martedì 25 marzo 2014

l’Unità 25.3.14
La sinistra deve ritrovare l’anima
di Michele Prospero


NON È UNA GENERICA POLITICA AD ESSERE GRAFFIATA DAL POPULISMO, CHE IN MOLTI paesi d’Europa si aggira come un avvoltoio. E al blasfemo lessico della rivolta contro le tecnocrazie, premiato con il successo annunciato delle truppe di Le Pen figlia alle amministrative francesi, non si può rispondere invocando la correttezza della politica normale.
Quella politica che con i suoi lumi deve tornare al governo del continente, come se non ci fosse una precisa scelta politica anche dietro l’egemonia dei signori dell’austerità, del rigore, della finanza. Nata urlando a squarciagola la miracolosa parola d’ordine della libera concorrenza dei mercati, come sigillo di una splendida età di progresso illimitato per individui ridotti a imprenditori di loro stessi, e scagliandosi contro le arcaiche clausole costituzionali novecentesche dell’eguaglianza e dell’inclusione sociale, l’integrazione europea non è stata affatto una esperienza senza politica, ma è stata piuttosto un laboratorio succube di una cattiva politica. La battaglia per arginare la deriva cognitiva del populismo, che crea inimicizie di comodo per non attaccare le fonti reali dei conflitti di classe, non è quindi tra un mercato rimasto senza politica (impossibile evenienza: anche il liberismo più sfrenato suppone una decisione, diceva già Gramsci) e il ritorno in gioco della politica dopo il letargo, come se ci fosse da colmare una pura assenza. La politica c’è stata, eccome. Solo che ha indossato gli abiti della politica di servizio, con governi (spesso anche quelli di centrosinistra) alle dipendenze di una visione angusta del potere che privilegiava gli interessi della valorizzazione del capitale (delocalizzazioni incentivate, regimi fiscali leggeri) e colpiva le residuali conquiste del lavoro (flessibilità, precarietà, attacco al ruolo delle rappresentanze sociali organizzate). Scossa nelle fondamenta dalla grande contrazione economica globale, la politica, che non è fuggita ma è rimasta insediata al potere con un paradigma omogeneo che sfuma le grandi differenze di un tempo, ha ben presto tramutato gli apostoli della libera concorrenza in alfieri inflessibili del governo dell’austerità che, in nome della asettica tecnica del risanamento, dirottava le scarse risorse pubbliche a sostegno delle banche, a tampone di un sistema finanziario in grave fibrillazione. È la politica che ha consentito che la crisi sociale venisse pagata dal lavoro con le scene abituali della disperazione delle piazze spagnole o gli incendi nelle strade greche o ha imposto come dogma incontrovertibile il pareggio di bilancio, autentico suicidio della democrazia in tempi di recessione. Se il populismo lievita nei consensi, e miete sostegno proprio nei ceti popolari, ciò accade non già perché non ci sia più la politica ragionevole e sobria al posto di comando, ma perché la sinistra europea ha smarrito la sua mappa concettuale e non è percepita più come una grande tradizione capace di riformulare le istanze di una radicale critica del capitalismo contemporaneo che lucra profitto solo obbligando al sacrificio delle libertà, delle aspettative, dei progetti di vita.
Se la politica europea è solo uno stanco esercizio di scrittura delle regole, non ha nulla da dire in risposta al disagio odierno. E la speranza degli esclusi passa attraverso lo choc di movimenti di protesta che in realtà rafforzano la alienazione, la marginalità sociale e offrono un sostegno alla riproduzione degli egoismi dei governi nazionali. Per questo, un assembramento europeo di tutti i partiti populisti come quello invocato da Le Pen, è un insultante ossimoro in quanto ognuno di essi si mobilita per ragioni nazionali esclusive e opposte a quelle di ciascun altro. Se la sinistra vuole dare un segno visibile di presenza deve cambiare alla radice la propria cultura. La politica è conflitto sui valori, lotta per fini collettivi tra loro in antitesi, non la riverenza ad asettiche tecniche affidate nella loro scrittura agli interpreti di una governance multilivello che, sulle sabbie mobili di un ibridismo pubblico-privato riduce i territori a mero spazio di mercato, occulta ogni ragione del pubblico, calpesta qualsiasi sensibilità per i beni comuni.
Sancire, come è accaduto sinora, che prima viene l’arida moneta e solo dopo seguirà la compatta sovranità (e forse un giorno persino lo spazio sociale acquisterà un ruolo accanto alla sacra fiducia degli investitori) non significa rinunciare alla politica ma equivale piuttosto ad affidare alla politica il compito di obbediente sentinella dei mercati e della finanza che rivendicano una autonoma potestà normativa. È giusto, come invoca il giurista tedesco E-W. Bockenforde, condurre «una lotta per ristabilire il primato della politica in spazi dominabili». Purché non si creda però che il liberismo sia un’arena senza politica, e quindi un mero spazio di mercato autoreferenziale senza responsabilità accertabili dei governi. La sinistra intende scacciare dalla vecchia Europa lo spettro del populismo? E allora ritrovi in fretta la sua anima sociale aggredendo il Fiscal compact, denunciando i patti di stabilità che annunciano sciagure, riformuli insomma la sua identità di forza di liberazione in perenne lotta contro le nuove esclusioni e nemica giurata dello sfruttamento che riappare in infinite maniere nel cuore di pietra del postmoderno.

l’Unità 25.3.14
Barca: «Bene Matteo ma il Pd sia presente»
di M. Ze.


«È in corso una scossa dal livello nazionale, nei metodi, nei modi nel ribadire in maniera tosta il primato della politica. E qualunque cosa ne pensiamo questa scossa ha avuto degli effetti: ridare speranza». Fabrizio Barca parte dalla scossa imposta da Renzi per dire che c’è una parte della classe dirigente che questa scossa la teme, che pensa al proprio «schemino per i prossimi 15 anni» che era pronto e che non ha affatto intenzione di mollare. E invece bisogna sperare che questa scossa arrivi e che la partecipazione occupi questi spazi che i grandi cambiamenti aprono e che «possono essere pericolosi» se non è la politica a farli suoi. Barca parla nello storico circolo Pd di via dei Giubbonari, dove presenta l’iniziativa partita mesi fa sul territorio e oggi giunta al primo step: «i luoghi idea(li)», undici idee nate sul territorio dentro il Pd, cioè undici progetti «sponsorizzati » da 583 sostenitori, tutti nel segno dei valori che secondo il leader Pd sono, o dovrebbero essere, nel dna della sinistra. È così, spiega, che si occupano quegli spazi e quelle porzioni di territorio che in qualche modo rappresentano tutto il Paese. Non c’è un orizzonte diverso rispetto a quello di Renzi, assicura, e ricorda le definizioni usate dal segretario durante la sua campagna elettorale, «partito pensante», quelle di Pippo Civati, «partito ospitale» e le sue «partito palestra», tre definizioni «che non sono in contraddizione e infatti durante il mio giro nel Paese e nei circoli ho trovato attorno al progetto “luoghi idea(li)” renziani, civatiani, lettiani...». E quindi ecco che ad Avellino il progetto si concretizza nell’impegno per la bonifica dell’area Isochimica «che non duri un secolo», che verrà seguita passo passo e fra un anno esatto si farà il punto come per tutti gli altri progetti.
A Catanzaro l’obiettivo è aprire i circoli anche ai non iscritti per tornare «ad agire come struttura intermedia tra società e istituzioni» e cercare il modo per coinvolgere attivamente nella vita del partito non soltanto gli iscritti e non soltanto chi va a votare alle primarie. A Milano nel quartiere San Siro si lavorerà non per l’integrazione tra italiani e extracomunitari (la cui presenza qui è del 31%) ma, «come è proprio dei valori di una sinistra moderna, di sentirsi liberi di arricchire le proprie molteplici identità nella percezione di appartenere ad un’unica comunità». Come? Ridando ai cortili dei palazzi di via Padova, nel cuore di San Siro, quella funzione centrale di luoghi di vita collettiva e comune. Se punta alla segreteria del partito Barca?

La Stampa 25.3.14
Cuperlo: “La politica degli annunciha bisogno di risposte coerenti”
Il leader della minoranza: il rapporto con i sindacati da preservare
intervista di Francesca Schianchi


In questa nuova stagione, il Pd deve essere una dépendance al servizio del leader o lo strumento più formidabile per accompagnare le riforme radicali che Renzi vuole guidare?».
Lo dica lei, Gianni Cuperlo, cosa deve essere il partito?
«In tre mesi è cambiato tutto a una velocità che nessuno aveva previsto. Di fronte a questa novità dobbiamo sostenere il governo con lealtà e autonomia, capendo che investire sul Pd è oggi la migliore assicurazione sulle riforme».
Investire come?
«Il congresso è finito e Renzi ha vinto: tocca a lui indicare una strada. Quello che so è che per scortare l’Italia fuori dal guado serve la sinistra, ma un ciclo si è chiuso anche per noi. Abbiamo bisogno di una rivoluzione dolce dove nulla rimarrà uguale a com’era. Il linguaggio per primo, e le forme della partecipazione. Non è questione di posti, ma di quale idea di partito».
Non è questione di posti, ma sarebbe necessaria una gestione unitaria?
«Io non ho pregiudizi su questo, ma bisogna capire di cosa parliamo. Il congresso ha chiuso un ciclo ventennale e ne ha aperto uno nuovo: è come se un intero vocabolario e una cassetta degli attrezzi venuti buoni per anni non servissero più. Per riflettere di questo abbiamo lanciato la convenzione del 12 aprile».
Renzi ha provocato o accompagnato questa frattura?
«È stato un elemento catalizzatore. Ora deve risultare coerente con le premesse: la politica degli annunci ha bisogno di risposte coerenti».
È d’accordo sul taglio ai maxi-stipendi? Ne è nata una polemica con l’ad delle Ferrovie Mauro Moretti…
«Starei attento a costruire bersagli su questi temi. Ma ha ragione Giulio Sapelli quando spiega perché il differenziale di reddito tra un manager e gli altri lavoratori non dovrebbe superare una soglia ragionevole prima di tutto per l’impresa».
E sulla polemica tra Renzi e Squinzi-Camusso, da che parte sta?
«Faccio fatica a comprenderla: è un errore ritenere che ogni filtro tra potere e popolo sia un ostacolo da abbattere».
Secondo la Camusso posizioni come quelle di Renzi indeboliscono la democrazia…
«Le rispondo citando Obama: qualche anno fa disse che l’America senza i sindacati sarebbe stata una nazione più povera. Non era un omaggio alla concertazione ma un’idea della democrazia».
Lei ha criticato il decreto lavoro. Cosa non la convince?
«Sono sbagliate le misure che compromettono una tendenza già bassa alla stabilizzazione dei lavoratori. Credo sarà da modificare in Parlamento. Se vuoi creare lavoro non bastano gli incentivi: devi mettere in moto l’economia. Ci sarà un motivo se in altri Paesi la crisi è stata domata con politiche rovesciate rispetto al mantra di Bruxelles e Berlino».
L’austerity, intende. L’Europa così com’è sembra non godere di grande favore presso gli elettori, e il risultato di ieri del Front National in Francia pare confermarlo…
«Se Le Pen vola nei consensi la risposta non credo sia la rinascita del Fronte repubblicano contro i nuovi barbari. Il voto francese parla all’insieme della sinistra e dice anche a noi che c’è da generare un nuovo pensiero sull’Europa».
Renzi ci sta provando, no?
«Sì e credo debba insistere su un punto: senza crescita l’Europa non ce la fa. Bisogna alzare l’asticella degli obiettivi».
In questo clima si svolgeranno le Europee: sulla scheda stavolta non ci sarà il nome di Renzi. Ma alle politiche, dice, si vedrà…
«Resto dell’idea che non mettere un nome sulla scheda alla lunga renda più forte sia il nome che il simbolo».

l’Unità 25.3.14
L’equità non è un optional
di Claudio Sardo


La scelta di «mettere mille euro» (in un anno) nella busta paga dei lavoratori dipendenti con più basso reddito è certamente la più significativa, e la più popolare, tra quelle annunciate da Matteo Renzi. Il titolo però da solo non basta. L’ipotesi originaria di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia - cioè l’innalzamento della detrazione Irpef per il lavoro dipendente - pare incapace di produrre risultati equi e coerenti. Il fatto che ora si discuta se trasformare la misura in una voce autonoma dello stipendio (bonus fisso fino a 25mila euro di reddito, decrescente fino a 50-55mila), oppure se imboccare una terza strada, la dice lunga sui rischi - assolutamente da evitare - di aprire una guerra tra poveri, di fare parti uguali tra diseguali, di penalizzare chi ha più bisogno tra i bisognosi. Ma andiamo con ordine. Obiettivo dichiarato del governo è rilanciare la domanda interna. La linea del premier è concentrare quasi tutte le risorse disponibili in una sola posta, in modo da comporre una massa critica e produrre così un impatto anche psicologico. È discutibile in termini di giustizia sociale l’esclusione dei pensionati dal beneficio, così come è discutibile in termini di competitività del sistema aver riservato solo un mini-intervento al cuneo fiscale delle imprese. Tuttavia, proprio le esperienze dei governi di centrosinistra hanno dimostrato che una dispersione dell’intervento redistributivo ne compromette la riconoscibilità, e dunque il valore politico ed economico. La scelta del governo, insomma, era da dove partire. E partire dal lavoro dipendente può essere accettato anche dalle imprese che operano sul mercato interno e dalle partite Iva che hanno bisogno di un rilancio dei consumi.
L’equità tuttavia non è un optional per un governo che ha il suo baricentro nella sinistra. E non basta dire: lavoro dipendente. Bisogna anche evitare che le diseguaglianze si annidino nelle pieghe del provvedimento. Il governo aveva pensato in un primo momento di aumentare la detrazione Irpef per il lavoro dipendente. Attualmente è fissata a 1880 euro per i redditi fino a 8mila euro, con una decrescita progressiva fino a 55mila euro.
L’ipotesi era di alzare la detrazione a 2400 euro fino a 20mila euro di reddito e di prevedere fino a 55mila euro una curva di decrescita molto più ripida di quella attuale. Così si ottenevano gli 80-85 euri medi mensili di cui ha parlato Renzi (costo annuo 10 miliardi, costo 6,6 miliardi nel 2014 a partire da maggio). Ma lo schema non funziona. Almeno per tre corpose ragioni. La prima riguarda gli incapienti, cioè i percettori dei redditi più bassi oppure i titolari di assegni al nucleo familiare. Sono quelli che hanno più bisogno, i più poveri: a loro dello sconto arriverebbe poco o nulla. Chi già non paga l’Irpef perché ha un reddito inferiore agli 8mila euro oppure perché ha un piccolo stipendio e familiari a carico, verrebbe escluso dai benefici di un’ulteriore detrazione. La seconda corposa ragione riguarda l’assenza di ogni legame tra lo sconto fiscale ipotizzato e il carico familiare. Il bisogno e la povertà - come dimostrano tutti gli studi - dipendono anzitutto dal numero delle persone a carico. Secondo lo schema originario del governo, una coppia di lavoratori con un reddito familiare complessivo di 45-50mila euro otterrebbe un beneficio di 2mila euro annui, mentre una famiglia monoreddito di quattro persone, con 30mila euro lordi, non prenderebbe più 500 euro.
Ma c’è anche una terza ragione. È stata documentata da un articolo di Vincenzo Visco e Ruggero Paladini su lavoce.info. Le modifiche apportate alle curve delle detrazioni determinano risultati paradossali, alzando non di poco l’aliquota marginale dei percettori di reddito tra i 28 e i 55mila euro. I lavoratori di questa fascia di reddito si ritroverebbero un’aliquota Irpef marginale addirittura superiore a quella di chi guadagna più di 55mila euro. Ciò vuol dire che, se ottenessero un aumento di mille euro, pagherebbe su questi mille euro più tasse (anche per 4-5 punti) di un cittadino con reddito superiore ai 55mila. Nasce da qui il cambio di rotta del governo. Il bonus risponde allo stesso criterio della detrazione, ma cerca di aggirare l’inconveniente delle aliquote marginali e limitare l’ingiustizia ai danni degli incapienti. Sarebbe sicuramente più equo investire i 6,6 miliardi in un duplice intervento: da un lato una riduzione dei contributi previdenziali del lavoratore, dall’altro un incremento degli assegni al nucleo familiare. I nuovi parametri distribuirebbero gli 80-85 euro medi mensili dando di più a chi ha di meno e a chi, con il proprio stipendio, sfama più persone. E l’intervento resterebbe ancorato al lavoro dipendente. Pensiamo che il principio di giustizia valga più di un intervento-spot. Tuttavia, Renzi potrebbe temere una minore forza simbolica: va considerato che nell’attuale depressione la fiducia e le aspettative valgono molto. Ma se bonus deve essere, se è proprio inevitabile pagare un tributo in termini di equità, almeno si stabilisca che l’intervento del 2014 sarà una tantum e si cominci fin d’ora a lavorare perché nel 2015 la riforma sia più strutturale. Sommare detrazione decrescenti ad altre detrazioni decrescenti produce squilibri. Bisogna intervenire contemporaneamente su aliquote e detrazioni per fare le cose giuste. E guai a dimenticare il carico familiare se si vuole davvero contrastare la povertà. Come la natura di una sinistra impone.

l’Unità 25.3.14
Firmare per non lasciare fuori l’«Altra Europa»
di Mario Tronti


HO LETTO L’INTERVENTO DI CHIARA INGRAO, SU«L’UNITÀ» DI GIOVEDÌ SCORSO. Ne condivido l’appassionata indicazione. Anche chi esprime oggi un’intenzione di voto per il Pd dovrebbe mobilitarsi - ripeto, mobilitarsi - perché la lista «L’Altra Europa con Tzipras» possa raggiungere le 150mila firme necessarie per partecipare alla campagna elettorale delle elezioni europee. Mi convince la frase conclusiva. Si competa con gli argomenti e non con gli sbarramenti.
Non solo. C’è un nemico comune da battere: e sono i populismi, i nazionalismi, i localismi, che minacciano, non questa Europa, ma l’idea di Europa in quanto tale. Hanno dalla loro parte il disagio, il malessere, e il malumore e la rabbia, che la lunga crisi economica ha depositato nelle case, nelle famiglie, nella vita quotidiane delle persone. Da lì il bisogno di scaricare su un nemico visibile, palpabile, un risentimento di massa, che potrebbe coagularsi questa volta in un antieuropeismo viscerale. Abbiamo già avuto esperienza di questi improvvisi spostamenti emotivi, a livello di moltitudine, che la nostra razionalità politica non sa spiegare. E proprio perché non sa spiegare, non riesce a prevedere, con la conseguenza di subirli, nei risultati sugli equilibri politici, marcati da quasi inspiegabili vuoti di consenso. Questa idea che la sinistra parla alla testa dell’elettore, perché alla pancia parla la destra, è un’idea forse da rivedere: in base alla testa dura dei fatti. Non si combattono i populismi, privandosi del popolo, ma strappando il popolo al populismo: riorientando l’opinione, con la politica, con il partito, con il governo, in una sinergia di programmi e di azioni, dall’alto e dal basso.
Allora la proposta va articolata, con l’intento di aderire, con l’offerta pratica alla domanda di vari strati sociali. Quando Chiara Ingrao elenca il tipo di persone in carne ed ossa che si impegnano, e si candidano, nella lista dell’Altra Europa, «delegate e delegati metalmeccanici, compagne di strada di don Gallo e di Zanotelli, giornalisti, intellettuali, voci autorevoli del pacifismo e del femminismo, dell’Arci e dei Forum sociali», c’è da domandarsi a chi giova lasciar fuori dalla rappresentanza questo multiverso di posizioni alternative. E il problema si pone adesso per le Europee, si porrà per le politiche, viste le assurde soglie di sbarramento previste nell’ultima invenzione di legge elettorale. C’è una governabilità politica, data dai numeri in Parlamento, ma attenzione, c’è anche una governabilità sociale, data dai movimenti presenti nel Paese reale. Se non li esprimi, non governi, soprattutto quando chiedi governo dalla parte sinistra dello schieramento politico. Enon c’è da pensare che se impedisci i canali di rappresentanza diretta a quelle posizioni, ne guadagna, ad esempio, il consenso del Pd. L’abbiamo visto: l’astensionismo pesca da quelle parti, e il grillismo proprio lì ha gettato in gran parte le reti, riempiendole di pesci.
Siccome tutti ormai parliamo non di «più Europa», ma di «un’altra Europa», approfittiamo della prossima campagna elettorale per mettere a confronto le diverse altre Europa che immaginiamo. E il problema, lì come qui, è sempre quello: chi comanda? Dov’è l’effettivo punto di direzione dei processi? Si fa adesso un passo avanti, con la indicazione almeno del premier della Commissione. Ma il problema è se il livello della decisione rimane nella Commissione o si sposta effettivamente nel Parlamento. È se e quando il Parlamento europeo riuscirà ad esprimere un governo, politico, europeo. Va bene dall’austerità alla crescita e giusto discutere sulle diverse ricette per operare il passaggio dall’una all’altra. Ma siccome quel passaggio vuol dire anche il progetto di un’Europa sociale, e non più solo economica, vuol dire lavoro al centro, vuol dire riequilibrio delle diseguaglianze, vuol dire non più Europa tedesca ma Germania europea, allora qui irrompe, e bisogna far irrompere, il grande tema dell’Europa politica, di come riprendere il cammino verso questa utopia concreta. Solo qui, sul rilancio del progetto della sovranazionalità politica si riuscirà a contrastare il potere assoluto del complesso economico-finanziario, che ha imprigionato l’idea di Europa e l’ha quasi portata all’attuale immagine di un finale tramonto dell’Occidente.
Qui si gioca con forza il contrasto, da rilanciare in grande, tra destra e sinistra europea. L’Europa è luogo di passioni forti. Per tornare a farla amare dai suoi popoli bisogna liberarla dai lacci e lacciuoli di conti e compatibilità. Non di un fiscal ma di un political compact c’è bisogno: questo, sì, da mettere nelle Costituzioni. Pse batti un colpo.

La Stampa 25.3.14
Duro attacco di Bagnasco: “Scuole campi di rieducazione”
Il cardinale: “Dittatura della teoria gender”
di Andrea Tornielli


Un attacco molto duro agli opuscoli sul gender, al punto da paventare una scuola con «campi di rieducazione». E un appello al governo perché metta in moto «la crescita e lo sviluppo». Sono tra gli argomenti affrontati dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione con cui ieri ha aperto i lavori del Consiglio permanente della Cei.
La società ha il «grave dovere» di «non corrompere i giovani con idee ed esempi che nessun padre e madre vorrebbero per i propri ragazzi» e i cittadini hanno «il diritto ad una scuola non ideologica e supina alle mode culturali imposte» ha detto Bagnasco, criticando gli opuscoli che parlano dell’identità di genere distribuiti nelle scuole. Guide che «in teoria» hanno lo scopo «di sconfiggere bullismo e discriminazione» ma che «in realtà mirano a “istillare” (è questo il termine usato) nei bambini preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre».
«È la lettura ideologica del “genere”, una vera dittatura, che vuole - aggiunge il presidente della Cei - appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni. Viene da chiederci con amarezza - ha detto Bagnasco - se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”». Ma i genitori «hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? Si è chiesto a loro non solo il parere ma anche l’esplicita autorizzazione? I figli non sono materiale da esperimento in mano di nessuno, neppure di tecnici o di cosiddetti esperti. I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza».
A proposito della crisi economica e della disoccupazione giovanile, Bagnasco ha ha detto che serve «un tessuto industriale pronto a riconoscere» i pregi dell’intraprendenza dei giovani, «a recepirne i risultati e a metterli in circolo». Senza dimenticare «quanti – non più in giovane età – hanno perso il lavoro e spesso si trovano esclusi da ogni circuito lavorativo e con la famiglia sulle spalle». È necessario «incentivare i consumi senza ritornare nella logica perversa del consumismo che divora il consumatore». Ma è anche indispensabile, «sostenere in modo incisivo chi crea lavoro e occupazione in Italia, semplificando anche le inutili e dannose burocrazie».
Per Bagnasco «bisogna ripensare e rimodulare anche la concezione del lavoro: il vecchio schema di dura contrapposizione è superato e rischia di danneggiare i più deboli. È necessario promuovere sempre più una mentalità partecipativa e collaborativa dentro ai luoghi di lavoro».

Repubblica 25.3.14
La Fiom accusa: il contratto Fiat è più basso delle altre tute blu
di Paolo Griseri



TORINO - Modello Federmeccanica contro modello Fiat, il contratto dei metalmeccanici di Confindustria contro quello dei dipendenti del Lingotto. L’ultima frontiera dello scontro tra organizzazioni sindacali è in busta paga. «Fiat ha sempre sostenuto che l’uscita da Confindustria era un affare per i suoi dipendenti perché il contratto specifico del gruppo avrebbe portato più soldi, ma non è così », attacca Michele De Palma, responsabile auto della Fiom. E snocciola il calcolo: «Per la prima volta da quando è stato istituito nel 2010 il contratto Fiat porterà nelle tasche dei dipendenti del gruppo meno soldi di quelli che arriveranno ai loro colleghi delle aziende collegate a Federmeccanica. Questi ultimi porteranno a casa 25.753,04 euro mentre i dipendenti Fiat arriveranno solo a 25.666,76». Una differenza di 86,28 euro annui che aumenta se si include la quattordicesima, una mensilità che non è compresa nei contratti nazionali ma fa parte di quelli aziendali. Il contratto Fiat è contemporaneamente nazionale e aziendale.
Totalmente diverse le cifre fornite dai sindacati firmatari degli accordi con il Lingotto: «Fino al 31 dicembre scorso - dice Ferdinando Uliano, responsabile auto della Fim - il contratto Fiat dava agli operai del terzo livello 1579,3 euro al mese contro i 1506,7 di Federmeccanica. Dal primo gennaio i dipendenti di Federmeccanica hanno aumentato il loro salario di 38 euro mentre noi stiamo ancora discutendo con la Fiat sull’aumento per il biennio 2014-2015. In ogni caso, in base ai nostri calcoli, il contratto Fiat è ancora oggi superiore di circa 40 euro mensili», poco meno di 500 all’anno.
La discussione è di attualità perché martedì prossimo i sindacati del «sì» saranno a Torino per discutere la parte salariale del contratto del Lingotto. La Fiat non vuole sentir parlare di aumenti salariali e qualcuno, tra i firmatari degli accordi, comincia a ventilare l’ipotesi del blocco degli straordinari. Senza un significativo aumento salariale sarà difficile per il gruppo di Torino spiegare ai propri dipendenti la convenienza dell’uscita dal contratto di Confindustria.
Ad animare le polemiche è arrivato ieri pomeriggio un video girato nello stabilimento di Melfi dove un gruppo di dipendenti, insieme al direttore, balla in mezzo alle linee di montaggio. Il video spopola su youtube, si intitola «We are happy from Melfi plant» e aderisce all’iniziativa «www.wearehappyfrom.com» che raccoglie video analoghi da tutto il mondo. «Anche noi balleremo se otterremo gli aumenti salariali richiesti », commenta ironico Uliano. Per De Palma «mentre il direttore di Melfi balla, i lavoratori hanno turni massacranti».

Repubblica 25.3.14
Mitragliate al barcone degli scafisti la Marina ammette: abbiamo sparato
di Fabio Tonacci



ROMA - Dice ora la nostra Marina militare che sì, «lo scorso 9 novembre da bordo della nave Aliseo sono stati sparati dei colpi di arma da fuoco», ma che è stata «l’ultima ratio per bloccare la fuga del barcone degli scafisti». Decisione presa, si legge nella nota che consegna alla stampa la versione ufficiale di quell’abbordaggio con mitragliate nel mezzo del Canale di Sicilia, «solo dopo aver acquisito l’assoluta certezza di non colpire l’equipaggio ».
Ed è su quest’ultimo passaggio che si concentrerà l’inchiesta aperta dal procuratore militare di Napoli, Lucio Molinari, al momento ancora senza ipotesi di reato. Quelle tre sventagliate di proiettili sputate dal mitragliatore Mg della Aliseo a una distanza di una quarantina di metri, più gli altri nove colpi singoli, alcuni dei quali finiti sulla poppa del barcone come si vede nel filmato girato con un telefonino durante l’inseguimento, potevano uccidere qualcuno? Si possono ipotizzare i reati di “violata consegna” o di “inosservanza delle disposizioni”? «Al momento - si limita a dire Molinari - dobbiamo ancora capire cosa è successo e, soprattutto, quali siano le regole di ingaggio che hanno indirizzato l’attività dei marinai».
Eccolo il punto di questa storia, le regole di ingaggio. Perché se è un fatto che i 16 egiziani arrestati quel giorno sono stati tutti rinviati a giudizio in quanto «trafficanti di esseri umani facenti parte di un’organizzazione criminale conosciuta, che avevano appena abbandonato a largo una chiatta con 176 siriani sopra», come ricorda il procuratore capo di Catania Giovanni Salvi, è anche vero che erano disarmati. Agli atti dell’inchiesta catanese non ci sono rinvenimenti di pistole o fucili che possano far pensare a un conflitto a fuoco precedente agli spari dell’Aliseo. Dunque, fino a che punto possono arrivare le nostre navi impegnate nell’operazione Mare Nostrum per fermare gli scafisti?
Non sono ancora ben chiare, queste disposizioni, e la nota della Marina non aiuta a dissipare i dubbi. «La nave madre che tentava la fuga con pericolose manovre evasive - si legge nel comunicato - rifiutava di farsi ispezionare nonostante ripetute ingiunzioni via radio, anche in lingua araba». Dunque le raffiche, «sparate in maniera progressiva» e riprese in un filmato che sarà proiettato questa mattina alle 10 nella conferenza stampa alla Camera organizzata dal Partito per la difesa dei diritti dei militari. Un “film” di pochi minuti, che si conclude con la prua del peschereccio che affonda, lentamente.

Repubblica Salute 25.3.14
Fine vita, è ora di parlarne
di Guglielmo Pepe



Per scuotere il Parlamento servono a volte atti di forza. Perché solo dopo lo sciopero della fame di Carlo Troilo, consigliere dell’Associazione Luca Coscioni, e il conseguente richiamo del presidente Giorgio Napolitano, affinché l’Istituzione non ignori “il problema delle scelte di fine vita”, qualcosa si è mosso tra le forze politiche per iniziare a discuterne. Non molti sono disposti a confrontarsi sul diritto di vivere e di morire, sull’autodeterminazione, sul significato dell’esistenza, sulla sofferenza, sulla malattia quando non lascia più alcuna speranza. Eppure negli ospedali muoiono ogni anno migliaia di persone (quante non si sa, nessuno indaga sull’argomento), perché rinunciano alle cure. È una “desistenza terapeutica” che medici e infermieri conoscono benissimo. Prendere atto di questa realtà significa affrontare la discussione su Eutanasia, Testamento biologico, Suicidio assistito, argomenti sui quali i partiti sono divisi tra di loro e, spesso, al loro interno. Bisogna auspicare un dibattito sereno, non condizionato da pregiudizi ideologici e religiosi. Di certo la fine della vita riguarda tutti. Abbiamo il diritto di affrontarla liberamente e con dignità.

Repubblica Salute 25.3.14
Storica presa di posizione che riguarda la dimensione psichica della malattia
Depressione
L’umore mette a rischio il cuore (come fumo, colesterolo, pressione)
di Francesco Bottaccioli

Presidente on. Società It. Psiconeuroendocrinoimmunologia


Il numero odierno di Circulation, la rivista dell’Associazione cardiologica americana, pubblica un ampio documento di un Comitato di scienziati e clinici, incaricato dall’Associazione (Aha, American Heart Association) di rispondere al quesito se la depressione, che si instaura dopo un infarto, possa essere un fattore di rischio di prima grandezza come il colesterolo, il diabete, il fumo, l’obesità.
Il documento, dopo aver passato al setaccio tutta la più significativa letteratura scientifica disponibile, conclude in modo inequivocabile invitando l’American Heart Association «ad elevare la depressione allo stato di fattore di rischio per (accertate) conseguenze mediche avverse in pazienti con Sindrome coronarica acuta». Per sindrome coronarica acuta occorre intendere sia l’infarto del miocardio sia l’angina instabile. Le conseguenze avverse sono state valutate in termini di mortalità: la depressione incrementa la mortalità generale e la mortalità per eventi cardiaci di questi pazienti di più di 2 volte.
Gli studi di alta qualità passati in rassegna sono stati 55, a cui si sono aggiunte 4 meta-analisi. Nonostante un certo inevitabile grado di disomogeneità presente nei numerosi studi presi in esame, l’evidenza è “preponderante”, scrivono i ricercatori, che, nelle raccomandazioni finali, invitano l’Aha ad estendere la ricerca sulla depressione come fattore di rischio non solo dopo un infarto, ma anche nella genesi delle malattie cardiache su base aterosclerotica. Inoltre – conclude il documento - è importante capire il ruolo dell’ansia e quale sia il trattamento migliore della depressione in contesto cardiologico.
Si tratta di un documento di notevole rilievo, non tanto per la messa in evidenza della relazione tra depressione e peggioramento della prognosi dell’infartuato, che era nota da tempo, ma per il fatto che fino ad ora non era stata riconosciuta dall’establishment cardiologico internazionale, con conseguente sottovalutazione della dimensione psichica della malattia e del suo decorso. Fino ad ora, il cardiologo, che si atteneva alle linee guida ufficiali, doveva tenere d’occhio altri fattori di rischio, tra cui in primis il livello del colesterolo, il fumo, il diabete, l’obesità, la pressione arteriosa. Adesso dovrà badare anche all’u-more del suo paziente, che non è un dettaglio, ma un primario fattore di rischio al pari degli altri.
Eppure gli studi sulle relazioni tra depressione, fattori psicosociali in genere e cardiopatie c’erano da diversi anni, evidenziati in modo ampio nel 1999 proprio su
Circulation da A. Rozanski, JA Blumenthal e JA Kaplan del Dipartimento di cardiologia della Columbia University. Poi nel 2004 un ampio studio su Lancet, denominato Interheart, che ha preso in esame oltre 15.000 casi di infarto acuto, paragonati ad altrettanti controlli in 52 nazioni distribuite in tutti i continenti, ha stabilito che lo stress (domestico, lavorativo, finanziario), nell’anno precedente l’infarto, era al terzo posto come peso di fattore di rischio, subito dopo l’eccesso di colesterolo e il fumo e prima del diabete.
L’inclusione della gestione dello stress nella prevenzione cardiologica dovrebbe essere quindi il prossimo passaggio. Ma c’è ancora chi solleva dubbi, mettendo avanti gli scarsi risultati ottenuti trattando la depressione nel post-infarto. È certo vero che, nei pochi studi fatti, i risultati sono scarsi, ma il dato non inficia il legame tra depressione e cardiopatie, bensì mette in discussione la qualità della cura della depressione e la sua peculiarità in persone che hanno avuto un evento cardiaco acuto.

Repubblica Salute 25.3.14
“Ma il lutto non è una malattia”
Ad aprile la traduzione italiana del manuale Dsm-5
Parla lo psichiatra Mario Maj, unico italiano del board
di Giuseppe Lobello



La Bibbia degli specialisti è in due manuali: l’International Classification of Diseases (ICD) dell’Oms e il Diagnostic and statistical manual of Mental disorders (DSM), dell’Associazione degli Psichiatri americani. Mario Maj, direttore del dipartimento di Psichiatria del II Ateneo di Napoli è stato l’unico italiano e uno dei pochissimi europei che ha lavorato alla stesura del DSM-5 che sarà presentato, nella versione italiana, intorno al 10 aprile: «Questi manuali vengono aggiornati periodicamente, sia per rendere la descrizione dei vari disturbi mentali sempre più aderente alla realtà clinica e utile alla scelta dell’intervento terapeutico, sia per includere i nuovi quadri di interesse psichiatrico».
Perché sono così fondamentali?
«In psichiatria il ruolo delle indagini di laboratorio e strumentali è molto limitato. È quindi essenziale che venga descritto in modo molto preciso ciò che il clinico deve osservare o sentire dal paziente per poter porre ogni diagnosi. Basta pensare alla depressione e ai suoi sottotipi».
In che senso?
«Una volta identificata una sindrome depressiva, per poter scegliere tra i vari interventi terapeutici è necessaria un’ulteriore caratterizzazione del singolo caso, rispetto a una serie di parametri o “dimensioni”, come la gravità del quadro, la presenza concomitante di una componente ansiosa, il rischio suicidario. Questi parametri sono ora ben descritti nel DSM-5».
Il DSM-5 registra nuovi quadri psichiatrici?
«Sì, uno di questi è il “binge eating disorder” (“disturbo da alimentazione incontrollata”): episodi di abbuffate non seguite da comportamenti di compenso (vomito auto-indotto, abuso di lassativi). Questa nuova categoria caratterizza un sottogruppo di pazienti obesi che non rispondono alla terapia classica dell’obesità, ma possono giovarsi di alcune psicoterapie».
Professore, si è trovato in contrasto con i colleghi americani, in qualche caso?
«Talvolta. Per esempio, il precedente DSM-IV prevedeva che non si potesse porre diagnosi di depressione maggiore nei due mesi successivi alla perdita di una persona cara. Questo criterio di esclusione adesso è stato eliminato, perché avrebbe potuto ostacolare l’individuazione tempestiva dei veri casi di depressione dopo un lutto. Io mi sono opposto, per il rischio di una psichiatrizzazione impropria di quadri del tutto fisiologici. Nonostante le mie obiezioni, il cambiamento è stato approvato, ma la mia posizione è stata recepita in due note».
Cosa dicono?
«Nella prima sono elencate le differenze tra lutto “normale” e depressione, per aiutare il clinico nella diagnosi differenziale. La seconda sottolinea che la distinzione tra una condizione depressiva e la risposta “normale” a una perdita significativa, richiede un giudizio clinico basato sulla conoscenza della persona e del suo contesto culturale».

Repubblica 25.3.14
La grande paura dei partiti italiani “Il vento populista può travolgerci”
Dal Pd a Forza Italia l’allarme delle formazioni “ tradizionali”
di Goffredo De Marchis


ROMA - «All’apparir del vero tu, misera, cadesti». Nichi Vendola usa Leopardi per dire che qua crolla tutto, che l’Europa sta per essere travolta e con essa la sinistra continentale tanto brava a parole ma sempre pronta a sottoscrivere le politiche del rigore imposte dal centrodestra. È un verso che descrive anche la Grande Paura dei partiti italiani dopo la domenica francese. Rischia l’Europa ma rischiano anche le forze tradizionali, quelle che vogliono rimanere agganciate al Vecchio continente seppure libero finalmente dal vincolo dell’austerity. L’allarme è scattato nelle forze di governo e in quelle dell’opposizione che rifiutano la ricetta populista. A Largo del Nazareno, sede del Pd, si studiano le mosse della campagna elettorale per l’elezione dell’Europarlamento. Il coordinatore Lorenzo Guerini, da qualche giorno, è alle prese con le proposte grafiche di slogan e propaganda. Ma il Partito democratico ragiona soprattutto su come utilizzare al meglio la figura di Matteo Renzi nella sfida campale con Beppe Grillo. Già da ieri sera si è cominciato a pensare a messaggi video del premier da far circolare nei mesi di aprile e maggio. E a suo coinvolgimento maggiore in alcuni tradizionali appuntamenti con la piazza.
Doveva rimanere defilato dalla partita delle urne, Renzi. Per non trasformare il voto del 25 maggio in un referendum su se stesso. Per questo aveva escluso la presenza del suo nome nel simbolo. Una richiesta che non era un’uscita estemporanea del vicepresidente Matteo Ricci, ma un appello forte dei suoi uomini rimasti al partito. Sondaggi alla mano, il vantaggio era certo. Non succederà, ma Renzi dovrà farsi vedere più del previsto se l’obiettivo minimo rimane superare il 26,1 del2009 e quello massimo il raggiungimento di “quota 30 per cento”. «Dobbiamo far passare il messaggio che si cambia verso anche in Europa - spiega Guerini, vero numero due del Pd che presto sarà affiancato da Debora Serracchiani - Il problema è il vento populista che soffia forte, un punto a favore è l’unità del partito intorno a un’idea dell’Europa che ora guardi più all’occupazione e al disagio sociale e meno al rigore».
I fantasmi italiani si chiamano Grillo, Lega, Forza Italia, quello che potrebbe diventare il fronte degli euroscettici invocato da Marine Le Pen a Parigi. Ma Vendola è furibondo anche con i partiti della sinistra. E con Hollande «che si azzarda a dire che è un voto locale nascondendo l’onda nera che parte dalla Francia». La questione è che il presidente francese «fa campagna elettorale contro l’austerity e poi sottoscrive gli strumenti dell’austerity. È una contraddizione che non regge più e può distruggere l’Europa ». Sarà difficile anche per la lista Tsipras combattere gli anti-Euro proponendo la soluzione di un’altra Europa, «ma vedo peggio i partiti socialisti e la loro politica compromissoria». E Renzi? Non deve fare l’errore di Hollande, «non può recitare tutte le parti in commedia. Farsi le coccole con la Merkel e denunciare i vincoli del patto di stabilità. Questo atteggiamento non funziona. Ha portato l’Europa a non essere più il continente dell’Erasmus ma quello della povertà».
Roberto Speranza però difende la scelta del Pd di affidarsi a Renzi per la guida del governo. Proprio nell’ottica «dello scontro tra politica e antipolitica. Anzi, tra campo democratico e il campo che mette in discussione tutte le istituzioni democratiche. Quando abbiamo scelto Renzi - spiega il capogruppo Pd alla Camera - lo abbiamo indicato come guida de4l campo democratico. Avevano bisogno di un elemento di rottura per alzare l’argine contro il fiume in piena dei populismi». È la crisi economica la levatrice di questa protesta populista, dice Speranza. Da noi si somma alla profonda crisi della politica.
La Grande Paura prende anche il Nuovo centrodestra. Fabrizio Cicchitto rivolge alla sinistra la stessa accusa di Vendola: «Finora infatti i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi sono risultati del tutto subalterni alla linea ultrarigorista». Questo spiega bene la sconfitta di Hollande. «L’Ncd darà il suo contributo affinché il governo Renzi riesca nella difficile operazione di evitare le derive populiste e di superare un rigorismo a senso unico». Ma Angelino Alfano attende di vedere le prossime mosse di Forza Italia. Ieri i dirigenti di Fi hanno dato il primo saggio di una linea indefinita limitandosi a commentare con soddisfazione la sconfitta dei socialisti francesi. Ma sanno che la campana dell’antieuropeismo può suonare anche per loro.

il Fatto 25.3.14
La vittoria di Le Pen in Francia
Il disastro calmo
di Furio Colombo


Una buona immagine della vittoria di Le Pen in Francia potrebbe essere quel costone siciliano che, in una diretta televisiva, si muoveva verso il basso, spostando case che sembravano intatte, spaccando strade che apparivano nuove, rendendo impossibile avvicinarsi e salvare, benché tutto fosse lì a un passo, e il disastro era calmo e si vedeva bene. Ma troppo tardi. Voglio dire che quasi nessuno al mondo può desiderare il programma odioso e fascista di Le Pen e votarlo se non come rivolta e vendetta. Purtroppo la storia conosce questo tipo di rappresaglia. È un modo pazzesco di dire basta. A questo punto, ci si accorge di brancolare in una paurosa mancanza di realismo da cui le spacconate di un giovane leader, in vena di stare in scena, non ci salveranno. Manca la comprensione, prima che il giudizio sui fatti. È come discutere su un motore che intanto sta fermo e le ore passano e scende la notte. Qui la notte sono elezioni alla cieca in cui molta gente non andrà a votare (il 40 per cento in Francia) e molta voterà non per salvarsi, ma per fare male, dopo le umiliazioni subì-te. Ci sono tre domande rimaste senza risposta, mentre le imprese se ne vanno (la Fiat, che almeno è fuori di Confindustria), minacciano di andarsene (Squinzi, che è presidente di Confindustria) o vengono abbandonate benché funzionanti e cariche di ordinativi (una lunga lista). Però manca il tentativo di risposta. Prima domanda: che cosa è l’Europa, un esattore, un persecutore o un salvatore? I governi tacciono, i vari enti preposti esigono. I cittadini pagano di nuovo e nessuno torna per spiegare. Vi ricordate quante volte l’ostinato Pannella e i suoi Radicali volevano riportare il discorso sul manifesto di Ventotene e su Altiero Spinelli e il perché del sogno Europa? Seconda domanda: e dopo? Che cosa accade di bello se mi sveno come mi chiedono ogni giorno? Si torna a vivere? Come, di che cosa? La Grecia sarà mai più come prima? Terza domanda: ma non dovremmo dibattere, invece dello zero virgola e del come uno furbo approfitta della differenza fra il 2,6 e il 3 per cento, della differenza debito-Pil sull’Europa che vogliamo, guida, destinazione, programmi, doveri, protezione, futuro? Perché il governo italiano, che si è buttato avanti con tanta baldanza, non accende i fari? È molto buio fuori.

Corriere 25.3.14
Chi ha paura degli elettori
In Francia esiste una tradizione secondo cui il partito al potere perde sempre le elezioni locali intermedie
di Jean-Marie Colombani


In Francia esiste una tradizione secondo cui il partito al potere perde sempre le elezioni locali intermedie. L’intensità della sanzione varia secondo le epoche, ma nessuno è riuscito a evitarla.
Trattandosi di François Hollande e del suo governo, la cui popolarità è ai livelli più bassi, sarebbe quindi stato sorprendente che essi facessero eccezione. Infatti, il primo turno delle elezioni amministrative, che si è svolto domenica 23 marzo, ha segnato un netto arretramento della sinistra (che è passata sotto il 40 per cento) e una forte avanzata della destra (che è salita sopra il 46 per cento). Considerando tale semplice enunciato, il verdetto è chiaro: una sanzione per il governo, un incoraggiamento per l’opposizione. Sta adesso a quest’ultima raggiungere la meta al secondo turno, conquistando un numero massimo di città.
Il paragone pertinente è quello con le elezioni amministrative del 2008, che avevano segnato un successo storico della sinistra, e dunque una sconfitta storica della destra, all’epoca della presidenza Sarkozy, che aveva perso una trentina di città di oltre 30.000 abitanti. Bisognerà quindi vedere se, la sera del secondo turno, la sinistra, sotto la presidenza Hollande, perderà più o meno di una trentina di città oltre i 30.000 abitanti. Se ne perderà di più, si potrà parlare di un voto sanzione. Nel caso contrario, avremo a che fare con un riequilibrio, tale da cancellare semplicemente l’anormalità dello scrutinio del 2008.
Ma certo è che l’elemento importante del primo turno consiste nel risultato ottenuto dal Front national di Marine Le Pen. Se ci atteniamo alla statistica nazionale, con il 6 per cento, è un risultato debole. Occorre però osservare piuttosto il risultato dei candidati di estrema destra, là dove questa era presente. Cioè in circa 600 Comuni (la Francia ne conta 36.000). È qui che la percezione cambia: nel 2008 i candidati di estrema destra avevano raccolto 150.000 voti in un centinaio di Comuni; oggi, con quasi un milione, sono sei volte più presenti. E là dove l’estrema destra si è presentata, la media dei voti ottenuti è del 16,5 per cento. Un risultato vicino a quello che Marine Le Pen aveva raggiunto nelle elezioni presidenziali del 2012 (18 per cento).
È proprio questo il principale insegnamento dello scrutinio: un Front national presente al secondo turno in oltre 220 città (oltre 300, secondo il portavoce del Fn). Tale progresso locale ha portato Marine Le Pen a dichiarare che stiamo assistendo alla fine della bipolarizzazione della vita pubblica e alla nascita di un nuovo tripartitismo. Il voto di domenica scorsa segna incontestabilmente per lei una progressione nel lavoro di insediamento e di radicamento del Fn che aveva avviato con il suo «Raggruppamento blu Marine».
Da questa situazione derivano due problemi. Il primo riguarda la destra che, fra i due turni, si chiude in un atteggiamento alla Ponzio Pilato: né Partito socialista, né Front national, conseguenza logica dell’abbandono da parte del partito di centro-destra Ump, della dottrina Chirac, secondo cui bisognava fare sbarramento contro il Fn. Quello che gli attuali dirigenti dell’Ump non hanno ancora capito è che esiste una grande differenza fra il parlare agli elettori del Fn, e parlare come il Fn. In un caso, ci si affronta, nell’altro si favorisce l’ascesa del Fn. Ebbene, questo secondo atteggiamento si è affermato a destra. I discorsi di Nicolas Sarkozy in particolare hanno reso porose le frontiere ideologiche fra destra ed estrema destra.
Il progetto di Marine Le Pen non è, come potrebbero fantasticare alcuni rappresentanti dell’Ump, di allearsi un giorno con la destra per accedere al potere. Il suo progetto è in realtà di sostituirsi all’Ump. Riguardo a questo piano, Marine Le Pen ha considerato, il 23 marzo, di aver realizzato un primo passo.
Il secondo problema concerne il presidente della Repubblica. Se François Hollande ritiene che la sinistra stia subendo un arretramento in fin dei conti classico, e banale, in un periodo in cui è al governo, potrebbe essere tentato dallo status quo . Qualunque cosa accada la sera del secondo turno, è urgente cambiare l’ordine delle cose, quindi cambiare governo. Il che significa naturalmente una équipe diversa con un Primo ministro diverso. Per due ragioni, a dire il vero quasi indipendenti dallo scrutinio, sebbene il voto sia sempre un buon pretesto. Da un lato, la debolezza del Presidente agli occhi dell’opinione pubblica deriva per l’essenziale dalla debolezza del suo dispositivo politico. Ciò vale per l’organizzazione dell’Eliseo come per quella del governo, la cui responsabilità è del Primo ministro: troppe disfunzioni, troppi annunci e contro-annunci, che danno l’impressione di lentezza e dilettantismo. Più questo sistema perdura, più il Presidente continuerà a indebolirsi. D’altra parte, la conferenza stampa che François Hollande ha tenuto a metà gennaio definiva una nuova rotta, una politica cosidetta dell’offerta, la cui chiave di volta è il «patto di responsabilità». E non può essere incarnata dallo stesso Primo ministro né dallo stesso governo, perché il suo discorso ha costituito un cambiamento di direzione nato dalla presa di coscienza che la Francia, mentre tutta l’Europa riparte, potrebbe avere solo una ripresa troppo debole per far diminuire in maniera durevole la disoccupazione. Hollande dovrà verosimilmente farsi violenza, uscire dalla situazione comoda che gli ha conferito l’attuale Primo ministro e mostrare, con le sue scelte, che la professionalizzazione e la coerenza saranno le parole d’ordine di una nuova squadra.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Il Sole 25.3.14
Il rischio che non ci sia più tempo per fare argine all'ondata euroscettica
di Stefano Folli


Renzi usa da settimane la carta del populismo «buono» ma l'insidia dalla Francia è reale
Nessuno può meravigliarsi per il successo del Fronte Nazionale in Francia, premessa della valanga euro-scettica che si prepara in vista delle elezioni del 25 maggio. Si tratta della sorpresa più prevedibile di sempre, suscettibile però di provocare la peggiore conseguenza, ossia un'ondata di panico. Quale comincia a serpeggiare nelle cancellerie.
È chiaro che il richiamo della Le Pen allo «Stato nazione» e al «diritto dei popoli» acquista una suggestione nuova e antica proprio perché appare come la bandiera a portata di mano da sventolare contro l'Europa della super-austerità tedesca, della moneta unica e delle tecnocrazie prive di legittimità popolare. Fino a pochi anni fa erano, declinati in questi termini, argomenti di scarsa presa: patrimonio di forze di estrema destra, nonché - va detto - di estrema sinistra. Oggi la crisi economica li ha trasformati in temi di grande attualità di cui si è impossessata la destra, come in Francia, ovvero un movimento trasversale e non facilmente classificabile come i Cinque Stelle in Italia (più la Lega di Salvini ormai aggrappata al carro del Fronte d'oltralpe).
S'intende che sarà la Francia della destra lepenista a guidare il movimento euroscettico, oggi nelle piazze e domani nell'aula del Parlamento di Bruxelles e di Strasburgo. E il fatto che Beppe Grillo rifiuti di accettare la leadership francese riguarda più il narcisismo dell'uomo che una reale divergenza sulle questioni di fondo. Certo è che il partito dei Le Pen padre e figlia poteva diventare una saga familiare un po' patetica, viceversa dopo anni sta riuscendo a frantumare i vecchi equilibri e a far saltare l'alternativa simmetrica fra centrosinistra e centrodestra che in Francia ha sempre visto i gollisti come nemici giurati degli estremisti del Fronte. Ma è stata abile Marine a rinnovare il repertorio e a cogliere l'onda del livore anti-europeo.
Il pericolo naturalmente è quello che intravede Giorgio Napolitano: la possibile fine dell'Unione europea come baluardo di pace e freno al riaffacciarsi dei nazionalismi. Eppure è un rischio che avvertono soprattutto quanti hanno memoria del passato e della lunga guerra intestina che ha lacerato l'Europa nel Novecento. Le generazioni più giovani, specie a livello popolare, vedono solo le asprezze del presente.
Ne deriva che per contrastare la valanga non serve il timor panico, bensì una risposta politica. Peccato che manchino i tempi: i due mesi di qui alla fine di maggio sembrano davvero esigui per realizzare ciò che propone Renzi, ossia un'Europa «diversa» capace di porre al centro della sua strategia «la crescita e la lotta alla disoccupazione». Ottimi propositi, ma andavano messi in cantiere parecchio tempo fa. Sappiamo invece come sono andate le cose, per cui anche le parole del presidente del Consiglio, pur lucide, rischiano di essere velleitarie.
Combatteremo il dilagare del populismo anti-europeo con il "bonus" degli 80 euro in busta paga e gli interventi a favore delle imprese che assumono. Può essere sufficiente? Nessuno può dirlo, ma sarebbe abbastanza miracoloso invertire la tendenza che parte dalla Francia ed è destinata a scandire, nelle prossime otto settimane, la partita secca fra chi crede nell'Europa, pur con i suoi gravi limiti, e chi punta al ritorno agli Stati nazionali, ciascuno con la propria moneta.

il Fatto 25.3.14
Santa alleanza per arginare il Fronte Nazionale
I socialisti propongono prima un patto ai neo-gollisti poi ai Verdi e sinistra per frenare la destra al 2 turno
di Stefano Citati


I vertici del Partito socialista in stato confusionale dopo lo tsunami del Front National lanciano un appello alla “si salvi chi può” proponendo un’‘alleanza repubblicana’ con i neogollisti: il partito di Sarkozy risponde picche e allora il segretario del Ps Harlem Désir annuncia un patto di desistenza con Verdi e sinistra, che però rischia di rivelarsi un flop.
PRONTA A TUTTO pur di arginare la marea lepenista, la compagine socialista rischia di rimanere schiacciata nella morsa tra Fn e astensione-record (è il primo ‘partito’ con il 39%): la tattica di sfilare i suoi candidati al secondo turno di domenica per favorire l’alternativa ai candidati di Marine Le Pen può fallire in alcuni casi per mancanza di numeri, come nel caso di Tarascon, città del Midi patria del fanfarone-simbolo di Francia Tartarin, dove i socialisti hanno un misero 6,45 per cento da offrire agli alleati dell’ultima ora.
Quello di domenica è uno choc simile a quello del 2002, quando papà Le Pen superò a sorpresa il candidato socialista (era Jospin, che dopo la sberla si ritirò dalla politica e ora dirige la commissione per la moralizzazione e il rinnovamento della politica) e andò al ballottaggio presidenziale con Chirac. Il successo del Front National - che a livello nazionale ‘vale’ attorno al 5% (l’Ump con il 46,5% supera il Ps arretrato al 37,7) , ma ha piazzato 315 candidati su 597 al 2° turno (su un totale di 36.000 comuni. Lo sconforto della gauche è a tal punto evidente che il direttore dello storico festival teatrale di Avignone, Oliver Py, ha minacciato di trasferire la rassegna lontano dalla ex città dei papi se il candidato del Front National Philippe Lottiaux (in testa con 27 voti sulla socialista Cécile Helle, strapperà la vittoria finale: “Non mi vedo a lavorare con un sindaco del Front National, mi sembra del tutto inimmaginabile. Quindi penso che bisognerà andarsene. Non ci sarebbe nessun’altra soluzione”, ha detto Py, secondo cui con un primo cittadino di estrema destra per il festival diventerebbe impossibile “vivere, difendere le sue idee, che sono idee di apertura, di accoglienza dell’altro”.
È uno dei tanti appelli alla ‘resistenza democratica’ che in queste ore e che danno il grado di stupore, smarrimento e timore che ha attanagliato parte della Francia. Per arginare questo tracollo anche psicologico è tornato anticipatamente in patria dal vertice del G7 dell’Aja il presidente Francois Hollande, che da ex segretario del Partito socialista è doppiamente sulle barricate.
DOVRÀ CORRERE ai ripari rapidamente - forse già prima di domenica - dopo una prima parte di mandato presidenziale deludente per tentennamenti e immobilismo, con le sue misure economiche anti-crisi osteggiate e depotenziate dopo le iniziali fanfare degli annunci, di cui ora paga il prezzo politico ed elettorale, con una luna di miele rapidamente sfiorita: il 79% dei francesi ritiene che sarebbe necessario un rimpasto di governo, e il 69% chiede un cambio del primo ministro che storicamente in Francia paga e viene sacrificato per gli errori del suo ‘datore di lavoro’, il presidente. La politica del governo è giudicata ingiusta dal 73% degli intervistati, e inefficace dall’83%. E la popolarità del presidente Francois Hollande e del premier Jean-Marc Ayrault restano al minimo storico, con il 28% e 25% di pareri positivi. Anche la Borsa, e non solo quella di Parigi, ha votato contro Hollande, con perdite tra l’uno e il 2 per cento. E pensare che ieri mattina era stato così tempista da annunciare un ‘piano’ per la lotta contro i jihadisti che reclutano giovani francesi da mandare alla Guerra santa: non si era accorto che il nemico non è islamico ma molto, molto francese.

il Fatto 25.3.14
L’onda anti-Europa che investirà Bruxelles
D, la cavalcata dei movimenti critici della Ue che a maggio arriverà nell’europarlamento

di Giampiero Gramaglia


Le Municipali in Francia sono “una sirena d’allarme” per le Europee di maggio: Lapo Pistelli, viceministro degli Esteri, giudica così l’esito del voto di domenica, con l’avanzata del Front National di Marine Le Pen, euro-scettico e xenofobo. Pistelli parla a un convegno sulla Presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue dal 1° luglio al 31 dicembre: c’è l’ansia che un Parlamento europeo ‘contro’ renda il semestre un calvario.
GLI ULTIMI SONDAGGI a livello europeo sono chiari. Per PollWatch2014, l’Assemblea di Strasburgo che uscirà dalle urne il 22 e 25 maggio sarà ancora dominata da socialisti e popolari, i cui gruppi, insieme, avranno una larga maggioranza: circa 210 seggi a testa - 751 il totale -, con Pse in lieve crescita e Ppe in forte calo, al punto da rischiare di subire il sorpasso. Ma la sinistra euro-critica ed euro-scettica riunita intorno al greco Alexis Tsipras scavalca i liberali e diventa il terzo gruppo – dentro, Syriza, che potrebbe diventare il primo partito greco, la sinistra radicale francese, la Linke tedesca, Sel e altre formazioni italiane. A seguire conservatori, verdi, autonomisti. Fuori dagli attuali schieramenti ci saranno, però, un centinaio di eurodeputati euro-critici ed euro-scettici di varie tendenze (e non facili da catalogare, come i Veri Finlandesi).
In Italia, il sondaggio prevede il prevalere degli eletti Pse su quelli Ppe: 22 contro 20 su 73 seggi. Ma ben 24 eurodeputati italiani – i ‘grillini’, sostanzialmente - vanno nella casella ‘non iscritti’. Mentre i sette restanti escono dalla Lega e da altre formazioni politiche. Le previsioni tengono già conto della sentenza della Corte costituzionale tedesca, che ha sancito l'incostituzionalità della soglia di sbarramento al 3% alle elezioni europee. Così, potranno ‘esordire’ a Strasburgo partiti come l’Afd anti-euro, i Pirati, l’Npd neo-nazista. Il caso tedesco è uno specchio della frammentazione dell'elettorato europeo: il voto di protesta non esprime una forza compatta. Un perno certo è l’Alleanza tra la francese Le Pen e l’olandese Geert Wilders, leader del Pvv, cui s’è unita la Lega di Matteo Salvini: insieme per liberare i popoli dell’Ue “dal mostro Bruxelles”. I partiti della Le Pen e di Wilders divergono su molti punti, dal giudizio sull’Islam ai diritti dei gay. A fare da collante al loro matrimonio politico è il comune rigetto dell'integrazione europea: Marine predica “sovranità nazionale” su moneta e bilancio; Geert ci va giù pesante definendo l'Unione uno “stato nazista”.
FATTA L'ALLEANZA, bisogna quindi reclutare altri membri per darle efficacia: i secessionisti fiamminghi del Vlaams Belang, i democratici svedesi
- estrema destra -, l’Afd tedesca, il Fpoe austriaco reduce da una forte affermazione elettorale (e che ha ancora le stimmate del suo fondatore Joerg Haider).
Interessano anche gli euro-scettici britannici dell'Ukip, guidati da Nigel Farage, partito che da solo conta già 13 eurodeputati e che, però, intende smarcarsi dalla neonata Alleanza. Esclusi, invece, i greci di Alba Dorata, i bulgari di Ataka, gli ungheresi di Jobbik e i tedeschi dell’Npd, tutti accusati di derive razziste e antisemite. Se la predica viene da quel pulpito c’è da credere vi sia del vero. La porta resta aperta al M5S cui la Le Pen guarda con interesse da tempo. Grillo e Casaleggio negano apparentamenti, anche se alcune posizione dei Cinque Stelle, ad esempio sull’immigrazione, sono vicine a quelle dell’Alleanza. Anche il manifesto europeo in sette punti dei ‘grillini’ piace, soprattutto il referendum per la permanenza nell’euro. Secondo i calcoli attuali, l'Alleanza potrà contare su una quarantina di seggi (la soglia per formare un gruppo politico a Strasburgo è di almeno 25 eurodeputati da almeno sette Stati) e potrebbe calamitarne altri. Discorso a parte meritano gli autonomisti e i separatisti, catalani, scozzesi, fiamminghi. Oggi ci sono con loro pure i leghisti, che, però, hanno già pronta la nuova casacca. Con la bussola all’ottimismo, i dubbi sui rapporti di forza a Strasburgo e la corsa alla presidenza della Commissione sono antidoti contro l’ennesimo calo dell’affluenza alle urne europea, che sarebbe per l’Unione sconfitta persino peggiore dell’affermazione di euro-critici ed euro-scettici.

il Fatto 25.3.14
Barbara Spinelli
“Non chiamateli populisti, è la destra degli illusionisti”
“Chi fa vincere questa destra è una sinistra senza più idee”
intervista di Stefano Feltri


Oggi è candidata alle Europee per la lista Tsipras, pronta a collaborare con Beppe Grillo nell’Europarlamento (come ha detto ieri all’Huffington Post), ma da mesi Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica , avverte che sta montando un’onda anti-europea.
Barbara Spinelli, il successo del Front National è il successo di un partito di estrema destra o di un movimento anti-europeo?
Il risultato delle amministrative francesi è una vittoria delle destre e degli anti-europei. Nella categoria delle destre ci metto anche i post-gollisti dell'Ump.
Perché i francesi hanno votato un partito anti-europeo? Sono tra quelli in Europa che hanno subito meno le conseguenze dell'austerità.
Soffrono anche loro per la disoccupazione e la riduzione della spesa pubblica. Anche se il modello sociale francese ancora regge. Ma la crisi è sentita come molto presente, anche se minimizzata da un governo passivo. La paura ha creato questo risultato che non è una sorpresa.
Cos'è rimasto della destra più becera in questo Front National vincente?
Marine Le Pen ha fatto dell'elemento anti-europeo il fulcro del suo discorso politico. Le punte più vergognose, come l'antisemitismo, sono state messe in sordina anche se riemergono qua e là. Ma nell'immaginario collettivo francese l'idea del capitalismo dei banchieri ebrei che aggredisce il popolo minuto esiste ancora, solo che ora viene proiettato sull’Europa, come in passato sugli Stati Uniti. All'Europa vengono applicati gli argomenti usati un tempo dall'antisemitismo, così come alla finanza, alle banche: per questo la retorica della Le Pen è così efficace. Lo spauracchio ebreo è diventato lo spauracchio europeo, il discorso antisemita tradizionale non serve neppure più.
È populismo o una comprensibile reazione all'Europa dei tecnocrati e della Troika?
Io lo chiamerei un grande movimento illusionista perché si illude di poter tornare alla moneta nazionale e allo Stato pienamente sovrano. Abbiamo un partito di estrema destra che prende molti voti popolari e comincia ad avere un radicamento territoriale molto forte. L’accusa di populismo serve a non affrontare domande cui la sinistra (oltre alla destra) non ha più risposte. Non si può chiamare populismo ogni domanda popolare.
C'è una carica anti-democratica nella estrema destra francese?
In Marine Le Pen sicuramente sì, è estremamente forte, come in altre destre europee, tipo quella ungherese. Questa non è solo una crisi economica, è anche una crisi della democrazia. Però è una pericolosa illusione quella di uscire dalla democrazia per trovare un popolo innocente che non ha bisogno di rappresentanza. C'è anche un elemento di xenofobia preoccupante.
Che messaggio arriva da Parigi alla politica italiana?
Il primo messaggio è per la destra: in Francia c'è una destra che è in frantumi dalla seconda metà della presidenza Sarkozy, incapace di elaborare idee o linee chiare. La debolezza della destra è sempre pericolosa per la democrazia, è allora che si crea uno spazio per movimenti come il Front National.
Anche i socialisti sono andati molto male.
In Francia la sinistra ha forti responsabilità, perché governa. Ed è una sinistra congelata, passiva, attendista. E disastrosa per quanto riguarda la politica europea: da quando Hollande è stato eletto presidente, dall'Eliseo non è arrivata una sola idea forte sull'Europa (togliere “dall’Eliseo”). Perfino Sarkozy aveva più idee di lui. Eppure più volte la Germania ha fatto capire che se ci fosse stato un passo deciso di cessione di sovranità da Parigi, soprattutto sulla difesa, ci sarebbero state aperture sull'economia. Invece niente.
Renzi sembra già impegnato nel tentativo di intercettare la delusione e la rabbia verso l'Europa.
Il punto è cosa fare, sul serio, per accrescere la forza dell'Europa. Siamo agli inizi, difficile dire quale sarà la politica di Renzi nei prossimi mesi, ma quello che si è sentito finora sono parole, non progetti. In Europa non ha presentato alcuna slide, come ha fatto per il Jobs Act. Non ha chiesto gli eurobond o un New Deal. Anche se Renzi ha appena cominciato, mentre Hollande mostra questa inerzia dal 2012.
È giusta l'analogia tra Front National e Movimento Cinque Stelle?
No, il M5S intercetta il malumore sociale, ma contiene le spinte che sono tipiche della destra estrema. Anche sull'Europa Beppe Grillo è molto più cauto di Marine Le Pen, dice che se l'Ue non fa politiche di solidarietà, solo allora si dovranno fare referendum. L'elettorato del Front National è più simile a quello della Lega o di Alba Dorata in Grecia che a quello dei Cinque Stelle.

Repubblica 25.3.14
Le sfide dell’Europa dopo il voto francese
di Nadia Urbinati



La vittoria della destra ultra-conservatrice e anti-europeista al primo turno delle elezioni amministrative francesi era annunciata. E non è semplicemente una questione nazionale. Riguarda la sconfitta del Partito socialista francese, un pezzo importante dell’establishment politico continentale. Come non leggere in questa sconfitta il segno dell’erosione di uno degli ideali europei più vitali del ventesimo secolo? E da dove cominciare per comprendere le ragioni di questa erosione?
La storia politica del «Nuovo vecchio mondo», come ha definito l’Unione Europea Perry Anderson, è stata caratterizzata da quello che studiosi e opinionisti hanno denominato “deficit democratico”. Ora, fino a tempi recenti, questo deficit ha riguardato le istituzioni comunitarie non il progetto europeo. Infatti, sul piano della rappresentazione di sé ai suoi cittadini e al mondo, l’Europa ha personificato “valori universali” condivisi e si è proposta come un faro per i «diritti umani inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto», come recita con orgoglio il Preambolo del Trattato di Lisbona. Su questo nucleo di valori democratici è nata l’utopia europeista di estendere i diritti fondamentali e sociali oltre i confini nazionali, per riuscire a governare la globalizzazione economica e proteggere la democrazia. Oggi però il “deficit democratico” va ben oltre la gestione burocratica. Esso coinvolge i valori stessi. Le destre che si federano in tutti i paesi europei per dare l’assalto all’utopia europeista e conquistare il Parlamento di Strasburgo alle prossime elezioni di maggio sono il segno evidente di questo deficit complessivo di legittimità.
La responsabilità prima è da imputarsi all’incompiuta integrazione politica dell’Unione per cui, mentre le competenze burocratiche si sono irrobustite, gli organi politici di accountability sono rimasti allo stato di crisalide. Una conseguenza accertata dell’interruzione del processo di integrazione politica è stato il consolidamento di una “dominazione esecutivista” (rubricabile nella categoria del dispotismo illuminato) che, in concomitanza con la crisi economica, siè rivelata essere uno dei fattori scatenanti dell’anti- europeismo populista. Una dirigenza europea distante, non controllabile per vie democratiche e in aggiunta espressione sempre più marcata dello squilibrio di potere tra gli Stati membri, e poi specchio degli algoritmi degli esperti di finanza che governano le banche e vogliono governare le politiche sociali: sono queste le accuse rivolte all’Ue che rischiano di minare il consenso sugli ideali. Che infiammano i populismi e i nazionalismi in tutti i paesi.
Dominazione esecutivista e ideologia antieuropeista stanno in un rapporto osmotico. Con la conseguenza che all’opinione pubblica la proclamazione della fedeltà ai principi rischia di apparire come una costruzione ideologica falsa, funzionale allo statu quo e smentita dai comportamenti politici della dirigenza europea. La sedimentazione di questa opinione anti-europeista (non più solo euro-scettica) è l’aspetto più temibile della politicizzazione dell’agenda europea che dominerà questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, perché il suo linguaggio attraversa l’intero spettro politico e non è confinato ai partiti e movimenti di destra. E infine, perché si coniuga con mutamenti spettacolari nella politica internazionale europea.
Nel suo recente messaggio alla Spd, pubblicato su Repubblica, Jürgen Habermas ha messo in evidenza come a mettere in discussione l’Europa dei popoli non siano solo i militanti delle destre xenofobe ma anche i partiti europeisti come la Spd, responsabile di non contrastare la retorica anti-europeista e pensare di sfruttarla a proprio vantaggio mettendo l’interesse nazionale al primo posto. Una storia che ci fa ricordare quanto successo nel 1914, quando i partiti socialisti ruppero l’alleanza internazionalista per schierarsi con gli interessi dei loro rispettivi paesi, alimentando la crescita prepotente dei nazionalismi, poi confluiti con straordinaria celerità verso plebiscitarismi di massa, fascisti e populisti. In Europa, a partire almeno dal Settecento, i fallimenti dei progetti continentali di emancipazione secondo ideali universalisti hanno generato mostri.
Non vi è nulla di che consolarsi, nemmeno affidandosi all’illusione per cui sembra difficile uscire dall’Euro senza mettere a repentaglio il benessere degli Stati membri. Ma, si legge nei proclami dei partiti di destra, meglio sacrificarsi per i propri che per gli altri. Il mito della convenienza della moneta unica si erode insieme agli ideali europeisti, mentre vecchie politiche otto-novecentesche rinascono a oriente come a occidente. L’annessione della Crimea alla Russia e la politica imperial-nazionalista del Cremlino sanciscono la riapertura di un capitolo che il Trattato di Roma del 1957 sembrava aver chiuso. Tutti i tasselli del nazionalismo sembrano convergere: la vittoria parigina della destra ultra-antieuropea accade mentre la Duma della reggenza Putin propone alla Polonia di spartirsi l’Ucraina. L’Unione Europa sta come un equilibrista sul filo teso su un baratro, senza rete protettiva.
La politicizzazione dell’agenda europea trova conferma nel carattere ideologico e identitario di questa campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo, cominciata di fatto con le elezioni francesi di domenica scorsa. La lotta ideologica verterà essenzialmente sul significato dell’Unione Europea, andrà cioè ai fondamenti del patto che ha segnato la rinascita democratica del secondo dopoguerra. Che le destre nazionaliste e anti-europeiste siano state le prime a scaldare i muscoli è indicativo dell’alta posta in gioco simbolica di queste consultazioni elettorali: la tensione tra i “valori universali” di libertà e democrazia e quelli identitari, il potenziale risvolto anti-democratico della mancanza di lavoro, una vera piaga per l’integrazione europea e la stabilità politica del continente.
Prendendo sul serio il paradigma della politicizzazione, c’è da augurarsi che per contenere questa ideologia nazionalista si formi un fronte capace di convogliare il malcontento nei confronti della dirigenza di Bruxelles verso un programma alternativo riconoscibile a tutti. Per ora, i partiti dello schieramento di centro-sinistra si astengono dal posizionarsi in questo senso e si stanno anzi rendendo responsabili di aiutare la propaganda anti-europea blandendo il sentimento nazionalista nel tentativo di attrarre voti. Il paradosso è che mostrandosi tolleranti verso il linguaggio anti-europeista rischiano di incrementare la popolarità delle idee rivali nel tentativo di sfruttarle a loro vantaggio. Perché, quando si vota con argomenti identitari come in questo caso, gli elettori sanno riconoscere chi offre loro il prodotto originale da chi commercializza imitazioni.

l’Unità 25.3.14
Nessuno muore eccetto il nemico
La guerra sui droni: tecnica umanitaria o macchina assassina?
di Grégoire Chamayou


IL DRONE CACCIATORE-ASSASSINO, SOSTENGONO I SUOI DIFENSORI, RAPPRESENTA UN «GRANDE PROGRESSO NELLA TECNOLOGIA UMANITARIA». CON QUESTO NON INTENDONO DIRE CHE QUESTO APPARECCHIO POSSA PER ESEMPIO SERVIRE A PORTARE VIVERI O MEDICINE IN AREE DEVASTATE. Intendono dire tutt’altra cosa: che il drone è umanitario in quanto arma, in quanto mezzo per uccidere.
In questi discorsi, il senso delle parole è talmente rovesciato che quelli che li tengono non sembrano nemmeno accorgersi della stranezza delle loro formulazioni. Come si può pretendere che macchine da guerra «unmanned», senza esseri umani a bordo, siano dei mezzi «più umani» per togliere la vita? Come si può definire «umanitarie » procedure destinate ad annientare vite umane? Se l’azione umanitaria si caratterizza per l’imperativo di prendersi cura delle vite umane in pericolo, abbiamo una certa difficoltà a capire come un’arma letale possa essere reputata in qualsiasi senso conforme a questo principio.
Ha risposto Avery Plaw, professore di scienze politiche all’università del Massachusetts: «I droni salvano delle vite, quelle degli Americani e di qualcun altro». Per tutti quelli che si domandassero perplessi, come sia possibile dire che uno strumento di morte salvi delle vite, conviene esporre la scaltra logica che rende enunciabile simile tesi. È chiaro che, dispensando gli americani dal mettere a rischio la propria vita in combattimento, il drone di fatto risparmia queste vite. È molto meno chiaro, però, il nesso per cui questo fatto permetterebbe di «salvare» contemporaneamente altre vite. Lo si capirà presto, ma esaminiamo innanzitutto il primo punto dell’argomento.
I droni, si dice, salvano le «nostre vite», e questo sarebbe sufficiente per affermare che sono «morali». Un numero di rivista della fine degli anni Novanta ha riassunto questa tesi in maniera ancora più efficace: una didascalia semi-pubblicitaria, tra due fotografie di droni dalle linee ingentilite su fondo azzurro, che recitava «Nobody dies except the enemy». Secondo questa concezione della morale militare, dare la morte esponendo la propria vita è male, mentre togliere la vita senza rischiare mai la propria è bene: il primo principio della necroetica del drone è paradossalmente vitalista. Ed è questa stessa logica che porta a qualificare il drone come un’arma «umanitaria», in un primo senso: l’imperativo umanitario è salvare delle vite; ora, il drone salva la nostra vita, dunque è una tecnologia umanitaria. Come volevasi dimostrare.
(…) In fondo, la morale del drone non fa che riciclare il vecchio discorso sui «bombardamenti chirurgici»: si illudono che questo antico sogno militare sia diventato finalmente realtà. Si pensa di aver eliminato quella contraddizione che faceva ritenere immorale la guerra del Kosovo agli occhi dei teorici della guerra giusta… Poiché indubbiamente sarebbe «del tutto giustificato», concedeva Walzer all’epoca, che un esercito adotti «tecnologie cosiddette senza rischio per i propri soldati (…) se queste stesse tecnologie fossero ugualmente senza rischio per i civili». Questa era già la pretesa delle «smart bombs»; ambizione che però, aggiungeva Walzer, «risulta, almeno al momento, alquanto esagerata». Rimaneva comunque una questione sussidiaria: che sarebbe successo se, con il progresso della tecnica, o in seguito all’introduzione di nuove armi che conciliassero distanza e precisione, si fosse potuto materialmente sciogliere tale tensione? Nell’ipotesi in cui si potessero mettere al sicuro le vite dei soldati nazionali senza rischi addizionali per i non-combattenti dell’altro fronte, la contraddizione sarebbe svanita. All’immunità degli uni sarebbe armoniosamente corrisposta la salvaguardia degli altri: il dilemma morale si sarebbe dissipato grazie a un miracolo della tecnica. Ecco oggi cosa pretendono gli apologeti del drone. Poiché, secondo loro, la messa a distanza dell’operatore non implica alcuna perdita di capacità operativa, la tensione è sciolta de facto. Per cui, non diventa nemmeno più necessario sottoscrivere la forzatura teorica di Kasher e Yadlin, consistente nel subordinare il principio di immunità dei non-combattenti a quello della salvaguardia delle vite militari nazionali: se si ammette che il problema è stato risolto nella pratica, semplicemente esso non si pone più nemmeno in teoria.
Ecco allora un altro senso in cui si può sostenere che il drone non salva solo le «nostre» vite, ma anche le «loro»: in conseguenza della sua maggior precisione. Causando meno «danni collaterali » di altre armi sarebbe perciò potenzialmente più etico. Ma andando più a fondo, quello che emerge è un regime di violenza militare con pretese umanitarie, che potremmo chiamare potere umilitare. Un potere che uccide e salva contemporaneamente, che ferisce e che cura in uno stesso gesto, in maniera integrata. Sintesi immediata della potenza di distruzione e della potenza di cura, dell’assassinio e del care.
Si salvano vite. Ma di chi? La propria e quella della propria potenza di morte. La mia violenza avrebbe potuto essere peggiore e siccome ho cercato in buona fede di limitarne gli effetti funesti, nel fare questo, ovvero nient’altro che il mio dovere, ho agito moralmente.
Come ha mostrato Eyal Weizman, questo tipo di giustificazione è essenzialmente fondata sulla logica del male minore: il nostro «presente umanitario», scrive, è «ossessionato da calcoli e calibrature per limitare, anche lievemente, i suoi stessi danni». Per citare Hannah Arendt: «politicamente, la debolezza dell’argomento è sempre stata quella che coloro che optano per il minor male tendono velocemente a dimenticare che hanno scelto il male».

l’Unità 25.3.14
Germania est: fu Anschluss
Giacchè: dall’unità tedesca al rigore di Angela Merkel
Il dossier L’autore ricostruisce il destino della Rdt dopo il crollo del Muro. Ci attende una sorte analoga?
di Bruno Gravagnuolo


NEL 1989 IL SETTIMANALE RINASCITA TITOLÒ IN COPERTINA: LA GERMANIA EST NON È UNA KOHLONIA A chi scrive, redattore di quel giornale, il titolo ideato da Alberto Asor Rosa parve esagerato, «retrò», ancorché ben trovato: due righe sovraimpresse alle macerie del Muro. Si era nel dicembre 1989 e su impulso di Helmuth Kohl prevaleva la retorica della riunificazione tedesca: lo spartiacque liberatorio del fine secolo. Certo, nessuno rimpiange la Rdt, nessun «Goodbye Lenin». La riunificazione nonché giusta fu inevitabile. Ma anche quel titolo di Rinascita era «giusto». Coglieva nel segno. E il libro di cui vi parliamo è come un omaggio postumo a quel titolo: Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur editore/Aliberti, pp. 301, Euro 18). Lo ha scritto Vladimiro Giacchè, formatosi tra Bochum e la Normale di Pisa, dirigente di Sator (Società di investimenti industriali). Un filosofo economista, nato a La Spezia nel 1963, autore di saggi su Marx e puntiglioso indagatore dell’Europa comunitaria e dei meccanismi del potere finanziario.
Che cosa ci racconta nel suo volume? La storia della spoliazione di un paese colonizzato e messo a reddito dai suoi annessori. Tra le fanfare della libertà riconquistata. Non basta. Perché oltre alla storia documentaria con copiosa bibliografia che dimostra l’ assunto, c’è dell’altro. Ed è il «secondo tempo», quello che ci riguarda direttamente. C’è il filo che unisce l’annessione della Rdt al ruolo della Germania al centro in Europa dopo il Muro. Ruolo fatto di espansionismo geo-economico e rigorismo mercantilista. Che spiega l’attuale posizione tedesca in sede europea oggi, magna pars del terremoto che minaccia l’Euro e la stessa costruzione comunitaria. In altri termini, e qui i piani del libro di Giacchè si congiungono, l’annessione della Germania Est è stata la prova generale dell’«annessione» economica strisciante praticata oggi dalla Germania all’ombra della Troika. Ma stiamo ai fatti. All’indomani del 1989 Bonn si annette giuridicamente l’Rdt, tramite una società pubblica: la Treuhandanstalt. Distruggendo così un’economia fatta di buoni risultati, legami con l’est, mercati esterni e capacità tecniche. E fatta di patrimonio mobiliare, immobiliare e industriale. Qualche cifra. Dal 1989 al 2009 vengono erogati «a favore dell’est» 1200 miliardi di marchi. Ma in termini reali all’Ovest quei miliardi generano un ristorno di 1400 miliardi, grazie alle acquisizioni e alle privatizzazioni. Ristorno «keynesiano», in barba ai parametri di Maastricht. Che fa correrre l’economia dell’Ovest e de-industrializza l’Est. Risultato: scuola e sanità smantellate. Spopolamento e disoccupazione: il 47 % dei maschi adulti è oggi sussidiato, il 20% della popolazione dell’Est è sulla soglia di povertà, e tra Ovest ed Est si è creato un divario tipo quello italiano nord/sud. Come nel 1861 da noi, alla parte debole viene infatti imposta la conversione «uno a uno» della moneta (solo per salari e pensioni). Il che fa lievitare i prezzi del 450% e distrugge ogni capacità competitiva della Germania est. Non solo. I cittadini emigrati all’Ovest dall’Est, hanno ripagato in dieci anni, in termini di imposte versate allo stato, quegli iniziali 1200 miliardi di marchi. Conclusione: l’unificazione è stata unilaterale e asimmetrica. Ci hanno guadagnato l’impresa privata e la finanza tedesca, ed è stata fatta sulle spalle degli «Ossie», cittadini di serie b con i milioni di lavoratori dell’Ovest condannati a mini-Job e sottosalario.
Tralasciamo illegalismi e prepotenze, ben descritte da Giacchè, con le quali all’Est sono state fatte giustizia e annessione. Senza fasi transitorie. Senza referendum costituzionale e senza amnistie. Spesso i dirigenti comunisti della Rdt in mancanza di meglio sono stati condannati per le imputazioni naziste a loro carico in gioventù! In conclusione, cosa ha significato in generale tutto questo? In primis la conquista mercantilista da parte tedesca di tutto l’Est non russo (come si progetta in Ucraina). E poi è stata la prova generale del futuro rigorismo espansivo liberal-democristiano. Che vuole fare shopping con moneta forte ovunque. Competere con l’«extra-export» contro la stessa Maastricht. Costringere i partner a convergenze monetarie impossibili, con «l’Euro Marco» forte. E infine spingerli a privatizzare. O a subire confische delle entrate ad opera di un’agenzia europea, laddove non si rispetti il «Fiscal Compact». Torna così la Germania al centro egemone in Europa, di cui parla il revisionista Hillgrueber. La stessa Germania che ha già distrutto due volte l’Europa, due volte è stata aiutata a risollevarsi, e che per la sua arroganza aizza i populismi e rischia di rifare a pezzi il Continente.

Corriere 25.3.14
Noi, sopraffatti dal tempo che non basta
di Anna Meldolesi


Sempre di corsa, sovraccarichi, stressati. Sono (siamo) gli overwhelmed, i sopraffatti dalla vita. Quelli con la sensazione costante di non potersi concedere neppure una pausa. Quand’è che abbiamo iniziato a essere così indaffarati? E chi ha fatto scattare la trappola? Le ore fuggono, si sa. Ma a peggiorare le cose c’è la nostra percezione del tempo che manca. Perché è vero che siamo oberati di impegni, ma chi studia l’organizzazione del tempo sostiene che siamo meno occupati di quel che pensiamo.
Le occasioni per fare quel che ci piace ci sarebbero pure, a patto di riconoscerle e di non sprecarle. Come idea è fastidiosa, bisogna ammetterlo, perché al danno si aggiunge la beffa. Ma è proprio questo il punto di partenza di un libro, intitolato Overwhelmed , che sta facendo discutere. Lo ha scritto Brigid Schulte, una giornalista del Washington Post che come tanti di noi fa i miracoli per conciliare famiglia e lavoro. Anche lei ci è rimasta male quando si è sentita dire da un esperto che il suo tempo libero non era scomparso, che se l’avesse contato avrebbe scoperto di averne abbastanza. Trenta ore in media alla settimana. Questa è la cifra calcolata per le donne da John Robinson dell’Università del Maryland.
Per tutta risposta Schulte ha iniziato ad annotarsi le attività svolte nell’arco della giornata ed è andata avanti per un anno e mezzo. Attraverso i suoi diari si è resa conto che molte occupazioni non erano professionali ma neppure di svago, come ascoltare il notiziario o tenere buoni i figli giocando. È come se il tempo fosse diventato poroso, non è poi così facile tracciare una linea tra dovere e piacere. Forse quello che manca non è il tempo libero, ma quello che ciascuno dedica a sé. Il tempo per godersi la magia di un momento.
Schulte ha frequentato convegni di sociologi e psicologi, ha visitato il paese dove il tempo è più libero e il divario tra i sessi più ristretto (la Danimarca), ha raccolto testimonianze. Quando ha postato in rete l’annuncio «Cerco mamme con tempo libero», le risposte delle americane sono state sarcastiche: «Se ne trovi una dovresti esporla in un museo, insieme a un unicorno, una sirena e un politico onesto». In effetti le statistiche indicano che le donne sono più indaffarate degli uomini, e non è solo una questione di matematica. Il tempo che resta, dopo aver lavorato ed essersi occupate di casa e figli, è qualitativamente oltre che quantitativamente inferiore a quello dei maschi. Sarà anche più di quanto avessero le donne negli anni 60, ma è tempo spezzettato e contaminato, continuamente interrotto dalle richieste degli altri e dai pensieri sulle incombenze future. Quanto agli uomini, i giovani vogliono finalmente dedicarsi un po’ di più alla famiglia e iniziano a sentirsi a corto di tempo anche loro.
Misurare come le persone impiegano i 1.440 minuti che compongono un giorno è un’attività scientifica abbastanza recente. Prima le giornate scorrevano e basta, con pochi fortunati occupati a fare ciò che volevano e tutti gli altri impegnati in quel che dovevano fare. Poi sono arrivati gli orologi, la rivoluzione industriale, la corsa a massimizzare la produttività nelle fabbriche. Il tempo è diventato denaro e la giornata lavorativa si è allungata, almeno fino agli anni 50. Per un po’ ci siamo illusi che il futuro avrebbe premiato lo svago: l’economista John Maynard Keynes nel 1930 si aspettava per il 2030 una settimana lavorativa di 15 ore, mentre il presidente Nixon immaginava per il 1990 un anno lavorativo di sei mesi o un’età media per la pensione di 38 anni. E invece no, chi un posto retribuito ce l’ha lavora ancora tanto. Chi non ce l’ha, fatica a chiamare tempo libero le ore passate a preoccuparsi per la mancanza di un impiego. Le tecnologie ci hanno liberato dalle incombenze più pesanti ma ci hanno reso sempre raggiungibili, sempre disponibili, sempre pronti a riempire gli intervalli con qualche attività a portata di smartphone.
Essere super-impegnati è diventato quasi un obbligo sociale. Ci si lamenta dei troppi impegni, ma si fa anche a gara a chi ne ha di più, sostiene la studiosa Ann Burnett. Essere occupati è uno status, ci fa sentire importanti. Per guadagnare tempo libero possiamo cominciare da qui, tagliando gli obblighi che ci siamo imposti da soli. Per il resto è utile ricordare che ogni periodo storico ci ha riservato qualche tipo di stress. In passato abbiamo avuto guerre, fame, pestilenze. All’Occidente oggi tocca l’ansia per il tempo che non basta e quella di come occupare il tempo che resta.
Anna Meldolesi

Corriere 25.3.14
Dickens, i sogni impossibili non muoiono all’alba
Perché «Grandi speranze» è il vertice della sua arte
di Pietro Citati


L’inizio di Grandi speranze, che Charles Dickens scrisse e pubblicò tra il 1860 e il 1861, è meraviglioso: forse il più bell’ incipit che abbia mai composto. Philip Pirrip, un orfano di sette anni, che tutti chiamano Pip, fantastica nel cimitero di un piccolo paese dell’Inghilterra meridionale: guarda le tombe del padre, della madre e dei cinque fratelli, immaginando i loro visi e le loro figure. Tutto, intorno, è palude: la palude lungo il Tamigi, a venti miglia dal mare; la piatta e lunga distesa oltre il cimitero, intersecata da canali, monticelli di terra e barriere, dove qua e là pascolano pochi animali; la bassa linea plumbea del fiume; e in fondo, la lontana zona selvaggia del mare, dove il vento soffia violentemente. Umidità e fitta nebbia non lasciano intravedere le cose.
Tutto il libro ripete questa sinistra immagine iniziale. Un giorno dopo l’altro una grave coltre si allarga sopra Londra, provenendo da est, e si estende sempre più , come se a est vi fosse un’eterna provvista di nubi e di vento. Le raffiche sono così violente da strappare i rivestimenti in piombo dai tetti degli edifici elevati; vicino a Londra, gli alberi vengono sradicati e le ali dei mulini a vento strappate via; folate di pioggia accompagnano queste raffiche furiose di vento; dalla costa giungono lugubri racconti di naufragi e di morte. Lungo il Tamigi, un piccolo e tozzo faro, che segnala una secca, si erge sul fango come uno storpio sulla gruccia. Pali viscidi spuntano dal fango, pietre melmose spuntano dal fango, rossi segnali di terra ferma spuntano dal fango, e una vecchia imbarcazione e un vecchio fabbricato senza tetto scivolano nel fango. Tutto è putredine.
Lì, nel cimitero, presso la palude, Pip ode un urlo. «Fa’ silenzio!», grida una voce terribile, mentre un uomo si rizza tra le tombe. «Sta’ zitto, demonio, o ti taglio la gola!». Appare un uomo spaventoso, con un rozzo vestito grigio sporco, e un grosso ferro alle gambe; ha uno straccio legato intorno al capo: è stato immerso nell’acqua, invischiato nel fango, azzoppato da pietre, ferito da sassi aguzzi, punto da ortiche e scorticato da rovi; zoppica e trema e guarda e ringhia e batte i denti, mentre afferra Pip per il mento. Il forzato lo guarda: gli occhi dominano ferocemente Pip dall’alto, senza che per lui sia possibile scampo. Infine, abbassando un poco la voce, gli chiede di portargli una lima e dei cibi. «Domattina all’alba mi porterai la lima e i viveri: mi porterai tutto quanto in quella vecchia Batteria laggiù. Guai a te se ti azzarderai a dire una parola».
Il tema del forzato si moltiplica, attraverso Grandi speranze , in temi paralleli. Pip vive nell’ossessione del forzato: senza saperlo deve a lui la propria fortuna; frequenta prigioni e avvocati di delinquenti, impregnato nell’odore del crimine; e solo alla fine del libro capisce che la donna medusea, che egli ama con la più assoluta devozione, è figlia del forzato e di un’assassina.
Anche Dickens era come Pip: doveva tutto al delitto e non lo ignorava. Quando rappresentava le cose, immaginava una specie di catena, formata in parte da crimini, dove il delitto aveva lo straordinario dono metamorfico di trasformarsi in amore, speranze, devozione, venerazione. Niente, per Dickens, era creativo come il delitto. Ogni crimine era una specie di reagente, di stimolante e di droga, che gli permetteva di vedere ciò che immaginava e sognava. Esso violava ogni barriera tra lui e le cose, tra lui e i personaggi, gli consentiva di entrare nelle più intime fibre della realtà; e permetteva al suo sguardo allucinato di raggiungere una lucidità sovrannaturale.
* * *
L’altro grande luogo dell’infanzia di Pip è la casa di miss Hawisham. Molti anni prima, miss Hawisham era stata abbandonata dal fidanzato il giorno delle nozze; e ora, nella sua casa, ha fermato tutti gli orologi e le pendole alle nove e venti, ora in cui la cerimonia si era interrotta, uccidendo il libero corso del tempo e sbarrando l’accesso al sole. La casa ha le finestre in parte murate, in parte chiuse da sbarre di ferro rugginose; non ci sono piccioni nella piccionaia, cavalli nelle scuderie, maiali nella stalla, orzo nel granaio; dentro la casa non penetrano i raggi del sole: poche candele infisse nel muro gettano una debole luce invernale sugli orologi eternamente fermi; ogni cosa è coperta di polvere e muffa.
Miss Hawisham indossa il vestito nuziale: stoffe lussuosissime, rasi e merletti e sete bianche; un lungo velo bianco le scende dalla capigliatura; le scarpette sono bianche, gioielli le brillano sul collo e le mani, ed altri rifulgono sul tavolino. Ma tutto è in disordine: i merletti, il fazzoletto, i guanti, alcuni fiori e il libro di preghiere sono ammucchiati confusamente attorno allo specchio; la sposa calza una sola scarpa, e il velo è acconciato solo a metà. Il vestito, le scarpe, il velo e i fiori sono ingialliti e avvizziti come la pelle della sposa; i capelli sono bianchi; mentre nel fondo delle orbite gli occhi splendono di una luce folle. In una stanza chiusa e soffocante, sopra una lunga tavola coperta da una tovaglia ingiallita, sta la grande torta del matrimonio: svuotata, ammuffita, coperta di tele di ragno e di blatte, divorata dai topi. Come una strega di Lucano, miss Hawisham regna sulla notte, la reclusione, l’immobilità delle ore, e sull’odio verso il sole, l’amore e la vita. Forse siamo vicini a uno dei misteri di Dickens. Proprio lui, che amava tanto i colori e la corsa del tempo, portava nel cuore un’altra miss Hawisham, desiderosa come lei di fermare il tempo, di arrestare la luce e di rinchiudere l’universo nel carcere dell’ossessione.
Molti anni prima, miss Hawisham aveva adottato una bambina bellissima, Estella, figlia del forzato e di un’assassina, di cui ignorava l’origine. Miss Hawisham le aveva affidato la sua vendetta: se il suo cuore era stato spezzato, Estella, a sua volta, doveva spezzare il cuore degli uomini, affascinandoli, facendoli innamorare e tormentandoli; se lei aveva rifiutato il sole, anche Estella doveva vivere nel gelo della terra. C’era qualcosa di spaventoso nell’intensità degli sguardi che rivolgeva ad Estella e nei suoi abbracci. Stava come sospesa alla bellezza della figlia adottiva, alle sue parole e ai suoi gesti, e la guardava come se volesse comunicarle la propria follia. Era una strega, e cercava di fare di Estella una strega. Voleva che Pip amasse Estella. «Amala, amala, amala — gli gridò. Se ti tratta gentilmente, amala. Se ti ferisce il cuore, amala. Se ti spezza il cuore, amala! Amala! Amala!». Quella parola risuonava sulle sue labbra come un’imprecazione. Per lei, l’amore di Pip doveva essere una devozione cieca, pronto a umiliarsi, a sottomettersi e a credere a lei a dispetto di sé stessi e del mondo intero.
Estella subì il contagio di quegli occhi demoniaci, anche se, con una parte di sé, si ribellava alla follia di miss Hawisham. Così, per assolvere il compito affidatole dalla madre adottiva, diventò dura, altezzosa, gelida, capricciosa al massimo grado; non aveva nessuna tenerezza, nessuna simpatia, nessun sentimento; queste parole non significavano nulla per lei. In una scena meravigliosa, Pip comprese che Estella era figlia di Molly, la domestica dell’avvocato Jaggers: stesse mani, stessi occhi, stessa fluida capigliatura. Molly era un’assassina, una creatura gelosissima e violentissima, che Jaggers aveva domato e nascosto; ed Estella custodiva in sé quella violenza, sebbene la sopraffacesse col suo gelo sovrumano.
Appena vide Estella, Pip si innamorò di lei; e voleva diventare un signore, compiere le sue «grandi speranze», per meritarla. Ma Estella non lo guardava: lo disprezzava, con lo stesso disprezzo che si può avere per un cane; e se lui le baciava la mano e la guancia, il volto di lei rimaneva impassibile come quello di una statua. Pip era umiliato, ferito, offeso, addolorato, adirato: raccontando, non riusciva a trovare la parola adatta per definire la sua ferita. Più era umiliato, più l’amore assoluto si impadroniva di lui. Con grande sofferenza, sentiva sempre, o quasi sempre, che amava Estella in contrasto con ogni ragione e promessa, senza pace, senza speranza, senza felicità, malgrado ogni delusione. Amava in lei anche l’ombra di delitto che affiorava nei suoi occhi, simili a quelli della madre. In compagnia di Estella non ebbe mai un’ora di felicità: eppure la sua mente non faceva giorno e notte che ricamare sulla felicità di averla con sé per tutta la vita.
* * *
Fino alla giovinezza Pip visse nel suo innominato paese di palude insieme alla sorella, e con il marito di lei: Joe Gargery, un fabbro, robusto quanto egli era gracile e esile. Joe era un tipico innocente dickensiano: buonissimo, candido, goffo, apparteneva a quei dolci e infantili figli del Vangelo, a quei «poveri di spirito», a quei «divini idioti», ai quali qualcuno, in Dickens, ha affidato il compito di salvare la terra. Ma Pip non amava lavorare nella fucina, accanto a Joe, né vivere nel paese. Egli si vergognava di Joe; ed era divorato dall’ambizione di lasciare il paese, di andare a Londra, tra i «gentiluomini», e i ricchi e i potenti che soli facevano per lui. Mentre raccontava, molti anni più tardi, Pip parlava di questa vergogna come della sua massima colpa; e accusava le sue «grandi ambizioni», le sue «grandi speranze».
Un lascito misterioso, che gli venne comunicato dall’avvocato Jaggers, il deus ex machina del libro, gli permise di realizzare le sue ambizioni. Andò a Londra; riceveva denaro; lo sperperava; assunse un servo; e conobbe degli incantevoli burattini, in primo luogo il signor Wemmick, impiegato di Jaggers, uno dei più straordinari burattini della farsa di Dickens — con la bocca che assomigliava a una buca delle lettere. Ma una sera di tempesta alle undici — folate di pioggia e raffiche furiose di vento battevano la città, i rintocchi del campanile di San Paolo e di tutte le altre chiese segnalavano l’ora — avvenne qualcosa che trasformò completamente la sua vita. Il forzato della palude, Abel Margwitch, salì le scale della sua casa, vestito con un abito pesante e rozzo come allora.
Dapprima Pip non lo riconobbe. Poi ricordò il cimitero, dove si era trovato viso a viso con il forzato. Alla luce del fuoco sorse in lui il vago terrore che fosse pericoloso rimanere lì, rinchiuso nella notte solitaria e tempestosa: un terrore che si dilatò fino a riempire tutta la stanza. Il forzato piangeva, baciando la mano di Pip; e gli rivelò che il misterioso benefattore era stato proprio lui, che aveva fatto fortuna in terre lontane. Le parole non potevano esprimere quanto acutamente Pip sentisse il mistero tremendo del delitto. Quando il forzato si addormentava la sera, restava a guardarlo, chiedendosi cosa avesse commesso, finché aveva l’impulso di balzare in piedi e di fuggire lontano. La sua avversione aumentava di giorno in giorno. I fantasmi non avrebbero potuto essere più terribili per lui, in quella stanza solitaria, in quelle lunghe serate e lunghe notti, mentre il vento e la pioggia imperversavano senza sosta.
Pip non fuggì: restò accanto al forzato; a poco a poco il suo cuore si intenerì, davanti al profondissimo affetto che saliva verso di lui; e si accorse che, nel cuore stesso del delitto, potevano nascere un’innocenza e un candore simili a quelli di un altro «divino idiota», Joe Gargery. Pip aiutò Abel Margwitch, lo protesse a Londra, come l’altro l’aveva protetto da lontano; lo aiutò a fuggire, sia pure senza riuscirci. Quando si avvicinò a Margwitch sentì che d’ora innanzi quello sarebbe stato il suo posto fin quando il suo protetto era in vita. Nella povera creatura tormentata, ferita, incatenata, che teneva le proprie mani nelle sue, vedeva soltanto un uomo che lo aveva amato profondamente.
Il finale di Grandi speranze è pateticissimo: una delle grandi scene in cui Dickens raggiunge una straziante e quieta intensità, che il lettore non si attende da quel prodigioso giocoliere di burattini. «Margwitch soleva starsene disteso placidamente, guardando il bianco soffitto, senza alcuna luce sul volto — racconta Pip —; qualche parola lo rischiarava un istante, ma poi quella fuggevole luce tornava a scomparire. Talvolta gli era quasi del tutto impossibile parlare; e allora mi rispondeva premendomi leggermente la mano, e arrivai a comprendere benissimo ciò che voleva dire… Con un ultimo sforzo, che sarebbe stato vano se io non lo avessi aiutato — conclude Pip —, si portò la mia mano alle labbra, poi dolcemente la lasciò ricadere sul suo petto, ricoprendola con le sue. Il placido sguardo rivolto al soffitto riapparve, si spense; il capo gli ricadde quietamente sul petto».
* * *
Come accade spesso in Dickens, la tragedia estrema e la morte si capovolgono e permettono il lieto fine. Dopo la scomparsa di Abel Margwitch, Pip venne tormentato dal delirio e dalla follia; il tempo gli pareva interminabile, esistenze impossibili si confondevano con la sua; aveva l’impressione di essere divenuto un mattone della casa o una leva d’acciaio di un grande motore; ma in quel delirio, attraverso le più fantastiche trasformazioni del volto umano, gli si presentava sempre la figura di Joe Gargery, il fabbro.
Quando Pip guarì, gli sembrò di essere tornato il gracile bambino di una volta: un bambino nelle mani di Joe, che lo sollevò nelle sue braccia, lo mise in carrozza e lo portò nel paese dell’infanzia. Ora tutte le colpe di Pip vennero perdonate: di quel groviglio di grandi ambizioni e aspettative non restava più nulla; e Pip si riconciliò con l’infanzia, come un «essere che di ritorno da un viaggio lontano durato molti anni, ripercorre faticosamente e a piedi nudi il cammino verso la casa». Il libro che era cominciato col freddo umidissimo dell’inverno, finisce in una giornata di giugno, con il cielo azzurro e le allodole che volano alte sopra il frumento verde.
Solo Estella sembrava perduta per sempre e il «povero sogno» di Pip «finito del tutto». Ma, undici anni dopo, egli ritornò nel villaggio dell’infanzia: miss Hawisham era morta nel fuoco; la sua casa era scomparsa. All’improvviso, vide Estella. Il fulgore della sua bellezza era sparito: le rimaneva un indescrivibile fascino; e la luce degli occhi sprezzanti era raddolcita e triste. Non si separarono più. Mentre la nebbia della sera si alzava, «non vidi — dice Pip — nessuna apparenza di un’altra separazione da lei». Il lieto fine si ripete. Non importa che sia inverosimile, perché solo l’inverosimile, — l’inverosimile di Shakespeare e delle Mille e una notte — può esprimere secondo Dickens la ricchezza dell’universo.

Repubblica 25.3.14
I piccoli migranti dell’Isola di Natale che usano i numeri al posto del nome
Sono i figli dei clandestini rinchiusi nei centri di detenzione “delocalizzati” dalle autorità australiane
di Alessandra Baduel



Si chiamano l’un l’altro per numero di identificazione: non sanno più il loro nome, come in un campo di concentramento nazista. Spesso non parlano, si mordono da soli, danno la testa contro il muro. Disegnano se stessi dietro le sbarre. Se parlano, dicono: «Questo è un inferno, portami via». Sono 315 i bambini rinchiusi nel centro per clandestini australiano dell’isola di Natale e nessuno, dopo averli visti, si distrae a sottolineare l’incongruità di quel nome. Vivono imprigionati da mesi con gli adulti richiedenti asilo: genitori o parenti in fuga da Sri Lanka, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Iran, Medio Oriente in genere. La denuncia delle loro condizioni è arrivata ieri dalla Commissione dei diritti umani australiana, appena tornata da un’ispezione sull’isola, a 500 chilometri dal punto di partenza dei barconi, l’Indonesia, e ben cinquemila dall’Australia, del cui territorio fa parte.
«Lì puoi trovarti davanti a una bambina che viene verso di te, ti fissa, ma non riesce a parlare: non sa più comunicare», ha raccontato ai media australiani la presidente della Commissione Gillian Triggs, dopo questo primo viaggio previsto dall’inchiesta nazionale sui bambini in detenzione da poco aperta, che offre, appunto, il potere di andare a vedere. Triggs ha mostrato alla tv pubblica australiana Abc i disegni portati dall’isola. Due bambine dietro le sbarre, una bionda, una castana. Sui vestiti c’è scritto: «Libertà» e «Aiutami». Accanto, qualcuno del gruppo di ispettori, di cui fanno parte anche un neuropsichiatra infantile e un pediatra, ha appuntato: «Nove anni». Altro foglio: un sole dietro le sbarre, con gli occhi, e le lacrime che colano. Come quelle della bambina di un terzo disegno, che ha davanti un lucchetto scuro e grande quasi quanto lei - e sbarre, ancora. Triggs prova a descrivere: «Un travolgente senso di ansia, e depressione, e malattia mentale. Ritardo dello sviluppo. Ritardo dell’uso della parola. Regressione. Bagnano tutti il letto ». Chi fra loro riesce ancora a parlare, ha chiesto sempre e solo una cosa: «Non c’è la scuola, nessun posto per giocare, niente da fare. Fammi venire via».
«Secondo tutti i principi internazionali », ha ricordato la presidente della Commissione, «i bambini non devono essere detenuti altro che per lo stretto indispensabile ai controlli sanitari e di sicurezza». L’inchiesta riguarda tutti i mille minori chiusi nei centri per richiedenti asilo sia in Australia che nelle isole dove il governo li ha da tempo “delocalizzati”, fuori del proprio territorio, come in Papua Nuova Guinea e a Nauru. L’obiettivo della Commissione è stabilire se il proprio Paese stia violando le leggi per la protezione dell’infanzia. «Ma temo che l’impatto non sarà come quello dell’ultima indagine simile, fatta nel 2004», ha concluso Triggs, «perché, per certi versi, le persone si sono abituate all’idea che imprigioniamo dei bambini». In uno dei sei disegni che ha mostrato ci sono un ragazzino in bicicletta e una gabbia con dentro un altro bambino: si aggrappa alle sbarre - e tiene in mano un palloncino.

Repubblica 25.3.14
Processo al signor K.
“Imputato Kafka, lei è buono Io la assolvo dal senso di colpa”
Magistrato nelle corti internazionali ed esperto di diritto, Antonio Cassese era anche uno studioso del grande scrittore ceco
Ora i suoi appunti e diari diventano un libro
di Antonio Cassese



Il Processo di Kafka è la storia, si sa, di un impiegato di banca che una mattina viene arrestato da due rappresentanti della legge, che non sanno dirgli di cosa è accusato né chi lo processerà. Egli rimane a piede libero per subire un processo davanti ad autorità sconosciute e irraggiungibili. Il libro descrive i suoi sforzi per capire di quali colpe è accusato e per difendersi in qualche modo, avvicinando diverse persone variamente legate alla legge. Alla fine, senza essere mai trascinato in giudizio davanti ad un tribunale, viene prelevato a casa sua da altri due rappresentanti della legge, portato in una cava abbandonata e triste e ucciso con «un lungo coltello da macellaio affilato da tutte e due le parti». Tutto il romanzo è costruito come un insieme di incubi, in cui l’impiegato di banca, oppresso da un angoscioso sentimento di colpa, si trova di fronte ad una serie infinita di autorità nascoste e impenetrabili, che agiscono per motivi imprecisabili e con modalità arcane. Il nodo o conflitto essenziale di cui parlavo prima è dunque stemperato e reso metafisico in un susseguirsi di vicende in cui lo scontro tra l’individuo e l’autorità è diventato esistenziale e nel contempo polivalente, ambiguo ed universale. [...] Ma la problematica più specifica la ritroviamo almeno in tre momenti diversi del romanzo. Il primo è all’inizio, quando i due guardiani della legge vengono ad arrestare K. e lui non resiste. In quel momento K. si chiede nondimeno se respingere con forza, uscendo dall’appartamento, quel tentativo con tutta probabilità illegale di dichiararlo in stato di arresto: «Forse in tutto l’affare sarebbe stata questa la soluzione più semplice, di spingere cioè le cose agli estremi». K. ritorna sul punto parlando con la signora Grubach: se avesse subito tagliato corto e fosse subito uscito dalla sua camera da letto senza farsi sbarrare la strada dai due uomini della legge, forse avrebbe troncato sul nascere quel sopruso: «Insomma, se avessi agito ragionevolmente, non sarebbe successo nulla e ogni cosa sarebbe stata soffocata». Ecco qui il motivo della possibile ribellione alla prepotenza e all’arbitrio, ribellione che in teoria avrebbe potuto costituire un modo radicale di troncare il problema, ma che non ha potuto realizzarsi per l’incapacità di K. (il quale, per giustificare la sua inettitudine alla rivolta si affretta a dire alla signora Grubach: «Ma si è così poco preparati»).
Il motivo della rivolta ritorna nell’episodio dell’incontro con il giudice istruttore nella sala delle assemblee, quando K. urla: «Sono giunto alla fine», batte il pugno sul tavolo e fa una lunga arringa contro il tribunale, al termine della quale, prima di aprire la porta e uscire, esclama rivolto agli uomini della legge: «Straccioni, faccio a meno di tutti i vostri interrogatori». Sorprende questa risolutezza e questa forza di opporsi agli architetti ed esecutori dell’arbitrio. Ma il seguito del romanzo mostra bene che si trattava solo di conati di ribellione, perché poi K. riprende i suoi tentativi di comprendere perché lo vogliono processare e di fatto si sottopone all’autorità imperscrutabile della legge. Tanto è vero che più tardi sarà il custode del tribunale a dirgli, «con uno sguardo pieno di fiducia» (mit einem zutraulichen Blick) ma, forse, in realtà con scherno: «Si ha sempre voglia di ribellarsi» (Man rebelliert eben immer).
Lo stesso motivo torna ancora nel capitolo 5, quando K. trova i due guardiani della legge nello sgabuzzino della banca, mentre vengono frustati da un terzo perché K. si era lamentato di loro con il giudice istruttore. K. cerca di sottrarli al frustatore tirando fuori il portafoglio ed offrendogli una buona mancia se li lasciava liberi. Ma fa tutto ciò con imbarazzo: mentre offriva la mancia «non guardava in viso il frustatore» e gli dice, con aria losca: «È sempre meglio per tutti combinare affari di questo genere ad occhi bassi». Ma il frustatore rifiuta, temendo di essere denunziato anche lui al giudice istruttore. Al che K. replica che non voleva affatto che i due fossero puniti, altrimenti non starebbe ora a chiedere di lasciarli liberi; se avesse saputo che sarebbero stati puniti non avrebbe fatto i loro nomi al giudice istruttore, perché essi non sono colpevoli - «colpevole è l’organizzazione, colpevoli sono gli alti impiegati». Ma il frustatore non cede e continua a colpire i due. Dopo di che K. lascia il ripostiglio e si allontana, abbandonando i due alla loro sorte. Ma resta inquieto: «Lo tormentava il fatto di non essere riuscito ad impedire quelle frustate; ma se non era riuscito non era colpa sua». E a questo punto prospetta a se stesso tutta una serie di sofismi per giustificare la propria codardia e spostare la colpa sugli altri.
In questo episodio K. cerca dunque di aiutare gli altri, ma non ci riesce, e conclude accettando la sconfitta ed anche autogiustificandosi con la riflessione che non era colpa sua - mentre in realtà sa benissimo, e lo ha ammesso prima, che se quei due sono picchiati è perché lui aveva fatto i loro nomi al giudice istruttore. K. è colpevole delle sofferenze degli altri, ma non ha né la forza né il coraggio di arrestare la mano del persecutore; cerca solo di corromperlo con modi loschi, di cui si vergogna; non ci riesce e finisce per fuggire, autoconvincendosi che non è in realtà colpevole.
In questo episodio c’è dunque l’accettazione dolorosa sia della colpa sia della propria incapacità di reagire all’arbitrio se non con modi meschini e inefficaci. Tutta la vicenda del frustatore e dell’incontro nello sgabuzzino esprime e simboleggia la definitiva, totale e irrimediabile sconfitta di K.[...] Sembrerebbero dunque chiare le radici più nascoste del desiderio di Kafka di aiutare gli altri ed in particolare di aiutarli ad opporsi all’oppressione. Quel che ora vorrei notare è che questo desiderio non si manifesta solo nella narrativa e nel sogno, ma anche nella vita quotidiana dello scrittore. E si manifesta soprattutto in due modi, che spesso si intrecciano. Anzitutto nella scelta del lavoro. Kafka, dopo essersi addottorato in giurisprudenza, entra nel 1907, a 24 anni, alle Assicurazioni Generali. Ma è un lavoro monotono e burocratico, per cui sente che diventerà «a poco a poco di legno», come scriverà in una lettera ad un amico. Dopo nove mesi lascia dunque quel lavoro ed entra all’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia, dove lavorerà dal 1908 al 1922, quando va in pensione anticipata, per ragioni di salute. Questa scelta dello scrittore non è stata mai studiata a fondo. Credo che essa non fosse solo dettata dalla necessità di trovare un gagne pain, ma sia in larga misura legata a motivazioni intime. All’Istituto egli infatti lavorava soprattutto nel campo degli indennizzi per gli infortuni degli operai e della propaganda per la prevenzione degli infortuni. Di fatto Kafka si occupò in numerosi casi di operai feriti o mutilati da macchine di lavoro. È evidente che in questo lavoro egli riusciva ad appagare il suo desiderio di proteggere i deboli, di soccorrere i più sfortunati. [...] L’altro modo per soddisfare il desiderio di aiutare gli altri era quello, minuto e sporadico, di fornire un piccolo ristoro, attraverso un po’ di denaro, a coloro che si trovavano in ristrettezze. Benché avesse un rapporto complesso con il denaro, secondo quanto ci riferiscono lo stesso scrittore (Lettera al padre) e Milena, già da piccolo Kafka sentì il bisogno vivissimo di dare un po’ del suo denaro ai più sfortunati. A quanto pare, lo scrittore era generoso anche con i suoi colleghi. Secondo una testimonianza raccolta da Wagenbach, un dattilografo dell’Istituto di assicurazioni cui egli dettava le minute, trovandosi in difficoltà finanziarie, otteneva spesso piccoli prestiti dallo scrittore, il quale poi ne rifiutava sempre la restituzione, osservando: «Lei ha bisogno di aiuto, ed io sono in grado di darglielo».
Probabilmente anche nei suoi rapporti con i mendicanti o i colleghi in difficoltà finanziarie, Kafka era mosso dal consueto sentimento complicato e contraddittorio. Vedeva in essi se stesso. Li vedeva bisognevoli di aiuto e incapaci di ribellarsi alla loro condizione o comunque di sovvertirla. Mutato nomine, de te fabula narratur: la loro pena era anche la sua, e la molla profonda del suo aiuto era il sentimento disperato di essere come schiacciato e di non trovare una via d’uscita. [...] Questa motivazione spiega forse anche i limiti dell’«aiutare gli altri » che possiamo riscontrare in Kafka. Egli era incapace di contribuire a mutare in modo radicale la condizione dei più sfortunati, che pure tanto lo turbavano. In un’epoca di grandi sovvertimenti sociali, di ideologie rivoluzionarie che predicavano il «riscatto degli oppressi», egli non partecipò a movimenti politici, ad associazioni sindacali o ad organizzazioni volte a migliorare le condizioni di vita di tanti “diseredati”. Forse contribuirono a questo atteggiamento la sua indole schiva, il bisogno di rimanere in ombra. Forse anche una concezione della letteratura che separa la scrittura dal così detto “impegno sociale”. Ma probabilmente fu decisivo il sentimento radicato che, così come non c’è salvezza per il singolo (l’uomo Kafka hic et nunc), non ci possa essere salvezza per la moltitudine.

Repubblica 25.3.14
Esperimenti pericolosi
Se la scienza si censura per ragioni di sicurezza
di Massimiano Bucchi



Quando il professor Ron Fouchier dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam aprì la busta dell’Agenzia delle Dogane, inizialmente pensò che si trattasse di uno scherzo. Dovette rileggere la lettera più volte per convincersi che era tutto vero. Per poter pubblicare il suo articolo sulla rivista americana Science, Fouchier doveva ottenere una specifica autorizzazione come forma di “esportazione”. La ragione, secondo le autorità olandesi, stava nel contenuto dell’articolo. La ricerca esposta in quelle pagine dimostrava che alcune mutazioni potrebbero rendere il virus H5N1, normalmente infettivo tra uccelli, facilmente trasmissibile anche tra furetti, animali la cui risposta all’influenza è considerata particolarmente simile a quella umana. Il risultato, secondo lo stesso Fouchier, è «probabilmente uno dei virus più pericolosi, capace di causare una pandemia influenzale con milioni di morti». Convinti dell’originalità e dell’importanza del proprio lavoro, Fouchier e i suoi colleghi avevano deciso di descrivere in un articolo come era stata ottenuta la mutazione; a conclusioni simili erano arrivati anche ricercatori dell’Università del Wisconsin e dell’Università di Tokyo. Ma ecco il primo intoppo: allertato da alcuni funzionari governativi americani – le cui istituzioni avevano finanziato lo studio – il National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB) chiese agli autori di eliminare alcuni dettagli dalle pubblicazioni in corso di stampa. Nelle mani sbagliate, sosteneva il Board, questi potrebbero diventare vere e proprie “istruzioni per l’uso” per la creazione di letali armi biologiche. Ma la richiesta apparve subito difficilmente percorribile sia sul piano pratico che su quello legale. Così il Board fece marcia indietro e autorizzò la pubblicazione. Uscì però solo l’articolo del team nipponico- americano. Come spiegava la lettera ricevuta da Fouchier, le autorità olandesi ritenevano infatti di dover applicare una normativa europea che richiede un controllo sull’esportazione di una serie di potenziali patogeni. Fouchier rifiutò inizialmente di chiedere l’autorizzazione, considerandola una indebita intromissione nella libertà di ricerca e circolazione dell’informazione. Perse la battaglia legale, ma alla fine, seppure a malincuore, chiese ed ottenne nel giugno 2012, dopo oltre un anno, il via libera a pubblicare.
La vicenda è emblematica di una serie di casi, sempre più frequenti e discussi, di risultati che si prestano al cosiddetto “uso duale”: da un lato possono arricchire conoscenze e pratiche preventive, dall’altro divenire fonte di pericoli per la salute e la sicurezza. Già una decina di anni fa, la pubblicazione di un articolo in cui un team della State University of New York annunciava la sintesi artificiale di un poliovirus umano, realizzata sulla base di informazioni e materiali facilmente accessibili via Internet, scatenò aspre critiche anche da parte di alcuni membri del Congresso.
Che fare allora? Limitarsi a sperare che i bioterroristi non abbiano l’abbonamento a Science?
Alcuni scienziati, come Richard Ebright, biologo molecolare alla Rutgers University, sono categorici: «Questo lavoro non doveva essere neppure cominciato ». Altri ritengono invece che Fouchier abbia dato un contributo fondamentale a non sottovalutare la possibilità di una pandemia da H5N1, ponendo le basi per testare vaccini e farmaci antivirali. Molti suggeriscono di affrontare simili dilemmi già nelle fasi di ricerca, anziché a ridosso della pubblicazione. Sarà questa, d’ora in avanti, la politica dei National Institutes of Health americani e che preoccupa non poco i ricercatori, i quali temono una nuova espansione di formalità burocratiche. Ma il controllo nella circolazione dell’informazione – anche in casi così delicati – appare oggi sempre più difficile alla luce della facilità e rapidità di condivisione offerta dai media digitali tanto all’interno quanto all’esterno del mondo della ricerca. Le stesse riviste scientifiche, da parte loro, non sono convinte che i finanziatori o le autorità sanitarie possano legalmente impedire di pubblicare alcuni risultati, a meno che non vengano ufficialmente secretati. È questo il caso del Journal of Sensitive Cyber Research and Engineering, una nuova rivista specialistica che seleziona i contributi con i consueti meccanismi di peer review(revisione da parte di altri studiosi), salvo il fatto che per leggerli bisogna essere formalmente autorizzati dal governo federale americano.
In altri casi scattano meccanismi di “autocensura” da parte degli stessi ricercatori. Negli anni Novanta, gli scienziati di un centro di ricerca militare del Maryland svilupparono involontariamente un virus particolarmente resistente. «Decidemmo subito di distruggere tutto» ricorda David Franz «e nessuno disse: “caspita, potremmo ricavarne un bell’articolo su Science o Nature”». Nel 2001, all’epoca delle “lettere all’antrace”, il team del genetista Harold Garner scoprì un modo di inserire una sorta di “codice a barre genetico” per tracciare l’origine del materiale, prima di rendersi conto che pubblicare simili informazioni avrebbe reso al tempo stesso più facile per i terroristi aggirare gli stessi controlli e indagini. Decisero così di limitarsi a un rapporto riservato per le agenzie governative, rinunciando a pubblicare i risultati su una rivista. In forme diverse, questo può avvenire anche in altri settori. Gli archeologi adottano talvolta una certa cautela nel diffondere fotografie di nuovi siti e scavi sul web poiché è accaduto in passato che queste fossero utilizzate da malintenzionati per localizzare il sito e trafugare il materiale rinvenuto. Nel caso di avvistamenti di rari esemplari di specie animali, bisogna spesso trascurare di indicare il luogo preciso per evitare di suscitare l’interesse di cacciatori o di proprietari terrieri. A seguito della vicenda Fouchier e di quello che è stato definito dagli stessi studiosi «uno dei patogeni più terribili a cui sia dato pensare», i più autorevoli ricercatori internazionali che studiano il virus H5N1 si sono imposti volontariamente una moratoria di oltre un anno, in modo da far decantare il dibattito e rassicurare l’opinione pubblica, concludendo tuttavia che i benefici di simili studi ne compensano ampiamente i rischi. Il dilemma tra circolazione dell’informazione e tutela della sicurezza, tuttavia, resta più che mai aperto. Nelle parole di un altro biologo: «Siamo sempre più capaci di generare informazioni “sensibili”, ma non necessariamente più capaci di gestirle in modo appropriato».