. La partita è ancora complicatissima». I tacchini non vogliono finire nel piatto a Natale... «Esatto, il problema è che tocca ai senatori dover dichiarare lo scioglimento di Palazzo Madama».

Corriere 9.3.14
Rispunta l’ipotesi di un Berlusconi in lista
E si profila lo scontro a distanza sul numero di preferenze tra Toti e Fitto
di Paola Di Caro

ROMA — Uscite pubbliche sempre più sporadiche, un ostentato basso profilo. A un mese dalla decisione sul suo destino giudiziario — il 10 aprile il Tribunale di Sorveglianza di Milano stabilirà se dovrà scontare gli otto mesi di pena per la condanna Mediaset ai servizi sociali o ai domiciliari — Silvio Berlusconi sarà pure tornato centrale sulla scena politica, ma è sostanzialmente scomparso da quella mediatica.
Lui che negli anni ha sempre indicato ai suoi la linea, anche rovesciando i tavoli, ora appare cauto, incerto, bloccato sul da farsi. Impaurito, sopra tutto. «La verità — ha confessato a più di un amico — è che non posso fare attività politica, non posso schierarmi nettamente su nulla, perché qualunque mossa io facessi, qualsiasi iniziativa prendessi, diventerei il bersaglio da colpire». Il suo destino, si lamenta il Cavaliere, non è più nelle sue mani ma «in quelle dei giudici», che potrebbero togliergli completamente l’agibilità politica e, teme, distruggerlo.
È anche per questo, spiega chi gli ha parlato, che in questa fase Berlusconi non vuole forzare la mano su nulla. Dopo quello che è stato considerato dai suoi «un brutto scivolone che potrebbe costargli caro» — il video ripreso con cellulare da uno dei suoi ospiti a palazzo Grazioli nel quale si lamenta della «mafia dei giudici» che deciderà sulla sua pena —, il Cavaliere sembra essersi ammutolito ancor di più. Aumentando la preoccupazione di un partito che teme l’imminente assenza del leader e il vuoto di potere che rischia di crearsi.
Nulla infatti è stato ancora deciso su chi prenderà le redini di Forza Italia nei prossimi mesi, anche se la previsione è che «magari il 10 sera, all’ultimo minuto utile», verrà varato un ufficio di presidenza con i fedelissimi tutti dentro e una nutrita presenza, a sua garanzia, di uomini vicini e graditi alla famiglia e all’azienda.
Nulla è stato stabilito anche in vista delle elezioni Europee, passaggio fondamentale per capire la tenuta del partito che per la prima volta sconterà l’assenza del capo nelle liste e, presumibilmente, anche nella campagna elettorale. Tanto che comincia a farsi strada nei discorsi degli azzurri di peso anche l’ipotesi di una candidatura eccellente: per non perdere il traino del nome Berlusconi sulla scheda, per dare il senso della continuità, in attesa che alle Politiche sbarchi magari Marina come extrema ratio , si ragiona sull’idea che un altro figlio — forse Barbara, forse Pier Silvio — possa presentarsi in Europa. Strada molto impervia, ma non del tutto da escludere.
Intanto sul territorio il tentativo di reggere all’urto c’è: ieri si è aperta con la coordinatrice Gelmini e con Giovanni Toti la campagna elettorale lombarda, a Pavia si è celebrata la ricandidatura a sindaco di Alessandro Cattaneo (che ha ricevuto gli auguri telefonici del Cavaliere), mentre a Sud si muove molto Raffaele Fitto. Ma quella che sembra mancare è una regia complessiva con parole d’ordine chiare. Non a caso, proprio in vista delle Europee si potrebbe profilare uno «scontro» a distanza tra due uomini forti come Toti e Fitto: il primo sarà certamente candidato come capolista nel Nord-Ovest, il secondo sta pensando di presentarsi al Sud (e anche Brunetta e Rotondi non escludono proprie candidature). L’obiettivo dichiarato è raccogliere più voti possibili in assenza del Cavaliere, ma il rischio è che alla fine dal conteggio emergano gerarchie problematiche: è possibile infatti che un politico di esperienza e radicamento come Fitto raccolga più voti personali che l’uomo nuovo Toti, che al Nord (dove il voto di preferenza è più l’eccezione che la regola) è atteso a un test difficile. Deciderà Berlusconi, quando e come si vedrà.

Repubblica 9.3.14
Quote rosa
Agostini, la deputata che ha presentato gli emendamenti da cui è partita l’offensiva
“Non è una battaglia di parte ma una rivoluzione culturale”
di G. C.

ROMA - Uno spiraglio c’è. La parità nella nuova legge elettorale potrebbe passare con l’ok all’emendamento che prevede un rapporto di 60% uomini e 40% donne capolista. È il compromesso di cui si sta discutendo. Lorenzo Guerini per il Pd e Denis Verdini per conto di Berlusconi sono gli ufficiali di collegamento dei due schieramenti. Alfano ha fatto sapere che ci sta. Ma di strada ancora ce n’è tanta, e tutto si deve chiudere entro le 9,30 di domani, quando a Montecitorio è convocato il comitato ristretto della commissione poco prima dell’aula. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi - che ieri si è dedicata soprattutto ad abbozzare il disegno di legge per l’abolizione del Senato - getta acqua sul fuoco: «Sulla parità proveremo a migliorare la legge ma ci deve essere l’ok di tutti».
Niente fughe in avanti insomma nel Pd, nonostante il pressing delle deputate sia fortissimo e bipartisan. Anche i presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso incalzano sulle norme paritarie. Forza Italia è divisa e soprattutto i manovratori della macchina forzista, cioè Verdini e Renato Brunetta sono riluttanti. Ma Giovanni Toti, il consigliere politico di Berlusconi, apre al dialogo: «Non abbiamo bisogno di lezioni da parte di nessuno sulla parità di genere. Comunque Forza Italia non è contraria a priori».
Il premier Renzi è preoccupato. Con i collaboratori si è sfogato: «Ho fatto la parità da presidente della Provincia, da sindaco, da segretario, da premier. Qualcuno ha da dirmi qualcosa su questo?». Non ci sta il capo del governo a diventare bersaglio del pressing per le quote rosa. «Io sono pronto a votare un emendamento - chiarisce - sia sul 60-40, sia sul 50-50, tanto noi del Pd faremo comunque liste fifty fifty ». Però il timore vero è che ci sia un uso strumentale della questione. Renzi infatti avverte: «L’argomento della parità non può essere usato per fare saltare la riforma elettorale. Non posso mettere le dita negli occhi di Forza Italia, che ne sta discutendo... ». Ha anche il sospetto che «qualcuno stia forzando per provare a rimettere tutto in discussione alla vigilia dell’approvazione. Faccio notare che non esiste in nessun paese del mondo una norma del genere. E che il mio è il quinto governo in tutto il mondo in cui c’è la parità di genere ». Debora Serracchiani, “governatrice” del Friuli e probabile portavoce della segreteria dem nel nuovo organigramma, osserva: «Il tema della parità riguarda la sfida culturale dell’uguaglianza, ma ci vuole l’accordo delle altre forze per condurre in porto questa battaglia nella legge elettorale. Il Pd ha le idee chiare e le norme interne adeguate».
La partita dell’Italicum è assai complessa, legata alla trasformazione del Senato in Camera delle autonomie, poiché la nuova legge elettorale varrà solo per la Camera. Gaetano Quagliariello, il coordinatore degli alfaniani, annuncia che a Palazzo Madama riprenderà la lotta per ottenere le preferenze: «Noi sulla legge elettorale abbiamo dimostrato tutta la responsabilità possibile, ma non possiamo mettere da parte le nostre battaglie in nome di un accordo a due stretto all'ora del caffè in una piazzetta romana. Per questo anche al Senato continueremo a batterci perché il prossimo non sia un Parlamento di nominati e perché gli elettori possano scegliere i propri rappresentanti». Per Berlusconi è un punto che non si tocca né ora né poi: devono restare le liste corte e bloccate.
Di nodi ancora da sciogliere ce ne sono tanti. Non è stato ancora ritirato l’emendamento sulle primarie obbligatorie presentato da Marco Meloni, democratico. Il presidente della commissione Affari costituzionali, Francesco Paolo Sisto è scettico su accordi in vista: «Non vedo segnali di fumo...». Dal punto di vista costituzionale - sottolinea - la parità che si vuole introdurre nell’Italicum è «una follia, da garantire è la parità di accesso, non di elezione». Scelta civica poi chiede un vertice di maggioranza. Stefania Giannini, leader dei montiani e ministro della Pubblica Istruzione, rilancia l’appello a Renzi: «Bene il Pd, se si interviene sulla parità di genere, ma ci sono anche altri punti. Chiediamo un incontro di maggioranza nel passaggio della legge elettorale tra la Camera e il Senato. È giusto che il Parlamento faccia la sua parte».

Corriere 9.3.14
Donne e giovani al posto delle ideologie
di Mauro Magatti

Dopo la questione generazionale - simbolizzata dall’ascesa di Renzi che, cavalcando l’idea della rottamazione, ha rapidamente scalato la politica italiana - ecco emergere quella di genere. Con la battaglia sulle quote rosa nelle liste elettorali sono adesso le parlamentari a rendere manifesto ciò di cui sono convinte molte donne italiane: è venuto il momento di coalizzarsi per ottenere quello che l’immobilismo della società italiana impedisce di raggiungere.
Non più operai e artigiani, garantiti e precari, ma giovani e donne: sono dunque demografiche le dimensioni attorno alle quali, nell’Italia contemporanea, si strutturano il discorso politico e la trasformazione sociale. Finite le ideologie, la frammentazione sociale rende difficile trovare punti di aggregazione: il genere, l’età - come altrove o in altri momenti sono stati o possono essere il territorio, la razza o la religione - diventano il coagulo del malcontento e la benzina del cambiamento. Che occorre saper interpretare.Da un lato ci sono i giovani, che stanno pagando in misura sproporzionata il costo del declino della società italiana. I tassi di disoccupazione che sfiorano il 40% , l’espatrio forzoso di decine di migliaia di laureati, i due milioni di ragazzi che non lavorano e non studiano, raccontano di una generazione che bussa e che trova la porta sistematicamente chiusa. Una situazione insopportabile che spinge ormai tanti a smettere persino di bussare.
Vista dal lato delle donne, la situazione non è migliore. L’Italia ha una presenza femminile nel mondo del lavoro non solo quantitativamente più bassa rispetto a quello che accade negli altri Paesi avanzati (con un tasso di occupazione in calo e oggi pari al 46% siamo tra i fanalini di coda in Europa) ma anche qualitativamente discriminatoria: come dimostrano i differenziali salariali a parità di posizione professionale (-15% per le donne) o la distribuzione delle posizioni dirigenziali (dove le donne sono poco più del 10%). Nonostante che, nella popolazione con meno di quarant’anni, rappresentino la parte più istruita, le donne fanno una gran fatica a essere riconosciute per quello che valgono. Così che la «meglio gioventù» dell’Italia contemporanea - in larga parta costituita proprio dalle giovani donne - quella di cui abbiamo più bisogno per risollevarci, rischia di rimanere in panchina, o emigrare.
Si obietterà che questo in Italia è sempre avvenuto. E ciò è senz’altro vero. Ma il problema sta nella mutata condizione storica: oggi i Paesi che riescono a essere più dinamici sono esattamente quelli in cui si è capito che i giovani e le donne costituiscono due gruppi sociali attraverso cui il cambiamento si realizza più facilmente.I primi sono naturalmente portati all’innovazione. Soprattutto in un' epoca come quella cui viviamo, nella quale assistiamo a continui salti tecnologici. Sappiamo tutti che gli imprenditori più innovativi degli ultimi vent’anni sono per lo più giovanissimi capaci di intuire le nuove possibilità messe a disposizione dalle tecnologie digitali e orientarne le direzioni di sviluppo sulla base della sensibilità ai bisogni sociali inespressi.
In maniera diversa, anche le donne sono sempre più spesso le protagoniste del cambiamento di un mondo avanzato che ha sete di diversità. Si potrebbe dire così: il fatto che siano proprio i giovani e le donne a pagare i costi più alti della crisi è la prova provata del ritardo italiano: bloccando i canali della mobilità sociale, impedendo ai giovani di provare di che cosa sono capaci, umiliando le donne dentro stereotipi del passato, l’Italia dimostra di non aver capito che la sfida da affrontare è quella di creare una società aperta e dinamica. Per questo, non va vista come una stravaganza il fatto che siano proprio il ricambio generazionale e la questione di genere a dettare in questi mesi l’agenda delle politica italiana.Come sempre, occorre poi avere l’intelligenza di cogliere il punto: non è l’essere giovani né l’essere donna a garantire la qualità delle persone né l’efficacia dell’azione.
Il problema è semmai quello di creare assetti sociali in grado di trovare un equilibrio tra la creatività dei giovani e l’esperienza dei più anziani; tra la promozione delle donne nel mondo del lavoro e delle professioni e la protezione di quel nucleo prezioso per la società che è la famiglia; tra la necessità dell’apertura, della velocità, della innovazione e la sapienza della custodia, della lentezza, della tradizione.
Ma della natura di questi equilibri speriamo di poter parlare nei prossimi anni, una volta che, grazie al contributo delle donne e di giovani italiani, saremo tutti insieme riusciti a sbloccare la situazione, portando il nostro Paese fuori dal grave declino in cui versa.

Repubblica 9.3.14
Landini al premier: patto per lo sviluppo
“Caro Matteo, ti offriamo un patto cambia l’Italia insieme agli operai”
Lettera del leader Fiom Landini al premier: democrazia a rischio
di Maurizio Landini

È a partire da questa situazione che Lei ha più volte sottolineato la necessità di una svolta politica, indicando nell’urgenza la principale delle motivazioni che l’hanno spinta ad accettare l’incarico di formare un nuovo Governo, rinunciando persino a fondarlo sulla legittimazione elettorale, come sarebbe più opportuno fare.
Nel nome della stessa urgenza abbiamo ascoltato da parte sua l’annuncio di un calendario d’interventi che ha messo il lavoro ai primi posti dell’agenda del nuovo esecutivo.
Noi che nel mondo del lavoro cerchiamo di rappresentare i bisogni e gli interessi di milioni di donne e uomini vogliamo portare il nostro contributo per affrontare la drammaticità della situazione sociale che segna oggi grande parte del Paese.
La democrazia è a rischio nel nostro Paese se non si combatte la disoccupazione e la precarietà.
E quando si è poveri anche lavorando, vuol dire che è il momento della giustizia sociale e che bisogna redistribuire ricchezza verso i redditi più bassi e verso le fasce più deboli della società.
ALTOLÀ ALL’EUROPA. Crediamo che oltre a rivedere e rinegoziare i vincoli europei per uscire dalla logica dell’austerità, per il lavoro sia prioritario partire dalla difesa e dalla valorizzazione dell’occupazione che già c’è per arrivare a crearne di nuova. Per puntare a questi obiettivi sono essenziali politiche attive del lavoro a iniziare da un piano straordinario di investimenti pubblici e privati, da una politica industriale che individui e intervenga sui settori strategici del Paese, che non disperda ma anzi valorizzi il nostro patrimonio di conoscenze e professionalità, sapendo che particolare attenzione debba essere riservata a quei settori e quei territori - la manifattura e il Mezzogiorno - che hanno pagato il prezzo più alto della crisi, ma che possono essere il cuore di una ripartenza comune.
E’ con questo spirito che, a partire dalla nostra esperienza e dalle nostre conoscenze, Le proponiamo una serie di indirizzi per uscire dalla crisi e dal ristagno. Si tratta di scelte e interventi tesi a innovare la produzione industriale e l’economia del Paese, riprogettare gli stessi prodotti e i loro cicli di vita indirizzandoci verso un’economia di beni durevoli e ambientalmente sostenibili, con un’opportunità di sviluppo qualificato dell’occupazione, di sicurezza sul lavoro (sono ancora più di 1000 i morti ogni anno nei luoghi di lavoro) e di miglioramento della qualità della vita di tutti.
PIENA OCCUPAZIONE. Anche per quanto riguarda le politiche sociali del lavoro crediamo sia necessaria una svolta rispetto alle scelte degli ultimi anni, riproponendo gli obiettivi della piena occupazione e del diritto a redditi dignitosi. E anche su questo - in attesa di conoscere meglio le indicazioni contentate nel vostro Jobs Act - ci permettiamo di sottoporLe sinteticamente il nostro punto di vista, le nostre indicazioni, un nostro “piano per il lavoro”.
Secondo noi, sono da evitare interventi a pioggia. Bisogna individuare delle priorità. Ad esempio, ogni euro pubblico a favore delle imprese deve essere vincolato a quanti posti di lavoro si difendono e si creano. Vanno resi possibili forme di credito e di finanziamento agli investimenti a tassi agevolati per le piccole e medie imprese, incentivando la costituzione di reti d’impresa. Non serve a nulla una riduzione generalizzata e non selettiva del cuneo fiscale. Per una ripresa dei consumi la tassazione va ridotta a partire da una riduzione dell’Irpef sui redditi da lavoro più bassi e ripristinando una vera tassazione progressiva. In particolare sarebbe necessario: incentivare la riduzione e la redistribuzione degli orari di lavoro; ridurre l’età pensionabile e ripristinare le pensioni di anzianità (perché i lavori non sono tutti uguali e vanno tutelate maggiormente le mansioni più disagiate); riformare gli ammortizzatori sociali per estendere la cassa integrazione ordinaria e straordinaria a tutti i lavoratori e a tutte le imprese di ogni settore e dimensione; disoccupazione, precarietà, abbandono universitario e scolastico richiedono di introdurre anche in Italia forme di un reddito minimo universale; ridurre il numero oggi decisamente eccessivo delle tipologie contrattuali; cancellare l’articolo 8 della legge 148 del 2011, con cui si è permesso di derogare ai contratti nazionali. Varare una legge sulla rappresentanza coerente con la recente sentenza della Corte costituzionale, per certificare il peso reale di ogni organizzazione sindacale, garantendo il diritto alle lavoratrici ed ai lavoratori di scegliere e votare il sindacato che vogliono e approvare sempre le piattaforme e gli accordi che li riguardano tramite referendum.
TASSARE LE RENDITE. Per finanziare questi piani straordinari e questi interventi legislativi è naturalmente necessario un consistente recupero di risorse che può essere raggiunto con misure straordinarie, in sintonia con la gravità della situazione: dal rientro dei capitali all’estero alla lotta all’evasione fiscale, dalla tassazione delle rendite finanziarie all’istituzione di una patrimoniale, dal privilegiare la riduzione del peso fiscale per chi investe in Italia e reinveste gli utili anziché distribuirli agli azionisti, al rendere possibile per i fondi pensione dei lavoratori dipendenti un accordo con lo stato che garantendo il loro rendimento, permetta di usare parte di quelle risorse a sostegno di una politica d’investimenti per la ricerca, l’innovazione e l’ammodernamento del nostro sistema industriale ed infrastrutturale piuttosto che, come avviene oggi, nella finanza internazionale.
Ci permettiamo di indicare la necessità di un vero coordinamento della Presidenza del Consiglio nell’azione del Governo e quindi tra i vari Ministeri, che fino ad ora troppe volte non abbiamo registrato.
BASTA ASPETTARE. Siamo coscienti, signor Presidente, quanto impegnativo e ambizioso sia l’insieme delle scelte che qui Le abbiamo sommariamente esposto, consapevoli che ci sono una serie di emergenze in corso a cui dare risposte (cassa in deroga ed esodati); ma è a partire dalla realtà che ogni giorno tocchiamo con mano che siamo convinti della loro necessità e di una strategia che renda coerente i singoli provvedimenti e ricrei una fiducia che oggi non c’è. E, se lo riterrà utile, siamo pronti a chiarirne il senso e la realizzabilità direttamente con Lei e con i Ministri competenti. Il 21 marzo organizzeremo a Roma una grande assemblea di delegate e delegati metalmeccanici per discutere e valutare l’evoluzione della situazione e decidere tutte le iniziative necessarie.
Non possiamo più aspettare, questo Paese va cambiato ed il lavoro é l’unico vero motore di un cambiamento che estenda la giustizia sociale e la democrazia, intesa come partecipazione e dignità.

Corriere 9.3.14
Lista Tsipras lascia la testimone anti-mafia

È durata poche ore la candidatura nella lista Tsipras di Valeria Grasso, imprenditrice anti-racket palermitana. «Mi tiro fuori — ha scritto ieri in un comunicato — da un contesto che, per i suoi estremismi e per le pretestuose polemiche, non mi rappresenta».
La presenza dell’imprenditrice nelle liste siciliane del cartello di sinistra per le Europee era stata subito oggetto di critiche. Alla donna, che è testimone di giustizia contro le cosche, è stato rimproverato un rapporto con la destra di Fratelli d’Italia. Nel novembre scorso Valeria Grasso aveva partecipato a un convegno organizzato a Roma dal partito di Giorgia Meloni e Ignazio La Russa dicendo, tra le altre cose, dal palco: «Sono orgogliosa che presto si parlerà di una nuova antimafia di destra». Il segretario di Rifondazione comunista Ferrero, appena appreso della sua candidatura, aveva parlato «di un errore da correggere». Ma Valeria Grasso ha scelto di farsi da parte prima: «Non ho alcun trascorso da ‘militante’ né a sinistra, né a destra. Ritengo che la lotta alla mafia non debba avere colore e non sia esclusiva di alcuno». La donna era titolare di una palestra nel quartiere San Lorenzo quando rifiutò di pagare il pizzo denunciando alcuni esponenti del clan Madonia. Nella lettera in cui rinuncia alla candidatura racconta di un tentativo «via mail» di Barbara Spinelli, una delle «garanti» della lista Tsipras, per farle cambiare idea: «Sarebbe stata opportuna — conclude — una presa di posizione pubblica , ma non è avvenuto. Pensavo fosse un progetto serio, ma mi sto ricredendo».

Corriere 9.3.14
Il vuoto della sinistra italiana? La lista Tsipras non lo riempirà
di Paolo Franchi

Magari sarà per via di una  maledizione. Ma, da noi, anche le cose (potenzialmente) serie prendono, prima ancora di venire alla luce, un aspetto tragicomico. E faticano assai a emanciparsene. La sinistra, non c’è che dire, almeno in questo campo eccelle. Una volta, non moltissimo tempo fa, ce n’erano (o si diceva che ce ne fossero) almeno due, la prima, maggioritaria, ormai conquistata al riformismo e alla socialdemocrazia, la seconda, minoritaria ma consistente, di ispirazione radicale se non addirittura antagonista: il problema, o almeno così sembrava, era stabilire se dovessero scannarsi, come da tradizione, o piuttosto cercare un (difficile, complicatissimo) modus vivendi . È andata come è andata. Anche se, per uno di quei paradossi di cui la storia è affollata, il meno «socialista» dei leader del Pd, Matteo Renzi, ha portato a compimento, tra gli applausi del Gotha delle socialdemocrazie continentali, la lunga (e penosa) marcia di avvicinamento al Partito del socialismo europeo, in Italia la sinistra, meglio, le sinistre politiche non ci sono più. Come se, seppure in ritardo, se le fosse definitivamente portate via il Novecento. Con tutta la loro storia, i loro domani che cantano, le loro bandiere, le loro guerre intestine. E senza che nessuno abbia tentato di elaborare il lutto.
Non è una buona notizia. A guardar bene, nemmeno per chi di sinistra non è mai stato. Ma in primo luogo per quel vasto e variegato mondo che, a diverso titolo, di sinistra lo è ancora, o comunque di sinistra si sente: un popolo senza terra, con un grande avvenire dietro le spalle, esposto alla tentazione (o qualcosa di più) di disertare le urne, o di dare ascolto alle sirene dei populismi di vecchio e nuovo conio, o di regredire, con il dilagare della crisi sociale, a un primitivismo estremistico di cui da tempo immemorabile (anche per merito dei deprecati partiti della sinistra storica e del sindacalismo confederale) sembrava definitivamente emancipato. Si può ben comprendere come e perché simili rischi non turbino troppo, per motivi culturali e generazionali prima ancora che politici, la nouvelle vague renziana, e probabilmente nemmeno la gran parte dei quasi due milioni di cittadini che hanno incoronato Renzi segretario del Pd e (di fatto) presidente del Consiglio. Ciò non toglie, però, che ci siano, e che le imminenti elezioni europee possano costituire, per molti motivi, l’occasione per renderli ancora più seri ed evidenti. Perché, a differenza del passato, questo voto non sarà solo una specie di maxisondaggio sugli orientamenti dei vari elettorati nazionali, ma ci dirà pure se tra l’Europa e i suoi popoli c’è solo una crisi di fiducia o qualcosa di ben più grave e profondo.
Ogni ragionamento sulla lista Tsipras non può che partire da qui. Dal vuoto di sinistra in Italia e, assieme, dal vuoto di politica in Europa. Di un cartello elettorale di quel che resta delle sigle della sinistra radicale, arricchito, come è d’uso, da significative presenze «sul territorio», non si sente davvero la necessità; nemmeno se a farsene garante c’è un nutrito, rispettabile gruppo di intellettuali, molti dei quali (curiosamente, fastidiosamente) annunciano sin d’ora che si candideranno, sì, ma poi, se saranno eletti, non avranno né il tempo né la voglia né la resistenza fisica per fare i parlamentari europei. Tanto meno si avverte il bisogno dell’ennesima riedizione, a mo’ di piccolo mondo antico, delle beghe a sinistra di sempre, puntualmente ricostruita, sul Corriere , da Pierluigi Battista; neanche se stavolta i litiganti pagano il loro dazio al politically correct (o al prontuario giustizialista del grillismo) e si dividono pure sulla candidabilità o meno di personaggi che hanno avuto (per reati di piazza) i loro guai con la giustizia, dimenticando che, a seguire questi criteri, nel dopoguerra non si sarebbe potuto candidare Pietro Nenni, e magari qualche problema oggi lo avrebbe lo stesso Alexis Tsipras. Che ha più o meno la stessa età di Renzi, e nella Grecia della terribile crisi e della grande coalizione tra conservatori e socialisti guida con notevole fervore, ma anche con notevole accortezza politica, una forza di opposizione, Syriza, indicata da tutti i sondaggi come il primo partito. Per un soggetto politico che provi a dare voce e peso a quel tanto che di sinistra rimane, che stia in campo non contro l’europeismo e l’Europa, al pari dei populismi di destra o dei comunisti greci, ma in nome di un altro europeismo e di un’altra Europa, invece, forse c’è (ci sarebbe) uno spazio significativo e politicamente utile. Per tutti i motivi sopra sommariamente ricordati, e anche perché la sua presenza, il suo fiato sul collo, farebbe bene al Pd, costringendolo a uscire dal vago, a entrare nel merito di dilemmi puntuti sui quali fin qui ha trovato più conveniente glissare, a stabilire come meglio orientare la bussola delle sue alleanze future. Ma i soggetti politici non nascono solo dalla necessità di dare rappresentanza a un’area prima che imploda. Servono, se non dettagliati programmi, una lettura forte della crisi, alcune idee forza (magari un po’ più ricche di «No austerity, no Trojka»), e una prospettiva d’avvenire. E servono leader capaci di interpretarle. La loro mancanza non si avverte solo a sinistra, per carità. Però a sinistra è particolarmente vistosa. Non da oggi.

il Fatto 9.3.14
8 Marzo rosso sangue: uccise 3 donne
Femminicidio infinito, dall’inizio del 2014 già 15 vittime. Napolitano attacca il web: “veicola insulti e minacce”
di Alessio Schiesari

Tre donne uccise nel giro di poche ore, due ieri, il giorno della festa della donna, l’altra nella notte tra giovedì e venerdì. Tutti gli omicidi hanno un tratto in comune: l’assassino è il compagno della vittima. Un coltello e una donna assassinata: impossibile non pensare a Psycho di Alfred Hitchcock. Per una beffarda coincidenza, una delle donne accoltellate ieri è stata uccisa mentre lavorava in un bar che porta quel nome, anche se storpiato: Psyco cafè. Assunta Cigliano, questo il suo nome, è stata assalita dall’ex convivente, Francesco Albano, proprio mentre si trovava dietro al bancone del locale, nel centro di Vigevano. Subito dopo l’omicidio l’uomo è andato a costituirsi. “Ero geloso”, ha spiegato. Albano, 71 anni, sospettava che l’ex compagna, di 28 anni più giovane, avesse una nuova relazione . I due continuavano a gestire insieme il bar, ma litigavano di continuo. Il secondo omicidio che ha macchiato di sangue l’8 marzo è avvenuto a Gualdo Tadino, nel perugino. Una donna rumena, Ofelia Bontoiu, è stata accoltellata in un affittacamere dal compagno. Secondo il cugino della ragazza, che si trovava fuori dall’albergo, l’assassino avrebbe poi filmato il cadavere e mandato il video alla sorella. L’uomo ha provato a togliersi la vita, ma non è in pericolo. Il terzo omicidio - avvenuto a Giglio di Veroli, in provincia di Frosinone - affonda le sue radici in un rapporto violento di lungo corso. La vittima, Silvana Spaziani, aveva denunciato gli abusi del marito già tre volte. Non è bastato: nella notte tra giovedì e venerdì Sebastiano Fedele, un operaio edile 44enne, l’ha prima colpita ripetutamente con una spranga di ferro, poi l’ha gettata giù dalle scale. Invece di chiamare il 118, l’uomo si è addormentato e l’ha lasciata morire. La mattina seguente, ha tentato di simulare un incidente, chiamando un’agenzia di pompe funebri. Durante un interrogatorio l’uomo ha però confessato.
Questa striscia di omicidi riaccende l’attenzione sulla violenza di genere: già 15 vittime dall’inizio del 2014. L’anno scorso erano state 177, ben 61 in più rispetto a nove anni prima. Su questo tema è intervenuto ieri Giorgio Napolitano. Ed è stata l’occasione per una critica al web, che molti ieri hanno letto come una frecciata a Beppe Grillo. Pur senza citarlo direttamente, Napolitano, durante il discorso sul femminicidio, ha parlato di “insulti e minacce a sfondo sessuale che vengono veicolati attraverso la rete”. Un probabile riferimento anche alle polemiche tra Grillo e Boldrini, al video pubblicato sul blog in cui si chiedeva: “Che cosa faresti in auto con la Boldrini?”. Per il presidente “la modernità mette a disposizione di persone pericolose e aggressive strumenti inediti”. Napolitano ha incontrato Lucia Annibali, l’avvocato sfregiata con l’acido da un uomo assoldato dal marito: “Mi sento più viva di prima”, ha detto lei tra gli applausi.

Repubblica 9.3.14
In difesa della civiltà
Da Franca a Lucia, quelle donne coraggio che hanno sconfitto l’odio degli uomini
di Michela Marzano

QUELLO di ieri sarà ricordato come un 8 marzo tragico. Tre donne, Assunta, Ofelia e Silvana, sono morte: uccise dal compagno o dal marito.
TRE femminicidi da aggiungere alla lista nera di questi ultimi anni, nonostante le leggi e i decreti. E allora la giornata internazionale della donna che spesso viviamo con obbligo e stanchezza (nonostante le lotte e le conquiste femminili) diventa quello che era: una difesa della civiltà, un modo per attirare lo sguardo sulle reali condizioni di vita delle donne in Italia.
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l’ha spiegato ieri mattina al Quirinale durante la celebrazione della festa, ricordando come la violenza contro le donne sia «una tragedia che colpisce i sentimenti dell’intera nazione ». Finché non si sconfiggeranno il sessismo e le violenze, non si sarà fatto “abbastanza” per le donne. Finché gli uomini continueranno ad ucciderle per gelosia o per vigliaccheria, l’Italia non potrà smettere di essere a lutto. Ieri abbiamo vissuto le due facce dell’Italia: da un lato la barbarie e dall’altro le persone, vere, che contro la barbarie provano a lottare. Ecco perché le donne che sono state insignite delle onorificenze dell’Ordine del Merito sono delle “donne della realtà”. Come Lucia Annibali, l’avvocato di Pesaro sfigurata con l’acido che mostra il suo viso. Come Franca Viola, che ha avuto il coraggio di rifiutare un “matrimonio riparatore”. Donne che forse non tutti conoscono, ma che contribuiscono, giorno dopo giorno, all’integrazione di chi è ai margini della società, alla battaglia per un accesso paritario all’istruzione e al lavoro, alla lotta contro le violenze di genere. E che, soprattutto, mostrano quanto sia necessario battersi per le donne, per la loro dignità, per la loro stessa vita.
Il senso dell’8 marzo di quest’anno è tutto qui ed è il senso del nostro paradosso. Feste e cerimonie, esempi e riconoscimenti, lutto e dolore. Come se la cronaca continuasse inevitabilmente a contraddire le parole. Come se, nonostante gli sforzi che vengono quotidianamente fatti da tante donne per essere riconosciute, rispettate, valorizzate e ricompensate, la realtà continuasse a dire loro che non è vero, che la vita di una donna non ha valore, che la violenza trionfa.
Con un paradosso supplementare. Perché quest’anno, proprio in questi giorni, succede anche altro. In Parlamento si discute dell’alternanza di genere nelle liste elettorali. L’ennesima occasione, per alcuni, di ribadire il rischio che si correrebbe attraverso le “quote rosa” di non valorizzare le competenze, e di preferire la “quantità” alla “qualità”. C’è persino chi insinua che, attraverso l’alternanza di genere, verrebbero premiate soprattutto “le donne più docili”. Peccato che di docilità, tra le elette, ce ne sia ben poca e che Mara Carfagna o Stefania Prestigiacomo, a differenza di alcuni uomini che confondono la lealtà con l’obbedienza, scelgano di portare avanti una posizione non condivisa dal proprio leader.
Nonostante il silenzio assordante di chi, anche grazie alla retorica della parità, occupa oggi posizioni di rilievo, i femminicidi di questo 8 marzo obbligano la politica ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità. Al di là di ogni tatticismo, si tratta di permettere alle donne di riappropriarsi della battaglia sui diritti e di riconoscersi anche come “comunità”. Guardate la foto delle ragazze del Quirinale, ragazze normali ed eccezionali. Loro sono una comunità: la nostra. Per fortuna.

il Fatto 9.3.14
Il post-primarie
Modena, il renzismo finisce in Procura
di Emiliano Liuzzi

Non solo la grande maggioranza di Matteo Renzi è riuscita a perdere in casa, in quella Modena che è città di motori, Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, considerati nel nuovo Pd autorevoli, con una carriera davanti lunga come un'autostrada. Non solo hanno perso col vecchio che avanza, il braccio destro di Vasco Errani, Gian Carlo Muzzarelli, assessore regionale, ala cosiddetta bersaniana dell'Emilia che fu rossa. Non solo. Sono riusciti anche lanciarsi reciproche accuse di brogli, promesse di vendetta, esposti. “Voti comprati nella comunità filippina della città”, dice Francesca Maletti, quella che doveva vincere secondo il partito nuovo e ha perso per 700 voti. Tutto nella culla di una regione che nelle intenzioni di Renzi, tra ministri targati coop, Confindustria e genere vario, è da sempre la testa d'ariete del segretario e presidente del consiglio giovane e rottamatore.
PARTIAMO da prima dell'inizio. Il candidato sindaco naturale sembra essere Bonaccini. A Modena aveva già fatto l'assessore, era finito sotto inchiesta e prosciolto, da lì aveva iniziato la scalata alla segreteria regionale. Poi arriva la chiamata di Matteo: “Stefano, ho bisogno di te, ma a Roma, responsabile degli enti locali della nuova segreteria”. Cerchio magico, insomma. Bonaccini, a quel punto, lascia il posto a un'altra renziana, Maletti, insegnante, iscritta al Pd dal 2007, già assessore, ma come diceva lei “senza una storia di partito alle spalle”. Perfetto. Bene, brava. Bis. Bonaccini si fa da parte. “Avremo comunque un sindaco”. Sulla strada di Maletti però ci si mette Muzzarelli che, in Emilia, non è l'ultimo arrivato. Ha fatto di tutto, da sindaco di paese ad assessore provinciale, due volte consigliere regionale e nel secondo mandato anche assessore alle attività produttive, con ampie deleghe sulla fase post terremoto. Voci di tutto rispetto, ma a vedere lo strapotere di Renzi, che per l'altra candidata esprime pubblicamente indicazione di voto, Muzzarelli sembra sconfitto in partenza. Ma, come nei migliori finali di film a sorpresa, vince.
POTEVA anche passare sotto silenzio l'evento. Se non fosse che Maletti non ci sta. Si sentiva già sindaco e ne spara di tutti i colori. “I sostenitori del mio avversario hanno finanziato sistematicamente il voto dei cittadini extracomunitari munendoli della somma occorrente per votare. Ma non solo. Nelle settimane precedenti al voto hanno pagato dei pranzi. Voglio andare fino in fondo a questa storia, non credo di nuocere al mio partito, ma di rendere un servizio utile. Anche a Muzzarelli stesso, che poi sarà il candidato”. Tra gli esposti, per adesso interni al Pd, Maletti promette di rivolgersi anche alla magistratura che, indipendentemente dalla sua voce, sta già facendo le verifiche.
Muzzarelli e i suoi ovviamente respingono ogni tipo di accusa, aspettano la campagna elettorale che dovrebbe raccontarla in discesa. Dice poco anche Richetti, in tutt'altre faccende impegnato, a Roma. “Non ho parole”. Quello che resta è sicuramente un partito spaccato a metà (Muzzarelli ha vinto con il 48 per cento di voti, la sua avversaria il 42) e una bagarre che poteva essere evitata.

il Fatto 9.3.14
Truffa, corruzione e disastro: le accuse per Big Pharma
Il procuratore Guariniello ipotizza anche l’associazione a delinquere
di Andrea Giambartolomei

I malati potrebbero essere stati danneggiati dal costo più alto del Lucentis e dal blocco di un medicinale economico come l’Avastin. Sarebbe un disastro doloso il reato commesso dai vertici di Novartis e Roche, le case farmaceutiche svizzere che avrebbero stretto un patto per favorire la vendita del Lucentis, un medicinale per curare la maculopatia, malattia che conduce alla cecità. Lo ipotizza il sostituto procuratore di Torino Raffaele Guariniello che ha indagato alcuni manager delle società ipotizzando il reato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, all’aggiotaggio e al disastro colposo. Pure la Procura di Roma mercoledì ha aperto un fascicolo per aggiotaggio e truffa.
Il pm torinese, che guida il pool specializzato nella tutela dei consumatori, ha cominciato l’inchiesta tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 e ha già disposto due consulenze tecniche: una sugli aspetti economici per quantificare il danno e le spese, l’altro sugli aspetti sanitari. Inoltre il 30 dicembre Guariniello ha ricevuto un esposto della Società oftalmo-logica italiana (Soi), la stessa che ha avviato la procedura dell’Antitrust che mercoledì ha sanzionato Roche e Novartis con una multa da 180 milioni di euro per il loro patto segreto. Per la Soi dietro a questo patto potrebbe esserci un caso di corruzione perché “è assai difficile immaginare che le società farmaceutiche siano riuscite a truffare il sistema sanitario italiano senza la fondamentale ‘sponda’ di qualche soggetto operante in Ema e in Aifa, entrambi enti pubblici”, si legge nell’esposto curato dall’avvocato Riccardo Salomone e firmato dal presidente Matteo Piovella.
INSOMMA, SAREBBE impossibile che le autorità del settore non abbiano posto ostacoli a questa pratica che gli oftalmologi denunciano da alcuni anni. Per questa ragione Guariniello ha aperto anche un fascicolo per corruzione, ma al momento non c’è nessuna persona indagata.
I dubbi della Soi sono molti. L’associazione degli oculisti ritiene “oscure” le ragioni per cui l’Aifa abbia escluso l’uso dell’Avastin (in origine un medicinale contro il tumore al colon e al retto) per la maculopatia, soprattutto quando le ricerche e le pubblicazioni scientifiche hanno evidenziato l’assenza di rischi. Il danno alle casse statali - stimato sui 400 milioni all’anno - sarebbe cominciato il 4 dicembre 2008, quando l’Aifa ha inserito il Lucentis nella tipologia di medicinali coperti economicamente dal Sistema sanitario nazionale. Poi nel 2012 l’agenzia limitava l’uso dell’Avastin alla cura del cancro, escludendo la cura alla maculopatia. La Roche, che avrebbe potuto guadagnare di più dalla vendita del suo medicinale, non si è opposta, e per la Soi questa inerzia “appare inspiegabile secondo una normale logica imprenditoriale”.
Differenziando due farmaci che hanno lo stesso risultato nella cura della maculopatia ma costi diversi (circa mille euro il Lucentis, 80 euro l’Avastin), si è creato un danno sia per lo Stato, sia per i malati. Le Regioni e le aziende sanitarie sono state costrette ad acquistare e distribuire il Lucentis. A parità di soldi, quindi, si possono comprare meno dosi di medicinale, limitando così la disponibilità per i pazienti.

La Stampa 9.3.14
“Cinque anni di guerra L’Aifa tuteli i cittadini, non le multinazionali”
intervista Franco Giubilei

Carlo Lusenti, assessore alla sanità della regione Emilia Romagna, il vostro ente ha fatto emergere lo scandalo dei farmaci, ci spiega com’è andata?
«Dal 2009 abbiamo messo in essere delle azioni volte ad utilizzare la lista dei farmaci off label (quelli con le indicazioni per certe patologie che sono però efficaci anche nel trattamento di malanni non elencati nel bugiardino, ndr) predisposta dall’Aifa, che prevedeva l’uso dell’Avastin per la maculopatia degenerativa senile. È un medicinale oncologico, ma poteva essere usato anche per altre indicazioni, purché sulla base di indicazioni scientifiche».
E poi cos’è successo?
«Dopo un anno l’Aifa toglie l’Avastin dalla lista perché nel frattempo era uscito il Lucentis, che però costa più di dieci volte tanto: diciamo oltre 500 euro contro 40-50, secondo il dosaggio. La regione Emilia Romagna allora si oppone, scrive all’Aifa sostenendo che l’efficacia del farmaco è dimostrata dalla letteratura internazionale: insistiamo nella richiesta di utilizzare un farmaco ugualmente efficace ma molto meno costoso. L’Aifa però risponde di no…».
Con quale motivazione?
«Hanno citato l’indicazione per la cura della maculopatia, presente nel foglio illustrativo del Lucentis ma non in quello dell’Avastin. Noi allora abbiamo fatto ricorso al Tar e abbiamo perso, ma il tribunale ha comunque sollevato la questione davanti alla Corte costituzionale, che dovrebbe pronunciarsi il prossimo giugno: valuterà fin dove può spingersi l’autonomia di una Regione in materia di farmaci, in tema di legislazione concorrente. Se la Corte dirà che le regioni possono inserire i farmaci nella lista off label, noi ci metteremo l’Avastin, ma a me sembra una forzatura».
Avete fatto altre pressioni sull’Aifa?
«Abbiamo chiesto di ricontrattare il prezzo del Lucentis, per ridurre il danno, ma ci hanno risposto che non era possibile. Sempre nel 2011 abbiamo sollevato il caso davanti all’Authority per la concorrenza, perché valutasse il problema. Quel ricorso ha prodotto il parere che ha fatto emergere la vicenda».
Può quantificare le conseguenze dell’esclusione dell’Avastis?
«Per trattare i 6 mila pazienti affetti da maculopatia della nostra regione col Lucentis abbiamo dovuto spendere 25,5 milioni di euro in più all’anno, a cominciare dal 2012. Ha idea di quanti medici, infermieri o visite specialistiche si potrebbero pagare con quella cifra? Altro che spending review…».
Chi ha sbagliato di più?
«Sappiamo che le multinazionali del farmaco perseguono il profitto, poi valuterà la magistratura se hanno violato le regole. Quanto a chi regola le politiche del farmaco, cioè l’Aifa, che non è un semplice arbitro, ci vorrebbe una politica di sostegno al Sistema sanitario nazionale, in modo da garantire medicinali sicuri, innovativi e il meno costosi possibili. Anche il ministero della salute e le Regioni dovrebbero presidiare in modo più puntuale queste politiche. Se l’Aifa avesse almeno accettato di ridiscutere il prezzo, che è poi il compito dell’agenzia, le cose sarebbero andate diversamente».

Corriere 9.3.14
Il giorno di Lucia uscita dall’ombra
di Giusi Fasano

Ci sono storie più storie delle altre. Parole che restano incollate alla memoria di chi legge, immagini che diventano patrimonio collettivo. Lucia è di tutto questo un po’. «Un esempio unico di resilienza» per dirla con le parole di Laura Boldrini. Perché, semplicemente mostrandosi, è riuscita a trasformare l’offesa del suo volto sfigurato dall’acido nella più grande opportunità della sua vita. Non è stato facile scegliere di uscire dall’ombra. Ci ha pensato per mesi prima di raccontare di sé e della sera del 16 aprile, quando un uomo incappucciato le lanciò un barattolo di acido in faccia. E ci sono voluti altri mesi ancora prima di mostrare al mondo il viso deturpato da quell’aggressione. Ecco. Da quel giorno in poi, da quelle fotografie pubblicate per la prima volta sul Corriere, Lucia è diventata l’icona del coraggio che dà coraggio, esempio di forza per tutte le Lucie che verranno. C’è una lunga fila di associazioni, enti, persone che vorrebbero darle un premio, la fermano per stringerle la mano e chiederle di non arrendersi mai, la vogliono come relatrice nei convegni, le chiedono di tenere discorsi ai ragazzi delle scuole superiori, di partecipare a eventi sui diritti di genere. «Ma io non ho fatto niente di speciale» ripete lei, «sono solo me stessa». Lo ha detto a tutti anche ieri, nella sua giornata romana che sembrava tanto quella di un capo di Stato. Alle otto e mezzo colazione improvvisata con Matteo Renzi, poi l’incontro con Giorgio Napolitano, l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica in una sala che aveva occhi soltanto per lei, un saluto a varie ministre e al presidente del Senato e infine un pranzo privato con la presidente della Camera. Un tavolo per pochi e un paio d’ore per discutere di tutto, dalla certezza della pena al sessismo, dal tacco dodici ai pericoli della Rete. Lucia si guardava attorno come farebbe Alice nel Paese delle meraviglie, stupefatta da tanta attenzione e tanto affetto. «Mi fa un piacere enorme sapere che posso essere un punto di riferimento per altre donne — dice lasciando Montecitorio —. Spero solo di saper essere sempre la Lucia che sono oggi e di non deludere mai nessuno. E’ stata una giornata meravigliosa, non la dimenticherò mai».

La Stampa 9.3.14
Così sono sfumati 200 milioni per Pompei
di Mattia Feltri

Nel 2011 i francesi erano pronti a investirli per salvare il sito archeologico. Ma chiedevano controlli anti camorra sugli appalti. L’Italia non fornì garanzie. Ora si pensa a una fondazione internazionale
«Pecunia non olet», disse l’imperatore Vespasiano al figlio Tito, che gli rimproverava l’intenzione di tassare l’urina raccolta dalle latrine. La pipì puzza, disse Tito. Il denaro no, fu la risposta, e ci sono voluti poco meno di duemila anni perché una massima tanto apprezzata trovasse disprezzo nella spiantata Italia della crisi. All’inizio del 2011 il più grande consorzio francese di multinazionali, Epadesa della Défense, offrì circa duecento milioni di euro al restauro di Pompei, e dopo un anno e mezzo di tribolazioni non se ne fece nulla. La storia si affacciò sui nostri quotidiani e come arrivò sparì, fra stupore e un po’ di indignazione. 
È una vicenda nota, nel mondo della cultura, e controversa tranne che nelle origini. Nel 2011, Patrizia Nitti, direttrice italo-francese del Musée Maillol a Parigi, Rue de Grenelle, specializzato in cultura italiana, sta allestendo una mostra su Pompei. È lì che le viene in mente di chiamare una cara amica, Joëlle Ceccaldi-Raynauld, presidente del consiglio di amministrazione di Epadesa e parlamentare. Le avanza una proposta: avvalersi della legge francese sulla defiscalizzazione (pro mecenatismo) e contribuire alla cura del più grande sito archeologico del mondo. 

Si tratta - detta in maniera grossolana chiara - di girare parte dell’imponibile dall’erario a Pompei. Joëlle chiede qualche giorno. E settantadue ore dopo dice sì, sono tutti entusiasti. In particolare lo è Philippe Chaix, direttore generale di Epadesa. Oggi Patrizia Nitti ci dà il preambolo: «Il presidente di Epadesa qui vale quanto un ministro. Quando si muove, gli srotolano il tappeto rosso». Stavolta non succede. È Ceccaldi-Raynauld che deve andare a Roma, al ministero dei Beni culturali. Il ministro è Giancarlo Galan, che ha appena preso il posto di Sandro Bondi. Ceccaldi-Raynauld (accompagnata da Patrizia Nitti e dalla senatrice del Pdl, Diana De Feo, ambasciatrice in Italia dell’intervento) si incontra con Mario Resca, ex McDonald’s, direttore generale del ministero, e illustra il progetto: venti milioni di euro all’anno, a crescere, per dieci anni. Nemmeno il Superenalotto.

«Conosco Pompei, ci ho lavorato quattro anni. Quattro anni piuttosto complicati. Ero autrice e relatrice del progetto, anche per via della lingua», racconta oggi Patrizia Nitti. Dice che da subito ci furono «difficoltà di comprensione. Non riuscivo a rendere la portata di Epadesa. Sentivo della diffidenza». Forse contribuirono le lotte di competenze, le gelosie e gli interessi che da sempre agitano il Mibac. I contatti proseguono ma così macchinosi che Epadesa decide di coinvolgere l’Unesco: nel giugno del 2011 viene informata del piano di finanziamento la direttrice generale Irina Bokova. E alla fine di novembre, nella sede parigina dell’Unesco, davanti al direttore per la Cultura, Francesco Bandarin, i rappresentanti di Epadesa e del ministero devono firmare il protocollo. Da pochi giorni a Palazzo Chigi c’è Mario Monti, al Mibac è andato Lorenzo Ornaghi. Ma a Parigi, da Roma, non arriva nessuno.

L’altro atto ufficiale è di quattro mesi più tardi. Joëlle Ceccaldi-Raynauld scrive una lettera a Ornaghi e gli chiede una moratoria. «Mi sembra che nel nostro paese, il periodo attuale non è il migliore per intraprendere degli interventi di sponsorizzazione», scrive fra l’altro. Sta per compiersi la sfida dell’Eliseo fra Nicholas Sarkozy e François Hollande. Dovesse vincere Hollande, come accadrà, Epadesa che è statale sarà sottoposta a spoil system e, in scadenza di mandato, non ci si espone per duecento milioni di euro. Tutto qui? No, c’è ancora qualcosa. Nel giugno del 2012, intervistato dal Mattino, l’ex sottosegretario di Galan, Riccardo Villari, dice: «L’Epadesa aveva offerto duecento milioni per restauri all’interno del sito, ma voleva la certezza che a fare i lavori fossero le imprese del consorzio senza passare per alcuna gara d’appalto. Forse pensavano che con i quattro soldi che ci offrivano si sarebbero potute forzare regole che immaginavano evidentemente flessibili». Notevole: i francesi a lezione di legalità dagli italiani. Purtroppo da Epadesa nessuno parla: nel frattempo sono cambiati i vertici e comunque la questione, dicono, è chiusa. Ad aiutarci è un funzionario dell’Unesco cha chiede l’anonimato: «Il consorzio, per paura della camorra, chiedeva di condividere le gare di appalto, di vietare i subappalti e un presidio di polizia sui cantieri. Non so quanto pesarono le richieste, ma pesarono senz’altro». Oggi Villari aggiunge: «Credo fossero soprattutto terrorizzati dalla burocrazia e dalle guerre infinite dentro il ministero». Fatto sta che i duecento milioni non sono più arrivati.

Fine? Forse no. Philippe Chaix non è più all’Epadesa. Non è stato possibile contattarlo perché in questi giorni è in India. «Non so se la cosa c’entri», dice Patrizia Nitti. C’entri con che? «Philippe mi ha detto che, arrivato alla soglia dei sessant’anni, dopo avere ottenuto onori e guadagni sente l’adrenalina soltanto se ripensa a Pompei. Mi ha detto di aver contattato i suoi maggiori clienti in America, in Cina, in India, e ha già ricevuto numerose disponibilità. Sogna di costituire una fondazione mondiale per Pompei nello spirito della fondazione del Louvre. Potrebbero arrivare soldi, tanti, e un interesse enorme. E adesso a Roma c’è Matteo Renzi». Uno con le orecchie adatte per sentire come suona bene la parola Pompei. 

Corriere 9.3.14
Lo sfregio alla Venere simbolo delle rivendicazioni
di Anna Meldolesi

Una giovane donna entra alla National Gallery di Londra e si ferma davanti all’opera più ammirata. La Venere con lo specchio di Diego Velázquez. Estrae un coltello da macellaio e colpisce il vetro, poi i fendenti si abbattono sulla tela. Prima di essere portata via dice: «Sì, sono una suffragetta».
È accaduto una mattina di cento anni fa, il 10 marzo del 1914. Lei si chiamava Mary Richardson e la sua è stata una delle azioni più clamorose compiute dalle attiviste per il riconoscimento del diritto al voto delle donne. Dopo decenni di iniziative politiche dagli esiti deludenti, alla vigilia della prima guerra mondiale, l’ala dura del movimento guidata da Emmeline Pankhurst ormai sta giocando pesante. La Women’s Social and Political Union lancia pietre contro i palazzi del potere e appicca incendi perché, dice Emmeline, «non è giusto per le donne avere un carattere tiepido, essere incapaci di rabbia divina e subire l’oppressione». Miss Richardson ha già diversi precedenti e spiega così le ragioni dell’ultimo gesto: «Ho tentato di distruggere il dipinto della donna più bella della storia mitologica per protestare contro il governo che sta distruggendo la signora Pankhurst, la più bella figura della storia moderna». La leader delle suffragette entra ed esce dal carcere, dove fa lo sciopero della fame riducendosi in condizioni di salute che ne impongono il rilascio temporaneo, quindi scappa, viene riarrestata e il ciclo ricomincia con un altro digiuno e un altro rilascio. È uno degli espedienti che lei e le altre hanno escogitato per tenere in scacco il governo, che non può lasciarle morire di inedia e ha dovuto abbandonare anche la via dell’alimentazione forzata. Molti anni dopo l’autrice dello sfregio aggiungerà anche un’altra spiegazione: «Non sopportavo come gli uomini stavano a bocca aperta davanti a quel dipinto». Il capolavoro di Velázquez rappresenta uno dei nudi più sensuali della storia dell’arte. La dea dell’amore è ritratta di spalle, sdraiata su un lenzuolo nero che mette in risalto la forma dei glutei e la luce dell’incarnato. Chi la guarda indugia su quel corpo dalla bellezza moderna e stabilisce con lei un contatto visivo grazie al piccolo specchio retto da Cupido, che riflette il volto sfocato della dea. Dipinta per il piacere di un aristocratico libertino nel XVII secolo, l’opera viene esposta al pubblico solo nel 1906, quando parte una campagna di donazioni per scongiurare il rischio che lasci la Gran Bretagna. Contribuisce anche il re ed è così che la Venere diventa insieme un gioiello della corona, una star mediatica, il simbolo dello sguardo maschile sulla bellezza femminile. Un bersaglio perfetto. Dopo il restauro le ferite del quadro sembrano perfettamente guarite ma ne hanno cambiato per sempre il significato. Violare un corpo femminile per protestare contro il trattamento riservato alle donne è un controsenso. Per questo oggi la Venere simboleggia il cortocircuito, sempre caldo, tra nudità esibita ed emancipazione femminile. L’assalto subito ne ha rafforzato lo status di icona imitata in tante foto di nudo con specchio. Soprattutto ne ha fatto la testimone d’eccezione di una grande, ancorché controversa, stagione della storia.

il Fatto 9.3.14
Ucraina, Yarosh, il principe nero che vuole diventare presidente
Crimea, Inviati OCSE respinti dai soldati di Putin
di Roberta Zunini

Kiev. Circondato dalla sua guardia personale formata da una cinquantina di giovani vestiti di nero con il balaklava sul volto e il manganello alla cintola, Dmitro Yarosh - il corpulento quarantenne ex insegnante di lingua ucraina, leader del gruppo nazionalista Pravy Sektor - si è mosso dal suo quartier generale, stabilito presso l’hotel Dnipro nel centro di Kiev, all’hotel Ucraina, in piazza Maidan, trasformato in centro stampa. Yarosh, da quando la Russia lo ha dichiarato di fatto un nemico pubblico e inviato i suoi agenti a stanarlo, si vede ormai raramente in pubblico. Ma la decisione di correre per le presidenziali del 25 maggio meritava il rischio. “Tanta gente - ha detto in conferenza stampa - ci ha scritto e ci ha telefonato per chiederci di entrare in politica e noi non potevamo non ascoltarla”. Questo non significa che Pravy Sektor, da movimento si trasformerà in partito. “Non è il momento - aveva detto al Fatto la settimana scorsa il suo giovane capo ufficio stampa - perché ora abbiamo molti problemi più urgenti da risolvere e tenere d’occhio il nuovo governo”.
UN ESECUTIVO che Yarosh e i suoi 10 mila (almeno), uomini, non riconoscono. “Siamo molto critici nei confronti di coloro che oggi occupano la poltrona di ministro e non riconosciamo Andrei Paruby come segretario del consiglio della difesa e della sicurezza nazionale, ma, quando lo riteniamo opportuno, collaboriamo con Somooborona (le squadre di autodifesa civica, ndr) da lui fondata e comandata”, conclude il portavoce di Yarosh. I paramilitari di Pravy Sektor sono coloro che hanno combattuto in prima linea contro gli agenti antisommossa e i tituska, teppisti armati assoldati dal deposto presidente Yanukovich, e, pertanto, hanno visto molti di loro cadere sotto i colpi dei cecchini. Che, al contrario di quello che si pensava, potrebbero essere stati assoldati non dall’ex presidente ma da quella che, il 20 febbraio - giorno della mattanza in cui morirono circa 70 persone - era ancora l’opposizione. Proprio per diventare maggioranza, sull’onda dell’indignazione pubblica, i tre partiti di opposizione avrebbero ordinato il bagno di sangue. Lo si è appreso qualche giorno fa dopo la diffusione di una telefonata intercettata tra il capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton, e il ministro degli Esteri dell’Estonia, Urmas Paet, che avrebbe saputo di questa ipotesi dalla dottoressa Olga Bogomolez, che però ieri avrebbe nuovamente smentito Paet. La Russia, per questo, ha chiesto all’Osce un’inchiesta.
La tensione rimane altissima in Crimea dove i soldati russi, pur senza mostrine, hanno di nuovo bloccato gli inviati dell’Osce, che tentavano di entrare nella penisola autonoma. Ma questa volta il respingimento è stato molto più aggressivo, con tanto di spari in aria da parte dei soldati russi e dai paramilitari russofoni. Il neoministro degli Esteri ucraino, Andri Deshitsa, ha risposto denunciando la sparatoria e sostenendo l’esigenza della presenza di osservatori internazionali in Crimea, dove il 16 marzo è previsto un referendum per l'annessione a Mosca. L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa ha quindi annunciato che i suoi osservatori tenteranno nuovamente di entrare in Crimea oggi. Intanto è stato evacuato il consolato polacco di Sebastopoli. Lo ha fatto sapere il ministro degli Esteri di Varsavia, Radoslaw Sikorski, sottolineando che tale decisione è stata presa “in modo riluttante, a causa delle continue azioni di disturbo da parte delle forze russe”.
NELLA ZONA EST del Paese, abitata da centinaia di migliaia di cittadini di origine russa e russofoni, ieri ci sono state nuove manifestazioni a favore dell’annessione alla Russia. Attorno alla statua di Lenin, a Kharkiv, si sono radunate circa 5 mila filorussi, soprattutto pensionati, ma anche cittadini russi che hanno valicato il confine distante solo 40 chilometri. Domani a Kiev invece arriverà da Londra l’ex oligarca russo Khodorkovsky , ex amico di Putin, scarcerato tre mesi fa dopo 10 anni di carcere in Siberia per volere dello stesso presidente russo, a causa della sua attività politica. La Russia comunque non ha alcuna intenzione di mollare la presa sulla Crimea e anche sull’est dell’Ucraina. Ne è un’ennesima prova la valutazione da parte di Mosca di sospendere le ispezioni americane agli arsenali nucleari secondo quanto previsto dai trattati di disarmo strategico Start. Fonti del ministero della Difesa russo citate dall’agenzia di stampa Interfax hanno anticipato che le ispezioni richiedono un livello di fiducia che è stato messo in crisi dai “gesti non amichevoli” e “dalle minacce prive di fondamento” provenienti dalla Nato e dagli Stati Uniti.

Corriere 9.3.14
«Se la Siria fosse Londra»
A 6 anni commuove il web È diventato virale il video, lanciato da Save The Children , in cui si mostra la vita normale e felice di una bambina londinese e il suo lento trasformarsi in un incubo, con l’arrivo improvviso e devastante, nella quotidianità della piccola, della guerra. In poco più di 24 ore il filmato è stato visto da oltre tre milioni e mezzo di persone.
«Questo video sta generando un momento collettivo di emozione e forte coinvolgimento sui social media. È uno strumento efficace che ci ricorda che quanto accaduto in Siria potrebbe accadere ovunque e come ognuna delle nostre vite tranquille potrebbe essere devastata dalla guerra e dalla sua inaudita violenza, esattamente come è successo a quella di tanti, troppi bambini siriani e delle loro famiglie», ha commentato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children .
Il conflitto in Siria, iniziato tre anni fa, è costato la vita a oltre 10.000 bambini e ha colpito 9,3 milioni di persone, molte delle quali hanno dovuto chiedere rifugio nei Paesi vicini. Il video è la prima azione di una grande mobilitazione in aiuto dei bambini della Siria.

La Stampa 9.3.14
I Caraibi chiedono i danni
per gli anni del colonialismo
Il precedente: il governo britannico fu costretto a pagare 33 milioni di dollari a 5.228 sopravvissuti delle torture subite durante le rivolte degli anni Cinquanta
di Paolo Mastrolilli
qui

La Stampa 9.3.14
L’inferiorità del maschio
Ecco perché il futuro è donna
di Umberto Veronesi

Come medico delle donne e come sostenitore della scienza al femminile in Europa, credo sarebbe più corretto in futuro discutere di «quote azzurre».

Per prendere posizione oggi nel dibattito sulla parità di genere nella legge elettorale, basterebbe infatti ispirarsi all’equilibrio biologico del Pianeta: l’umanità è composta per metà da donne e per metà da uomini, e dunque la «superiorità» del maschio è una costruzione squisitamente culturale, nata dalle condizioni di vita di secoli fa. O piuttosto una «distorsione», resa necessaria in società in cui la violenza e l’aggressività, tendenze legate al profilo ormonale maschile, avevano una funzione importante perché garantivano l’approvvigionamento del cibo – tramite la caccia e la conquista di territori – e la protezione della prole in comunità dedite principalmente alla guerra. Nelle società moderne tuttavia il quadro è capovolto: la violenza è un handicap, mentre valgono molto di più le capacità di ricomporre i conflitti tramite il dialogo, la comprensione e l’intuizione, che sono prerogative tipicamente femminili. Per questo penso che alle donne andrebbe riconosciuto un ruolo non solo paritario, ma addirittura superiore a quello dell’uomo, perché sono più adatte al mondo di oggi. Da qui la mia provocazione delle «quote azzurre». Ho molto riflettuto sui punti di forza femminili e ne ho raccolti dieci, che ho pubblicato nell’ultimo capitolo del libro «Dell’Amore e del Dolore delle Donne» (Einaudi, 2010). Il primo è di ordine biologico: con la procreazione, la donna ha nelle sue mani la sopravvivenza della specie umana. Senza contare che nei primi mesi di vita, i bambini sono esposti prima di tutto all’influenza materna, dunque il mondo dell’infanzia, che ci determina come adulti, è un mondo femminile. Il secondo è la capacità di unire il ruolo procreativo e materno con quello sociale e lavorativo: una delle conquiste sociali più recenti che non ha ancora espresso tutto il suo potenziale rivoluzionario. Il terzo è la resistenza al dolore e alla fatica. Potrei testimoniare con migliaia di storie, come le donne abbiano una capacità straordinaria di affrontare la malattia e il dolore psicologico e fisico. Il quarto punto precedente è la motivazione. Così come per un motivo superiore (l’amore per i figli o per la vita stessa) una donna sopporta e supera tragedie profondissime, così per l’attaccamento ad una causa o un’idea è una lavoratrice instancabile, intelligente, tenace. Al quarto è legato il quinto punto che è il senso della giustizia. Già oggi metà dei nostri magistrati è donna e la maggior parte di loro si distingue per integrità e fermezza di giudizio. Il sesto punto è la tendenza all’armonia, che è in linea con il senso femminile per l’organizzazione e l’ordine, molto importante nelle attività gestionali. Il settimo è la maggior sensibilità soprattutto in senso artistico e culturale. Dico spesso che al cinema, a teatro, ai concerti, alle mostre troviamo soprattutto donne, mentre gli uomini riempiono gli stadi. L’ottavo è la capacità di ragionamento e concentrazione. Al contrario di ciò che si è detto per secoli, la donna è più adatta alle attività scientifiche e di ricerca. Al Campus di ricerca biomolecolare dell’Istituto Europeo di Oncologia, metà del personale è donna e la produttività è straordinaria. Il nono punto è che le donne decidono meglio e più rapidamente nelle situazioni critiche. Cito ancora il mio campo: quando qualcuno si ammala in famiglia, anziani o bambini, è la donna che prende in mano la situazione. Il decimo, a cui ho già accennato è che la donna è portata alle soluzioni diplomatiche e la fine delle guerre è la condizione imprescindibile per il progresso civile. È ovvio che i punti di forza sono molto più di dieci e basta guardarsi intorno: alle nostre compagne, figlie, madri, colleghe per rendersi conto che, quote a parte, il futuro è donna.

l’Unità 9.3.14
Rivogliamo Machiavelli
Nuova edizione del Principe e intervista a Gennaro Sasso
Realtà e leggenda La visione del segretario fiorentino
era popolare e democratica, e non furbesca, benché immersa in un’Italia lacerata
di Bruno Gravagnuolo

UN CINQUECENTENARIO E LE PIROETTE DELLA POLITICA IN ITALIA RILANCIANO LA FIGURA DI MCHIAVELLI Il cinquecentenario è quello del Principe, la cui stesura lambisce il 1514. Le piroette, non prive di brutalità, sono quelle che hanno portato alla defenestrazione di Letta, con plateale sfiducia dentro il Pd, dopo che il suo rivale aveva a lungo garantito «enricostaisereno ». Ben per questo, molti hanno parlato del fiorentino Renzi, erede dell’altro «segretario». Sicché ci si chiede, la politica è, e resta, esercizio di inganno commisto a forza cieca? Con buona pace dell’«accountability» e dell’opinione pubblica?
E allora cominciamo da due libri che vanno al cuore dell’enigma Machiavelli. Che politica aveva in mente quel fiorentino geniale, per secoli vituperato e frainteso, da suggerire accostamenti come quello di cui sopra? I libri: una serrata intervista di Antonio Gnoli a Gennaro Sasso, tra i massimi machiavellisti mondiali oltre che filosofo teoretico: I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli (Bompiani, pp. 196, Euro 11). E una dotta edizione del Principe per la cura di Gabriele Pedullà e traduzione italiana attuale di Carmine Donzelli, editore del volume ( pp. 347, Euro 30). Testi diversi, ma entrambi con l’ambizione di sfatare luoghi comuni su Machiavelli. Il primo luogo comune, accreditato a lungo dai gesuiti e da machiavellici che predicavano bene e razzolavano male (Federico di Prussia e il suo Anti-Machiavelli...), è quello del demonismo amorale e degli Arcana Imperi: Natura bieca e anti- etica della politica e dello stato. Salvo esorcismi chiesastici o nobilitazione della Ragion di Stato (come con lo storico Friederich Meinecke).
Per Sasso, quella di Machiavelli è una concezione sobria e disincantata, antitetica a provvidenzialismi e filosofie della storia. Che delinea un Principato civile originato da «virtù» e «gloria»: preveggenza e coraggio, unite ad ambizione costruttiva a valer da exemplum. Nel solco di una sfida continua, rinascimentale, contro la «fortuna» che è contingenza assoluta e occasione da cogliere e consolidare con argini politici. In Sasso la politica è sfida concreta e non superomistica, romantica o nietzscheana, contro il divenire senza senso, per dare ad esso forma, ragionando sulla realtà effettuale e non già sulla Veritas dell’Essere, inattingibile al sapere politico. E rilevanti per inciso sono gli intermezzi sassiani sulla infondabilità logica dell’esperienza in termini razionali, visto che l’esperienza non si fonda né è oggetto di esperienza: a differenza del filosofare che si muove su tutt’altro piano ed è perciò indifferente al mondo. A differenza del punto di vista tutto politico di Machavelli, scevro (ma non a digiuno) di filosofia. Dunque per Sasso: Principato popolare, con alleanza tra Principe, popolo, borghesia e contado.
Contro i Grandi, come tenta di fare Cesare Borgia, con spietata ragionevolezza in vista di un regno italico del centro-nord. E ovviamente il contesto è quello del paese disunito e calpestato dai sorgenti stati assoluti, la Francia in primo luogo a partire da Carlo VIII e l’impero tedesco.
Sasso non crede all’idea di Italia «tout court» in Machiavelli, persuaso da una certa idea disincantata del potere in ciclica decadenza ed espansione (Polibio). E tuttavia l’Ialia, come concetto non immediato e «metapolitico», esiste eccome nel segretario, dalle Alpi alla Sicilia. Come nella tradizione romana tardo repubblicana quando l’Italia amministrativamente varca il Rubicone all’inverso e include i Municipia galli e celtici. E poi Machiavelli esalta il genio italico nelle armi e quant’altro e celebra persino la disfda di Barletta. Per non dire dei famosi versi di Petrarca con cui si chiude il Principe: Virtù contra furor/ prenderà l’arme/ e fia il combater corto/ che l’antiquo valor/ ne l’talici cor non è ancora morto. Né a ben guardare la lettura di Sasso - che la svaluta frettolosamente - si discosta da quella di Gramsci nelle Note sul Machiavelli: il Borgia come Cesare democratico e popolare di un regno del centro-nord, con epicentro nelle Romagne. Nel quadro della frantumazione italiana schiacciata da stati assoluti, municipalismi e Papato. Sul presente Sasso rilutta a fare paralleli, salvo il cenno alla nazione senza stato, infestata da corrotti e inetti e che un decisore democratico, capace di usare la forza, potrebbe prima o poi riscattare. Pie illusioni tardo giacobine e azioniste, che in tempi di populismo diventano circo mediatico e anti-politica contro-partiti.
Quanto al volume a cura di Pedullà, segnaliamo un paio di cose. Primo, il nesso mezzi-fini. Pedullà spiega che sono i mezzi in Machiavelli ad illustrare il fine e non viceversa. E il Principe deve motivare certi passaggi crudi, mostrandoli necessari e condivisibili per il Bene comune. Infine, ci vogliono tre cose per governare: buoni esempi, buone leggi e buone armi. Armi proprie e non mercenarie, appartenenza. Era la politica di massa, egemonica e autonoma di allora. Passioni, interessi, valori. Né intrattenimento, né circo, né vanità; res severa. Anche il Principe moderno dovrebbe essere questo. E invece...

l’Unità 9.3.14
Il laboratorio dell’orrore
Le nuove armi della Grande Guerra dal filo spinato ai gas e al carrarmato
di Wladimiro Settimelli

AMMAZZARE MEGLIO, AMMAZZARE DI PIÙ, AMMAZZARE PIÙ VELOCEMENTE, VINCERE E CONQUISTARE. Questi erano gli ordini. Il resto non contava proprio nulla. Per questo le nuove armi della grande guerra ’14-’18, non furono certamente concepite, dai governi, dagli stati maggiori e dall’industria, per risparmiare le vite dei soldati. Quel problema non se lo pose proprio nessuna tra le parti in lotta... E così, lo scontro si trasformò in un grande «laboratorio dell’orrore», con una terrificante escalation che lasciò nelle campagne, sui monti, nei boschi e sui mari, milioni di morti, di mutilati e di invalidi, spesso costretti, per il resto della vita, all’angoscia e alla povertà.
Dunque, i grandi «progressi tecnici» portati dalla guerra (è un problema vecchio come la storia) non fecero altro che aiutare lo sterminio. Forse, nel centenario del primo grande scontro mondiale che sarà celebrato quest’anno in tutte le nazioni europee e negli Stati Uniti, qualcuno lo ricorderà ancora una volta, nella giusta misura. Lo fecero i socialisti alla fine della tragedia quando, nel giorno in cui il treno con le spoglie del milite ignoto, scese lungo l’Italia, scrissero nei loro manifestini e sui giornali: «Povere mamme, mogli, figli e sorelle, quando passerà il milite ignoto che sicuramente è uno di noi, inginocchiatevi pure e piangete, ma non dimenticate mai di maledire la guerra».
Per quella guerra, nazioni grandi e piccole, dal 1914 al 1918, gettarono nelle trincee milioni di esseri umani che erano stati portati via anche dai più piccoli e dispersi paesi e villaggi della cara e vecchia Europa. E lo scontro, per questo, fu subito «industriale» e di massa. Anzi tecnologico, come diremmo oggi. L’impero britannico mobilitò circa 9,5 milioni di soldati, la Francia 8 milioni circa, la Russia 13 milioni, l’Italia (dal 1915) 5,6 milioni, l’America quasi 4, la Germania ben 13,2 milioni, l’Austria-Ungheria 9 milioni. Le industrie, in tutti paesi, furono militarizzate e le donne, in fabbrica, presero il posto degli uomini.
Ma quali furono le armi nuove della guerra ’14-’18 e quelle vecchie utilizzate in maniera strategicamente diversa?
Possono essere riunite, grosso modo, in sette gruppi diversi: i carri armati, l’aviazione, i sottomarini, i gas asfissianti (un orrore senza fine), le mitragliatrici, l’artiglieria di grossissimo calibro e il filo spinato, utilizzato come mai prima di allora...
Cominciamo proprio da quest’ultimo. Non venne usato soltanto per i Cavalli di Frisia, ma steso per chilometri e chilometri, tenuto basso dai paletti di ferro, per una profondità di decine e decine di metri. In questo modo, quando i soldati scattavano all’attacco e si avvicinavano alle trincee avversarie, inciampavano nel filo spinato, rimanevano impigliati e non riuscivano più a liberarsi. A quel punto, dall’altra parte, le mitragliatrici aprivano il fuoco ed era il massacro. Le cronache ricordano un disperato attacco italiano sul Grappa con i mitraglieri austriaci che, sparando, continuavano a gridare: «No, italiani, fermatevi, non fatevi ammazzare così».
La sorpresa dei carri armati, invece, l’ebbero per primi i tedeschi, durante la battaglia della Somme. Era il 15 settembre del 1916. La fanteria che partiva all’attacco e gli uomini nelle trincee, udirono un terribile sferragliare e poi videro arrancare, da un saliente, un bestione di ferro cingolato e a forma di scatola, dal quale partivano micidiali raffiche di mitragliatrice. Era il carro armato che si muoveva lento e con apparente difficoltà. Apparteneva all’esercito inglese e si chiamava «Mark 1». Lungo i dieci chilometri del fronte se ne stavano muovendo oltre trecento. Facevano un rumore infernale. Ogni carro, pesava 28 tonnellate, era lungo otto metri e aveva a bordo un ufficiale e sette uomini. Le armi a disposizione erano due cannoncini e sei mitragliatrici. L’antica invenzione di Leonardo, dunque, era diventata un mostro d’acciaio che i fanti guardavano con terrore. Naturalmente, dopo qualche mese, anche i francesi, i tedeschi e poi gli italiani, costruirono carri armati di ogni genere.
Per quanto riguarda le mitragliatrici bisogna dire che si trattava di una invenzione «antica» perfezionata da una guerra all’altra. Durante la Grande Guerra ne furono distribuite a tutte le truppe in lotta. Erano state fabbricate dalla Browning, dalla Vickers, dalla Fiat, dalla Mauser, dalla Breda e da altre società. Sparavano fino a cinquecento colpi al minuto e molte avevano un raffreddamento ad acqua. Furono un arma micidiale per la guerra di trincea. Grandi novità, invece, per la guerra sul mare. Alle grosse e potenti navi di superficie, i tedeschi aggiunsero, per primi, gli «U-Boot», i sommergibili che riuscirono a distruggere centinaia di navi inglesi. Scorrazzavano ovunque e affondarono anche piroscafi carichi di passeggeri. Tutte le navi da battaglia avevano ormai cannoni enormi e micidiali. Fu nello Jutland (Mare del Nord) che la flotta inglese venne gravemente danneggiata da quella tedesca. In quella zona, ancora oggi, parti di scheletri rimangono ancora impigliati nelle reti dei pescatori. Noi italiani, sui mari, diventammo noti per i Mas, i motoscafi veloci che, il 10 giugno 1918, affondarono a Premuda, la grande nave da battaglia austriaca «Santo Stefano».
E ora l’aviazione. Fu proprio nel corso della Prima Guerra Mondiale che l’utilizzazione dell’arma aerea cambiò definitivamente. L’entusiasmo per il volo, come si sa, aveva contagiato tutto il mondo, ma gli aerei, in guerra, erano stati utilizzati, fino a quel momento, solo per rilevare le posizioni avversarie, scattare foto e dirigere i tiri dell’artiglieria. I «velivoli», come si chiamavano allora, erano ancora costruiti con il legno e la tela cerata. Poi, da bordo, gli «addetti» cominciarono a sganciare, a mano, delle bombe sulle trincee nemiche. Con scarsi risultati, ovviamente. Venne bombardata anche Venezia e Gabriele D’Annunzio volò con un gruppo d’aerei fin sopra Vienna, per lanciare dei manifestini. Quando gli ingegneri risolsero il problema di sparare con la mitragliatrice di bordo senza colpire l’elica, ebbero inizio i grandi duelli aerei e nacque il mito dei «cavalieri coraggiosi» che si uccidevano in aria. Tra loro, gli assi dei quali tutti i giornali scrivevano: Francesco Baracca, Manfred von Richthofen (il «barone rosso»), l’inglese Albert Ball, il francese Gorge Gaynemer, il tedesco Max Immelmann. I loro aerei erano i Fokker, i Morane Saulnier, i Nieuport. Tutti poco più che scatole di sardine con le ali.
Ed eccoci all’artiglieria che fu davvero la chiave di volta della guerra. Vennero fabbricati e portati al fronte da tutte le nazioni, obici, bombarde, mortai e cannoni di ogni tipo e genere e i soldati ne trascinarono a centinaia anche sulle vette più alte e innevate d’Europa. I tedeschi, quando entrarono in Belgio, per distruggere Fort Loncin, usarono un mortaio da «420», una bocca colossale trascinata da 36 cavalli. Il supercannone più famoso di tutta la grande guerra rimane, comunque, la «Grande Bertha», costruito in Germania dai Krupp. Era lungo 35 metri, pesava 78 tonnellate e aveva 70 serventi. Sparò su Parigi da una distanza incredibile di 112 chilometri. Il primo colpo arrivò sulla città alle ore 7,20 del 23 marzo 1918 e provocò qualche morto, ma sparse il terrore tra la gente.
E ora l’orrore dei gas asfissianti. Fu nella regione di Ypres, in Belgio, ed esattamente tra Langemark e Bixschoote, che il 22 aprile 1915 arriva sulle trincee francesi una nuvola giallo verdastra. È una folata di gas terribile e i fanti (i celeberrimi poilus) non sanno cosa fare. Dopo pochi istanti, a migliaia si rotolano per terra, urlano, chiedono dell’acqua e corrono come impazziti, strappandosi i vestiti di dosso e buttando le armi. Dopo pochi minuti cinquemila erano già morti. Altri diecimila saranno piagati in modo irreparabile. Due giorni dopo tocca ai canadesi: saranno altri cinquemila morti. I tedeschi definiscono questi attacchi degli «esperimenti », in risposta ai francesi che avevano utilizzato gas lacrimogeni.
Indimenticate le foto di un gruppo di soldati italiani morti all’istante in una caverna, con il cucchiaio in mano, mentre consumavano il rancio, o quella della lunga fila di soldati inglesi che tengono una mano sulla spalla dell’altro per andare verso un ospedale da campo: sono stati tutti accecati dai gas.

Corriere 9.3.14
L’ex Urss e la rinascita dei nazionalismi
Ucraina, Georgia, Caucaso: lotte per l’identità
Ma anche Mosca manovra le sue minoranze
di Luigi Ippolito

A fornire la giustificazione ideologica (e anche un po’ poetica, che non guasta mai) di quanto sta accadendo in Ucraina ci ha pensato l’altro giorno il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, secondo cui l’ingresso della Crimea in Russia «non è una raccolta delle terre sovietiche sulla base di un progetto del Cremlino, è un processo naturale di raccolta di connazionali attorno al loro centro, alla loro patria storica che è attraente, che suscita fiducia, e che può fungere da garante della loro sicurezza e di un loro futuro prospero», insomma un processo in cui le terre si raccolgono «secondo il principio della calamita».
E difatti la rinascita delle identità nazionali nello spazio geo-politico dell’ex Urss segue un doppio movimento: allo stesso tempo centrifugo e centripeto. Da un lato le nazionalità costrette per secoli nella «prigione dei popoli» che fu prima l’impero zarista e poi quello sovietico tendono ad affermare la loro individualità nei confronti del centro (russo-moscovita), dall’altro i frammenti della nazione russa sparsi nell’ex impero tendono a ricomporsi verso la madrepatria destabilizzando le giovani nazioni nate dall’implosione dell’Unione Sovietica.
Il caso ucraino è emblematico sotto entrambi i punti di vista. Qui l’evoluzione del sentimento nazionale è stata complicata dalla composizione multi-etnica della popolazione. Mentre già nel periodo sovietico le regioni occidentali del Paese, storicamente e culturalmente vicine alla Polonia e alla Lituania, affacciavano richieste di maggiore autonomia, le regioni orientali, popolate in larga parte da russi o ucraini russofoni, mostravano maggiore resistenza a queste domande.
D’altra parte il sentimento nazionale ucraino, accompagnato da un linguaggio scritto, una grammatica standardizzata e una coscienza di sé, è un prodotto abbastanza tardo, della fine dell’Ottocento. E la popolazione rurale ha acquisito consapevolezza di sé come nazione distinta probabilmente ben oltre l’avvio del XX secolo. In fin dei conti il nucleo originario della statualità russa si colloca proprio nella Rus’ di Kiev del X secolo e solo più tardi va ad identificarsi con la Moscovia e le sue successive espansioni. E l’ideologia pan-russa vede i Grandi Russi, i Piccoli Russi (Ucraini) e i Russi Bianchi (Bielorussi) come appartenenti a un’unica vasta nazione accomunata da storia, religione e vicinanza linguistica.
Ma è evidente che gli ucraini non hanno finito per fondersi nell’alveo russo come i bavaresi nella Germania, bensì dopo il raggiungimento dell’indipendenza nel 1991 hanno accentuato le loro caratteristiche nazionali con un’attiva promozione della lingua e della cultura autoctone. Il che ha condotto a una messa in tensione delle contraddizioni fra regioni occidentali e regioni orientali, già esplose durante la Rivoluzione arancione del 2004, che vide il Paese dividersi lungo linee etnico-linguistiche fra sostenitori del filo-occidentale Yushchenko e sostenitori del filo-russo Yanukovich. Fino ad arrivare alla crisi odierna, che vede il Cremlino utilizzare le popolazioni russe delle regioni orientali e della Crimea come grimaldello per destabilizzare l’intera Ucraina.
La leva delle minoranze russe fuori dai confini nazionali è stata già sperimentata da Mosca, ad esempio con i Paesi Baltici. Estonia, Lettonia e Lituania sono state protagoniste del più forte movimento di rinascita nazionale al tramonto dell’Unione Sovietica. Entità non slave, forti di influenze storiche polacche, tedesche e scandinave, non sono mai state assimilabili all’interno del corpo della Russia e non è un caso che siano le uniche Repubbliche ex sovietiche entrate a far parte della Nato e dell’Unione europea. Ma anche al loro interno sono presenti significative minoranze russe (specialmente in Estonia e Lettonia) che non hanno mancato di far sentire il loro peso sulla vita politica. E che potrebbero essere «riattivate» da Mosca in una situazione di crisi.
Ancora più complesso lo scenario caucasico, dove la rinascita nazionale post-sovietica ha visto protagonisti soprattutto i georgiani e gli armeni. Questi ultimi sono invischiati da vent’anni in un conflitto con il vicino Azerbaigian a proposito del Nagorno-Karabach, l’enclave armena (e cristiana) in territorio azero (e musulmano) che vorrebbe ricongiungersi con la madrepatria. Anche qui Mosca è intervenuta favorendo lo Stato-cliente armeno e usando l’irredentismo del Nagorno-Karabach per tenere sotto pressioni i riottosi azeri.
A loro volta i georgiani, antica e orgogliosa nazione, hanno cercato di affermare con veemenza il loro distacco dalla Russia, soprattutto dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003. Ma l’intervento armato deciso da Putin nel 2008 li ha riportati a più miti consigli: e ancora una volta Mosca si è fatta scudo dell’irredentismo di una piccola nazione, l’Ossezia del Sud, che fa risalire la propria identità etnica agli antichi Alani. Gli osseti, russofoni inclusi nella Georgia, hanno invocato l’aiuto fraterno del Cremlino quando si sono visti minacciati dai georgiani: aiuto prontamente accordato, con la conseguente occupazione di porzioni di territorio georgiano che dura ancora oggi.
Infine il Caucaso russo, con la sua miriade di nazionalità sparse fra Cecenia, Ossezia del Nord, Inguscezia, Daghestan, Cabardino-Balcaria, Repubblica circassa. Una regione tra le più fiere, sottomessa dagli Zar solo a metà dell’Ottocento e dopo aver pagato un duro prezzo di sangue. E che negli ultimi vent’anni, dopo la fine dell’Urss, ha prodotto una nuova scia di lutti. Al centro di essa la Cecenia, nazione mai doma, che ha ottenuto con due guerre una autonomia di fatto, pur pagando formale tributo a Mosca.
In conclusione, il tratto comune che rende problematiche le rinascite nazionali nello spazio post-sovietico è la sovrapposizione irrisolta di etnie e confini, specialmente quando dei confini amministrativi e artificiali (è il caso della Crimea) si sono trasformati in frontiere statuali. Una contraddizione foriera di ulteriori, destabilizzanti crisi internazionali.

Corriere 9.3.14
Deportati perché «fascisti»
Gulag e Torture. La tragedia degli italiani di Crimea
di Francesco Battistini

Maggiore Khvatov, dove sei? Qualcuno poi sarebbe andato a cercarlo, il suo Priebke sovietico, il suo carnefice stalinista. Bartolomeo Evangelista non l’ha mai dimenticato: gli furono date solo due ore per fare fagotto, otto chili e non di più. «Il 29 gennaio 1942, quel Khvatov era diventato il capo della polizia segreta comunista, l’Nkvd. Mi convocò. Era seduto alla fine d’un lungo tavolo, al secondo piano dell’edificio verde d’Uliza Lenina. Mi disse: “Bartolomeo, io ricordo tuo padre dai tempi in cui correvamo senza pantaloni. Adesso andrai in un sobborgo di Kerc, dove sono riuniti tutti gli italiani. Vi manderanno a Est. Sappi: occhio per occhio, dente per dente…”. Tre “falchi” mi portarono a casa su un camion. Ma a casa non c’erano più né mia moglie, né mio figlio…».
Di Khvatov, oggi a Kerc nessuno parla più. Degl’italiani che il maggiore russo spedì nei gulag siberiani, nelle prigioni del Mar Glaciale Artico o ai lavori forzati del Kazakistan, nessuno si cura. Una lapide alla stazione ferroviaria commemora i tatari, gli armeni, i greci, perfino i tedeschi deportati da Stalin. Gl’italiani, no. Morti da niente. L’Olocausto con più omissis della nostra storia. Il genocidio ignoto d’una comunità che fu accusata d’avere sostenuto i fascisti, quando l’Armata Rossa arrivò a liberare la Crimea dai nazi, e che venne lasciata stare solo quand’ormai non c’era più nulla da fare («è stato un errore», riconobbe Mosca nel 1948), e che fu riabilitata dal Krusciov del XX Congresso (1956) quando da lucidare non c’erano nemmeno le tombe. Una volta il giurista Giulio Vagnoli provò a scriverne a Berlusconi e a Frattini, a Fassino e a Napolitano, esigendo almeno lo sforzo tardivo della memoria che s’è fatto per gl’istriani o i dalmati: ottenne solo un gran silenzio. Un’altra volta, anni ‘90, chiesero a Scalfaro in visita in Ucraina se volesse dire qualcosa di quella tragedia: il presidente guardò i microfoni, si guardò intorno smarrito. E tacque.
Talianski, quanta gente. Erano quattromila, sono meno di 400. Nell’arcipelago dei popoli e dei martiri ucraini, gl’italiani di Crimea non hanno le cifre apocalittiche dei tatari musulmani, degli ebrei, dei kulaki. Ma il loro sterminio ha racconti spaventosi: persi per due mesi nelle stive dei piroscafi e su vagoni bestiame, 50 persone a vagone, morti di fame o scampati mangiando erba, baraccati senza coperte su bancali a trenta sottozero, schiavizzati per anni nell’industria pesante. Gli Evangelista erano 11: ne tornarono sei, e nessuno dei cinque bambini; i Simone erano sette: rimasero in due; i Demartino, cinque: sopravvissero in due… Un olocausto da museo: passati per la Crimea ai tempi di Marco Polo, era stata Caterina la Grande a chiamarne migliaia dalla Liguria e dalla Puglia, perché curassero il Borgogna dello Zar, insegnassero la navigazione, piantassero un pomodoro («l’italiano») che ancora oggi si trova sui mercati di Mosca… I loro guai cominciarono negli anni ‘30, quando il fratello di Pajetta e il cognato di Togliatti si rifugiarono qui: la chiesa fu trasformata in palestra, l’economia locale collettivizzata nel kolkoz «Sacco e Vanzetti». L’aria si fece rossa e pesante. E il Pci, già troppo impegnato a ignorare i comunisti «anomali» torturati alla Lubianka, non mosse un dito per salvarli dalle purghe. Russificati per scelta o necessità, oggi cinquecento discendenti sono rimasti nel Kazakistan: gli altri sono qui. Non vogliono la secessione dall’Ucraina, ma il referendum va loro bene: «L’unica strada per salvare la Crimea», dice la loro presidentessa, Giulia Giacchetti Boico, e per vedersi riconoscere almeno da Mosca l’indennizzo che spetta alle vittime del comunismo. Molti vivono da poveri, poche centinaia d’euro al mese. Alle loro famiglie era vietato parlare italiano e oggi, se sognassero di tornare in Italia, non saprebbero in che lingua. Chi ci prova, è per l’unico mestiere concesso a chi viene dall’Ucraina: la badante.

Corriere 9.3.14
Dalle dominazioni ai crimini staliniani
Il sogno di libertà
Molti padroni, i grandi conflitti, l’indipendenza: la storia di Kiev
di Ettore Cinnella

Negli anni di Gorbaciov venne rotto nell’Urss, per la prima volta, il silenzio sulla morte per fame di milioni di contadini nel 1932-1933. L’ansia di verità sorse dal basso, prese cioè l’avvio dalle lettere inviate ai giornali dai testimoni di quegli eventi. Da allora gli storici, russi e ucraini, non hanno smesso d’indagare sul crimine più aberrante e spaventoso del regime staliniano. Grazie al loro congiunto sforzo di ricerca, noi oggi conosciamo infiniti dettagli sulla tragedia che si abbatté sulle campagne dell’Urss, provocando milioni di vittime.
Quando la verità emerse in tutta la sua crudezza, ebbero inizio anche i primi dissapori tra i protagonisti delle due storiografie. Ricorrendo al termine holodomor (sterminio per fame), gli studiosi ucraini individuarono nella grande fame un autentico genocidio contro la loro nazione: fu perfino usata l’espressione «olocausto ucraino». Per i russi, invece, si trattò di una spietata guerra condotta dallo Stato bolscevico contro una parte consistente del mondo contadino in tutta l’Urss.
Che di stenti e d’inedia siano allora periti gli appartenenti a molti popoli dell’impero comunista di Stalin, è verissimo. In termini relativi, l’ecatombe umana più raccapricciante si ebbe nelle steppe del Kazakistan, dove perse la vita oltre un terzo dei nomadi. In Ucraina morirono circa tre milioni e mezzo (sembra questa la cifra più attendibile) di laboriosi agricoltori. Se a ciò si aggiunge la lotta senza quartiere all’intellighenzia e a una parte dei quadri comunisti locali, risulta chiara la volontà di distruggere le basi materiali e culturali della nazione ucraina. Si capisce dunque perché quella tragedia venga interpretata come un genocidio; e, a questo riguardo, forse non ha molto senso disquisire se si sia trattato di genocidio sociale o nazionale. Anche chi non ha dimestichezza con il russo e l’ucraino, può farsi un’icastica idea dello spaventevole holodomor leggendo le raggelanti e veridiche relazioni, inviate allora dai diplomatici italiani a Mussolini (e pubblicate da Andrea Graziosi in Lettere da Kharkov , Einaudi).
La memoria delle inenarrabili sofferenze e delle distruzioni materiali, subite per colpa della politica di Stalin, è essenziale agli ucraini per tener viva la consapevolezza che mai più essi dovranno sottostare al giogo comunista e straniero. Ma se il holodomor è ormai assurto a tragico simbolo dell’identità nazionale di quel popolo, ben più antiche e profonde sono le radici e le ragioni dell’indipendenza dell’Ucraina.
È diffusa la credenza che la Russia di Kiev (fiorita nei secoli X-XIII) sia stata la culla della civiltà russa. Gli storici ucraini, invece, la considerano il primo nucleo della propria cultura. In realtà, quella splendida civiltà degli slavi orientali ‒ legata agli altri Stati cristiani dell’Europa medievale fu un momento storico a sé stante, conclusosi per una complessa serie di ragioni (tra le quali la principale è la traumatica invasione mongola).
Dopo il tramonto della civiltà di Kiev, l’Ucraina e la Russia conobbero destini assai diversi. Fu il principe lituano Algirdas a conquistare Kiev nel 1362, liberandola dalla dominazione mongola. L’Ucraina entrò quindi a far parte del Granducato di Lituania (uno degli Stati più vasti dell’epoca, esteso dal Baltico al Mar Nero), la cui forza stava nella saggia politica interna oltre che nel valore guerriero dei suoi principi.
Con l’Unione di Lublino (1569), che sancì la nascita dello Stato polacco-lituano, la maggior parte delle province ucraine passò sotto il dominio diretto del re di Polonia. Se per i contadini ciò significò la dura soggezione alla nobiltà polacca, sul piano culturale le conseguenze furono positive: i dotti ucraini entrarono a contatto con la civiltà occidentale e poterono usufruire del clima di relativa tolleranza che si respirava nella Polonia del Cinquecento. A Raków (l’«Atene sarmatica»), celebre per le sue fiorenti tipografie, trovò rifugio anche l’eretico italiano Fausto Socini.
Le cose peggiorarono nel corso nel Seicento, per colpa dell’avanzata dell’integralismo cattolico in Polonia e dell’inasprimento del dominio signorile sui contadini. Così, i cosacchi ucraini volsero lo sguardo verso Mosca e decisero, con il trattato di Perejaslav del 1654, d’unirsi al limitrofo Stato ortodosso. Per la Russia, l’incorporazione delle nuove terre rappresentò un enorme vantaggio sul piano economico e strategico, nonché culturale: grazie all’Ucraina polonizzata, infatti, penetrarono nella Moscovia i primi germi della civiltà occidentale.
A partire dal Settecento, gli ucraini persero ogni forma di autonomia: per loro la dominazione moscovita si fece via via più soffocante, tesa com’era alla russificazione del Paese. Falliti, nel 1917-1920, i tentativi di creare uno Stato indipendente, gli ucraini rimasero legati per un settantennio alla Russia sovietica. Oggi che hanno conquistato l’indipendenza, non vogliono che sia effimera o fittizia.

Corriere 9.3.14
Il software che fa «vedere» i ciechi con i suoni

«Guardare» attraverso i suoni anche se si è non vedenti. All’interno dell’Università ebraica di Gerusalemme è stato sviluppato un programma al computer che cerca di «educare» l’orecchio dei ciechi a ricostruire nel cervello una serie di immagini. Secondo quanto riporta un articolo pubblicato sul sito Sciencemag , il progetto parte da lontano, quando nel 1992 l’ingegnere olandese Peter Meijer creò un algoritmo chiamato «Voice», che convertiva semplici immagini su una scala di grigio in melodie sonore. Per esempio, una retta diagonale da sinistra a destra e dall’alto in basso viene trasformata in una serie di beep , partendo dai più acuti e andando verso i più gravi, che si dirigono da sinistra versa destra. Una persona che siede su una sedia, invece, viene «tradotta» in una serie di rumori più complicata, che però può essere ricostruita da un non vedente dopo un opportuno addestramento. Su questa base nel 2007, Amir Amedi e i suoi colleghi all’ateneo di Gerusalemme hanno ripreso l’idea iniziando un progetto con il quale, dopo sole 70 ore di allenamento, delle persone non vedenti passavano dall’ascoltare semplici punti e linee al vedere vere e proprie immagini come facce e angoli di strade, a una risoluzione di 4.500 pixel. I soggetti che hanno partecipato all’esperimento, con una telecamera sulla testa che scattava foto a un intervallo di secondi, collegata a un computer e a delle cuffie, riuscivano a muoversi autonomamente in ambienti a loro sconosciuti. Uno dei partecipanti al progetto — come riportato su Current Biology — è stato persino in grado di scattare delle foto, aiutandosi con i suoni per mettere bene a fuoco. Inoltre dieci ore sono state dedicate al riconoscimento dei profili umani rappresentati da suoni, e i soggetti sono riusciti a replicare l’esatta postura dei modelli utilizzati.

Corriere 9.3.14
Contro l’ignoranza attiva
La filosofia va insegnata anche nelle facoltà scientifiche
Aiuta i giovani a fronteggiare l’invasione di informazioni
di Dario Antiseri

La storia della filosofia esiste perché esistono i problemi filosofici. Problemi come questi: Dio esiste o è solo un’invenzione per usi disparati? Il tutto-della-realtà è solo quello di cui parla o può parlare la scienza o si danno anche validi argomenti a difesa dell’idea che tutto non è destinato a finire in questo nostro mondo? È proprio vero che l’ateo è più scientifico del credente oppure si può ben dire che l’ateismo è una pura e semplice fede non di rado camuffata da teoria razionale? L’uomo è libero o determinato? E cosa è cambiato o cambia, per l’immagine dell’uomo, con l’avvento della teoria dell’evoluzione?
Problemi carichi di conseguenze morali e politiche sono quelli che i filosofi hanno affrontato con la proposta delle diverse filosofie della storia: la storia umana è da sempre un campo aperto all’impegno morale, creativo e responsabile degli esseri umani oppure è una imponente realtà che si evolve seguendo ineluttabili leggi di sviluppo? E ineludibili problemi filosofici sono quelli relativi alla «migliore» organizzazione della convivenza umana — problemi, dunque, di filosofia politica. Quali le ragioni di una società aperta? E perché mai non valgono quelle argomentazioni con le quali più d’un filosofo, a cominciare verosimilmente da Platone, ha cercato di giustificare concezioni totalitarie e tiranniche del potere politico? E quei valori etici di fondo per i quali, come diceva Kierkegaard, si può vivere o morire, sono oggetto di pura scelta o sono razionalmente fondabili? Insomma, ha ragione Pascal allorché afferma che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei padri e dei figli, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose» ovvero sono nel giusto i sostenitori del «diritto naturale», per i quali l’umana ragione sarebbe in grado di individuare e razionalmente fondare norme morali valide sub specie aeternitatis ? Ma che ne è, poi, del diritto naturale se si ritiene valida quella legge — definita da Norberto Bobbio «una legge di morte per il diritto naturale» — che è la cosiddetta legge di Hume, la quale fissa l’impossibilità logica di derivare asserti prescrittivi da asserti descrittivi, con la conseguenza che da tutta la scienza non è possibile estrarre un grammo di morale?
Ulteriori problemi filosofici. La scienza può dare certezze oppure ogni teoria scientifica, per ragioni logiche, resta sempre sotto assedio? E come demarcare il discorso scientifico da altri tipi di discorsi come, per esempio, quello metafisico o quello etico? E ancora: regge o è davvero inconsistente, per usare una espressione di Nelson Goodman, la «dispotica dicotomia» tra artistico-emotivo e scientifico-cognitivo? E un solo altro interrogativo, quello di Pilato: che cos’è la verità? Cosa vuol dire che una teoria fisica è vera, che un teorema matematico è vero, che una teoria metafisica è vera, che una fede religiosa è vera? Le idee — ha detto Einstein — sono la cosa più reale che esista al mondo. E non si fa fatica a comprendere che, tra queste «cose più reali», talvolta anche tra le più disumane, ci sono proprio idee filosofiche. La terra è, infatti, inzuppata di sangue versato in nome di alcune di queste idee filosofiche. Non si uccide né si è disposti a farsi uccidere per le leggi di Ohm o di Faraday. E concezioni fatalistiche e liberticide come le varie filosofie deterministiche della storia ovvero, ancora, teorie, fonti di immani tragedie, come quelle razziste o come i totalitarismi di destra e di sinistra, non sono prodotti di botteghe di artigiani, sono teorie uscite dalla testa di filosofi il cui influsso nefasto si è diffuso come peste tra le masse.
Sta qui, pertanto, una non indifferente ragione per educare i giovani a tenere sotto controllo idee filosofiche assorbite magari inconsapevolmente dalle persone con le quali sono venuti a contatto, dalle loro più o meno o nient’affatto guidate letture, dalle sempre più invadenti fonti di incontrollabili informazioni. È per questo, dunque, che la filosofia va studiata: va studiata per venire a conoscenza delle risposte che grandi menti dell’umanità hanno dato a problemi molti dei quali riguardano tutti, ogni uomo e ogni donna: de nobis fabula narratur . In poche parole, come ha scritto Isaiah Berlin, il fine della filosofia è sempre il medesimo: «Consiste nell’aiutare gli uomini a capire se stessi e quindi a operare alla luce del giorno e non, paurosamente, nell’ombra».
Si rischia seriamente di essere meno cittadini e oggi — cosa sottolineata di recente anche da Martha Nussbaum — meno cittadini del mondo senza la consapevolezza critica che uno studio serio della storia delle idee e delle controversie filosofiche è in grado di offrire. Solo «menti aperte» costituiscono il presidio più sicuro di una «società aperta». Conseguentemente, l’insegnamento della filosofia andrebbe esteso a tutti gli ordini delle scuole superiori, potenziato in tutte le facoltà umanistiche ed introdotto, con opportune modalità, nelle facoltà scientifiche, a cominciare dalla facoltà di Medicina. E, allora, che dire di coloro — burocrati, esperti e consulenti — che, aggirandosi nell’antro del ministero della Pubblica istruzione e della ricerca scientifica, avanzano proposte tese a ridurre da una parte e a cancellare da un’altra l’insegnamento della filosofia?
Alle «ideazioni» di questi «fantasmi» pare addirsi alla perfezione un pensiero di Goethe, e cioè che «nulla è più funesto dell’ignoranza attiva». Spegnere la luce della filosofia dalle menti dei nostri giovani equivale a perpetrare un furto nei loro confronti e a renderli facili prede del primo imbonitore.
Ministro Stefania Giannini, è disposta Lei a farsi complice di questi «ladri di formazione», «barbari non più ai confini ma in mezzo a noi», veri «scassinatori» di quei tesori che fortunatamente rimangono ancora nella nostra scuola?

Corriere 9.3.14
Firenze, i Medici e i gemelli diversi
L’ombroso Pontormo l’estroso Rosso Fiorentino
Viaggio tra le vite parallele di due spiriti liberi dell’arte
di Ranieri Polese

Tutto comincia nel chiostro di una chiesa, il Chiostrino dei voti della Basilica della Santissima Annunziata, luogo di culto caro ai fiorentini per l’immagine di una Madonna molto venerata. In quel chiostro lavora Andrea del Sarto dal 1509, pittore celebre e apprezzato tanto da meritarsi l’appellativo di «pittore senza errori», che deve illustrare le storie del superiore dell’Ordine dei Serviti, il beato Filippo Benizi. Ha con sé due giovanissimi allievi, Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso per il colore dei capelli, e Jacopo Carucci, detto il Pontormo dal luogo di nascita, Pontorme, un piccolo borgo vicino a Empoli.
Due allievi molto cari, se Andrea decide di farsi accompagnare da loro in un viaggio a Roma, dove vedono i primi affreschi delle Stanze di Raffaello (senz’altro «La Scuola d’Atene»). Dopo il ritorno a Firenze, il Rosso collabora con Andrea all’affresco «Il viaggio dei Magi» (1511); poi, fra il 1513 e il 1514, a ciascuno dei due il maestro affida un intero affresco: al Rosso l’Assunzione della Vergine, al Pontormo la Visitazione. Comincia qui anche la mostra che si è aperta a Palazzo Strozzi, a Firenze, dedicata a Pontormo e Rosso Fiorentino. Con la prima sala dove campeggiano, restaurati, i tre affreschi staccati dal chiostro: del Sarto sul fondo al centro, Pontormo a sinistra, Rosso a destra. «E già da qui — spiega Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi e curatore della mostra con Carlo Falciani — si possono vedere le differenze fra i due, quei caratteri che poi li porteranno a percorrere “divergenti vie” in quella che Vasari chiamò “la maniera moderna”. Con Pontormo che accoglie le suggestioni di Raffaello e racchiude la scena in un’architettura magniloquente e Rosso che, invece, si rifà alla tradizione fiorentina del Quattrocento di Masaccio e Donatello».
Gemelli diversi (erano nati nello stesso 1494), cresciuti alla stessa scuola, seguiranno percorsi molto differenti. Senz’altro politicamente: Pontormo lavorerà molto per i Medici (uno dei suoi capolavori è il ritratto idealizzato di Cosimo il Vecchio, capostipite della signoria medicea); Rosso, invece, si sentirà sempre più vicino a quanti ricordavano la breve esperienza della Repubblica di Savonarola. Vivono, i due, i tempi inquieti della città che vede nel 1512 il ritorno dei Medici, ma Rosso cerca di tenersene lontano, spostandosi da Piombino a Napoli a Volterra. Nel 1527 è a Roma, durante i giorni del Sacco. Nello stesso anno Firenze torna agli ordinamenti repubblicani, ma l’esperimento dura solo tre anni. E Rosso, nel 1530, lascia l’Italia e va in Francia, a lavorare per Francesco I alla reggia di Fontainebleau. Pontormo invece rimane, ricevendo commissioni dai Medici. Anche per carattere, i due erano molto distanti; se Rosso viaggiava molto, Pontormo — come attesta il suo tardo diario, «Il libro mio» — era un ipocondriaco e un misantropo che non si mosse mai da Firenze, e spesso se ne stava chiuso in casa senza vedere nessuno. Insomma, una crescente difformità accompagna le vite parallele dei due artisti che si può ben scorgere, sala dopo sala, nella mostra. Colpiscono, in Rosso, i corpi smagriti e pallidi dei santi, le «arie disperate», i colori usati in modo espressionista. In Pontormo invece risalta la «dolcezza di colorito», che però si combina all’influsso potente delle immagini di Dürer, conosciute attraverso le stampe che Vasari ci dice già circolavano intorno al 1510.
Figurano, tra i tanti capolavori conservati a Firenze o in altri musei italiani, alcuni prestiti eccezionali, soprattutto di Rosso: la Madonna dello Städel di Francoforte, la Sacra Famiglia di Baltimora, due ritratti di uomini rispettivamente di Washington e di Liverpool. E infine, dal Louvre, arriva la straziante Pietà, forse l’estrema opera dell’artista. Il prestito più strepitoso, per Pontormo, è forse il disegno del British Museum, con il pittore seminudo che si ritrae allo specchio. Manca, per incomprensibili cavilli burocratici, la «Deposizione» di Volterra di Rosso, quella — i conoscitori del cinema di Pasolini lo ricorderanno — che il poeta-regista aveva riprodotto come un tableau vivant nel film «La ricotta» (1963) insieme con la «Deposizione» di Pontormo della chiesa di Santa Felicita a Firenze. Due motivi, comunque, per continuare la riscoperta di questi due grandi una volta usciti da Palazzo Strozzi: Santa Felicita è a due passi, subito traversato il Ponte Vecchio; il Rosso invece è conservato nella Pinacoteca della città delle Balze.
Ma la sosta più prolungata di questo percorso se la aggiudica senz’altro il più enigmatico, misterioso dipinto di Pontormo, la «Visitazione» di Carmignano esposta qui dopo l’eccellente lavoro di restauro di Daniele Rossi. Che non solo ha ridato vita ai colori degli abiti delle quattro donne e ha «scoperto» dettagli mai visti (come la testa del ciuchino che sbuca, in basso a sinistra, dall’angolo del palazzo), ma anche ha restituito luce all’azzurro del cielo che finora si era visto fosco e tempestoso. Colte un attimo prima dell’abbraccio, Maria e Santa Elisabetta sembrano sospendere il tempo mentre le due ancelle, mute e frontali, ci guardano quasi intimando il silenzio. Qualcosa di molto lontano — vale la pena tornare alla prima sala per il confronto — dalla giovanile «Visitazione» dell’Annunziata.
Testimonianza dell’effetto che prende lo spettatore davanti al quadro di Carmignano, il video di Bill Viola del 1995 — nei ritmi di un tempo rallentato si ripete l’incontro fra le due donne — si può vedere alla fine del percorso. Lo ha prestato l’artista americano che è tornato a Firenze per ritrovare il «suo» Pontormo.

Corriere 9.3.14
Il tesoro di Montecassino, come e da chi venne salvato
risponde Sergio Romano

Nel Corriere del 15 febbraio leggo che secondo un nuovo libro, apparso recentemente, il tesoro di Montecassino è stato salvato dal generale tedesco Frido von Senger. Non capisco dove sia la «scoperta», dal momento che lo stesso generale ne aveva già parlato sinteticamente ma chiaramente a pag. 285 - nel suo libro «La guerra in Europa».
Calogero Chinnici

Caro Chinnici,
U na premessa per il lettore. Quello che noi chiamiamo «il tesoro di Montecassino» non comprendeva soltanto il patrimonio artistico, liturgico e bibliografico dell’Abbazia. Come scrive Francesco Perfetti nella sua prefazione a I misteri dell’Abbazia di Benedetta Gentile e Francesco Bianchini (Le Lettere, Firenze), erano stati trasportati a Montecassino, nei mesi precedenti, anche una parte del Tesoro di San Gennaro, la grande collezione numismatica di Siracusa e altre opere provenienti da musei e chiese dell’Italia meridionale.
Nelle memorie di Frido von Senger und Etterlin, pubblicate da Longanesi nel 2002, la vicenda del tesoro di Montecassino, come lei ricorda, occupa poche righe. Il generale scrive di avere appreso che l’incarico del salvataggio era stato affidato alla divisione Hermann Göring e aggiunge: «Inoltre seppi che il convoglio carico di oggetti preziosi si era messo in marcia da Roma in direzione nord. Così decisi di intervenire ed ebbi successo: il convoglio venne fermato all’altezza di Spoleto e ricevette l’ordine di raggiungere il Vaticano». Ma questa affermazione, già presente nell’edizione tedesca del 1960, non aveva ancora interamente convinto il mondo degli storici. I veterani della divisione Göring continuavano a rivendicare il merito del salvataggio, gli abati di Montecassino non smentivano e un tenente colonnello della divisione, Julius Schlegel, incaricato dell’operazione, aveva ricevuto pubblici ringraziamenti e certificati di riconoscenza. Sembra che lo stesso Schlegel, prima della sua morte nel 1958, avesse chiesto ai monaci l’apposizione di una targa in suo onore. La richiesta non fu accolta, ma la «versione Göring» continuò a godere di un certo credito.
Il libro di Gentile e Bianchini rende onore a von Senger. Negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra, gli autori hanno trovato, fra le carte depositate dalla figlia del generale nel 2007, un lungo memorandum sull’operazione e una dichiarazione giurata da cui risulta che le reali intenzioni della Divisione Göring non erano quelle proclamate, forse in buona fede, dal colonnello Schlegel. Letto da alcuni studiosi, il memorandum è parso credibile.
Gli storici dell’arte, dal canto loro, sanno che il maresciallo dell’aria Hermann Göring, durante la guerra, usò la «sua» divisione per soddisfare un notorio, pantagruelico, insaziabile appetito di capolavori. In qualche caso comprava in dollari, sia pure a prezzi di favore; in altri alimentava la propria collezione con le razzie del corpo militare su cui sapeva di potere contare.

Corriere La Lettura 9.3.14
L’abominio libertario della pedofilia
In Inghilterra negli anni Settanta esisteva una sinistra organizzazione legata ai laburisti
Lo scopo? Abbassare a dieci anni i rapporti consentiti. Una oscura volontà di potenza
di Emanuele Trevi

Come tutti i servizi che pescano nel passato più lontano, anche le recenti accuse mosse dal «Daily Mail» contro alcuni importanti esponenti del Partito laburista inglese, presunti colpevoli di complicità politica con una vera e propria lobby pedofila, meritano di essere considerate con il massimo sospetto. La creazione di potenziali mostri dovrebbe essere sempre libera da finalità spicciole e contingenti, come quella di seminare imbarazzo nel quadro politico. Chi si erge a paladino del dolore delle vittime, prima che le scuse dei presunti colpevoli dovrebbe esigere da se stesso una purezza d’intenti diametralmente opposta alla filosofia del cecchino. Ci sono anche moventi che in apparenza possono sembrare più nobili e filosofici: ed ecco che la pedofilia, questa orribile piaga dell’umanità, fino a ieri impiegata come formidabile arma anticlericale, oggi serve a centrare un bersaglio diametralmente opposto: quello della stagione, ahimè lontanissima, della controcultura, della liberazione sessuale, della battaglia per le libertà civili. Ma mettendo in campo delle generalità, si finisce sempre con l’oscurare ciò che è più importante: l’unicità e l’irripetibilità di chi subisce una violenza, unicità e irripetibilità che fanno del suo caso particolare qualcosa di diverso da ogni altro. Ogni volta che si fa ricorso ai famosi «contesti», non importa se per accusare o difendere, percepisco un’intollerabile svalutazione della vittima, un’incapacità, intellettualmente gravissima, di ragionare dal suo punto di vista.
Per fare l’esempio più ovvio, se le centinaia di morti ammazzati sotto casa da questo o quel gruppo terroristico potessero parlare, ci direbbero che a loro, del «contesto storico» che li ha spazzati via dal mondo, non importa un fico secco. Ciò che è importante del loro destino è l’aver lasciato solo chi li amava, il non poter crescere i propri figli, l’essere privati della loro storia individuale. I «contesti storici» sono comodi per tutti: non uccidono e non proteggono. Semmai, la triste vicenda inglese, come tante altre, ci riporta a una verità universale: i malvagi sono sempre in agguato, aspettano il loro momento, e si aprono i loro varchi in qualunque situazione. La pedofilia è l’esempio più lampante di questa semplice e brutale considerazione: si adatta perfettamente alle società più autoritarie, sia quelle clericali che quelle più libertarie. Corrompe ogni tipo di organismo. Ed ecco che scopriamo che nell’Inghilterra degli anni Settanta, nel fiorire di tante splendide utopie e sperimentazioni, esisteva un’organizzazione dal nome sinistro, come se ne trovano in un romanzo di Thomas Pynchon: Pie, Paedophile Information Exchange. E questa setta aveva un rapporto ufficiale con l’organizzazione laburista che si occupava di diritti umani e civili, ovvero il National Council for Civil Liberties. Qual era lo scopo principale del Pie? Si stenta a crederci, e ci si vergogna anche solo al riferirlo: abbassare a dieci anni l’età che permettesse legalmente di avere rapporti sessuali con un bambino «consenziente». Cosa poi significhi esattamente questo «consenso» ai desideri di un adulto da parte di un essere umano di dieci anni, nessuno lo ha mai spiegato chiaramente. Viene allegata, in totale malafede, la presenza di desideri sessuali che precedono l’età puberale.
Non c’è dubbio che questa è una verità, non solo al livello dei desideri, ma anche a quello delle esperienze più concrete. Si potrebbe definire tutta quanta l’infanzia come l’età dell’esperimento. Ma a questo punto del ragionamento, si apre un bivio. Tutto ciò che fanno i bambini tra loro, ben difficilmente lascia tracce negative. È pura vita: qualcosa che si impara come un gioco, e come un gioco ha i suoi scacchi e le sue soddisfazioni. L’atteggiamento più saggio, da parte degli adulti, è quello di chiudere un occhio, vegliando attentamente con l’altro affinché non ne nascano conseguenze spiacevoli.
Ma ora consideriamo l’intrusione di un adulto in questo gioco: il clima cambia irrimediabilmente. Si determina qualcosa che in genere è troppo doloroso da ricordare, ma che la rimozione rende anche più dannoso. E quando né la memoria né l’oblio danno un soccorso, non si può che rimanere imprigionati nella ferita che si è subìta. C’è qualcuno che potrebbe smentire con sicurezza questo ragionamento? Già immagino chi si balocca col più cretino degli argomenti: i Greci. Tutte le vittime della pedofilia nel mondo occidentale hanno dovuto subire l’onta supplementare di questa balordaggine: ed ecco i Socrati e gli Alcibiadi e soprattutto la supposta «naturalità» dei nostri più illustri antenati in fatto di rapporti con i bambini e gli adolescenti. Davvero non se ne può più di questa turpitudine ammantata di luoghi comuni da liceali.
Lo chiedo agli esperti, ai filologi: a fronte di tutto quello che avevano da dichiarare gli adulti, esiste nella letteratura greca la testimonianza di un efebo felice di essere stuprato? Quanto all’altro mezzuccio dialettico, quello della «naturalità», non c’è bisogno d’aver letto Leopardi per sapere che dalla natura provengono cose come la peste, i terremoti, le eruzioni dei vulcani. Possiamo amare quanto vogliamo la natura, ma lei non è fatta per ricambiarci necessariamente. Tra i suoi scopi manca del tutto la garanzia della felicità dei singoli esseri viventi. Ovviamente, non ero lì, ma ci metterei la mano sul fuoco: nessuno era troppo contento di soddisfare i desideri di Socrate e Alcibiade. Più logico pensare che, diventati adulti, infliggessero agli altri ciò che avevano subito, in una catena di ingiustizie che si è perpetuata nei secoli, ed è arrivata fino a noi servendosi di ogni forma possibile di mala educación , come l’ha definita il grande Pedro Almodóvar.
Dovremmo cercare, in fin dei conti, di sottrarre questa tristissima storia al regno del desiderio, perché il desiderio, in questo caso, non è la sostanza, ma la maschera del peggiore peccato umano, che è sempre, e sempre resterà, la volontà di potenza. Per dirlo in sintesi, la pedofilia è uno degli innumerevoli tentacoli di quel mostro tenace e polimorfo che è il fascismo. Presuppone l’uso di una forza, non importa se brutale o melliflua, che riduce chi la subisce a un oggetto inerte. E per colmo d’infamia, attribuisce a quell’oggetto un «consenso» che esiste solo nella mente dell’adulto, perché nella mente infantile non esiste nulla che assomigli al «consenso». Che il virus del potere non si insinui solo all’interno di un’organizzazione gerarchica com’è una Chiesa, ma anche in una cultura progressista e libertaria, è un fatto che non può che confermare la necessità di sorvegliare con la massima intensità il significato delle parole che usiamo, e dei gesti che ne derivano. Lasciando in pace, una buona volta, i Greci.

Corriere La Lettura 9.3.14
Un’imposta mondiale per un mondo giusto
Thomas Piketty, sulle orme di Karl Marx, ha studiato la crescita del reddito da capitale
La conclusione è che per ridurre le diseguaglianze sociali serve una tassa senza confini
di Michele Salvati

Il saggio di Thomas Piketty Le capital au XXIe siècle («Il capitale nel XXI secolo») è un libro di 960 pagine, e non è finita qui: un gran numero di grafici, tabelle, modelli matematici, informazioni storiche si possono richiamare con un clic da una ricchissima appendice collocata in Internet. E, ciò nondimeno, è un libro facilmente leggibile, a tratti appassionante. I capitoli della prima parte esigono un po’ d’attenzione, è vero. Ma, fatte proprie le definizioni iniziali, il resto scorre, aiutato da una prosa semplice, da esempi letterari gustosi (Jane Austen e Honoré de Balzac dovremo d’ora innanzi annoverarli tra… gli economisti dell’Ottocento), da ricchissimi riferimenti storici per molti Paesi, da polemiche brillanti e alla fine — ma si tratta di centinaia di pagine — dalla discussione di questioni politiche e sociali di estrema urgenza e attualità. Le questioni del debito pubblico e del riscaldamento globale, delle remunerazioni dei dirigenti e dei fondi sovrani, dello Stato sociale nei suoi pilastri principali e della progressività fiscale, del merito e della ricchezza nello spiegare i risultati scolastici e gli esiti professionali, dell’eredità e delle imposte di successione… e tante altre ancora.
Il centro dell’analisi è la distribuzione del reddito annuo di un Paese tra grandi categorie: redditi da lavoro e redditi che provengono dalla proprietà dei capitali, capitali industriali e commerciali, capitali finanziari, capitali immobiliari, incluse le abitazioni di proprietà, capitali agricoli. Dunque ricchezza più che capitale, nell’accezione usata oggi dagli economisti teorici. Questo capitale-ricchezza (d’ora innanzi solo capitale, per semplicità) ha da tempi immemorabili, anche prima del capitalismo e della rivoluzione industriale, generato un reddito per i suoi proprietari, e questo reddito, in rapporto al valore del capitale, è normalmente stato superiore al tasso di crescita del reddito complessivo: tipicamente nell’ordine del 4-5 per cento per il capitale rispetto all’1-1,5 per cento per il reddito nel suo insieme, nella fase capitalistica dopo la rivoluzione industriale.

Stando così le cose, la quota dei redditi da capitale sul reddito complessivo di un Paese ha una tendenza immanente ad aumentare se il capitale aumenta più del reddito, cosa assai facile se i capitalisti non consumano tutti i loro redditi e se, a maggior ragione, vi si aggiungono risparmi da parte dei redditi da lavoro. Rispetto a queste tendenza c’è stata solo una grande eccezione: il periodo tra le due guerre mondiali e fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Qui Piketty ripercorre un terreno già molto arato — quello della eccezionalità delle turbolenze sociali interbelliche e della successiva «età dell’oro» —, ma mai esplorato con questo dettaglio e con una tale abbondanza di dati.
A questa prima parte dell’analisi si aggiunge poi una seconda, quella per la quale Piketty era già giustamente famoso: la distribuzione dei redditi non per grandi categorie, per tipi di reddito, ma per persone o unità familiari. Appoggiandosi, soprattutto per Francia e Regno Unito, a serie di dati fiscali estremamente lunghe e affidabili, egli mostra con grande chiarezza come funzionano i meccanismi — soprattutto quelli ereditari — che conducono alla concentrazione della ricchezza di un Paese in poche mani, all’oggi famigerato 1 per cento della popolazione. Come funzionavano a metà Ottocento, ai tempi di Balzac e di Jane Austen, e come funzionano ora. Già, perché, finita l’eccezione a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, la regola è tornata ad operare in pieno, i redditi da capitale sono tornati al 4 per cento medio al netto di imposte e il tasso di crescita del reddito — esauritisi in Europa e nei Paesi industriali avanzati la grande crescita postbellica e il baby boom — è tornato a livelli mediamente inferiori al 2 per cento.
Queste sono cifre per cui il capitale si accumula quasi da solo, cresce il rapporto tra capitale e reddito e con esso la quota di profitti e altri redditi da capitale nel reddito complessivo. E sono anche condizioni nelle quali, a livello di persone e famiglie, il reddito si concentra e le diseguaglianze si accrescono. Le preoccupazioni per l’eccessiva concentrazione dei redditi, ciò che avviene soprattutto, ma non solo, nei Paesi anglosassoni, sono assai diffuse, ma mai i dati che documentano il fenomeno sono stati esposti con tanta abbondanza e chiarezza, e mai i meccanismi economici e sociali che lo alimentano sono stati analizzati con tanto dettaglio in un singolo, grande libro.
Piketty non vede forze spontanee, interne al capitalismo stesso, che possano contrastare queste tendenze, tendenze che alla lunga generano squilibri, crisi e minacciano lo stesso processo di crescita del reddito complessivo e del benessere. Come era già avvenuto in modo traumatico nel periodo tra le due guerre mondiali e in modo più benigno nell’«età dell’oro», nei trent’anni postbellici, è dalla reazione della società e della politica che ci si può attendere una inversione del «doppio movimento» del pendolo di Karl Polanyi: il movimento di espansione capitalistica e il contro-movimento di autodifesa della società volto a contrastare le conseguenze del primo. Ma Polanyi scriveva in riferimento a Stati nazionali, in cui la società poteva far valere le sue ragioni nei confronti di un sistema politico e di uno Stato sovrano che la rappresentava ed era in grado di influire sul capitalismo nazionale. Ora viviamo in un villaggio globale in cui il capitale spazia senza ostacoli, in cui le unità statali (e democratiche) sono invece molteplici, frammentate e spesso l’una contro l’altra avverse per motivi di interesse nazionale, per carpire i vantaggi che possono provenire dallo spostamento dei capitali nel proprio territorio trasformato in paradiso fiscale.

Quando Piketty descrive minutamente la misura ideale che dovrebbe essere attuata per contrastare le tendenze di cui dicevamo — e vi dedica un capitolo di 45 pagine: «Un’imposta mondiale sul capitale» — lo fa sia per mostrare come questa sarebbe risolutiva, ma soprattutto per analizzare in dettaglio le difficoltà politiche che vi si frappongono in un mondo globalizzato: un’utopia, dunque, anche se un’utopia utile per far capire come va effettivamente il mondo.
Insomma, c’è economia, storia politica e sociale, storia economica, critica dell’ideologia... tutti gli ingredienti del Capitale di Marx: per un economista non marxista, per un economista che usa agevolmente gli strumenti teorici, statistici e matematici dell’economia moderna, si tratta di un risultato notevole, che alimenterà a lungo la riflessione e la critica.
Ambizione eccessiva? Forse. Ma anche insoddisfazione profonda per lo stato dell’economia accademica, un’insoddisfazione avvertita da un numero sempre maggiore di studiosi di questa disciplina. Ad essi è dedicato un breve, ma denso paragrafo finale — «Per un’economia politica e storica» — con il quale sono ampiamente d’accordo, ma nel quale non mi addentro, perché spero che, tra i lettori di questa recensione e del libro, gli economisti di professione siano una minoranza. Il libro può essere letto da un pubblico assai più vasto e merita di esserlo.

Corriere La Lettura 9.3.14
«Dobbiamo restare stranieri per integrarci meglio»
Il sociologo Richard Sennett spiega perché è importante elaborare la diversità, senza imposizioni
di Livia Manera

«Nessuna legge può dare a una persona il sentimento di essere integrata in una società», sta dicendo Richard Sennett nel salotto della sua elegante casa-loft nel quartiere di Clerkenwell, a Londra. «Io penso che dal punto di vista legale le persone dovrebbero avere eguali diritti. Ma penso anche che a ognuno dovrebbe essere lasciata la possibilità di negoziare il suo essere straniero». Alla vigilia di «Libri come», la manifestazione che Richard Sennett inaugurerà il 13 marzo all’Auditorium di Roma, siamo andati a trovare uno dei sociologi più amati in Italia e stimati del mondo per chiedergli di aiutarci a ridefinire il concetto di straniero nell’epoca della globalizzazione. Sennett pubblicherà in aprile da Feltrinelli un libro, intitolato Lo straniero, che si compone di due saggi: uno sulla condizione degli ebrei del ghetto di Venezia nel Cinquece nto; l’altro sull’esperienza dell’esilio, incentrato sulla figura di Aleksandr Herzen, il padre del populismo russo che nel 1847 lasciò la patria per la Francia, la Svizzera e l’Inghilterra. Due visioni sul passato da cui partire per capire il presente. Seduto in poltrona, il pianoforte a mezza coda e il violoncello alle sue spalle, Sennett, che in gioventù è stato violoncellista, scherza: «Io sono lo straniero che ha scritto Lo straniero».
Allora partiamo da qui. Quanto straniero si sente lei, professore?
«Ah, posso darle una risposta biografica. Venendo a vivere a Londra, quindici anni fa, credo di avere chiuso un cerchio. La mia famiglia ha lasciato la Russia dopo la rivoluzione. Era una grande famiglia. Una piccola parte è andata in Germania ed è stata uccisa nella Seconda guerra mondiale. Alcuni sono andati a Londra e altri a Parigi. Ma la maggioranza della famiglia è emigrata in America via Canada. Io sono nato e cresciuto a Chicago, ma non mi sono mai sentito americano. Non siamo mai stati bravi ad assimilarci. La risposta è che sono di casa ovunque e in nessun luogo. Immagino che questa sia la condizione essenziale dell’essere ebreo».
Nel frattempo, quanto è cambiato nel mondo il concetto di straniero?
«È così cambiato che la parola immigrazione è diventata un termine improprio. La gente non va più da un posto all’altro e poi si assimila. Vanno avanti e indietro. Si spostano da una città all’altra. Le faccio un esempio: i polacchi che sono venuti qui in Inghilterra negli anni Novanta ora stanno tornando in patria. Sono persone che mandano i soldi a casa. La globalizzazione ha messo fine allo spostamento di persone da un luogo a un altro come evento decisivo. Dall’immigrazione siamo passati alla migrazione. Credo che anche i migranti che arrivano dall’Africa in Italia si aspettino di ritornare un giorno a casa».
Lei è critico nei riguardi dell’integrazione imposta dall’alto, alla francese. Perché?
«Perché, come spiego nel mio capitolo sugli ebrei a Venezia nel Cinquecento, la tua “stranierità”, intesa in quel caso come segregazione, può diventare anche un vantaggio. Gli ebrei veneziani erano persone che non avevano nessun posto dove andare, ma con il tempo hanno negoziato la possibilità di fermarsi a Venezia, a condizione di vivere da stranieri. Per loro è stato più facile costruirsi una vita come minoranza, che cercare di immigrare. E qualcosa di simile sta succedendo ai musulmani in giro per il mondo oggi. Mantenere la propria identità di musulmani dà loro un certo potere di essere riconosciuti nella società civile, che l’integrazione forzata non dà. Guardi il caso dei marrani, gli ebrei forzati a convertirsi al cristianesimo: di fatto persero il loro status legale. Rimasero discriminati per le loro origini ebraiche, ma persero anche i loro diritti di stranieri».
Quindi lei sta dicendo che una certa emarginazione può dare vantaggi.
«Sì. Quando la Francia dice “dobbiamo essere tutti francesi nel nome di un’idea repubblicana”, di fatto toglie potere agli stranieri, che diventano il gradino più basso della società. Mentre un’identità marginale è qualcosa con cui si può vivere e che si può anche usare. Come fecero gli ebrei del ghetto di Venezia».
Oggi quale nazione sta trattando intelligentemente il problema degli stranieri, secondo lei?
«Ho una certa ammirazione per il Brasile, che con politiche molto illuminate è riuscito a bilanciare i diritti umani con il riconoscimento che le persone devono elaborare le proprie differenze culturali».
E la situazione in Gran Bretagna?
«Non è buona. La paura di un arrivo massiccio di rom dalla Romania e dalla Bulgaria riflette la condizione di un Paese che, indebolendosi economicamente, diventa più isolazionista. Gli operai a sinistra, così come la gente a destra, pensano che tenere fuori gli immigrati li renderà più prosperi: al declino si associa una reazione xenofoba. Credo sia lo stesso in Italia. La difficoltà è portare le persone a liberarsi di questi stereotipi».
Lei scrive che il melting pot è un mito…
«Molti sociologi hanno osservato che le persone conservano una sorta di etnicità simbolica molto tempo dopo essersi trasferite. L’idea di creare un’identità nazionale condivisa è coercitiva e facilita l’esclusione, a meno che non ci si adegui. Per me è più civile pensare che nello schema delle relazioni sociali l’identità non sia così importante».
In che senso?
«Psicologicamente, accettare il fatto che il tuo essere italiano o inglese non sia la cosa più importante di te, perché è un aspetto mobile, può aiutarti a trovare un modo più civilizzato di costruire relazioni sociali».
Dunque, da un lato lo Stato dovrebbe rinunciare all’assimilazione coercitiva, lasciando agli stranieri la libertà di elaborare la propria diversità culturale. E dall’altro l’individuo avrebbe migliori relazioni sociali, se non vivesse la propria identità culturale come l’aspetto più importante di sé. Perché a questo proposito ha scelto l’esempio di Aleksandr Herzen?
«Perché era russo (ride, ndr ). E perché è una delle rare persone che hanno vissuto l’esilio imparando a liberarsi del passato, senza dimenticare. E questo è il grande compito che deve affrontare uno straniero. Come non rimanere prigioniero della memoria, ma allo stesso tempo non negare di venire da un altrove. È un lavoro di artigianato, l’esilio. Richiede applicazione. L’importante è non rimanere prigionieri della propria identità. Come accade invece a quei poveracci che arrivano sulle vostre coste».

Corriere La Lettura 9.3.14
La maledizione dell’Ordine
Templari, il rogo e il mito
Il gran maestro viene arso nel marzo 1314 La storia dura 200 anni, inizia la leggenda
di Ranieri Polese

Parigi, sera dell’11 marzo 1314. Sull’isolotto detto degli Ebrei (oggi unito all’Ile de la Cité), per ordine del re Filippo il Bello, Jacques de Molay, gran maestro dei Templari, e Geoffroy de Charnay, precettore di Normandia, vengono bruciati sul rogo. Prima di essere avvolto dalle fiamme, de Molay pronuncia una maledizione contro il Papa Clemente V e il re: «Vi chiamo a comparire entro un anno davanti al tribunale di Dio per ricevere il castigo che meritate. Maledetti! Maledetti! Sarete tutti maledetti, voi e i vostri discendenti fino alla tredicesima generazione!». Un mese dopo, il Papa Clemente V muore e in novembre muore anche il re Filippo. Nel giro di appena quindici anni, poi, si estingue senza eredi il ramo diretto dei Capetingi. Non citata da nessun testimone diretto (quella sera a Parigi c’era anche il padre di Giovanni Boccaccio, ricordato nel De casibus virorum illustrium ), la maledizione di de Molay — compare la prima volta in un testo del Cinquecento — è un’invenzione. Sarà ripresa infinite volte, darà lo spunto ai sette romanzi di Maurice Druon, Les Rois maudits , ma è falsa.
Da una leggenda all’altra. Ancora Parigi, 21 gennaio 1793. Mentre l’assistente del boia Sanson mostra la testa mozzata di Luigi XVI, uno sconosciuto in mezzo alla folla grida: «Jacques de Molay, sei stato vendicato!». Nasce, questa leggenda, nel clima dell’Europa controrivoluzionaria, che vuol credere in un Grande Complotto alle origini dei misfatti dei giacobini: primi colpevoli, naturalmente, gli illuministi e i massoni. Ma nei molti libelli stampati in Germania e Inghilterra si chiamano in causa anche i Templari e le loro eresie. Riscoperti nel Settecento, i Cavalieri del Tempio erano stati considerati vittime del potere assoluto e dell’oscurantismo della Chiesa. A loro si erano ispirate le confraternite massoniche e altre sette di illuminati. Ora però, nell’ideologia reazionaria, sono cultori di magia nera e adoratori di Satana, che istigano alla sovversione per spirito di vendetta.
La condanna
Ma torniamo all’11 marzo 1314 (la data è quella stabilita dallo storico Alain Demurger, molti altri la fissano al 18 marzo). De Molay ha ormai passato quasi sette anni in prigione da quando, il 13 ottobre 1307, Filippo il Bello lo aveva fatto arrestare insieme a tutti i Templari di Francia. Quella mattina, con altri tre alti dignitari dell’ordine, è comparso di fronte ai cardinali inviati dal Papa e ha confermato la sua prima deposizione. Ma a questo punto viene emesso il verdetto: i quattro sono condannati alla prigione a vita. De Molay e de Charnay protestano e ritrattano la confessione. I giudici si ritirano. Le guardie del re prendono in custodia i due relapsi (si definivano così coloro che rinnegavano le loro deposizioni), che in tutta fretta vengono messi a morte.
Gli storici che si sono occupati del processo contro i Templari (la prima trascrizione integrale si deve a Jules Michelet, 1841-1851) hanno denunciato la mostruosità di un procedimento che prevedeva un sistema di accuse preconfezionate, confessioni estorte con la tortura e la pena di morte per chi ritrattava, i relapsi . Ma hanno anche giudicato troppo incerta e mutevole la strategia difensiva di de Molay.
Interrogato il 24 ottobre 1307 dall’inquisitore di Parigi, de Molay aveva in parte ammesso le accuse contestate a lui e a tutto l’ordine monastico cavalleresco, fondato due secoli prima a Gerusalemme per proteggere i pellegrini e difendere i Luoghi Santi, conquistati dai cristiani in seguito alla Prima Crociata, dalla minaccia islamica. Secondo voci raccolte (e, forse, anche dicerie diffuse da un cavaliere rinnegato) i Templari nei loro riti di iniziazione peccavano di eresia, rinnegando Cristo e sputando sul crocifisso; erano idolatri perché adoravano la testa di un uomo barbuto chiamato Baphomet; infine, tenevano un comportamento sessuale scandaloso, come baciare i loro superiori nelle parti intime e avere rapporti sodomitici con i loro confratelli.
De Molay ammette solo il primo capo d’accusa. Ma viene obbligato a ripetere la sua confessione in pubblico e a scrivere una lettera ai cavalieri perché ammettano le loro colpe. A poco serve il fatto che nel dicembre, davanti ai cardinali mandati dal Papa, il gran maestro ritratti tutto. Anche perché, pochi mesi dopo, in un’audizione a Chinon davanti ai cardinali e agli emissari del re, riconferma la prima confessione. Uno strano comportamento, senz’altro. Ma nel frattempo il re aveva imposto al Papa una spartizione: alla giustizia del re erano affidati i singoli cavalieri; l’ordine nel suo complesso e i dignitari più alti in grado erano di pertinenza del Pontefice. Che comunque, in una bolla emessa dopo l’audizione di Chinon, assolve i cavalieri dall’imputazione di eresia. Poi, convocato ancora una volta di fronte a una commissione papale nel novembre del 1309, de Molay torna a negare tutto. Dopo di allora, non parlerà più. Fiducioso nell’appoggio del Papa, de Molay non sembra tener conto dell’estrema debolezza di Clemente V, il francese Bertrand de Got, che ha spostato la curia a Poitiers. Malato, intimorito, non riesce a opporsi alle prepotenze del re. Che medita di impadronirsi dell’imponente tesoro del Tempio (Dante nel canto XX del Purgatorio attribuisce la rovina dei Templari all’avidità di Filippo) e anche per questo nel 1310 fa condannare al rogo come relapsi 54 Templari che avevano ritrattato le loro confessioni.
La risposta del Papa è lenta. Solo nel marzo 1312 si riunisce il Concilio di Vienne, che sospende l’ordine dei Cavalieri del Tempio e dispone che il loro patrimonio sia affidato ai Cavalieri di San Giovanni. Si deplorano i comportamenti scandalosi del rituale, ma i Templari non sono considerati eretici. Due anni dopo, l’ultimo atto. E con un nuovo colpo di mano di Filippo il Bello, de Molay e de Charnay vengono portati al rogo. I testimoni raccontano che affrontarono la morte con coraggio, affermando una volta ancora la fede del loro ordine.
Un guerriero sconfitto
Figlio cadetto di una famiglia della piccola nobiltà della Franca Contea, Jacques de Molay nasce nel 1245 circa. A vent’anni viene accolto nell’ordine e probabilmente viene presto inviato in Oriente. Perduta Gerusalemme per ben due volte (1187 e 1244), i cavalieri cristiani si sono ritirati a San Giovanni d’Acri. Nel 1291, anche San Giovanni cade nelle mani dei mamelucchi d’Egitto. I Templari si spostano a Cipro, dove, l’anno dopo, de Molay viene eletto gran maestro. La sua prima preoccupazione sarà quella di ridare vigore alle forze cristiane, in vista di una riconquista dei Luoghi Santi. Ma deve affrontare il discredito con cui i Templari, troppe volte sconfitti, sono ormai guardati in Francia e nel resto di Europa.
Fra il 1293 e il 1296, così, viaggia in Occidente, cercando di promuovere una nuova crociata. Al ritorno a Cipro organizza spedizioni sulla costa contro i mamelucchi, conquista l’isolotto di Ruad, al largo della Siria (1300), ma due anni dopo lo deve cedere di nuovo. Cerca l’alleanza con i mongoli di Ghazan, ma la morte del khan mongolo (1304) mette fine al suo sogno di riconquista. Convocato a Poitiers dal Papa, de Molay lascia Cipro nell’ottobre 1305. Non vi farà più ritorno. Quando arriva in Francia è un guerriero sconfitto.
Romanzi
Oggetto da almeno tre secoli di morbose curiosità e di improbabili resurrezioni (ancora oggi sono numerose le confraternite dei Cavalieri del Tempio), i Templari sono diventati ormai popolarissimi personaggi di romanzi. Peraltro, anche nei pamphlet scritti dopo la morte di Luigi XVI, le vicende legate al supplizio di Jacques de Molay vengono narrate come in un fosco feuilleton.
Per esempio, Charles Louis Cadet de Gassicourt, nel suo Le t ombeau de Jacques de Molay (1797), ci racconta che il gran maestro, in prigione, fonda quattro logge massoniche che giureranno di vendicarlo; poi, il giorno dopo l’esecuzione, dei cavalieri travestiti da muratori (maçons ) raccolgono le ceneri di de Molay e le depositeranno nella tomba, ad Avignone, dove l’infame Papa Clemente aveva fatto seppellire un traditore dell’ordine, ammazzato per mano ovviamente dei Templari. Ma è nel 1982, con Il Santo Graal degli inglesi Baigent, Leigh e Lincoln, che la febbre dei Templari diviene, letterariamente parlando, contagiosa. La fantasiosa inchiesta sul Grande Segreto del Graal (Cristo non morì sulla croce, ma sposando Maria Maddalena dette origine alla progenie del «Sang Réal») assegna ai Templari un ruolo importante: avrebbero trovato a Gerusalemme i testi apocrifi dei primi cristiani e degli gnostici, e li avrebbero trasmessi in Occidente. Secondo i tre autori, de Molay, avvertito dell’imminente retata, aveva fatto bruciare codici e documenti e aveva messo in salvo il tesoro del Tempio.
Sei anni dopo, Umberto Eco pubblica Il pendolo di Foucault , un romanzo che è quasi un’enciclopedia delle pseudo-scienze esoteriche e delle leggende che stanno dietro le teorie del complotto. Anche qui, ovviamente, i Templari e il loro gran maestro figurano alla grande. Nel 2003, Il Codice da Vinci di Dan Brown, in gran parte debitore del Santo Graal , diventa il bestseller numero uno mondiale e scatena una vera frenesia. Ormai non si contano più i romanzi sui Templari, sul Graal e sui misteri connessi. Anche un videogame di enorme successo, Assassin’s Creed (2007), si allinea: per lo sceneggiatore, de Molay rinuncia a difendersi e muore sul rogo per far credere ai nemici che i Templari sono definitivamente estinti.
Ma l’Oscar per la fantasia più sfrenata spetta a La chiave di Hiram degli inglesi Christopher Knight e Robert Lomas (1996). In questo saggio semidelirante su «Faraoni, Massoni e la scoperta dei Rotoli del Mar Morto», c’è un colpo di scena che fa impallidire tutti i romanzieri: l’uomo della Sindone è Jacques de Molay! Il lenzuolo conservato a Torino, secondo i due fanta-storici, avrebbe avvolto il corpo piagato e sanguinante del gran maestro dopo la tortura. Che in realtà fu una crocifissione simulata: de Molay fu inchiodato a una porta di legno, venne frustato e alla fine gli fu praticata una ferita sul costato. Sempre i due inglesi aggiungono che al gran maestro fu dato da bere dell’aceto, proprio come a Cristo.

Repubblica 9.3.14
Henri Matisse
I colori e il jazz dell’artista che andava contro il suo tempo
di Fabrizio D’Amico

FERRARA. Oltre cento opere - fra dipinti, sculture, disegni, acquatinte - fanno la mostra di Henri Matisse che - promossa dalle Gallerie Civiche e dalla Fondazione Ferrara Arte, e curata da Isabelle Monod-Fontaine - ospita adesso il Palazzo dei Diamanti (fino al 15 giugno). Con un allestimento accurato e intelligente, è il tema della figura, come s’è sviluppata in tutto l’arco della sua operosità, ad essere oggi guardato: e diciamo subito che le opere esposte bastano appena a documentare un’attenzione al soggetto che fu centrale per Matisse: per colui che è stato con Picasso il vero, immenso dominatore della pittura della prima metà del secolo scorso, che ha disseminato di meraviglie.
Come forse nessun altro fra i maggiori di quel secolo, Matisse rifiutò di scegliere fra le due vie su cui s’era avviata l’arte dei suoi anni; e che rimase per lui insieme d’avanguardia e carica di memorie antiche. E solo la conversione sua ad una pittura più ricca di valori “decorativi” degli anni Venti e Trenta parve identificarsi talvolta con il gusto prevalente del proprio tempo. All’interno di quei decenni, peraltro, si collocano dipinti (come ad esempio il Nudo rosa seduto del ’35, qui esposto) e si danno modi compositivi del tutto alieni da ogni tentazione di una banale regressione naturalistica.
Quanto grande, complesso e sfuggente a ogni catalogazione sia stato Matisse, si tocca con mano a Ferrara all’incirca a metà della visita, quando in un’unica, emozionante sala si affrontano due capolavori come il Nudo seduto di schiena, del 1917 dal museo di Filadelfia, e il bronzo, maggiore del naturale, del Nudo di schiena III, proveniente dal Centre Pompidou di Parigi. Il dipinto è segnato, o piuttosto sgorbiato, da un nero profondo, e vi s’avverte anche in ciò come prossima sia stata l’egida di Manet su questa pittura. Il braccio quasi scheletrico su cui la donna poggia; i piedi che sbucano appena, contratti, dal panno che le copre il ventre, come fossero ragni; e da per tutto un malessere dell’immagine che sembra voler gridare, dalla sua posa composta, un allarme. E poi quella schiena fatta con poco, ma resa di vera carne, bagnata appena dal rosa, segnata profondamente dal solco della colonna. Seduzione e miseria delle forme, proprio come era stato nella Chanteuse de rues di Manet, cinquant’anni prima. E di fronte, isolato nella piccola aula di Ferrara, il bronzo: dove il nudo della donna di schiena giganteggia nel poco spazio che l’accoglie; che l’assedia, lo preme dovunque con le sue masse. Ma anch’esso, poi, apparentemente tetragono a tutto, si svela così indifeso, così commosso; tremante nella sua carne immensa, assalito dalla luce inclemente del giorno, muto e rivolto al muro, quasi versasse una lacrima. Nell’una e nell’altra opera, è come se fossero stretti assieme l’amore per l’esistenza di Matisse, e il suo bisogno di dirla sempre oltre la mimesi, più in là dell’imitazione.
Un’imitazione a cui Matisse s’era sottratto già allo sbocciare del secolo, quando aveva esposto al Salon d’Automne, con gran clamore, fra i fauves, le “belve” che dal meridione della Francia rispondevano agli analoghi annunci di rivolta degli espressionisti tedeschi della Brücke. Era un’avanguardia esplosiva, quella scoperta da Matisse a Collioure in un’estate trascorsa con Derain e con altri nel fragore delle luci feroci del Sud, che toglievano ai colori le loro ombre, e alle cose i loro nascondimenti; e qui la rappresenta proprio il Ritratto di Derain della Tate di Londra. Poi, ancora nel primo decennio, viene quella semplificazione, quel brusco impoverimento e quasi scarnificazione dell’immagine (cui non è estranea, come per Picasso, la conoscenza dell’arte negra), che si ribalta - turgida, sgarbata - sul primissimo piano, incombendovi: così avviene nel Nudo di Copenaghen, e ne La serpentina, bronzo in cui Matisse asciuga e deforma un florido nudo di una giovane prosperosa che ha trovato in una fotografia: coloro che la videro, allora, giudicarono La serpentina un’acme di obbrobrio e di turpitudine - proprio come era apparsa la Petite danseuse de quatorze ans di Degas.
Dopo la “decorazione” degli anni fra le due guerre, Matisse riconquista la sua lingua più asciutta nel ’46-’47: nel momento in cui tutta una generazione di giovani pittori guarda a lui come ad un faro capace di guidarli al porto della grande tradizione moderna della pittura francese. Infine, quell’anno stesso, Teriade pubblica il volume di tempere colorate e ritagliate di Jazz, opera che avrebbe riconsegnato Matisse nelle braccia dell’avanguardia, mentre il pittore prende i contatti per il suo ultimo grande lavoro, la Cappella delle suore domenicane di Vence, che terminerà nel 1950. Morirà poco dopo, nel ’54, a Nizza: in quel sud che aveva infinitamente amato.

Repubblica 9.3.14
John Donne e quel Dio geloso che gli ha rubato l’amore
di Walter Siti

Non sempre la poesia è melodia, dono, leggerezza; talvolta è fatica, complessità, passione dell’intelligenza. John Donne (il più bravo tra i poeti inglesi seicenteschi che furono chiamati “metafisici”) fu criticato dagli stessi contemporanei, e poi lungo tutto il Settecento, per la difficoltà e irregolarità dei suoi versi: si scrisse che «meritava di essere impiccato per il mancato rispetto degli accenti». Sul piano del contenuto lo si accusò di eccessiva e arrogante oscurità, insomma di essere un intellettuale ambizioso che si dedicava alla poesia senza averne la grazia. Se guardiamo questo sonetto (metricamente di tipo inglese, cioè formato da due quartine su due rime e da una sestina con quattro versi a rima alternata e un distico baciato) notiamo numerose sconcordanze tra gli accenti delle parole e quelli che sarebbero obbligati dalla pentapodia giambica: al v. 3 per esempio bisogna leggere “ravishèd” per ragioni di rima, il v. 2 è così pieno di stop and go che non si sa dove appoggiare la voce, il v. 7 sembra troppo lungo eccetera. Si ha la netta impressione che più che il canto a lui interessi il ragionamento, e che tratti la gabbia metrica come se fosse un cilicio. Il punto di partenza è tipicamente petrarchesco: la moglie Anne More, amata appassionatamente per diciassette anni, è morta di parto a soli trentatré dando alla luce (morto) il loro dodicesimo figlio.
Questa morte gli ha fatto capire la caducità degli affetti umani e lo ha avvicinato all’amore divino. Il v. 2, di difficile interpretazione per l’anomalia di quel pronome (“hers”) prolettico che sta al posto dell’aggettivo (“her”), significa probabilmente che lei, morendo, ha privato se stessa della vita e lui dell’amore (ma alcuni lo leggono come se fosse ancora riferito a “pagare il debito”: alla Natura, e a se stessa in quanto femmina, essendo appunto morta di parto). Come nella tradizione, la donna conduce a Dio perché è una scintilla di divinità scesa in terra, affina la mente degli amanti e li ingentilisce. A Donne però questo non basta: se Dio è la sorgente dell’amore, e dunque dovrebbe placare qualunque sete d’infinito, ciò nonostante lui la sete ce l’ha ancora come succede agli idropici, anzi questa idropisia è sacra. C’è dunque una sacralità che si oppone a Dio? Dio è come un innamorato che si sia messo in concorrenza con la moglie: offre tutto se stesso in cambio dell’anima di lei che si è portato in cielo, ma teme che la sua offerta sia respinta. Un Dio Insicuro? A Petrarca sarebbe parsa una bestemmia. Donne proveniva da una famiglia cattolica e si era convertito all’anglicanesimo, nel 1615 era diventato Cappellano Reale - gli anglicani rimproveravano ai cattolici di dare troppo peso ai santi e agli angeli, quasi fosse una forma di idolatria. Ma Donne, personalmente, fornisce a Dio ancora più motivi per essere geloso: il mondo la carne e il diavolo, cioè le tentazioni terrene, non sono mai morti del tutto dentro di lui. Nell’ultimo dei sonetti sacri ammette che i propri «accessi di devozione » vanno e vengono «come una febbre terzana».
L’elemento centrale della sua poesia è il dubbio: vive profondamente gli sconvolgimenti filosofici e scientifici della sua epoca. L’esistenza stessa di Dio è messa in forse, le scoperte astronomiche scardinano l’ordinato sistema tolemaico, quelle mediche suggeriscono un diverso rapporto tra corpo e anima. Donne è un temperamento carnale, il suo platonismo somiglia a quello di Michelangelo; anche dopo che è diventato un ministro della Chiesa esprime le cose spirituali con un immaginario materialista: in un altro sonetto sacro dice a Dio «non sarò mai casto, se tu non mi violenti». Traduce i più delicati momenti dell’emozione in metafore concrete, di un’evidenza aggressiva; di due innamorati che si guardano teneramente scrive «gli sguardi infilzano i nostri occhi su un doppio filo». Assomiglia al quasi coetaneo Shakespeare, e come lui concepisce la vita in termini di scontro drammatico. Qui, nel nostro sonetto, si confronta alla pari con Dio: mi hai tolto la donna che amavo e io mi piego alle convenzioni religiose, ma sappi che non mi hai convinto del tutto anche se ti sto rassicurando che non ti tradirò mai. Sembra il discorso di certi melliflui luogotenenti shakespeariani.
Quello che nel resto d’Europa si chiama concettismo barocco, cioè un’arguzia spesso puramente retorica di parallelismi e paradossi (usando paragoni teologici per illustrare l’erotismo e viceversa, o metafore prese dall’astronomia, dall’ottica, dalla botanica) in mano a Shakespeare e a Donne si trasforma nell’idea che il mondo intero è un organismo vivente di cui non siamo che un atomo; l’amore diventa un’esperienza cosmica o biochimica. Il matrimonio per Donne è un legame ultraterreno proprio perché fisico, un pegno di certezza; se dopo la morte della moglie è nervoso anche con Dio significa che lei era la bussola (l’asta fissa del compasso, come dice in un’altra poesia, capace di chiudere il cerchio di lui che va in giro). Per questo la sua poesia, criticata dai contemporanei, è stata riscoperta e rivalutata nel Novecento da poeti (come Montale ed Eliot) che cercavano una lirica in cui pensiero e sensazione fossero alleati.

Repubblica 9.3.14
I territori della psiche
A cura di Doriano Fasoli

PSICOLOGIA DELLA CONCILIAZIONE TRA LAVORO E FAMIGLIA
Con esempi concreti tratti da ricerche effettuate in contesti lavorativi, offre il contributo della psicologia del lavoro e delle organizzazioni alla comprensione delle dinamiche che modulano l’equilibrio tra ruolo lavorativo e vita privata.
a cura di C. Ghislieri e L. Colombo Raffaello Cortina Pagg. 226, euro 20UN

CUORE CHE PENSA
La psicoanalisi funziona se il terapeuta è capace di imparare dai pazienti, se è in grado di cercare sempre nuove strade per comunicare con loro, così da inquadrare nuovi modi per raggiungere i pazienti in uno schema più ampio.
di Anne Alvarez Astrolabio Pagg. 307, euro 28

UN MESTIERE “IMPOSSIBILE”
Ventuno terapeuti danno vita ad una virtuale tavola rotonda sul mestiere di psicoanalista. Rispondendo a 17 domande offrono un coinvolgente resoconto personale sulle motivazioni che li hanno indotti ad esercitare questa professione.
a cura di AA. VV. Franco Angeli Pagg. 208, euro 26

L’AMBIGUITÀ DEL PATIRE
Il libro analizza la sofferenza in quei pazienti che scelgono di ricavarsi un tempo e uno spazio nei luoghi della cura psicologica, chiedendo un ascolto che i farmaci non possono e non sanno dare.
di Enrico Ferrari Moretti & Vitali Pagg. 258, euro 18

IL TRAUMA E IL CLIENTE EVITANTE
Oggetto del libro è la terapia del trauma. Le esperienze traumatiche che hanno a che fare con l’attaccamento, l’abuso o la trascuratezza all’interno della famiglia, e i lutti traumatici sono i principali fattori di stress.
di Robert T. Muller Giovanni Fioriti Pagg. 207, euro 22

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Il Sole Domenica 9.3.14
Il classico vicino a noi
La mitografia non passa mai di moda
Una mappatura dei miti greco-latini conterrebbe quasi 14mila nomi e vicende. Un manuale per navigarci dentro
di Carlo Carena
 
Una mappa completa del mito greco-latino, una genealogia che partendo dal regno di Saturno e dalla nascita di Zeus scendesse per li rami alle divinità olimpiche (Era, Apollo, Afrodite, Ermes, Pallade, Posidone, Ade…; e poi Demetra, Persefone, Dioniso…) e agli eroi (Prometeo, Eracle, greci e troiani…) e alle leggende più poetiche (Adone, Arianna, Dafne…) sarebbe impossibile per la sua vastità. Come attesta la Bibliotheca classica, ora Classical Dictionary del reverendo John Lamprière, apparso la prima volta a Londra nel 1738, ripetutamente e tuttora ristampato manuale di inesauribile vantaggio e attrattiva, utilizzato da secoli da studenti, studiosi, poeti: i biografi dicono che Keats lo conoscesse quasi a memoria e i critici ne hanno rilevato tracce quasi letterali nell'Ode su un'urna greca. Vi figurano circa 14.000 nomi propri, di cui forse la metà mitologici o comunque connessi con la mitologia. È, se non altro, un segno della ricchezza, della penetrazione e dell'insediamento di quel deposito di favole e di verità, di cui era sgomentato anche Boccaccio. Nel Proemio delle Genealogie deorum Gentilium egli scrive di tremare al solo pensiero del soverchio peso di dover addentrarsi «tra gli aspri deserti dell'antichità» per «raccorre lo sbranato, minuzzato, consumato, e quasi in ceneri già ritornato gran corpo de' Dei Gentili, e de' famosi heroi». Per non accostarsi all'immenso «tronco metafisico poetico» di Giambattista Vico, attraverso il quale la sapienza poetica si dirama nella fisica, nella cosmografia, nell'astronomia, nella cronologia e nella geografia: prova della verità e risultati veritieri dei miti, non invenzioni oziose e oscene, o suggestive e arcane, ma storia vera espressa da un'età primitiva del mondo e imborghesita nei rifacimenti delle età "colte". «Non si può dare tradizione, quantunque favolosa – si legge nella Scienza nuova –, che non abbia da prima avuto alcun motivo di vero». Ma proprio questa condizione attraeva poco altri in quello stesso giro di anni. I miti, racconta Fontenelle nella rapida Origine des fables (1724), sono sì espressione genuina e spontanea della fanciullezza dell'umanità, di quei poveri selvaggi che hanno abitato per primi il mondo; ma non per ciò o proprio per ciò meno confusi e menzogneri. Che amore era mai questo degli uomini per falsità manifeste e ridicole? I miti sono «uno dei prodotti più strani dello spirito umano», che vi mescola – miscela la più deliziosa – lo strano al meraviglioso, «filosofia veramente grossolana» di gente ignorante.
Basta e avanza richiamare solamente alcuni miti fondamentali ed esemplari per il loro valore e significato sia nelle religioni e letterature antiche, sia nelle riprese entro le letterature moderne. Queste, specialmente in certe epoche, in taluni generi letterari e in tematiche cruciali, sono state infatti dipendenti o hanno ripreso in vari modi, nel semplice modo poetico o nell'interpretazione e ricreazione letterario-filosofica, grandi e piccoli miti cantati dai poeti classici. Il mito stabiliva un legame per i gruppi in cui veniva continuamente narrato, esprimeva e costituiva i valori e le istituzioni di quella società. L'aspetto religioso o d'intrattenimento è più accentuato negli uni o negli altri, nei miti cosmogonici e teogonici, eroici o genealogici, rituali o eziologici. Li cantava in epoca omerica l'aedo nel banchetto dei nobili, li ripetevano i cori nelle feste locali e panelleniche, li rappresentava il teatro nella città democratica.
Queste sono anche altrettante tappe e luoghi della sua evoluzione… I Greci cercarono di esorcizzare il mito tenebroso e fatale, di iniettargli una forma, che viene dall'intelligenza e dall'arte; di inserire divinità luminose e sane, belle e serene, la solarità senz'ombra, la luce senza tramonti, piuttosto l'umano, e quindi il possibile se non il vero, anche nella mitologia, anziché il mostruoso e l'assolutamente, inutilmente immaginario, come preferiva l'Egitto e preferirà il Medioevo nordico. La decorazione scultorea del Partenone con la Centauromachia, l'Amazzonomachia e la Gigantomachia ricordava a tutti gli Ateniesi gli scontri millenari e immani da cui era nata la loro civiltà; la fatica e il rischio attraverso cui si civilizzano le nazioni e gli uomini. Perché un pensiero era insito sin dagli inizi in una simile immaginazione, e una simile mitologia era obbligata a procedere sino alla filosofia.

Il Sole Domenica 9.3.14
La Grecia della Weil
di Piero Boitani
 
«Tre donne intorno al cor mi son venute», intona Nadia Fusini con Dante, per parlare di Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt. Tre donne che si sono sfiorate, talvolta incontrate, che sono comunque legate l'una all'altra da fili sottili, da destini spesso simili, da una sensibilità fuori del comune. Lettrici e scrittrici, prima che filosofe: danzatrici della lingua, vedono «la complicità tra il fantasma della forza e l'attitudine alla sottomissione, il nodo che aggioga vittima e carnefice nella medesima anestesia del corpo e della mente». In un libro allo stesso tempo intimo e chiaro, Nadia Fusini entra, con l'aiuto dell'amata Virginia Woolf, nell'anima (e nel corpo) di Simone, Rachel e Hannah: delicatamente e parlando, per così dire, sottovoce. Affascinata dalle tre, ne narra le vicende, rievoca i personaggi (Auden e Jean Wahl, in particolare), i luoghi e gli episodi che fanno di esse un intreccio: le comprende sino in fondo. Insomma, un libro da gustare e soffrire, che servirà a mirabilmente introdurre Simone, Rachel e Hannah al lettore che già non le conosce, e che si accompagna per fortunata coincidenza al volume che Adelphi, con cura impeccabile, dedica agli scritti sulla cultura e la letteratura greca della Weil, La rivelazione greca. Un libro di intensità e luminosità uniche, dal quale emerge non una filosofia, ma un modo di guardare a ciò che lo spirito ha intessuto. Ecco: «Vocazione di ogni popolo dell'antichità: un aspetto delle cose divine (eccetto i Romani). Israele: unità di Dio. India: assimilazione dell'anima a Dio nell'unione mistica. Cina: modo di operare proprio di Dio, pienezza dell'azione che sembra inazione, pienezza della presenza che sembra assenza, vuoto e silenzio. Egitto: immortalità, salvezza dell'anima giusta dopo la morte mediante l'assimilazione a un Dio sofferente, morto e resuscitato, carità verso il prossimo. Grecia (che ha subito una forte influenza dell'Egitto): miseria dell'uomo, distanza, trascendenza di Dio».
Un'abbagliante capacità di sintesi, una precisione formidabile: si può discutere, pensando a Virgilio e altri, l'eccezione romana, ma non si può negare l'esattezza di questa diagnosi orientata, tagliata sul solo aspetto delle cose divine. È questo, infatti, che interessa a Simone, che l'appassiona, l'ossessiona, la fa vivere di nulla e trascurare se stessa. È Dio. Quello di Eraclito: logos che è pensiero, legge e fuoco (nei frammenti Simone ritrova la speranza, la fede, la nullità delle virtù umane, l'uguaglianza degli uomini, la salvezza come solo bene, la vita come morte dell'anima e la morte come vita dell'anima). Quello di Platone, «autentico mistico, e addirittura il padre della mistica occidentale» (tra le pagine più affascinanti). Quello degli Inni a Zeus di Eschilo nell'Agamennone e dello stoico Cleante. Dio cerca l'uomo, lo chiama: «nel Vangelo», nota Simone, «non si parla mai di una ricerca di Dio da parte dell'uomo. In tutte le parabole è il Cristo che cerca gli uomini». Nella rivelazione greca, miti e testi letterari, secondo la Weil, ritornano costantemente a questo tema. La sua interpretazione si fa, ora, spirituale, mistica: allegorica nel senso che ogni episodio viene letto come allusione a un piano trascendente. La bellissima scena di riconoscimento tra Oreste ed Elettra nell'Elettra di Sofocle, che fa immediatamente pensare a quella tra Maria Maddalena e Gesù nel Vangelo di Giovanni («si crede di avere davanti a sé uno straniero, e invece è l'essere più amato»), evoca «in modo chiarissimo il tema del Dio morto e resuscitato» e implica un doppio riconoscimento: «Dio riconosce l'anima in virtù delle sue lacrime, quindi si fa riconoscere». L'audacia di Simone è pari, qui, a quella di un Padre dei primi secoli (basterà il raffronto con Miti greci nell'interpretazione cristiana di Hugo Rahner). Ma perché i Greci hanno elaborato questi miti? Ebbene, risponde Simone, all'origine della storia greca si trova un «crimine atroce»: la distruzione di Troia. I Greci non se ne sono gloriati, ma sono stati assillati dal ricordo di quel delitto «come da un rimorso» e in esso hanno attinto il sentimento della miseria umana. E per l'appunto, l'intera civiltà greca è una «ricerca di ponti da lanciare tra miseria umana e perfezione divina». La Guerra di Troia, questa prima tra le guerre mondiali (che giungono proprio sino al momento in cui Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt scrivono), è il peccato originale della civiltà greca, e l'Iliade, il poema che ne canta un episodio, è il «poema della forza»: la forza adoperata per sottomettere gli altri, la forza che rende chiunque le sia sottomesso "una cosa". Questa forza, secondo Simone Weil, non conosce né requie né redenzione, nell'Iliade: che è una sequenza senza speranza e senza pietà di uccisioni e di morti. Nadia Fusini, nutrita dal grandissimo libro sull'Iliade di Rachel Bespaloff, rimprovera Simone di aver commesso qui un paio di errori d'omissione per sostenere la propria visione del poema. Simone risponderebbe che anche lei ha visto «il trionfo più puro dell'amore», cioè «l'amicizia che sorge nei cuori di nemici mortali», nell'incontro tra Priamo e Achille, uno dei rari «momenti di grazia» dell'Iliade. Ma non è questo ciò che le preme. Al termine del celebre saggio, Simone è invece tutta protesa a dimostrare che la tragedia è la vera continuazione dell'epopea, e soprattutto a suggerire, in paradossale sorpresa, che «il Vangelo è l'ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l'Iliade ne è la prima».
Simone Weil, La rivelazione greca, a cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano, pagg. 490, € 28,00; Nadia Fusini, Hannah e le altre, Einaudi, Torino, pagg. 160, € 18,00

Il Sole Domenica 9.3.14
Due spari una Guerra
Tutto iniziò con i due colpi di Sarajevo il 28 giugno 1914. Il caso ebbe la sua parte ma il conflitto fu scelto anche da chi aveva il potere di evitarlo. L'anteprima del libro di Emilio Gentile sull'evento bellico che cambiò la Storia
di Emilio Gentile

Il 1° agosto 1914 iniziava la Grande Guerra. Forse nessuno la voleva, ma nessuno seppe evitarla. Non fu inevitabile per fatalità, ma non esplose neppure per caso, anche se il caso ebbe la sua parte. Fu decisa da uomini che avevano il potere di scegliere fra la pace e la guerra. E scelsero la guerra.
La guerra fu dichiarata dai governanti senza consultare i governati. Tuttavia, in nessuno degli Stati belligeranti gli uomini mobilitati, che andarono al fronte per uccidere o essere uccisi, si ribellarono contro i loro governanti. Molti pensavano che la guerra sarebbe durata pochi mesi; pochi previdero che sarebbe durata alcuni anni. Le previsioni dei pochi furono offuscate dalle illusioni dei molti.
La Grande Guerra durò cinquantatré mesi. Vi parteciparono le maggiori potenze mondiali e Stati minori di tutti i continenti. Furono mobilitati circa settanta milioni di uomini. Le ultime classi chiamate a combattere furono formate da giovani nati fra il 1899 e il 1900. I combattimenti della Grande Guerra cessarono l'11 novembre 1918.
Il mio libro descrive aspetti peculiari o tipici dei combattenti e del combattimento, delinea fenomeni e comportamenti collettivi, che mi sono sembrati più rappresentativi della Grande Guerra e utili a far comprendere la sua natura e il suo significato. ... Il racconto si svolge secondo un punto di vista che esclude la necessità inevitabile degli eventi e attribuisce agli individui la responsabilità delle loro decisioni, ma considera anche che su ogni decisione influiscono forze, circostanze, contingenze, necessità, che sfuggono al controllo della ragione e alla previsione del singolo individuo. È un punto di vista che non esclude il caso dalle vicende umane.
Secondo questo punto di vista, la concatenazione degli avvenimenti, che ebbe origine da due colpi di pistola sparati a Sarajevo il 28 giugno 1914, e culminò con l'esplosione della Grande Guerra, non aveva nulla di inevitabile. Essa dimostra inoltre come le scelte e le decisioni dei governanti possano avere conseguenze imprevedibili, terribili e irreversibili per la massa dei governati. Dieci milioni di morti e la fine di un mondo, fondato sul primato dell'Europa e sulla fede nel progresso di una modernità trionfante guidata dalla ragione, furono il risultato della concatenazione degli avvenimenti originata dai due colpi di pistola sparati a Sarajevo cento anni fa. ...
La Grande Guerra divenne inevitabile per una concatenazione di eventi e di decisioni, che coinvolsero i governanti dei maggiori Stati europei. Dopo l'ultimatum dell'Austria alla Serbia 23 luglio 1914, essi si erano trovati di fronte a un confuso accumularsi di circostanze impreviste, che li costrinsero a prendere decisioni gravide di terribili conseguenze. Le loro decisioni, prese sotto l'incalzare di informazioni, notizie, comunicazioni, voci, minacce, ammonimenti, appelli alla prudenza, incitamenti all'azione, furono influenzate dalla considerazione degli interessi nazionali e individuali che erano in gioco, dalla percezione della situazione interna e internazionale, e dalle congetture sui suoi possibili sviluppi. Alcuni, come i tedeschi, furono più propensi di altri ad accettare il rischio di una guerra generale, ma tutti agirono mossi più dalla paura di essere aggrediti che dalla volontà di aggredire. Nessuno dei governanti che dichiararono guerra avrebbe voluto provocare un conflitto continentale, ma nessuno fu capace di impedire che ciò avvenisse. Tutti erano convinti di essere stati costretti dalla necessità di difendere il loro Paese da un'aggressione. Alla fine, non fu una ragionevole razionalità, politica, diplomatica, militare o economica, a prevalere nelle scelte e nelle decisioni dei governanti, ma una irragionevole razionalità, mossa dal senso dell'onore, dal patriottismo, dal nazionalismo e dalla ragion di Stato. ...
I due colpi di pistola sparati il 28 giugno 1914, provocando dieci milioni di morti per effetto delle loro conseguenze, furono l'inizio della fine di un mondo. ...
Durante l'estate del 1914, nel corso di poche settimane, le popolazioni del continente più progredito, più evoluto, più colto, più civile, più ricco e più potente del mondo precipitarono nell'abisso di una guerra immane, con un'improvvisa esplosione di odio, di crudeltà, di massacri e di orrori, che non aveva eguali nella storia del genere umano. ...
In pochi mesi, l'epoca bella della modernità trionfante si era tramutata nell'epoca tragica della modernità massacrante. L'orgoglio dell'umanità progredita si era trasformato nella furia omicida della stessa umanità, che aveva concentrato tutte le sue energie morali e tutte le sue forze produttive in una guerra senza fine, dove l'unico scopo era l'annientamento del nemico. Esplosa quando la civiltà europea era all'apogeo della sua egemonia mondiale, la Grande Guerra aveva dimostrato di quanta crudeltà fosse capace la parte più civilizzata e più progredita dell'umanità, che non aveva esitato a usare tutte le risorse della produzione industriale, le conquiste della scienza e della tecnica, l'efficienza organizzativa degli apparati statali, l'ingegno, la cultura e le arti per produrre una gigantesca macelleria umana allo scopo di conseguire la vittoria su un nemico disumanizzato, demonizzato e bestializzato.
La tutela della vita umana, la libertà delle persone, la ricerca della verità, la solidarietà fra i popoli civilizzati, che erano state fino al 1914 gloria e vanto del primato europeo nel mondo, apparivano irreparabilmente violate dallo scatenamento delle più feroci passioni umane scatenate nella carneficina di massa. «La guerra – constatava un soldato francese – non ha fatto di noi soltanto dei cadaveri, degli impotenti, dei ciechi, ma, nel bel mezzo di stupende azioni di sacrificio e di abnegazione, ha risvegliato nel nostro animo antichi istinti di crudeltà e di barbarie, talvolta portandoli al parossismo. A me è capitato, a me che mai ho dato un pugno a qualcuno, a me che ho in orrore il disordine e la brutalità, di provare piacere nell'uccidere». ... Antichi flagelli, che la modernità sembrava aver debellato per sempre dal continente europeo, furono resuscitati e scatenati con rinnovato vigore dal nuovo e moderno flagello della guerra totale.
La morte, che la fede del progresso aveva preteso di relegare fuori dall'orizzonte della modernità trionfante, aveva riconquistato il suo potere sulla vita quotidiana di milioni di uomini, falciandoli con una ferocia mai sperimentata prima nella lotta fra gli esseri umani.
Mai tanti individui erano stati massacrati contemporaneamente in una tanto immane carneficina di massa. Mai tanti milioni di esseri umani erano stati coinvolti contemporaneamente nell'esperienza tragica di un immenso dolore collettivo. I monumenti ai morti, innalzati per consolare il dolore di milioni di famiglie, promettendo di perpetuare la sacralità dei caduti nella memoria delle future generazioni, rappresentarono anche il monumento funebre della modernità trionfante, che si era suicidata nella Grande Guerra.

Il Sole Domenica 9.3.14
La retorica è in agguato
di Paolo Pombeni
 
Gli anniversari potrebbero essere delle buone occasioni per riprendere in mano dei problemi. Possono però anche essere la scusa per un eccesso di retorica: ecco dunque la trappola che bisogna evitare nella celebrazione del centenario della «Grande guerra», celebrazione che sta coinvolgendo le principali nazioni europee.
Ciò che colpisce, almeno in questa prima fase, è che non si colga l'occasione, a quel che sembra, di fare di questa celebrazione una riflessione di lungo periodo. Nel 2014 non ricorrono solo i cento anni dallo scoppio di quella che diventerà la «Prima guerra mondiale», ma anche i 200 anni dall'apertura del Congresso di Vienna e i 70 anni dalla liberazione di Parigi dall'occupazione nazista, evento che può ben simboleggiare l'inizio della fine del sogno hitleriano del "Reich millenario". Insomma, a ben vedere, il 2014 sarebbe una meravigliosa occasione per riflettere su un ciclo davvero "storico" della vicenda europea.
A Vienna nel 1814-15 si era messa la parola fine al tentativo napoleonico di unire il continente sotto un sistema che facesse convivere a un tempo una sola egemonia politica e una sola egemonia culturale (quella, riadattata, dell'estensione/imposizione della razionalità politica dell'illuminismo). L'Europa avrebbe dovuto invece tornare a essere, o, per meglio dire, avrebbe dovuto diventare un "concerto di potenze". Nessuna di esse doveva essere in grado di imporre da sola la propria egemonia, ma la loro collaborazione avrebbe dovuto tenere sotto controllo le pulsioni "nazionali" che si pensava complicassero inutilmente la geografia politica.
Si può discutere quanto il grande disegno di Metternich e compagni abbia resistito nel tempo. Secondo alcuni, pochi anni, perché la "restaurazione" (piuttosto creativa e poco restauratrice del pregresso) era già andata in crisi nel 1848 e col 1870 la nascita dell'impero tedesco, il consolidarsi del regno d'Italia, la sconfitta del rinascente sogno napoleonico disegnavano una diversa Europa. Ma si è anche sostenuto che, nonostante tutto, si sarebbe potuto trattare di "aggiustamenti" del sogno restaurativo, i quali in realtà non mettevano in crisi sostanziale quel grande disegno d'equilibrio. Esso si sarebbe infine infranto nel 1914 proprio per il precipitare del continente in una guerra per l'egemonia, perché in definitiva il "concerto" richiedeva un direttore d'orchestra e tutti pensavano che quel ruolo si potesse conquistare solo sul campo di battaglia. Al di là delle retoriche che nei vari Paesi "giustificavano" lo scoppio di una guerra, che tutti pensavano essere soluzione insana se avesse messo fine a una età di relativo benessere, stava l'illusione che si sarebbe trattato semplicemente di combattere una "guerra moderna".
È curioso rilevare quanto questo concetto, che poi sarebbe stato per così dire formattato dal quinquennio bellico, in partenza fosse assai diverso. Secondo gran parte dei protagonisti dell'epoca le guerre "moderne" erano quelle austro-prussiana del 1866 e quella franco-prussiana del 1870: scontri che, secondo la teoria di von Moltke sulla guerra di annientamento, si risolvevano di fatto in una o in poche grandi battaglie. Poi si passava al tavolo delle trattative per consolidare guadagni e perdite. Poco prima così si era svolta la guerra russo-giapponese del 1904-5.
Non andò ovviamente in questo modo, proprio perché la "modernità" delle tecnologie, dei sistemi di mobilitazione di massa (politica prima ancora che militare), della nuova dimensione della geopolitica fecero prendere un altro corso agli eventi.
Eppure l'Europa, in cui adesso si inserivano con ruoli inizialmente marginali gli Usa e le potenze asiatiche, non imparò la lezione. La pace fu "cartaginese", come scrisse Keynes, perché con l'adesione poco convinta delle potenze vincitrici al razionalismo riorganizzatore del presidente americano Wilson si finì per mascherare la ricerca di aree di predominio a loro beneficio. Che poi l'Italia in questo frangente abbia mostrato tutta l'arretratezza culturale delle sue classi dirigenti, almeno in tema di gestione delle relazioni internazionali, è un'altra questione che potrebbe suggerire oggi qualche utile riflessione.
Si arrivò così a giocare il "secondo tempo" del conflitto del 1914-18 con la "Seconda" guerra mondiale, che peraltro non concluse solo la mitica "guerra dei trent'anni" dell'età contemporanea, ma invece determinò la morte dell'egemonia europea intesa nelle antiche modalità e spinse poi a ricostruire una diversa Europa, sia in termini di "geografia" che di perdita di centralità nelle vicende mondiali. Oggi una seria riflessione su quel ciclo aiuterebbe, credo, a capire meglio la complicata situazione in cui versa l'Europa (che, anche questo è curioso, celebra nel 2014 anche una difficile tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento della Ue). Di nuovo torna di attualità il problema dell'egemonia nella guida del continente per l'uscita da una congiuntura storica piuttosto complicata.
Per questo sarebbe meglio celebrare il centenario del 1914 con una riflessione storica approfondita, piuttosto che col rivangare irredentismi fuori tempo, celebrare miti eroici che rischiano di diventare telenovele, promuovere restauri che saranno restaurazioni senza senso, e insomma favorire tutto il revival delle leggende che, tradizionali o "revisioniste" che siano, servono a ben poco per quello che un tempo si sarebbe chiamato il progresso civile e morale di una nazione e di un continente. 

Il Sole Domenica 9.3.14
La responsabilità dei singoli
Per Margaret Macmillan la I Guerra mondiale fu decisa da pochi potenti individui, convinti che essa non avrebbe messo in pericolo l'assetto del Continente né lo status delle élite
di Gianni Toniolo
 
Come sarebbe stato il World Economic Forum del 1914? Se lo chiede Margaret Macmillan in un intelligente pezzo di storia controfattuale apparso sul «Financial Times» del 19 gennaio scorso. Vi avrebbero partecipato lord inglesi, granduchi austriaci, magnati americani, diplomatici giapponesi in esplorazione, proprietari di miniere brasiliani e, naturalmente, banchieri del calibro di JP Morgan. Non ci sarebbe stato lo zar, poco amante dei viaggi, ma non sarebbero mancati ministri dei principali Paesi. Il centro dell'attenzione sarebbe stato conquistato dai guru delle nuove tecnologie che stavano cambiando il mondo: Edison, Marconi, Zeppelin e altri ancora. Montague Norman, non ancora governatore della Banca d'Inghilterra, avrebbe fatto un po' il guastafeste con i suoi ammonimenti sull'instabilità del sistema finanziario internazionale. Il presidente americano Wilson non avrebbe attraversato l'Atlantico per l'occasione (colta, invece, dal Kaiser) ma avrebbe mandato un preoccupato messaggio sui rischi per la stabilità sociale della crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Quelle di Norman e Wilson sarebbero però state voci isolate, sommerse dall'ottimismo della grande maggioranza dei partecipanti. Tutti si sarebbero salutati, dandosi appuntamento nel 1915 tra le nevi di Davos.
Uno dei temi ricorrenti nel fiorire di libri sulla prima guerra mondiale (il centenario aiuta ma il tema non aveva mai perduto un proprio fascino ambiguo) è quello della normalità della vita in Europa nel 1914, perfino in luglio. Se si fossero già tenuti gli incontri di Davos, quello del 1914 sarebbe andato come lo immagina Macmillan. Nella stessa vena, Florian Illies (1913. L'anno della tempesta, Marsilio) ha proposto una serie di quadri, vere e proprie istantantanee, su aspetti della vita nel 1913, in un'Europa che credeva, con Norman Angell (The Great Illusion, 1910), che la guerra fosse semplicemente impossibile, mentre i Sonnambuli di Christopher Clark (Laterza) camminavano ignari verso l'abisso. Nella medesima vena, Margaret Macmillan (canadese, Warden del St. Antony's College di Oxford) ricerca le cause della guerra in un mondo che sembrava capace di gestire senza danno estremo crisi anche gravi come quella balcanica, un mondo che si vedeva avviato sul sentiero di prosperità crescente sospinta da un mirabolante progresso tecnico e che nutriva nel proprio seno, accanto alle spinte nazionaliste e militariste, robusti movimenti pacifisti, popolati non solo da socialisti ma anche da capitalisti come Carnegie e Nobel, che donò la propria fortuna alla causa della pace e della comprensione tra i popoli (Macmillan dedica molte pagine alla prima vincitrice del Nobel per la pace, Bertha von Suttner, oggi dimenticata ma allora figura carismatica).
Macmillan possiede un talento letterario non comune tra gli storici: riporta in vita personaggi noti e meno noti, dipinge scene di vita quotidiana, rende leggibili anche le aride, complesse vicende della diplomazia internazionale e quelle della politica interna che ne spiegano in gran parte la dinamica. Nonostante il titolo italiano, il libro è però ben più che un racconto dell'Europa nell'anno della Guerra che terminò la pace, come suona, meno banalmente di quanto sembri, il titolo originale. È soprattutto una nuova ricerca delle cause di una guerra che continua a ossessionare noi europei. Un'ossessione che gli americani faticano a capire ma che, da questo lato dell'Atlantico, in quest'anno centenario si capisce facilmente pensando ai primi giorni dell'agosto 1914 come all'inizio della trentennale guerra civile europea o addirittura come la madre del corto e doloroso ventesimo secolo, se si pensa che solo tra il 1989 e il 1992 si chiuse l'eredità della tragica estate del 1914.
La tesi di Macmillan sulle cause della Grande Guerra non è particolarmente nuova. Talvolta accusata di essere una storica troppo tradizionale, Macmillan crede che la storia sia diretta dalle personalità, dalle volontà di singoli e gruppi, dalle scelte compiute da chi ha responsabilità di vario ordine nella società, piuttosto che da un impersonale determinismo. È una querelle, come si sa, vecchia quanto lo studio del passato che né questo né altri libri riusciranno definitivamente a comporre. Prima del 1914, l'Europa di Macmillan era un luogo tutto sommato prospero e pacifico: le guerre si combattevano ai suoi margini, soprattutto per la spartizione dei pezzi caduti dall'impero Ottomano, e nelle colonie. Le raffinate élites cosmopolite erano convinte di avere imparato a gestire, con accomodamenti più o meno duraturi, le crisi che pure si facevano sempre più frequenti. Erano in errore e Macmillan vede la fine della pace come effetto della convinzione a cui erano giunti pochi potenti individui che la guerra sarebbe stata la soluzione migliore a tanti problemi e che essa non avrebbe fatto correre importanti pericoli né all'assetto complessivo del Continente né, soprattutto, allo status delle élites aristocratiche e alto borghesi.
La discussione sulle responsabilità e le cause della Grande Guerra sta riprendendo vigore in tutta Europa, sospinta da un centenario nel quale molti vedono analogie con il clima del 1914: globalizzazione, ottimismo sostenuto dalla tecnologia, instabilità economica e fragilità degli equilibri geopolitici. Macmillan non discute in questo libro le "lezioni" di allora per l'oggi. Lo fa sui quotidiani, insistendo soprattutto la necessità di forte leadership: la prima guerra mondiale avrebbe potuto essere evitata, dice, se fossero stati al comando nei propri Paesi personalità dal carattere forte e risoluto come Bismarck e Churchill. La non confortante lezione che trae è che, con leader relativamente deboli come quelli di oggi, «potrebbe essere necessaria una situazione di forte pericolo per forzare le principali potenze del nostro nuovo ordine mondiale a unirsi in coalizioni capaci e impegnate ad agire» («International New York Times», 14-15 Dicembre 2013).
Margaret Macmillan, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Rizzoli, Milano, pagg. 784. € 28,00

Il Sole Domenica 9.3.14
Il giapponese che è in me
Lo scrittore è colui che scrive l'invisibile e dice l'indicibile senza bisogno di usare la sua lingua. Ma le radici restano
di Tahar Ben Jelloun
 
Ogni scrittura è una frattura. Che si sia lontani dalla propria terra natale, in un esilio scelto o imposto, la scrittura è la strada più naturale per imporre una smentita al reale. Lo scrittore segue le sue inclinazioni – e quelle critiche sono le più interessanti – e pone una distanza tra lui e il suo Paese. Lo guarda per meglio allontanarsene ed emanciparsi da esso grazie alle parole. Lo scrittore si immerge nelle proprie radici e allo stesso tempo se ne distanzia, non per rifiutarle o dimenticarle ma per non ritrovarsi in una situazione di disagio col suo essere più profondo. Le radici, di fatto, ci seguono ovunque andiamo: nella nostra intimità più privata come nei nostri spostamenti più lontani.
Questa natura delle radici in realtà mi irrita. Renderebbe impossibile per me, ad esempio, essere uno scrittore giapponese; eppure mi sarebbe tanto piaciuto essere di quel mondo; mi ha sempre affascinato. Da quando guardo i film di Ozu, e mi ci riconosco o almeno ci ritrovo le preoccupazione della società marocchina tradizionale, mi sento un po' giapponese. In questo sono come Haruki Murakami, che – come dice – è «un giapponese che ama il sushi» e questo è tutto. Io sono uno scrittore marocchino esiliato in una lingua che amo e che non è quella di mia madre né del popolo da cui provengo. Sono per questo uno scrittore emigrato, anche se passo più tempo in Marocco che in Francia. Mi si dirà: ma questo è un «esilio interiore»! No, io non mi sento esiliato da nessuna parte. Sono con le mie valigie di parole sempre a casa mia, in un Paese strano e straniero, come in mezzo alla folla araba in Egitto o a Tangeri, mi sento a casa mia in Sicilia, a Pordenone, in Catalogna, a Creta, in Normandia e in Bretagna; sono a casa mia nei territori della letteratura.
Certe volte mi capita di essere fermato dalla polizia di frontiera per un eccesso di bagagli anche se di solito viaggio molto leggero. Quell'eccesso è appena visibile. Un giorno un doganiere mi ha detto: «Sei uno scrittore, per cui spiegami cosa nascondi». Difficile consegnare e consegnarsi a un impiegato della dogana. L'ultima volta che mi è capitato era marzo 2003 all'aeroporto di Newark. Era giusto dopo l'invasione dell'Iraq da parte dell'esercito americano. Il mio nome doveva suscitare delle preoccupazioni nel poliziotto americano che non sapeva neanche dove si trova il Marocco, ma che appena sentiva «Ben» era in allarme. Lì la letteratura non poteva salvarmi, anche se viaggiavo su invito dell'Università di Princeton per un seminario sulle mie opere tradotte in inglese. Il poliziotto voleva sapere da dove venivo, quali fossero le mie origini. Troppo complicato per lui il caso di uno scrittore arabo che scrive in francese e viene in America per parlare dei suoi libri in inglese. L'interrogatorio durò un'ora. Il mio rilascio mi consegnò a un'espressione dolorosa: le mie radici mi avevano seguito fino in America; devono emettere un profumo fastidioso o impregnare l'aria di colori e di spezie non usuali in quel luogo di controllo.
Penso, comunque, che la polizia di frontiera abbia ragione a diffidare degli scrittori. Tutti dovrebbero diffidarne, soprattutto quando si scrive a partire da «cattive inclinazioni», specie con quelli che non dicono niente di piacevole né di rassicurante per il lettore e per il mondo.
Pensate al povero Franz Kafka. È uno scandalo in sé. Ciò che scrive (in una lingua che non è la sua) è terrificante per il mondo intero, eppure è fondamentale. Lo stesso si può dire di Milan Kundera, il Kundera dell'epoca ceca. Il destino di Lo scherzo è scandaloso. Uno scrittore che osa raccontare l'assurdità di un sistema totalitario. Meglio e più efficace di un saggio politico, il romanzo diventa un pericolo per le dittature. Ed è con delle valigie di parole che Milan Kundera, sotto incitazione di Claude Gallimard, è immigrato in Francia. Da allora, ha scritto solo in francese, per affermare la rottura definitiva con la sua terra natale.
Salman Rushdie è stato condannato a morte dall'ayatollah Khomeini non per aver scritto un saggio critico sull'Islam ma perché ha osato scrivere un romanzo in cui compare qualche versetto satanico. La fiction fa paura ai fanatici, agli oscurantisti. È intollerabile quanto il riso nei rituali religiosi. E poi Salman è musulmano, appartiene alla Casa dell'Islam. Non ha il diritto di uscirne e soprattutto di elaborare la minima critica.
I lavoratori immigrati vendono la loro forza lavoro. Le loro valigie sono piene della terra del loro Paese, dei loro odori, delle loro spezie. Le parole, le lasciano a coloro che le osservano. La loro è una poesia che nasce da una forma di fraternità nella solitudine e nella povertà. È simile alla nostalgia. Ma ogni forma di nostalgia è una sconfitta. Lacrime, rimpianti e la constatazione crudele che il reale è lì e che l'essere deve perseverare nel suo essere (Spinoza).
Cioran ci dice che «ogni dubbio è sproporzionato rispetto alle nostre forze». Quello che accompagna lo scrittore è un dolore necessario; ci impone la prova della lucidità e se teniamo alla sincerità, subiremo il calvario che essa implica e avanzeremo trasmettendo i nostri dubbi a coloro che pensiamo ci leggano, per viaggiare o istruirsi.
Anche solo per sognare o semplicemente per passare il tempo, seppur credendo di leggere un Marocchino di lingua francese, il lettore finisce su un giapponese che gli parla della condizione umana, avendo fatto una sosta nel territorio dell'immigrazione.
Ecco ora che lo scrittore giapponese che avrei potuto essere è interrogato sulla primavera araba. Sono stato a Tokyo nel 2012, nel giorno dell'anniversario della catastrofe di Fukushima. Mi hanno fatto leggere (tradotto in francese) il diario scritto da Natsuki Ikezawa sul suo viaggio in Iraq, poco prima che l'esercito americano, utilizzando menzogne grossolane che hanno avuto conseguenze tragiche sull'infelice popolo iracheno, invadesse il Paese.
Dopo la lettura lo incontro e parliamo delle nostre comuni preoccupazioni, in particolare dell'impunità di questi Stati assassini. Ci troviamo d'accordo sul ruolo della letteratura: dire il mondo e ciò che vi è oltre. Lo scrittore è colui che può scrivere l'invisibile e dire l'indicibile. Siamo tutti e due impegnati in una lotta per la verità e per il rispetto della dignità dell'uomo.
Gli parlo di Nietzsche che scrive nella Gaia scienza che peggio della vergogna è essere la vergogna di qualcuno. L'umiliazione è diventata una moneta corrente in un mondo in cui tutto è fatto per corrompere il diritto e piegare i valori della democrazia.
Il suo diario iracheno non ha impedito all'amministrazione del sinistro G.W.Bush di inviare le sue truppe a occupare l'Iraq e di distruggere questo Paese che oggi è diventato il campo di una guerra di religione fra sciiti e sunniti.
Insieme, ci troviamo a parlare anche della personalità impressionante di Haruki Murakami, autore di bestseller di scala mondiale. Mi dice che ha scioccato gli Israeliani e i Giapponesi quando, il 17 febbraio 2009, ricevendo il «Premio di Gerusalemme», ha fatto un discorso in cui ha condannato l'intervento militare israeliano a Gaza. Ha utilizzato questa metafora: «Se c'è un muro molto alto, solido, e un uovo va a rompersi contro quel muro, poco importa sapere in che misura il muro è giustificato o in che misura l'uovo è colpevole, io starei dalla parte dell'uovo».
Silenzio glaciale in sala. Ricevere un premio, implica sottomettersi e non indignarsi. Ma bisogna diffidare degli scrittori. Quelli veri non sono mai controllabili. Murakami ha espresso anche, ricevendo il «Premio della Catalogna» nel giugno 2011, la sua opposizione al nucleare. Sembra che la battaglia attuale dei grandi scrittori giapponesi sia diretta contro il nucleare; Ikezawa dice che i Giapponesi devono conoscere la verità. Non è stato rivelato tutto alla popolazione dopo l'11 marzo 2011; ci sono ancora delle zone d'ombra.
Ikezawa mi parla del Marocco che ha visitato qualche anno fa. Gli dico che ho apprezzato il Giappone attraverso il suo cinema. Lui sorride e mi dice «Ozu avrebbe potuto essere marocchino!».
Così il cerchio è chiuso: posso essere tranquillamente uno scrittore giapponese, ma non chiedetemi perché non ho gli occhi a mandorla.

Il Sole Domenica 9.3.14
Ultimi giorni di Pompei: kolossal o reality?

Gli americani ci hanno fatto uno dei loro kolossal, con tanto di intrighi, conflitti, buoni contro cattivi. E per assicurare agli spettatori americani del nuovo film Pompei gli effetti speciali di grandiosi crolli e disastri Hollywood non ha badato a spese. Qui in Italia invece al kolossal preferiamo il reality. Anche da noi crolli e disastri a Pompei sono assicurati agli spettatori, ma ancora più convincenti: niente effetti speciali, proprio dal vivo. E nel nostro reality come nel film americano tutti litigano su tutto e dubbiosi conflitti si moltiplicano: se i crolli sono fisiologici (certo, i muri sono vecchi...), come dichiara il direttore generale delle antichità Luigi Malnati; se ormai siamo di fronte a una nuovo sconfitta, come sospira il commissario europeo Johannes Hahn, e l'incuria italiana è stata peggio dello sterminator Vesevo; e come mai rispetto ai milioni stanziati da Regione e Commissione Ue la spesa è bassissima, come lamenta il governatore della Campania Caldoro. Il quale imbronciato aggiunge: «Ci abbiamo messo la faccia e oggi rischiamo di non fare una bella figura». Su questo però ci sentiamo di dargli un consiglio: sulle rovine di Pompei lasci che la faccia ce la mettano i divi americani, sono molto più fotogenici e sicuramente, loro sì, sullo schermo faranno un'ottima figura.

Il Sole Domenica 9.3.14
Un missile a Damascus
Un libro ricostruisce come dal 1959 il vero rischio non sia venuto da crisi o guerre ma solo dalla gestione dell'arsenale nucleare
di Patrizia Caraveo
 
Siamo abituati a pensare che l'esplosione di una bomba nucleare sia collegata a guerre o a crisi internazionali, ma forse ci sbagliamo. Leggendo Command and Control ho capito che il vero pericolo è venuto, e, in parte, ancora viene, dalla gestione di un arsenale nucleare che, al picco della guerra fredda, era composto (da parte Usa e Nato) da 30mila ordigni tra bombe, testate per missili, bombe di profondità, mine e armi portatili. Oggetti inerti in condizioni normali, ma sempre dotati di esplosivo, necessario per innescare la reazione nucleare, che devono essere spesso trasportati, periodicamente smontati e controllati, ma soprattutto sempre tracciati. Gestire in condizioni di sicurezza tutte queste armi è un compito straordinariamente complesso con implicazioni tecniche e strategico-organizzative, senza contare le interazioni tra vertici militari e politici. Il problema intorno al quale ruota tutto il libro è la sicurezza delle armi nucleari. Indipendentemente dal loro potere di devastazione, le bombe atomiche devono anche essere fornite di meccanismi che impediscano esplosioni accidentali nel caso di una manovra sbagliata o di incidenti durante l'immagazzinamento o il trasporto. La gestione strategica-organizzativa dell'arsenale nucleare è un altro punto delicato. Dove è meglio immagazzinare le testate? Chi ne è responsabile? Meglio che siano sotto il controllo dei civili o dei militari? Mentre è sempre stato chiaro che l'ordine di attacco deve venire dal Presidente, come evitare che ufficiali fanatici, o forse solo in preda al panico per l'ennesimo falso allarme, decidano per loro conto? È vero che i missili avevano codici di lancio multipli conservati in cassaforte, ma è anche vero che per molto tempo uno dei codici dei Minutemen è stato 00000000, non proprio difficile da indovinare. Quando ancora non ci si preoccupava troppo per i terroristi, quello che tutti temevano era il dottor Stranamore, oppure un soldato impazzito o sotto l'effetto di qualche droga. Con più di 100 mila persone coinvolte nella manutenzione dell'arsenale nucleare, una piccola incidenza di problemi psichici non poteva essere esclusa.
La gestione era resa ancora più complicata dal perenne stato di allerta richiesto a tutto il sistema che doveva essere sempre pronto a rispondere ad un eventuale attacco. Dal 1959 al 1968 lo Strategic Air Command degli Stati Uniti ha avuto sempre in volo decine di bombardieri equipaggiati con quattro bombe nucleari ciascuno. Facevano missioni lunghissime attraversando l'Atlantico e il Pacifico per essere sempre pronti a dirigersi contro l'Unione Sovietica. Centinaia di ordigni atomici hanno incrociato per anni sopra il Mediterraneo con un coefficiente di pericolo proporzionale alle ore di volo, al numero di decolli, atterraggi, rifornimenti in volo oltre che alla competenza del personale. In nove anni si sono contati 1.200 incidenti di varia gravità culminati con numerose bombe sganciate per errore umano, malfunzionamenti dell'elettronica di bordo, incidenti aerei. Sono arrivate in giardini di ignari americani, in foreste drammaticamente vicine ai centri del potere quali Washington e New York, in paesini spagnoli, in Groenlandia. Diversi bombardieri si sono incendiati al decollo, altri si sono schiantati, per incidenti di varia natura, cuocendo le bombe. Solo una notevole dose di fortuna unita a un generoso intervento divino ha impedito che avvenissero esplosioni nucleari accidentali, ma non per questo meno catastrofiche. Finite le allerte in volo, quelle a terra, con i bombardieri già carichi di bombe e carburante, con gli equipaggi sempre pronti a partire, sono continuate fino al 1991. In parallelo, gli oceani erano solcati da sottomarini, equipaggiati con dozzine di testate nucleari, e le regioni centrali degli Sati Uniti erano state seminate di missili grandi e piccoli con la loro dotazione di testate nucleari, spesso multiple. Per non dare nell'occhio tutto si svolgeva sottoterra in rampe di lancio a prova di esplosione nucleare.
È proprio in uno di questi siti che avviene il drammatico incidente che fa da filo conduttore del libro. È il 18 settembre 1980, siamo a Damascus, una comunità rurale in Arkansas, nel silos di un missile Titan II, completamente equipaggiato e pronto all'azione. Nel corso di una manutenzione di routine ad un addetto in tuta stagna cade un attrezzo che percorre tutta la lunghezza del missile e si va a conficcare in un serbatoio, causando la fuga di propellente tossico e infiammabile. Un incidente che nessuno, né in loco, né ai livelli più alti delle unità di crisi del comando, sa come gestire. La situazione degenera fino a causare, molte ore dopo, l'esplosione del Titan la cui testata nucleare viene recuperata poco distante. Pericolo scampato, solo danni, una nube tossica, una vittima e l'imbarazzo del giovane governatore Clinton. Da allora, il mondo è cambiato. I Titan sono stati smantellati e il numero delle testate è stato diviso per 10.
Adesso, a guerra fredda finita, cosa è rimasto di questo enorme sforzo? Quante volte si sarebbe potuto risolvere il problema della fame nel mondo o andare su Marte con il costo delle missioni continue dei bombardieri o dei Titan mai usati? Per fortuna, non tutto è finito nel dimenticatoio. La necessità di mantenere le comunicazioni anche in caso di attacco nucleare ha fatto nascere l'idea della rete e il precursore di Internet mentre il GPS è stato pensato per guidare i missili, notoriamente poco precisi.
Eric Schlosser ha impiegato dieci anni a scrivere il libro e, leggendolo, si capisce benissimo perché. Ottenere (e digerire) la documentazione relativa a centinaia di incidenti che coprono tutto lo spettro di gravità possibile e intervistare decine di testimoni richiede tempi lunghi. Ma il risultato è notevole. Le descrizioni sono avvincenti e la morale è chiarissima. Anche se non è possibile eliminarle del tutto, le armi nucleari hanno fatto il loro tempo. È chiaro a tutti che guerra nucleare non può essere vinta da nessuno. Oltre alla distruzione immediata e ai danni da radiazioni, Carl Sagan fece notare che le polveri sollevate avrebbero assorbito la luce solare causando l'inverno nucleare. Se non si vuole fare la fine dei dinosauri, meglio risolvere in altro modo le crisi internazionali.
Eric Schlosser, Command and Control Nuclear weapons, the Damascus Accident, and the illusion of Safety, Peguin press, pagg. 632, $ 26,00

Il Sole Domenica 9.3.14
Alain Resnais (1922-2014) Rigore da regista
Era il più borghese tra i colleghi della «nouvelle vague», ma era intransigente con se stesso quanto e più che con gli altri
di Goffredo Fofi
 
Sperimentatore accanito di modi di far cinema che si accostassero a quelli della letteratura più ambiziosa, di forme dell'immaginario contemporaneo che recuperassero al cinema i modi del teatro, del fumetto, della canzone, e persino del saggio, della scienza, dobbiamo ad Alain Resnais, scomparso il 1° marzo, opere a volte provocatorie sia nella forma che nei contenuti, altre elaborazione di un pensiero più pacato ma non meno ardito, altre puro gioco dell'intelligenza, divertimento che voleva però condividere con quello di spettatori di spirito aguzzo, o da assistere nel l'aguzzarlo.
Rispetto agli altri registi della nouvelle vague, fu certamente più «borghese» e più colto, ma non meno «cinema» di loro. Come Rohmer e Rivette, più che come Godard oppositore talvolta cerebrale, e come Truffaut nervoso pacificatore sentimentale, ma diverso anche da loro per aperture intellettuali molto maggiori, e per una sorta di tranquilla autonomia nella sperimentazione non provocatoria (salvo che al tempo di Marienbad...) di forme, di strade insolite del narrare.
Resnais ha rivendicato un rigore più intimo che esterno, che ha trovato i suoi cardini in dichiarazioni come queste: «Occorre trattare l'immaginario all'interno del quotidiano», «mi piace porre allo spettatore le domande che mi pongo io stesso. E dare nelle risposte tutto quello di cui dispongo come elementi di informazione, con la stessa quantità di conoscenze, in modo che autori, personaggi e spettatori si trovino allo stesso stadio di comprensione, sappiano di ciò che accade esattamente lo stesso», «credo in un cinema che si avvicini al romanzo senza averne le regole, un cinema che lasci allo spettatore la stessa libertà di immaginazione che ha il lettore di un romanzo». Rompere l'autoritarismo del racconto cinematografico – le immagini decise dal regista, il flusso del racconto fissato dalla sceneggiatura, l'identificazione dello spettatore con un personaggio, la costretta sudditanza dello spettatore al volere degli autori – è stata perseguita da molti grandi registi, nel tentativo di rendere lo spettatore più attivo, partecipe del processo creativo con la ragione e non solo col sentimento, ma è forse Resnais, con Bunuel, quello che ha saputo muoversi con più libertà nella sollecitazione attiva di questa intelligenza e nel rendere partecipe lo spettatore del proprio percorso di ricerca. Non c'è un solo film dei suoi che si sia sottratto a questo compito, ed è per questo che fino all'ultimo egli è stato così rispettato da tutti i registi esigenti, ma con la differenza, da parte sua, rispetto a loro, di un rifiuto deciso di ogni forma di narcisismo e magniloquenza. «Essere autori», in cinema come in ogni altra arte, e specialmente oggi, è ben diverso dal «credersi autori».
Dell'opera di questo grande è tuttavia possibile prediligere certe opere, o sentirle più vicine a una necessaria riflessione sulla storia, sul tempo in cui si vive. Hiroshima mon amour e Notte e nebbia, per esempio, riflettevano sui disastri di una guerra finita da poco, e sulle sue tracce, sulla memoria (tema centrale del primo Resnais) e il suo lascito di angoscia e rivolta, le sue insidie e non solo i suoi doveri. Muriel, scritto con l'ausilio di un grande, Jean Cayrol, non abbastanza conosciuto, trattava nel modo più intenso e rischioso dell'uso della tortura durante la guerra d'Algeria, e La guerra è finita, scritto con Semprun, era l'elogio – per questo accolto con qualche diffidenza dalla generazione del '68 – della pazienza e dell'ironia come prime virtù del rivoluzionario, non solo nei confronti del regime franchista di cui trattava. Fu ancora Semprun a scrivere per lui Stavisky, uno dei più complessi film sugli anni tra le due guerre, confronto tra due storie opposte d'esilio e sradicamento, di capitalismo e di bolscevismo, e fu questo film, con l'aggiunta del l'episodio di Lontano dal Vietnam, film politico per eccellenza, scritto con Jacques Sternberg, l'ultimo esempio di una riflessione più che problematica sulla nozione di engagement. Il distacco da questi temi ha senz'altro liberato la fantasia di Resnais, perlustratore indefesso di temi e di strade che si allontanava sempre più «dal Vietnam», ma lo ricollocato pienamente nell'alveo «borghese» che più gli era proprio, dentro una sorta di serena inquietudine.
Resnais non ha mai smesso di interrogarsi e di interrogare le forme del racconto, esploratore di confronti nei quali anche le divagazioni in apparenza più libere finivano per tornare a una ricerca di estrema coerenza intellettuale e morale. Grande borghese, infine, come ne sono rimasti ben pochi nella cultura dei nostri ultimi anni anche se molti si fingono ancora tali. Persi i riferimenti a una tensione politica di cui l'Europa non sembra più capace, solo raramente il suo cinema ha affrontato temi inquietanti, dagli anni Ottanta in avanti, dopo Providence, e se sempre ci ha sollecitato e divertito è solo con L'amour à mort che è riuscito ancora a sorprenderci nell'intimo e non solo nell'intelligenza. Scritto da Jean Gruault, che aveva già scritto per lui Mon oncle d'Amérique e La vita è un romanzo, splendidamente didascalici ma fin troppo cerebrali, ma che era lo stesso Gruault che aveva fornito a Truffaut l'adattamento dal racconto di Henry James, La camera verde, parlava del nostro rapporto con la morte, con i morti e anzi, come insiste il suo titolo, del rapporto tra l'amore e la morte. Era ancora un'interrogazione forte, anzi estrema e di nuovo provocatoria, conturbante.
Nell'opera di Resnais – e non sappiamo quanto egli ne fosse cosciente, mentre sappiamo quanto ne sia stato cosciente Marker e quanto ne sia ancora cosciente Godard – abbiamo dovuto confrontarci con l'impotenza della politica ma anche con quella della cultura a risolvere i problemi di fondo dell'esistenza, nella nostra epoca storica e in assoluto. In definitiva, il suo è stato un modo di tirarsi fuori dai dilemmi contingenti cercando di mirare a quelli di sempre, ma si è trattato, ancora una volta della dimostrazione di un fallimento, anche se affrontato con rara signorilità e con raro pudore.

Il Sole Domenica 9.3.14
Ivan Illich
Eredità di pensiero
di Lucetta Scaraffia
 
«In giro c'è troppo presunto e auto-dichiarato illichianesimo e poco Illich» scrive Franco La Cecla denunciando come il pensatore dell'antimodernità sia oggi, qualche anno dopo la sua morte, conteso fra truppe di seguaci. Tutti militanti di qualche causa, costoro cercano di tirarlo da una parte o dall'altra, approfittando del fatto che le sue opere sono spesso lavori in corso, ricerche non finite a cui lavorava insieme ad altri. Illich vivo era scomodo, e pochi accettavano veramente di misurarsi con lui, anche se sono molti quelli che lo hanno saccheggiato, perché indubbiamente è stato uno dei pochi intellettuali davvero originali del secolo scorso.
La Cecla gli è stato accanto a intermittenza, vivendo momenti di collaborazione e altri di conflitto. Per questo sa di dovergli molto, ma al tempo stesso riesce a prendere le distanze dalla sua ingombrante personalità, come dimostra questo ritratto vivo e acuto di quel pensatore scomodo e arrabbiato, efficace e radicale.
Centrale nel pensiero di Illich è il rapporto con la sofferenza. Per lui il problema della modernità era legato alla sparizione dell'arte di vivere, di cui l'arte di soffrire era una parte integrante. Egli riconosceva che la sofferenza fa parte della natura umana: in questo senso era pervaso da un senso profondo della sofferenza cristiana, che lo portò a elaborare quello che è stato il suo libro più conosciuto, Nemesi medica, critica serrata della medicina moderna, che vuole curare dalla vita e dalle sue caratteristiche piuttosto che dalle malattie: insomma, guarire gli esseri umani dalla fisicità e dalla finitezza che li caratterizzano.
Ma la critica di Illich alla modernità si estese poi a tanti altri aspetti, rivelando uno dei pochi pensatori capaci di mettere in dubbio un modello che veniva considerato assoluto. La modernità viene da lui vista come una corruzione del messaggio cristiano, che porta a una mostruosa società in cui l'umanità è resa sempre più dipendente. Egli aveva intuito – scrive giustamente La Cecla – che la storia del cristianesimo è la storia dell'occidente.
Punto centrale di questa analisi è il rapporto con la Chiesa, di cui Illich si sente sempre figlio, pur criticandone con severità il pensiero. Un allontanamento rispettoso e un «silenzio – scrive ancora La Cecla – scelto come testimonianza di un deserto da attraversare per poter ridare un giorno dignità al pensiero cristiano».
Uno dei fili narrativi di questo libro è la storia del rapporto fra uno dei pochi maestri dei nostri tempi con un allievo, che diventa amico, in tempi di antiautoritarismo e di ribellione, raccontato con grande sincerità e anche pietà nei confronti di entrambi i protagonisti di questo legame importante, ma difficile e tormentato. Un bilancio ricco di frutti, che vuole finire con una restituzione. E questa sta non solo in questo libro, ma nella richiesta finale che Illich sia studiato come uno dei grandi pensatori della modernità, pur continuando a considerarlo – anche dopo che le sue previsioni si sono avverate – un pensatore scomodo.
Franco La Cecla, Ivan Illich e la sua eredità, Medusa Edizioni, Milano, pagg. 120, € 13,00

Domenica Sole24ore 9.3.2014
La Vienna di Klimt
Anello di cultura attorno al Ring
Il maestro visse nell'ultima scintillante stagione della capitale austriaca, città in piena espansione animata da architetti, pittori, musicisti, scrittori e scienziati
di Ada Masoero
 
Quando Gustav Klimt nasce, nel 1862, nel sobborgo agricolo di Baumgarten alle porte di Vienna, la città sta vivendo una trasformazione radicale, che in pochi anni le cambierà il volto sul piano urbanistico, architettonico e sociale. L'imperatore Francesco Giuseppe, che intende farne una moderna capitale, degna del suo grande impero e capace di rivaleggiare con la Parigi del barone Haussmann, nel 1857 decreta l'abbattimento delle mura che ancora la cingono, e la costruzione sul loro tracciato di un viale monumentale che prenderà il nome di Ringstrasse. Un evento che inciderà sul destino di Klimt, perché quei nuovi edifici, opulenti e iperdecorati, gli regaleranno il lasciapassare per il successo, offrendo all'impresa di decorazione da lui fondata con il fratello Ernst e con Franz Matsch l'occasione per guadagnare fama e consensi nella capitale. E di qui nel resto dell'impero, da Fiume a Karlsbad.
Capitale di un impero multietnico, che comprendeva allora le attuali Repubbliche cèca e slovacca, l'Ungheria e la Transilvania, la Dalmazia e Trieste, Vienna è in quegli anni un vero faro: richiama aristocratici e intellettuali ma anche, per effetto del rinnovamento urbanistico, frotte di lavoratori dalla periferia del territorio, diventando un crogiolo di lingue, di tradizioni, di culture. Quanto alla corte, cuore della vita sociale più ambita, celebra veri e propri riti mondani, sempre fastosissimi: prime teatrali memorabili, serate scintillanti all'Opera, balli sontuosi, festeggiamenti per gli anniversari dei membri della famiglia imperiale fanno di Vienna l'altra capitale europea, con Parigi, del gran mondo e del bien vivre.
Sempre però sotto il segno delle rigide regole di corte: sebbene anche qui, come nel resto del mondo, si assista all'affermarsi della nuova grande borghesia imprenditoriale e finanziaria, che dalla metà dell'800 porta al potere i liberali, tuttavia la società resta strutturata secondo maglie molto rigide e questa potente classe in ascesa a Vienna non riesce, come invece accade altrove, a scalzare né la vecchia aristocrazia né la grande burocrazia imperiale, che continuano a dettare le regole del gusto. Tanto da imporre nelle arti visive – fino alla nascita della Secessione – i modelli un po' tronfi e attardati dello storicismo.
Colonna sonora della vita sociale viennese sono i valzer che gli Strauss (Johann padre ma più ancora Johann figlio) vanno componendo a getto continuo, con un successo senza precedenti. E poi c'è l'operetta, con i suoi prìncipi: Franz von Suppé, lo stesso Strauss jr., Franz Lehár e molti altri ancora: musiche scacciapensieri rimaste tuttora il simbolo di quell'età euforica e inebriante che però, proprio come era accaduto nella Venezia del '700, prelude al collasso dello Stato. Ma il vero patrimonio di Vienna, in questi anni sfavillanti e inconsapevoli, è rappresentato dalla ricchezza della sua vita culturale, dalla prodigiosa concentrazione di uomini di cultura e di pensiero i cui raggiungimenti aprono percorsi inediti, spesso rivoluzionari, molti dei quali continuano a modellare la nostra cultura.
Nella Vienna del tempo vivono e operano musicisti come Anton Bruckner, Johannes Brahms, Gustav Mahler, direttore dell'Opera di Corte, e il campione dell'avanguardia musicale più radicale, Arnold Schönberg. Nell'architettura, ai protagonisti dello storicismo, che avevano trovato nella Ringstrasse uno spettacolare palcoscenico, si oppongono – seppure con più di un distinguo – i portabandiera di una nuova concezione architettonica più limpida e lineare: da un lato i secessionisti Otto Wagner, autore tra l'altro della Metropolitana di Vienna, Joseph Maria Olbrich, progettista del Palazzo della Secessione viennese e Josef Hoffmann, il grande amico di Klimt, teorici di un'architettura moderna e geometrica ma "carezzevole", capace di indurre benessere e serenità; dall'altro Adolf Loos, fiero antagonista soprattutto di Hoffmann e propugnatore di un proto-funzionalismo algido e rigoroso (non a caso era così amato da Le Corbusier), autore di un testo dal titolo esplicito e bellicoso come Ornamento e delitto.
Fra gli scrittori ci si può imbattere in personalità come Hermann Bahr, Karl Kraus, Arthur Schnitzler, Hugo von Hoffmannsthal, Robert Musil, e per la pittura e la scultura è superfluo soffermarsi sul ruolo rivestito dalla Secessione viennese, di cui Klimt è il padre fondatore, e dalla sua rivista «Ver Sacrum»: delle tre Secessioni che videro la luce nei Paesi di lingua tedesca (Monaco, 1892; Vienna, 1897; Berlino, 1898) quella che avrebbe inciso più profondamente sulla cultura visiva europea. Senza dimenticare la rivoluzione che la Wiener Wekstätte, "braccio operativo" della Secessione, avrebbe portato nelle arti decorative con quei suoi oggetti dalle linee asciutte, pulite e rigorose, tuttora attualissimi.
E poi a Vienna vive e opera con la pratica clinica (al numero 19 della Berggasse, un indirizzo diventato mitico) Sigmund Freud, il cui pensiero, a dispetto dei tanti detrattori, avrebbe cambiato la società degli anni a venire, fino al nostro tempo. E che a Vienna scrive i pilastri della psicoanalisi, a partire da L'interpretazione dei sogni, uscito in tedesco nel 1899 ma datato 1900 per il valore simbolico della data.
Insomma, difficile immaginare un humus più fecondo per la cultura del nuovo secolo di quello sviluppatosi a Vienna negli anni cruciali tra '800 e '900. Eppure in tanto sfavillìo di intelligenze e in una tale ebbrezza di vita e di divertimento già si annidano i germi del disfacimento. Tra il 1840 e il 1918 si erano costruite in città oltre 450mila nuove abitazioni e un rinnovamento urbanistico di tale portata aveva provocato una gigantesca ondata migratoria di manovalanze, che si ammassavano in quartieri miseri e malsani dove imperversava la tubercolosi, che di qui si diffondeva nel resto della città, tanto da essere presto ribattezzata il «Mal viennese». Il tasso di mortalità era doppio di quello delle altre capitali europee, pari solo a San Pietroburgo, mentre l'alcolismo e la prostituzione erano vere piaghe sociali. A vedere quei segni erano però in pochi: artisti come Egon Schiele, e uomini di cultura insieme lucidi e visionari come Karl Kraus, che nel suo Gli ultimi giorni dell'umanità definisce Vienna «stazione sperimentale per il tramonto del mondo», o Alfred Kubin, pittore, disegnatore e uomo di lettere, che nel suo romanzo L'altra parte, 1908, prefigura nella distruzione del Regno di Sogno e della sua capitale, Perla, la fine dell'impero austroungarico, del 1918; lo stesso anno in cui muoiono anche Gustav Klimt, Egon Schiele e Otto Wagner. 

Domenica Sole24ore 9.3.2014
Vivere sul finir dell'Austria
di Ad. M.

1862. Gustav Klimt nasce a Baumgarten, sobborgo agricolo di Vienna, secondo dei sette figli di un modesto incisore.
1876-1881. A 14 anni è ammesso alla Scuola di Arti e Mestieri di Vienna. Per sette anni ne segue i corsi, formandosi nel clima dello storicismo. È molto stimato dai docenti che lo segnalano ai primi committenti.
1881-1890. Con il fratello minore Ernst e Franz Matsch, compagni di studi, fonda la Compagnia degli Artisti, impresa di decorazione murale che ha un immediato successo. Gli incarichi più prestigiosi arrivano nel 1886, con la decorazione del nuovo Burgtheater, e nel 1890, con il Kunsthistorisches Museum. La loro pittura si ispira a quella neobarocca di Hans Makart, il pittore allora più in voga a Vienna.
1890.Per il dipinto L'interno del vecchio Burgtheater in cui figurano, ben riconoscibili, tutti i protagonisti del gran mondo viennese, riceve il Premio imperiale e consolida la sua fama.
1891. Conosce la diciottenne Emilie Flöge, raffinata e bellissima stilista di moda, a cui rimarrà legato lungamente, seppure frequentando molte altre donne (numerosi i suoi figli naturali).
1892-1894. Nel 1892 muoiono il padre e il fratello Ernst. Con Matsch riceve, nel 1894, l'incarico per i pannelli allegorici dell'Università di Vienna (Filosofia, Medicina, Giurisprudenza), ma per lui si apre una crisi drammatica. Si allontana dallo storicismo (e da Matsch) per guardare al simbolismo e approdare poi al linearismo, al decorativismo, alla bidimensionalità che gli guadagneranno la fama internazionale.
1897. Con altri artisti fonda la Secessione di Vienna, di cui è presidente. Duplice l'obiettivo: svecchiare la pittura austriaca allestendo a Vienna mostre dei maestri della nuova arte internazionale (van Gogh, Gauguin, Munch...) e dar vita a un'arte "totale" che includa architettura, grafica, arti decorative. Nel 1898 è l'imperatore in persona a inaugurare il palazzo della Secessione.
1900-1901. All'Esposizione universale di Parigi presenta La Filosofia, uno dei pannelli per l'Università, nei quali aveva avviato il suo distacco dal naturalismo. Vince il premio per la migliore opera straniera ma nel 1901, a Vienna, viene duramente contestato per il pannello della Medicina, dove anziché inneggiare alla luce della scienza compone un corteo di corpi nudi, malati o deformi, subito bollati come pornografici. Da allora esce dal circuito degli artisti ufficiali e radicalizza sempre più la sua ricerca.
1902. Al Palazzo della Secessione si tiene la XIV mostra del gruppo, allestita da Josef Hoffmann e dedicata a Beethoven: Klimt dipinge il magnifico fregio ispirato alla Nona Sinfonia, abitato da figure iperstilizzate, ai limiti dell'astrazione, splendido esempio del suo "stile aureo".
1905. Esasperato, riacquista i suoi dipinti per l'Università, poi distrutti nel 1944. Intanto lavora ai cartoni del duplice fregio dell'Albero della Vita per Palazzo Stoclet a Bruxelles, progettato dall'amico Josef Hoffmann.
1906. Con il Klimtgruppe si stacca dalla Secessione e fonda la Kunstschau, associazione con cui promuove nel 1908 e 1909 due fortunatissime mostre che segnano il culmine della sua fama in patria (la Galleria di Stato acquista nel 1908 il suo Il bacio) e l'avvio della fortuna di Egon Schiele e Oskar Kokoschka, suoi pupilli, che aprono all'espressionismo.
1910-1911. La Biennale di Venezia gli dedica una sala e Ca' Pesaro acquista la Giuditta II. Nel 1911 è presente a Roma all'Esposizione per i 50 anni dell'Unità d'Italia: riceve la medaglia d'oro e la Galleria Nazionale d'Arte Moderna acquista Le tre età della donna. Ma per Klimt si apre però un'altra crisi.
1912. Superato lo smarrimento, dà vita a una nuova stagione con lo "stile fiorito", in cui declina in modo personale le cromie di Matisse, fondendole con le suggestioni del folklore slavo e dell'arte orientale. All'oro sostituisce i colori vividi, anche nei ritratti femminili che ritrovano una lieve volumetria, mentre si dedica anche ai paesaggi.
1918. Colpito da un ictus, muore il 6 febbraio a 56 anni, lasciando non più di 200 dipinti e un corpus ricchissimo di magnifici disegni.
 

Il Sole Domenica 9.3.14
Storia dei libri secondo me...
di Andrea Kerbaker
 
Nel 1988, a 28 anni, ho avuto la ventura di essere mandato in Cina per una missione speciale. Una bella fortuna per un giovane di quell'età, che solo allora si affacciava al mondo del lavoro. La Cina era ancora un Paese chiuso nelle sua diversità… già avere l'opportunità di una trasferta di lavoro, che avrebbe azzerato i problemi di visti, burocrazie e quant'altro, era un privilegio. Ma ancora di più lo era il periodo scelto: l'ultima settimana di novembre, con la possibilità di estendere il soggiorno fino alla settimana di Sant'Ambrogio con una modesta somma aggiuntiva. Quattro giorni di assenza dal lavoro, poche lire, ed ecco organizzata una delle più straordinarie vacanze immaginabili. Tanto più che a quel punto la mia fidanzata, in procinto di diventare moglie, ha deciso che sarebbe venuta con me. E così, una volta conclusa la mia missione, abbiamo potuto vagare a piacimento per le strade di Pechino, con la felicità vera di una giovane coppia che a diecimila chilometri da casa può assaggiare l'altra metà del mondo senz'altra costrizione che le proprie curiosità.
Era il dicembre cinese. Un periodo di cielo terso, di un blu intenso, quasi da montagna, sottolineato da un'aria sempre gelata che arrivava da lontano. Che importava: Pechino era nostra, nella sua mostruosa, caotica indecifrabilità. Una città enorme, in perenne movimento, dove nulla era scritto in caratteri occidentali e nessuno parlava una parola di inglese. Ma noi giravamo comunque con tutti i mezzi, confidando in quella buona stella che di solito ti assiste quando non hai ancora trent'anni e a fianco hai la persona con cui hai deciso di condividere la vita… anche acquistando libri. A quell'epoca ero pazzo di testi di cinema. Ne avevo su tutti gli aspetti: registi e sceneggiatori, attori e tecnici del suono o direttori della fotografia, e possedevo tutte le riviste… In quella collezione, anche le lingue erano ben rappresentate: nella mia follia, avevo trovato chissà dove la sceneggiatura in polacco di alcuni film di Wajda... Ma libri in cinese, no: mancavano, in assoluto. In quel soggiorno pechinese avevo scoperto - non chiedetemi come - che in pieno centro, appena dietro la Città proibita, c'era una libreria di cinema... E così, un pomeriggio ho convinto la mia fidanzata ad affittare una bicicletta dell'albergo per andare fino a là. Pedalare in quella Pechino era un'esperienza. In assenza di macchine, il traffico era costituito soltanto da autobus e camion, che procedevano precari e traballanti lasciando alle spalle scie nerastre di fumo irrespirabile. Qualche taxi e rare macchine di rappresentanza completavano il panorama. E poi, naturalmente, c'erano le biciclette: centinaia e centinaia, di tutte le fogge, solitamente malmesse, arrugginite e cigolanti, che procedevano in tutte le direzioni, guidate da persone che in genere andavano molto di fretta e in qualche caso provocavano giganteschi ingorghi. Proprio così: ingorghi, in uno dei quali abbiamo dovuto smontare dal sellino e procedere a piedi, per l'assoluta impossibilità di districarsi dal viluppo infinito di ruote, pedali, gambe e manubri... La libreria era un negozietto dall'aria dimessa, con vetrine polverose, alcuni studenti e dove, tanto per cambiare, nessuno parlava inglese. Anche i libri erano di aspetto povero: quasi tutti rilegati, ma stampati su carta modesta, con le illustrazioni sgranate e la stampa sporca. Come, da noi in Occidente, certe edizioni economiche di fine Ottocento. Per di più, non si capiva nulla: i soli libri decifrabili erano quelli tradotti da testi occidentali, perché riportavano nel colophon il titolo originale; il resto era totalmente incomprensibile. L'unica cosa chiara era il prezzo, bassissimo: circa 100 lire di allora per ciascuno. Decisi quindi di comperare tutti quelli tradotti: li misi insieme in due sacchettoni di plastica bianca, sotto lo guardo benevolo della mia fidanzata, abituata da tempo a queste mie follie. Il ritorno in albergo, al buio, era stato un po' meno avventuroso, nonostante i sacchetti che facevano perdere l'equilibrio. Ma il traffico del tardo pomeriggio era molto diradato, quasi scomparso. Quando ci siamo ripresentati all'hotel, ci ha accolti il bell boy, un signore cinese gentile, educato e sorridente. Mi ha chiesto cosa avessi comperato. «Books!» ho risposto soddisfatto, mostrandogli il contenuto di un sacchetto.
Ha reagito con uno sguardo sorpreso. «Oh, books. Then you must be very rich, sir».
Questa poi - essere considerato ricco perché acquirente di libri; non mi era proprio mai capitato. Eppure l'osservazione faceva capire quanto potesse essere difficile la vita per quelle persone a Pechino, dove anche l'acquisto di un libro era indizio di benessere… «You must be very rich…» La frase diveniva ancora più singolare se pensavo che mi trovavo proprio in Cina, il Paese dove la stampa è stata inventata. Contrariamente alla credenza diffusa, infatti, l'invenzione della stampa non è avvenuta in Germania, ma nella distantissima Cina, probabilmente già secoli prima del Quattrocento... Se però il giusto merito non è attribuito a loro, è perché in realtà da quelle parti il sistema non è stato utilizzato per nulla, tanto da far affermare secoli più tardi a Condorcet che «in Cina l'invenzione della stampa è stata assolutamente inutile per il progresso umano». E il simpatico bell boy dell'hotel pechinese, con la sua constatazione sul costo dei libri, non faceva che avvalorare quel giudizio.

Il Sole Domenica 9.3.14
Il Galileo non emesso
di Sergio Luzzatto

Mentre si approssimano le scadenze per il rinnovo degli incarichi ai vertici delle grandi aziende controllate dallo Stato, può essere utile conoscere una piccola storia che riguarda le Poste italiane: la storia del francobollo celebrativo per il 450° anniversario della nascita di Galileo Galilei. L'anno filatelico della Repubblica avrebbe dovuto essere inaugurato, lo scorso 15 febbraio (data di nascita dello scienziato pisano, nel 1564), dall'emissione di un francobollo raffigurante una statua scolpita nell'Ottocento da Aristodemo Costoli: il risoluto Galileo degli Uffizi che fieramente brandisce il telescopio grazie al quale ha ripensato l'universo. Per l'occasione il Comune di Pisa, l'Università e la Scuola Normale avevano organizzato un piccolo evento culturale: non solo un burocratico annullo del francobollo allo sportello delle Poste centrali, anche un incontro pubblico all'Università, un'esposizione alla Normale di alcune edizioni galileiane di pregio, eccetera. Ma ecco che alla vigilia, il 14 febbraio, un comunicato delle Poste annuncia sospesa l'emissione del francobollo, per "problemi tecnici" sopravvenuti presso l'Istituto Poligrafico dello Stato. Costringendo il Comune di Pisa, l'Università e la Normale a cancellare last minute le cerimonie collegate. Il 17 febbraio le Poste spiegano che la «particolare ricchezza e fine lavorazione del bozzetto» hanno impedito di «procedere a quelle brusche accelerazioni produttive richieste per consentire
di rispettare comunque le date di emissione». Dopodiché,  il 27 febbraio, le stesse Poste fanno sapere che l'emissione del francobollo di Galileo è rinviata a «data da definire» (in compenso, è ben definita per il 12 maggio l'emissione di un francobollo celebrativo della Nutella). Così, quattro secoli dopo i primi guai incontrati dallo scienziato davanti al Sant'Uffizio, Roma è tornata a punire Pisa. Così Galileo
è stato nuovamente condannato.
Ma questa volta (consoliamoci) soltanto in effigie.

Il Sole Domenica 9.3.14
Utopie russe a confronto
Alla Kunsthaus una rassegna affianca le opere di El Lissitzky e Ilya ed Emilia Kabakov
di Flavia Foradini
 
Sia la disposizione delle opere nello spazio della Kunsthaus, sia il titolo della mostra aperta a Graz fino al 10 maggio – «El Lissitzky e Ilya ed Emilia Kabakov. Utopia e realtà» – sottolineano programmaticamente che non di un dialogo tra importanti esponenti dell'arte russa del ventesimo secolo si tratta, bensì semmai di una contrapposizione fra l'afflato idealistico dell'avanguardia che accompagnò l'ascesa del comunismo da un lato, e dall'altro la frustrante, drammatica realtà vissuta fino alla Perestrojka dagli artisti non allineati al regime.
L'idea di fare incontrare sotto lo stesso tetto uno degli entusiastici sostenitori della Rivoluzione Russa, El Lissitzky, e un disallineato e disincanatato quale Ilya Kabakov, classe 1933, riuscito ad espatriare solo nella seconda metà degli anni 80, è nata in seno al Van Abbemuseum di Eindhoven, che ha vinto i numerosi dubbi dei Kabakov sull'iniziativa, coinvolgendoli fortemente nella scelta delle opere da giustapporre in una mostra ad una quarantina di lavori di El Lissitzky.
In Olanda «Utopia e realtà» si è chiusa nella primavera dell'anno scorso, mentre due ulteriori tappe sino alla fine del 2013 all'Hermitage di San Pietroburgo e al Mamm di Mosca, hanno via via modificato l'assetto dell'esposizione, marcando sempre più le differenze sia temporali che poetiche dei due discorsi artistici e ideologici. Ora, alla Kunsthaus austriaca, dove gli stessi Kabakov firmano in prima persona la curatela, la distanza da El Lissitzky pare definitivamente suggellata.
La lunga scala mobile che sale al primo piano del peculiare edificio a forma di mollusco, sbocca davanti ad un enorme angelo caduto, riverso a terra, vittima di un volo temerario che gli ha spezzato le ali, o forse di un sogno infranto. Creata dai Kabakov nel 1997, la statua rivestita d'azzurro come nella più popolare iconografia, è posta di fronte alla ricostruzione di un'installazione celebrativa tesa verso il cielo, ideata da El Lissitzky nel 1927. Tra questi due poli il visitatore deve scegliere se immergersi prima nelle opere dell'avanguardista e poi in quelle dei Kabakov, oppure se zigzagare fra le sei sezioni.
Nonostante lo sviluppo espositivo in parallelo, El Lissitzky e Ilya Kabakov hanno molto in comune: le stesse radici ebraiche, la stessa carriera come illustratori di libri, lo stesso interesse per grandi installazioni e per l'architettura teatrale, una forte vicinanza alla cultura tedesca, il saper spaziare in diversi generi.
Tuttavia, fanno notare i Kabakov, «Lissitzky credeva davvero nella possibilità di cambiare il mondo, e si pone all'inizio di un percorso, fatto di fiducia nel futuro e nel tentativo di perseguire l'ideale di una società egualitaria, capace di soppiantare le drammatiche asimmetrie dello zarismo. Noi siamo alla fine di quello stesso percorso, ma ciò che lui vedeva come un sogno, per noi è stato una tragedia».
Così, se da un lato campeggia il dinamico Uomo nuovo di Lissitzky del 1923, e si allineano paradigmatici esempi dalla fondamentale serie Prouns con cui Lissitzky prefigurava i valori della nuova collettività sovietica, dall'altro si materializzano povere cucine di condominii popolari del dopoguerra, e campionari di ordinaria spazzatura, ordinatamente appesi come un bucato.
Alle illustrazioni di riviste e libri propagandistici degli anni 20 fanno da contraltare i fantasiosi disegni di Ilya Kabakov in pubblicazioni per l'infanzia: immagini che invitano alla fuga verso mondi solo immaginati.
Se da un lato nel 1920 Lissitzky guardava con fervida ammirazione a Lenin e creava una svettante tribuna per i suoi discorsi, dall'altro i Kabakov paiono rispondere nel 2005 con il Monumento al tiranno: un piedistallo da cui è sceso uno Stalin intabarrato in un cappottone e totalmente deprivato di qualsiasi aura eroica.
Agli studi e ai modelli di Lissitzky di cellule abitative minime ma funzionalmente efficienti, datate 1927, pare rispondere l'ironica e amara installazione di Ilya Kabakov del 1985, L'uomo che dalla sua stanza volò nel cosmo: una stanzetta disordinata e sporca, da cui qualcuno, sfondando il soffitto si è catapultato verso il cielo, proiettandosi verso orizzonti ignoti.
Un'azione fulminea ma maturata e cullata nell'intimo per molto tempo, proprio come fu per lo stesso Kabakov, che nel 1987 si lanciò verso Occidente grazie ad un invito come artista in residence proprio in quel di Graz e non fece più ritorno in patria.
Dal capoluogo stiriano, Kabakov si trasferì in Germania e in Francia e quindi con un altro grande balzo si trapiantò negli Stati Uniti, dove ritrovò la lontana cugina Emilia e la sposò. L'unione divenne anche una coppia artistica dall'inizio degli anni 90, che da allora firma congiuntamente opere e installazioni, esposte nei maggiori musei del mondo.
El Lissitzky e Ilya ed Emilia Kabakov. Utopia e realtà, Graz, Kunsthaus,
fino al 10 maggio. www.museum-joanneum.at/de/kunsthaus

Il Sole Domenica 9.3.14
Antonio vale il dramma
di Renato Palazzi
 
Avevo un ricordo, chissà perché, dell'Antonio e Cleopatra come di un testo stentoreo e lamentoso. Devo dunque essere grato a Luca De Fusco che mi ha indotto a ricredermi. L'ultima volta che avevo avuto a che fare con De Fusco era stata in occasione dello scorso festival di Napoli, quando lui mi aveva fatto l'onore di darmi del talebano: non ero quindi, lo confesso, propriamente ben disposto nei suoi confronti. Va invece riconosciuto che la sua possente messinscena, seppur non priva di aspetti discutibili, rende un buon servizio a Shakespeare.
Mi ha colpito, in primo luogo, l'acuminata traduzione di Gianni Garrera, un intellettuale anomalo, a quanto mi si dice, non un anglista, non uno specialista shakespeariano, che ha saputo però trovare un linguaggio lucidissimo, aggirando tanto le trappole della retorica barocca quanto quelle della facile attualizzazione. Non a caso, forse, lui è uno studioso di Kirkegaard e delle Sacre Scritture: la sua illuminante versione, che scava con chirurgica precisione nelle profondità dei personaggi, appare sempre come riflesso di un pensiero, di uno stratificato giudizio morale. Ciò che emerge dal testo come un fatto modernissimo è l'aguzzo disincanto che ne esclude ogni traccia di grandezza o di eroismo. Antonio e Cleopatra, in questa chiave, diventa davvero la tragedia delle contraddizioni umane. «La stranezza della natura – osserva Ottaviano, nell'apprendere della morte di Antonio – che ci fa piangere per avere ottenuto ciò che volevamo ottenere!». E l'intera vicenda risulta costruita su una serie di inscindibili contrasti tra ardimento e viltà, tra passione e tradimento, tra nobili ideali e istinti abietti.
Il suo tratto peculiare è che anche le figure di contorno, come quelle principali, hanno un'autonoma statura drammatica: ciascuna è portatrice di un suo piccolo dilemma, ciascuna è combattuta tra la scelta della ragione, che spinge a prendere le distanze da errori ed eccessi, e la fedeltà al proprio comandante. E Cleopatra, emblema assoluto del mistero della femminilità, nonostante l'atto finale del suicidio è perennemente dilaniata tra l'amore per Antonio e l'innata propensione a schierarsi dalla parte dei vincitori. L'allestimento di De Fusco, tutto giocato su una complessa architettura di luci e ombre che disarticola la scena-scalinata di Maurizio Balò, mostrando volti e corpi a varie altezze dello spazio, in un livido bianco e nero, come gruppi marmorei o sequenze da film muto, rafforza, almeno fino a un certo punto, questo senso di vigore plastico, quasi rendendo in forme scultoree l'anima stessa dei protagonisti. Poi, soprattutto nella seconda parte, il regista sembra non credere lui per primo a questa tensione tra immagine e parola, e tende a sovrapporle un invadente profluvio di effetti speciali.
Infine c'è l'impressionante prova attorale di Luca Lazzareschi, che si rivela il più alto interprete shakespeariano degli ultimi decenni. Lo si era visto eccellente Amleto con Carriglio, poi poderoso Herzen in The coast of Utopia di Stoppard, ma questo suo Antonio lascia un segno definitivo: nel monologo della vergogna tocca livelli lancinanti, probabilmente superiori a quelli del miglior Gassman. Reggono degnamente il confronto, fra gli altri, l'Ottaviano di Giacinto Palmarini e l'Enobarbo di Paolo Serra, mentre Gaia Aprea mi è parsa qui una Cleopatra inutilmente sopra le righe.
Antonio e Cleopatra, di William Shakespeare, regia di Luca De Fusco, Genova, Teatro della Corte, 18-23 marzo