Repubblica 26.3.14
Speciale satira con Tango e Cuore per festeggiare i 90 anni dell’Unità
ROMA — Uno speciale di 96 pagine per far rivivere decenni di satira. È in edicola oggi con l’Unità, che restituisce ai lettori, per celebrare i 90 anni del giornale, i titoli e le vignette di Cuore, diretto dal 1989 da Michele Serra, i corsivi firmati Fortebraccio a partire dal 1967, le vignette e un’antologia di prime pagine da Tango, l’inserto fondato nel 1986 da Staino. Avventure che hanno visto collaborare Altan, Ellekappa, Pazienza, Vincino, Vauro, Gino e Michele, Agnese. E ancora, Stefano Benni, Paolo Hendel, Favio Fazio. Lo speciale curato da Fabio Luppino sarà corredato da articoli di Walter Veltroni, Lia Celi, Oreste Pivetta, Stegania Franchi, e da un’intervista a Emanuele Macaluso.
Repubblica 26.3.14
Pietro Ingrao
Il secolo breve di un comunista poeta
Il grande eretico della sinistra compie 99 anni
Un raro testo rivela l’altra passione della sua vita
di Alessandra Longo
Novantanove anni di una storia intensa e appassionata. Pietro Ingrao li compie questa domenica, il 30 marzo. Ha attraversato il Novecento, ha conosciuto la clandestinità durante il fascismo, aderito al Pci nel 1940, fatto la Resistenza, ricoperto ruoli di primissimo piano nella vita pubblica di questo Paese, primo comunista a presiedere la Camera dei deputati. È stato leader e maestro di intere generazioni, padre e nonno di una famiglia bellissima che celebra il suo traguardo in un clima di tenerezza e rispetto. 1915-2014: «Sono un figlio dell’ultimo secolo dello scorso millennio», dice di sé. Il secolo dei drammi e delle speranze, «anni grandi e terribili». Pietro Ingrao: il comunista eretico, l’uomo curioso, «dubbioso», come lo definisce Valentino Parlato, solo 83 anni, fondatore del manifesto, «amendoliano di sinistra». «Il dubbio in Pietro non è mai stato incertezza - dice Parlato - al contrario è stato ansia e ricerca di capire. Quel che prevale oggi è il contrario: in ossequio al mito della rapidità, si fanno affermazioni immediate, nettissime e poco importa se sbattono contro la realtà».
Umile, appassionato, duro, radicale ma «di un’ortodossia non rigida». È il ritratto che ne viene fuori, dovendo far sintesi. Luciana Castellina lo ha avuto come testimone di nozze quando sposò Alfredo Reichlin. È andata spesso a trovarlo nel suo rifugio di Lenola: «La poesia, prima della politica, è stato il grande amore. Da giovane vinse anche un premio. Adesso, in tarda età, nell’uomo è tornato prepotentemente il poeta» (pubblichiamo una testimonianza di questa passione attraverso gli stralci di un’intervista su Leopardi concessa a Valerio Calzolaio nel 1998 e pubblicata sul trimestrale del Gramsci Marche).
Del resto c’è stata poesia anche nel suo modo di raccontare la fatica, l’umiliazione, la solitudine dei più deboli. Ettore Scola confessò il suo «innamoramento » per «Pietro» in una lettera pubblicata due anni fa sull’Unità. Scola racconta di una trasferta elettorale in Irpinia. Ingrao era lì a concludere la campagna di Giorgio Amendola (memorabili i loro scontri politici) e il regista così lo descrive: «Parlasti al contadino che torna la sera dal lavoro nei campi, tenendo il figlioletto per mano, e quando incontra il padrone a cavallo si toglie la coppola. Anche il piccolo stava per scoprirsi il capo... ma nella piazza echeggiò il terribile “No” che tu gridasti dal palco per bloccare a mezz’aria il gesto di soggezione del bambino. “No, tu no, non devi inchinarti davanti al padrone. Tuo padre con tutti noi difenderà il tuo diritto al lavoro e alla tua dignità!”».
Quel no di Ingrao, la sua capacità di indignarsi, e non solo, perché «indignarsi non basta», come scrisse. Quel no di Ingrao che, tuttavia, ricorda Castellina, non gli impediva di «essere un uomo straordinariamente popolare nel Pci. Noi figli dell’ala ingraiana dicevamo sempre: “Speriamo che non lo applaudano troppo perché quasi sempre all’entusiasmo in sala corrispondeva la nostra sconfitta politica, la vittoria della destra del Pci”». Erano l’ala sinistra, «ma una sinistra critica nei confronti dell’Urss, diversa dalle altre sinistre dei partiti comunisti europei, più liberale nel modo di intendere il partito». L’imprinting di Ingrao in netta contrapposizione con «la corrente amendoliana». Letture diverse della società. Ingrao già allargava l’analisi agli effetti del capitalismo avanzato sull’Italia arretrata, già parlava di alienazione e consumismo.
Novantanove anni di sfide, anche perse, come quando si oppose alla svolta della Bolognina, allo scioglimento del Pci. E poi l’approdo in Rifondazione, l’appoggio ultimo a Nichi Vendola. E una curiosità che non si spegne anche quando la voce si fa flebile. «Politica e vita si sono molto fuse ». I comizi, i libri, la famiglia, la moglie Laura Lombardo Radice, i cinque figli, Chiara, Renata, Bruna, Celeste e Guido, la sorella Giulia che gli stringe tenera la mano nel documentario di Filippo Vendemmiati. Capacità di tenere tutto insieme. Il pugno chiuso senza nostalgie, guardando avanti, alle questioni ambientali, ai movimenti, alla battaglie delle donne, in sintonia con i giovani come accade ai Grandi Vecchi che, in realtà, rimangono freschi dentro. Saranno giorni di celebrazione per Ingrao nella sua terra, tra Lenola e il mare e le spiagge di Gaeta. Novantanove anni e riconoscersi ancora nelle parole di Brecht: «Il mondo è cambiato, ma il tempo delle rivolte non è sopito: rinasce ogni giorno sotto nuove forme».
Repubblica 26.3.14
Così la guerra mi separò da Leopardi
di Pietro Ingrao
Leopardi ci veniva tra le mani in terzo liceo. In terzo liceo si studiava la letteratura italiana, si arrivava alle soglie del Novecento, il Novecento non si faceva, si arrivava di solito fino a Carducci. E naturalmente in mezzo c’erano Foscolo, Manzoni e c’era Leopardi. Ricordo di averlo letto con professori, anche di grande fascino, non in lingua italiana. Mi fa piacere ricordare che ho avuto due professori di storia e filosofia, che mi sono molto cari; caddero entrambi assassinati alle Ardeatine: Pilo Albertelli, che ebbi in primo liceo, e Gioacchino Gesmundo, che ebbi in terzo liceo. Poi – questo è il destino che non sappiamo ancora raccontare – abbiamo cospirato con loro contro il fascismo. Pagarono con la vita la loro lotta di resistenza. (...) Mi ritrovai a discutere di Leopardi in un’occasione curiosa. Raccontare adesso quella che è stata la straordinaria combinazione in quegli anni di fascismo è un po’ difficile. E infatti spesso sorgono delle incomprensioni. Ho parlato del mio amore della poesia? Be’, ho scritto la mia prima poesia, avevo vent’anni, per poetare sulla nascita di Littoria che era la città che il fascismo aveva fatto sulle Paludi Pontine. Quindi, a suo modo una poesia fascista. Poi, lo dico subito per salvarmi l’anima, sono passato alla cospirazione clandestina e ho fatto la Resistenza. Ma ho vissuto anche quel momento.
Con quella partecipai ai Littoriali, che era una gara, indetta dal fascismo, un po’ per controllare le nuove generazioni. C’era anche il concorso di poesia che fu vinto da due poeti: uno, Sinisgalli, che entrava anche lui nel coté leopardiano, ma in un altro senso, e un altro, Attilio Bertolucci che era un’altra cosa. Ricordo però con nettezza questi incontri. Il fascismo combinò quella cosa pensando di controllare la gioventù italiana, però per me e per molti di noi fu la prima grande occasione in cui ci incontrammo da tutt’Italia. Fino ad allora non ero mai arrivato oltre Roma. Il mio borgo natio, per usare un termine leopardiano, e Roma.
Arrivai a Firenze. Ricordo quando andai in un caffè famoso, quello delle Giubbe rosse, che era il caffè dei letterati, ci andai vestito da avanguardista a portare questa poesia su Littoria e a consegnarla ad Eugenio Montale che era già il mio nume. E mi ricordo la faccia stravolta che lui fece di fronte a questo tale. Però in quegli incontri cominciai ad allargare (il mio orizzonte) ed anche il mio amore per Leopardi. (...) Una cosa è bene che sia chiara. Tutto questo avviene mentre nell’Europa in cui io cresco si stanno accumulando i grandi temporaliche poi esploderanno nel nazismo e nella Seconda guerra mondiale. Questa vicenda letteraria avviene molto a sé, in gruppi ristretti, mentre ormai nell’Europa galoppa il vento terribile della guerra che poi mi staccherà letteralmente da quelle poesie di Leopardi e di Ungaretti e mi spingerà violentemente a metterli nel cassetto e ad aprire altri libri. E insieme con i libri a cominciare a cospirare, a entrare nella lotta politica durissima, in un momento in cui ci sembrava che tutto il mondo andasse male e crollasse. (...) Una delle grandi questioni che si discuteva allora, anche a proposito di Leopardi: i fascisti rimproveravano tutta quest’area della cultura e della letteratura italiana, di trincerarsi in quella che veniva chiamata la “torre d’avorio”, cioè il privilegio degli intellettuali. E in questo c’era una cosa sbagliata, perché si trattava di una vicenda culturale seria.
Però c’era anche un altro aspetto che posso testimoniare attraverso la mia esperienza diretta. Io volevo occuparmi di poesia e di cinema, volevo studiare quelle cose che mi avevano appassionato, che mi trascinavano. Però fui spostato violentemente da quei libri e da quel tavolino e fui (fummo) proiettato, trascinato in un’altra scena e in un’altra vicenda. (...) Il merito fondamentale della concezione eroica e progressiva di Leopardi, secondo me, è quello di spezzare la lettura crociana, la lettura calligrafica. In Walter Binni forse era al massimo questa lettura di Leopardi eroico. Binni è uno che risale proprio alle origini del primo Leopardi e lo stringe poi sulla Ginestra. Secondo me, in questa interpretazione di Binni c’è un Leopardi troppo compatto. Però Binni riapre il discorso su Leopardi, lo sposta fortemente dal crocianesimo e lo concentra su questa lettura del poeta come grande figura della storia dell’Ottocento e grande figura dell’Italia che rompe con il cattolicesimo – Binni rivendica molto il Leopardi ateo – e lo colloca in legame con tutta una parte della cultura francese a cominciare dal sensismo. Però mette in ombra l’aspetto che viene chiamato idillico, ma si potrebbe anche dire nostalgico, un po’ crepuscolare. E invece Binni vede Leopardi come grande figura eroica, che interpreta il dramma vero dell’Italia e apre un discorso nuovo sull’avvenire, sul riscatto di questo Paese. Il pessimismo radicale – questo è un punto su cui Binni insiste – non significa rinuncia all’azione, anzi, l’eroico sta proprio nella assoluta consapevolezza della tragicità della vita e nella capacità di assumere questa tragicità. Lui sposta la lettura idillica e fa di Leopardi tutta un’altra storia, un altro personaggio. Secondo me con uno spostamento nella scala dei valori della grande lirica leopardiana. In questa lettura la poesia ad Angelo Mai diventa una tappa importante (e questo lo fa anche Ungaretti). Poi mette come sommità della poetica leopardiana La ginestra, come risultato poetico assoluto della grande ricerca lirica leopardiana. Questo anche sulla base di una lettura forte dello Zibaldone, un po’ meno, secondo me, delle Operette morali. Sento in Binni un po’ sottovalutate le Operette morali, che invece hanno delle pagine splendide, incantevoli. Questa è stata la lettura di Binni, che lui ha sostenuta con un’estrema coerenza. Qualche volta gli ho accennato i miei dubbi, ma lui su questo non cedeva. (...) Non per mettermi l’animo in pace, ma ho dei dubbi sia sulla lettura che valorizza estremamente il Leopardi idillico sia sull’altra, quella del Leopardi eroico. Perché sono tutte e due delle letture ideologizzanti. E che quindi, non dico che dimenticano il testo, dimenticano l’elemento cognitivo che è nel testo. Cosa voglio dire con elemento cognitivo? Che cosa il testo di poesia dice al di là della parola letterale proprio perché è testo poetico e proprio perché – questo Ungaretti in alcuni dei suoi studi lo dice – è fatto di significato della parola, ma anche di suono. È anche gioco di sillabe, è anche trascolorare di frasi. Le due letture cui ho fatto cenno in qualche modo esorbitano dal testo, scavalcano il testo. In questo senso, sono un po’ ideologizzanti. E per me rischiano di lasciare in ombra – questa è la cosa che mi preme di più – quella che è proprio la grande novità delle lirica leopardiana. Cioè il suo cogliere l’esperienza vitale nel suo farsi e nel suo trascolorare. La ginestra non solo è meno compiuta linguisticamente, ha dei punti più oscuri, ma nel suo modulo è troppo perentoria. Mentre invece la grande scoperta leopardina è appunto quella di rendere questa continua contraddizione che c’è nella vita umana. Ritengo che la poesia più bella sua sia Le rimembranze.
Vi ricordate, comincia con “Vaghe stelle dell’Orsa”: è un continuo trascolorare tra il ricordo dell’esperienza sua immediata (di quella che è stata la sua vita materiale, gli episodi della sua esistenza, le terrazze, i dipinti, i giochi, i sollazzi, le sue speranze e così via) e la sorte dell’uomo, il suo destino. Quella che a me sembra la grande novità straordinaria non è poi tanto la conclusione terribile e crudele a cui lui arriva, quanto questo rendere la tragicità della condizione umana in questa continua trascolorazione, in queste continue oscillazioni».
l’Unità 26.3.14
Province, il governo va sotto due volte
Oggi voto sul filo
Bocciata in commissione la linea dell’esecutivo
Senza il via libera al testo il 25 maggio bisognerà votare per rinnovare 110 consigli provinciali
di Claudia Fusani
La legge sulle Province fa ballare il governo: in Senato va sotto due volte e la richiesta di incostituzionalità delM5Snonpassa per 4 voti. Renzi: se passa niente più indennità a 3mila politici. Per gli statali Madia propone prepensionamenti per far entrare i giovani, ma «niente concertazione ». Nuova polemica con la Cgil.
Il sesto senso gli aveva suggerito di lasciar perdere cene regali e tavoli da capi di stato perché c’è da fare e parecchio a casa, a Roma, a palazzo Chigi. L’istinto ieri mattina, alle sei e mezzo, l’aveva spinto a twittare: «Sono a Roma per lavorare sui nostri dossier: province, senato, titolo V, Cnel...». E proprio sulle riforme, il blocco di partenza imprescindibile per il progetto Renzi, ieri la maggioranza di governo è stata a un passo dalla crisi. Sotto due volte in Commissione, a fine mattinata. E nel pomeriggio, in aula, il disegno di legge Delrio - che è un po’ come il pronti-via del gran tavolo delle riforme - è sopravvissuto per tre voti. Resta in piedi, bersaglio perfetto di fuoco di fila incrociati e rivendicazioni di ogni genere. Arma di ricatto per quei piccoli partiti che il bipartitismo serrato di Renzi condanna alla sparizione. Il voto finale in aula è previsto oggi pomeriggio (ore 18). E sarà una votazione molto delicata per la tenuta del governo.
Tre brutte notizie per il premier. Nulla di irrimediabile. Ma la prova che il leader non può distrarsi. Le votazioni in aula non prevedono pareggi, i numeri sono numeri e ieri hanno detto che il governo è stato a un passo da un quasi voto di sfiducia. Per colpa, anche, dei centristi. Che al Senato, tra Popolari, Scelta civica e altri sparsi tra gruppo Misto, Autonomie e irriducibili di Forza Italia hanno i 25-30 voti che possono garantire e togliere la maggioranza.
I voti sono mancati sul disegno di legge Delrio che svuota le funzioni delle Province (per assegnarle a comuni e città metropolitane), lascia in carica come commissari presidenti e assessori fino alla loro eutanasia che arriverà con la riforma costituzionale del Titolo Vche cancella le province dall’organizzazione dello Stato. Il disegno di legge, alla sua seconda lettura e che deve tornare alla Camera, deve essere approvato ed essere pubblicato in Gazzetta entro la prima settimana di aprile. Altrimenti un altro anno di lavoro parlamentare sarà buttato via perché il 25 maggio gli italiani dovranno rinnovare anche i 110 consigli provinciali. Assemblee il cui funzionamento (non le spese in bilancio che sommano 10 miliardi) pesa per cifre che, a seconda degli studi, vanno da un minimo di 100 milioni a un massimo di due miliardi. Svuotare le province, in attesa che la riforma costituzionale le possa abolire, non ha quindi un valore economico in sè. Si tratta però del passaggio simbolico, al pari della legge elettorale, che segna il prima e il dopo, il passaggio dalla vecchia immobile Italia alla nuova che invece, “e pur si muove” giusto per citare Galileo nel 450 esimo anniversario della nascita.
Spiegato perché il ddl Delrio è importante, occorre subito dire che i voti ieri sono mancati non tanto per il merito del disegno di legge (pure molto osteggiato, per motivi diversi, dal centro destra tutto e dai Cinque stelle) ma per poter poi ricattare Renzi su altre riforme. Una su tutte: la riforma elettorale. I centristi non hanno ancora abbandonato l’ipotesi delle preferenze e di abbassare le soglie di accesso al Parlamento (ora fissate al 4,5 %). E si fanno sentire come possono.
La prima doccia fredda arriva ieri a fine mattinata in Prima Commissione (Affari costituzionali). Governo e maggioranza sono battuti su un emendamento dell'opposizione che restituisce alle Province le competenze sull'edilizia scolastica. Bocciato anche l'emendamento del relatore Francesco Russo (Pd) che fissava un tetto all'indennità dei presidenti delle Province. In omaggio alla chiarezza, il killer si autodenuncia. È l’ex ministro della Difesa, leader dei Popolari, Mario Mauro che precisa come la sua assenza «sia stata voluta». Nulla di casuale, quindi. Meno che mai una svista. «È un disegno di legge incostituzionale da cui è bene prendere le distanze» fa sapere. Ma l’obiettivo per i centristi ancora senza casa è sempre la legge elettorale.
Incassato il doppio inciampo, il testo arriva comunque in aula nel pomeriggio. Le votazioni cominciano dopo le quattro. Ci sono le pregiudiziali di costituzionalità dei Cinque stelle, pretestuose visto che si sa benissimo che per la vera abolizione è necessaria una riforma costituzionale. Il presidente Grasso mette in votazione e osserva l’aula piena di vuoti (88 i senatori assenti) e quando mette in votazione, nonostante la nota freddezza, percepisce anche lui un brivido. 112 i voti a favore, 115 i contrari. La maggioranza si salva per tre voti.
Per Forza Italia (17 gli assenti in aula) si tratta di un «vero peccato». «Era l’occasione per bocciare una volta per tutte il provvedimento» ha detto il capogruppo Paolo Romani. Comprensibile: a Forza Italia fanno capo 45 dei 110 presidenti di Provincia. Difficile spiegare loro, sotto elezioni, che non avranno più la poltrona.
Ieri sera si è conclusa la discussione generale. Ci sono tremila emendamenti, nella quasi totalità destinati a cadere dopo l’esame della commissione Bilancio. Il voto è atteso per oggi. Salvo sorprese. Che possono arrivare, come ieri, dai centristi. Se L’Udc, in odore di alleanza con Ncd, voterà per l’abolizione e sembra essersi allineata con la maggioranza, il problema sono i 18 voti di Scelta civica e Popolari.
Renzi affida al tweet serale il senso della sua sfida. «Se passa la nostra proposta sulle province, tremila politici smetteranno di ricevere un’indennità dagli italiani».
il Fatto 26.3.14
Vendetta del Senato su province e Italicum
Renzi nei guai, costretto alla fiducia e al rinvio
Per due volte l’esecutivo è andato in minoranza nella commissione di Palazzo Madama sull’abolizione dell’ente locale
Intanto non esiste una bozza definitiva per la riforma della Camera Alta, mentre si profila lo slittamento della legge elettorale a dopo le Europee
di Wanda Marra
Per due volte l’esecutivo è andato in minoranza nella commissione di Palazzo Madama sull’abolizione dell’ente locale. Intanto non esiste una bozza definitiva per la riforma della Camera Alta, mentre si profila lo slittamento della legge elettorale a dopo le Europee. Fiducia sulle province, bozza di riforma del Senato e del Titolo V ancora in divenire, e iter della legge elettorale rallentato: doveva essere approvata anche in Senato prima delle europee, slitterà a dopo. Turbo Renzi è in difficoltà anche sulle riforme, quelle alle quali ha legato il suo futuro politico.
Ieri il governo è andato sotto due volte in Commissione Affari Costituzionali, la pregiudiziale di costituzionalità presentata dai Cinque Stelle è stata respinta con 115 sì, 3 no e un’astensione (che in Senato vale voto negativo): il voto sulle Province è un bollettino di guerra. E per cercare di evitare la débacle nel voto finale di oggi, il governo ha deciso di mettere la fiducia, dopo una vera e propria riunione di guerra ieri sera a Palazzo Chigi.
È stata l’assenza di Mario Mauro (Pi), in rotta di collisione con Renzi da quando non è stato confermato ministro della Difesa, ad essere determinante. “Un’assenza politica”, ha ammesso lui. E mancavano pure alcuni senatori del Ncd: nessuna ammissione di volontarietà da quella parte. Sulla legge si sono sfogati una serie di malumori generali, soprattutto dei piccoli, in testa Sc, a partire dalle legge elettorale sulle europee (dove non si è voluta abbassare la soglie di sbarramento). Tant’è vero che alla fine il provvedimento è andato avanti grazie alle assenze di Forza Italia, alcune non proprio casuali. “Abbiamo perso la straordinaria occasione di bloccare il ddl Delrio a causa dell’assenza di alcuni colleghi...”, denunciava con un sms il capogruppo al Senato di Fi, Paolo Romani. Visto il clima, Renzi ha sentito l’esigenza di twittare in serata: “Se domani passa la nostra proposta sulle Province 3000 politici smetteranno di ricevere una indennità dagli italiani. La volta buona”. La prova, appunto, non è delle più facili. E chiusa questa, si aprono le prossime. Riforma del Senato e del Titolo V passano avanti alla legge elettorale. Il premier ha annunciato per tutto lo scorso week end: “Venerdì si parte”. In realtà, quel che dovrebbe accadere venerdì è il via della direzione Pd al testo presentato dal governo dopo il Cdm del 12 marzo e sul quale in questi giorni si sta lavorando a delle modifiche. “Non c’è una nuova bozza ancora”, diceva ieri Maria Elena Boschi. Stasera Renzi ai gruppi Pd presenterà il disegno di massima, che rimane lo stesso dell’impianto iniziale (i senatori non saranno eletti dai cittadini, non riceveranno compensi aggiuntivi e non voteranno la fiducia; nella nuova Camera ci saranno governatori, consiglieri comunali e regionali). Dovrebbero sparire i 21 senatori nominati dal capo dello Stato. E ci dovrebbe essere una maggior precisazione delle rispettive competenze tra Stato e Regioni. Il Senato potrà chiedere alla Camera di modificare le leggi approvate su una serie di tematiche. Sulla carta, con il riequilibrio della rappresentanza tra Regioni grandi e piccole, la riforma dovrebbe andare. Ma in una situazione politica fragile come questa, tutto è possibile. E infatti il governo non ha ancora deciso se presenterà un ddl di sua iniziativa o se lo farà presentare al Parlamento: preferirebbe la prima ipotesi, ma non sa se la regge. Anche perché l’architrave delle riforme è l’accordo con Forza Italia. Un partito che non gode esattamente di ottima salute, e con un Berlusconi sempre più in difficoltà. Finora l’asse ha tenuto, ma dal 10 aprile con il leader ai servizi sociali o ai domiciliari tutto è possibile. Renzi ha deciso di iniziare dalle riforme costituzionali e l’Italicum slitterà a dopo le europee, nonostante tutti i proclami renziani: “senza B., FI più sfarinata potrebbe essere più governabile”, ragionava in serata un senatore Dem. Mentre sia renziani che esponenti della minoranza facevano notare che per come stanno le cose ormai praticamente non ci sono i tempi per approvare l’Italicum a maggio. Ma c’è di più: per come stanno le cose ora il ballottaggio previsto dalla riforma rischia di essere tra Cinque Stelle e Pd. Un buon motivo perché la legge sia a rischio affossamento.
Corriere 26.3.14
L’ultima arma, il voto di fiducia
Il premier va alla conta: porterò a casa il risultato Dubbi nel Pd, stasera il confronto con i parlamentari
di Maria Teresa Meli
Abolizione delle Province e riforma del Senato: Renzi intende andare avanti anche usando l’arma del voto di fiducia
ROMA — «Tranquilli, porteremo a casa il risultato, voglio vedere chi si potrà vantare di aver lasciato sulle spalle degli italiani i costi delle Province e del Senato. Siccome sono voti che avverranno a Palazzo Madama, a volto scoperto, ognuno dovrà metterci la faccia e prendersi le sue responsabilità»: è il Matteo Renzi di sempre quello che affronta la prova — difficile — dell’Aula per il disegno di legge Delrio.
Il Renzi che non accetta gli altolà di «chi vuole la conservazione, di chi mira a mantenere lo status quo». Spiega il presidente del Consiglio, reduce da incontri su incontri, innumerevoli colloqui, riunioni a porte chiuse con Luca Lotti e Graziano Delrio: «È fisiologico che quando tocchi interessi — e che interessi — la palude opponga resistenza. Non si può pensare che tagli tremila stipendi della politica e tutti applaudano». Le reazioni sono ovvie, secondo il premier, ma anche le sue contromosse: «Noi siamo determinati ad andare avanti. Del resto, anche nelle scorse settimane gli uccellacci del malaugurio pensavano che non ce l’avremmo fatta, che avremmo fallito, e, puntualmente, abbiamo portato a casa la riforma elettorale».
Il premier ha tutte le intenzioni di andare avanti, usando l’arma della fiducia. Al primo provvedimento su cui aveva debuttato il suo governo, il cosiddetto «salva Roma», non aveva voluto utilizzarla, perché sarebbe stata un sorta di pessimo biglietto da visita per l’esordio dell’esecutivo, ma adesso si rende conto che può essere l’unico strumento per forzare le resistenze e per nuotare controcorrente «nella palude stagnante di chi non vorrebbe cambiare niente, ma proprio niente».
Dunque è il Renzi di sempre quello che affronta questa ennesima prova e si prepara alle prossime. La riforma del Senato, innanzitutto, dove gli mancherà la sponda dell’intera Forza Italia e anche di una parte dei suoi alleati. Dentro FI c’è chi è contrario, ma pure nel Nuovo centrodestra e nelle fila degli altri alleati. Il che fa fibrillare il fragile patto che si era costruito all’interno del Pd. Stasera il presidente del Consiglio saggerà la compattezza dei suoi gruppi, perché non vuole scherzetti o manovre sotterranee. Per dirla con lui: «Chiunque si esprima come vuole, ma a viso aperto, sapendo che poi si decide a maggioranza».
Le insidie, però, non sono finite qui. Già ci sono i bersaniani che si preparano a mettere i bastoni tra le ruote all’Italicum. Spiegava ieri Andrea Giorgis, deputato fedelissimo dell’ex segretario, ad alcuni compagni di corrente: «Questa riforma, visto il risultato delle Amministrative in Francia, ormai non va più bene. Vedrete che Grillo rischia di essere il secondo partito e allora l’Italicum è da rifare, meglio che resti al Senato e non vada avanti». Un altro bersaniano, Davide Zoggia, ieri confidava a un amico: «Dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano su Berlusconi, noi rischiamo di non avere più un interlocutore, e allora come faremo con l’Italicum, la revisione del Titolo V della Costituzione e la riforma del Senato?».
Interrogativi e dubbi che i parlamentari del Pd si pongono, tra Montecitorio e Palazzo Madama. Persino la minoranza più dialogante, quella dei «giovani turchi», appare perplessa. Spiega Matteo Orfini: «Renzi, come al suo solito, procede a strappi, ma non si può fare sempre così. Prendiamo il decreto sul lavoro: noi non possiamo votarlo. Deve mettere la fiducia per farci dire di sì, oppure se lo vota con Forza Italia, ma gli conviene far passare un provvedimento con FI?».
C’è fermento. E subbuglio. In Parlamento, ma anche nel partito, il che, influisce, inevitabilmente, sulle mosse dei deputati e dei senatori del Pd. La parola, ancora una volta, a Orfini, uno che ama parlar chiaro: «La gestione unitaria del partito? Renzi se la dimentica se in direzione, venerdì, intende ratificare solo le nomine di Guerini e Serracchiani». E il capannello attorno a lui annuisce e aggiunge all’unisono: «E poi non si lamenti se tutto ciò avrà ripercussioni in Parlamento».
Ma chi conosce Renzi sa che il segretario continuerà a procedere come sa: a «strappi» per «non sprofondare nella palude». Ed è pronto ad accettare scommesse: l’«acqua stagnante» della conservazione non lo «fermerà» .
Corriere 26.3.14
Al Senato il governo rischia sulle Province
Attesa per oggi l’approvazione. Maggioranza salvata dai voti di Casini e Merloni
Renzi deciso a chiedere la fiducia
di Dino Martirano
ROMA — Il disegno di legge Delrio — che proroga i presidenti-commissari in 73 Province italiane, dal 30 giugno al 31 dicembre 2014, evitando così nuove elezioni a maggio — fa scricchiolare paurosamente la maggioranza del governo Renzi. Ieri, al Senato, la pregiudiziale di costituzionalità presentata dal M5S è stata respinta dall’Aula per soli 4 voti (115 sì, 112 no, un astenuto). L’aritmetica, dunque, attesta che il governo è stato salvato in corner dai centristi Pier Ferdinando Casini e Paola Merloni per nulla convinti di seguire la rivolta del gruppo guidata da Mario Mauro e da un drappello di fedelissimi dei popolari Per l’Italia. Se anche quei due voti centristi fossero andati a rimpolpare il fronte delle opposizioni, il ddl Delrio oggi varrebbe meno di zero. E il presidente del Consiglio non potrebbe twittare — con un pizzico di ottimismo, visto che questa legge ordinaria non cancella le Province — che se «domani (oggi, ndr ) passa la nostra proposta sulle Province 3.000 politici smetteranno di ricevere un’indennità dagli italiani». Ma è pure vero che il governo è ancora in sella grazie anche ai 17 senatori di Forza Italia che non hanno partecipato al voto: se fossero stati in Aula, come testimonia un sms risentito del capogruppo Paolo Romani, si sarebbe colta «una occasione» per umiliare il governo Renzi.
Il voto a rischio (assenti giustificati, tra gli altri, i ministri-senatori Giannini e Pinotti, i sottosegretari-senatori Della Vedova e Cassano) aveva registrato un’avvisaglia in I commissione (Affari costituzionali) dove la maggioranza ha un solo voto di vantaggio. Bene, quel voto è venuto meno per due volte grazie all’assenza deliberata dell’ex ministro della Difesa Mario Mauro che ha fatto mancare il suo appoggio a causa di un’altra partita: la soglia di accesso alle elezioni europee troppo alte e non modificate dal testo sulle quote rosa. Il risultato, così, è stato poco lusinghiero per la maggioranza anche perché ai maldipancia dei popolari si sono aggiunti quelli del Ncd. E così il governo è andato sotto due volte: sull’emendamento De Petris (Sel) che restituisce alle Province la competenza sull’edilizia scolastica e sulla proposta del relatore Francesco Russo (Pd) di porre un tetto alle retribuzioni dei presidenti delle Province.
Oggi si torna in Aula con la quasi certezza che il governo porrà la questione di fiducia per non correre rischi davanti ai 3 mila emendamenti. In questo caso, si voterebbe entro stasera per poi rispedire di corsa il ddl Delrio alla Camera che dovrà approvarlo entro e non oltre il 7 aprile: altrimenti, è la tesi del governo, si rischia di votare a maggio per le Province che invece tutti (a parole) vogliono abolire. L’atto di cancellazione delle Province sarà, infatti, di rango costituzionale: stamattina al Senato verrà votata l’urgenza per il ddl Crimi (M5S) che cancella la parola Province dalla Costituzione. Già il governo Monti ci provò a farle fuori con il decreto «salva Italia» ma la Consulta azzerò il provvedimento; Letta, con la legge di Stabilità 2013 ha prorogato i commissari-presidenti fino al 30 giugno; Renzi tira la palla in avanti fino al 31 dicembre. Ma fin quando non verrà approvato un ddl costituzionale le Province non saranno azzerate .
Corriere 26.3.14
A Palazzo Madama prove di resistenza ai blitz del segretario
di Massimo Franco
L’inciampo è stato liquidato come tale: due votazioni nelle quali governo e maggioranza sono stati sconfitti sull’abolizione delle Province, non dovrebbero avere conseguenze durature. Al punto che il premier Matteo Renzi anticipa che se oggi pomeriggio passerà al Senato la proposta illustrata ieri dal sottosegretario Graziano Delrio, il suo collaboratore più stretto, «tremila politici smetteranno di ricevere un’indennità dagli italiani». Sarebbe un successo non da poco, dopo le promesse non mantenute per anni. Né bastano ad annullare la sensazione di una piccola grande svolta le critiche di quanti, soprattutto nelle file di Forza Italia, parlano di «bluff» sostenendo che secondo il disegno di legge le Province saranno trasformate, non cancellate. Eppure, Palazzo Chigi sa che a Palazzo Madama le resistenze promettono di essere più coriacee di quelle emerse ieri.
Intanto, l’idea di svuotare e spoliticizzare il Senato sta lentamente cedendo il passo a una soluzione meno traumatica, che corregge il bicameralismo senza eliminarlo. Soprattutto, l’aula di Palazzo Madama può diventare il parafulmine delle tensioni che percorrono non soltanto la maggioranza di governo ma anche il partito di Silvio Berlusconi; e che la vigilia delle elezioni europee di maggio accentua. Nel Pd si registra qualche timida richiesta a Renzi della minoranza che fa capo a Gianni Cuperlo, affinché il Pd abbia un profilo più autonomo dall’esecutivo. Si tratta di una fronda che però il premier sembra in grado di controllare e zittire. Il cumulo delle cariche di segretario e di capo del governo gli consente di affrontare la Direzione fissata per venerdì con una certa sicurezza: nonostante malumori evidenti.
Per paradosso, qualche pericolo all’asse istituzionale per le riforme può arrivare da FI. La strategia di rinnovamento radicale delle liste perseguita da Berlusconi sta facendo emergere un conflitto difficilmente controllabile tra la nomenklatura del partito e quello che viene definito velenosamente «il cerchio magico»: il gruppo di persone che a palazzo Grazioli circonda e, secondo i critici, condiziona Berlusconi mettendolo contro i dirigenti storici. L’assenza del capo dalla campagna elettorale e dalle liste a seguito delle condanne collezionate nei processi, rende FI a rischio di esplosione. E mostra trutta la difficoltà del suo «partito personale» di trasformarsi in qualcosa di diverso. La diatriba sull’eventuale candidatura di un figlio o una figlia del leader, apparentemente rientrata, nasce da qui.
L’ex premier rifiuta di ammettere l’esistenza di un gruppo di potere che lo farebbe somigliare pericolosamente a Umberto Bossi, il capo leghista rovinato dal «cerchio magico» dei fedelissimi. «Di magico», ha detto Berlusconi, «ci sono solo io». Ma se la situazione peggiora, al Senato il governo potrebbe trovarsi con spezzoni di FI pronti a far saltare il patto sulle riforme con Renzi: a partire da quella elettorale sulla quale già sono emerse le resistenze di alcuni settori del Pd e del Nuovo centrodestra. Per questo il presidente del Consiglio vuole bruciare i tempi e rafforzare i propri poteri: perdere velocità significa rischiare il compattamento degli avversari. Né va sottovalutato lo scarto vistoso compiuto da Berlusconi in politica estera.
Il giorno prima dell’arrivo a Roma del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il capo del vecchio centrodestra ha diramato una nota per difendere Vladimir Putin, appena ostracizzato per l’annessione della Crimea ucraina. Poche righe scritte e dunque meditate, per definire «avventata, antistorica e controproducente» la decisione dei leader riuniti all’Aia, di escludere la Federazione Russa dal G8. Può darsi si tratti di una mossa dettata solo dal sodalizio con Putin, che ha punteggiato tutta l’esperienza di governo berlusconiana. Ma si indovina anche il tentativo di dare voce a quanti, in Italia, temono che le sanzioni contro Mosca compromettano i nostri rifornimenti energetici; e magari, di usare l’argomento in campagna elettorale, incrociando gli umori antieuropei che hanno fatto trionfare la destra in Francia.
Repubblica 26.3.14
I limiti di un Parlamento delegittimato
Sembrerebbe che le istituzioni parlamentari abbiano dimenticato di essere state delegittimate dalla dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum
Dal canto suo, il presidente del Consiglio, non essendo stato eletto, non ne tiene affatto conto
di Alessandro Pace
Sembrerebbe che le istituzioni parlamentari abbiano dimenticato di essere state delegittimate dalla dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum. Dal canto suo, il presidente del Consiglio, non essendo stato eletto e quindi non essendo personalmente coinvolto dagli effetti della sentenza n.1 del 2014, non ne tiene affatto conto tant’è vero che il ministro per i rapporti col Parlamento ha dichiarato che i programmi del Governo Renzi coprono l’intera legislatura.
Ora è bensì vero che nella sentenza è scritto che l’incostituzionalità delle varie norme del Porcellum «non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto», ma questo non significa che la sentenza non coinvolga la legittimità dell’attuale Parlamento. Se la Consulta, grazie al principio della necessaria continuità delle istituzioni, ha “delimitato” gli effetti “retroattivi” della pronuncia d’incostituzionalità e, quanto al futuro, ha esplicitamente previsto che le Camere elette nel 2013 possano approvare una nuova legge elettorale, non ha però detto che esse possano continuare ad operare come se nulla sia successo. Mi rendo conto che la situazione politica, economica e finanziaria richiede che un governo ci sia, ma questo non significa che l’attuale Parlamento possa far tutto senza limiti modali, di contenuto e di tempo. Tento di spiegarmi meglio con un paio di esempi.
Limiti modali. La Corte costituzionale ha detto chiaramente, nella citata sentenza, che una legge elettorale, per essere costituzionalmente legittima, pur perseguendo l’obiettivo della stabilità e dell’efficienza del Governo, non deve però determinare una compressione della funzione rappresentativa e dell’eguale diritto di voto. Per contro il ddl 1385 attualmente all’esame del Senato prevede un sistema elettorale avente una base proporzionale con una pluralità irrazionale di soglie per l’accesso dei partiti (4,5 per cento, 8 per cento, 12 per cento) che premia le coalizioni senza tener conto dell’apporto dei partiti; prevede un premio di maggioranza che tale non è, essendo la soglia del 37 per cento troppo lontana dal 50,1 per cento (che è il valore cui commisurare la legittimità del “premio”); prevede la possibilità di ciascun candidato di presentarsi fino ad un massimo di otto collegi (un vero e proprio specchietto per gli allocchi); prevede, tra l’altro, un artificioso sistema di trasformazione dei voti in seggi che, essendo effettuato in sede nazionale, fa sì che dei voti espressi in favore di una data lista si gioverà, in definitiva, una lista diversa.
Limiti di contenuto. In un articolo pubblicato su queste pagine all’indomani del comunicato della Consulta che annunciava l’incostituzionalità del Porcellum, scrissi che le attuali Camere, ancorché politicamente delegittimate, ferma restando l’attività di controllo e quella legislativa “ordinaria” politicamente rilevante, avrebbero potuto impegnarsi in talune “necessarie” revisioni costituzionali (come la diminuzione del numero dei parlamentari e la revisione dell’art. 117 Cost. per ciò che riguarda le competenze legislative regionali). Non però le revisioni che avrebbero potuto modificare la forma di governo. Se infatti è discutibile - lo ammetto - che un Parlamento delegittimato possa approvare talune leggi di revisione costituzionale, come io stesso ho scritto (e me ne pento), è però assolutamente inconcepibile che un Parlamento delegittimato possa incidere sulle strutture portanti della nostra democrazia parlamentare. Per contro il Governo Renzi si appresta a presentare un disegno di legge costituzionale che elimina il Senato e lo sostituisce con un’Assemblea delle autonomie, composta da presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, da due membri eletti dai Consigli regionali e da tre sindaci per ogni Regione.
Con ciò non voglio sostenere che il bicameralismo paritario non possa o non debba essere superato. Non però da “questo” Parlamento e in maniera così poco meditata. Non intendo entrare nel merito di tale preannunciata riforma perché ciò significherebbe in qualche modo prenderla sul serio. Ciò non di meno non posso non osservare che se l’obiettivo perseguito dal Governo Renzi è di eliminare dal bilancio dello Stato la spesa costituita dall’indennità dei 315 senatori, sarebbe preferibile ridurre a 100 il numero dei senatori e a 500 il numero dei deputati, ma mantenere l’elezione diretta dei senatori. Quale legittimità democratica, senza l’elezione popolare, avrebbe infatti l’Assemblea delle autonomie per partecipare col suo voto all’approvazione delle leggi di revisione costituzionale? E poi, pur tenendo conto delle attribuzioni assegnate all’Assemblea delle autonomie in materia legislativa dal “nuovo” art. 70 della Costituzione, se è vero che essa dovrà esprimere un mero “parere” su tutti i disegni di legge approvati dalla Camera dei deputati, quanto tempo rimarrebbe ai suoi componenti per svolgere, nel contempo, anche i compiti di presidente regionale, di consigliere regionale e di sindaco? E infine, nel ridurre l’apporto della seconda Camera a mera funzione consultiva, non si dimentica che il bicameralismo “legislativo” ci ha ripetutamente salvati, e non solo nelle ultime legislature, da modifiche esiziali del nostro ordinamento?
Limiti temporali. È assolutamente disdicevole che il Governo Renzi ritenga di poter programmare l’attività del Governo per tutta la legislatura. Non si rende conto che il solo affermarlo implica una violazione del giudicato costituzionale contenuto nella sentenza n. 1 del 2014 e la conseguente menomazione delle attribuzioni costituzionali della Corte costituzionale?
La Stampa 26.3.14
L’esecutivo si sta logorando ma ancora non corre rischi
di Marcello Sorgi
Il governo battuto due volte in commissione affari costituzionali al Senato e successivamente, in aula, salvo per soli tre voti e un astenuto sulle pregiudiziali di costituzionalità, in cui sono mancati ben cinquantaquattro senatori della maggioranza, rispetto a quelli che poco più di un mese fa diedero la fiducia.
Renzi comincia così a fare i conti con una resistenza più insidiosa al piano delle riforme. E se questa è la risposta della maggioranza (all’interno della quale l’ex ministro Mauro ha ostentato la sua assenza per manifestare il suo disaccordo) alla riforma delle province, figurarsi cosa succederà quando nell’aula di Palazzo Madama approderà la trasformazione del Senato (testo ancora in via di definizione proprio in questi giorni), quella del titolo V (rapporti tra Stato e regioni) e quella elettorale, già approvata alla Camera in termini che gran parte dei senatori considerano inaccettabili o addirittura incostituzionali.
Le turbolenze erano nell’aria da giorni e Renzi non a caso ha accelerato lunedì sera il suo ritorno dall’Aja, rinunciando a presenziare alla cena per i capi di Stato e di governo. Il premier ha twittato di buon mattino il corposo elenco dei dossier che si stanno accumulando sul suo tavolo: oltre alle riforme istituzionali c’è tutto il comparto economico, con il Def che dev’essere presentato in Europa entro la metà del mese prossimo.
E oggi Renzi incontrerà i gruppi parlamentari del Pd, per cominciare a rimettere ordine nella maggioranza a partire da casa sua, in attesa di affrontare, venerdì, la direzione del partito, dov’è atteso un riassetto dei vertici che dovrebbe portare a una ricomposizione dei rapporti tra renziani e minoranza interna, e forse a un ritorno di Cuperlo alla presidenza.
Ma anche ammesso che il Pd ritrovi pace, il logoramento mostrato dalla maggioranza di governo nelle prime votazioni al Senato, è inutile nasconderlo, non è un buon segno. Tra problemi a Bruxelles, equilibrio dei conti pubblici interni da ristabilire, spending review e taglio delle tasse per i meno abbienti ancora da definire, attriti con i sindacati e Confindustria, scontro con i dirigenti dello Stato sugli stipendi e nomine nelle aziende a partecipazione statale, in poche settimane il quadro, per il premier, s’è molto complicato. Il comportamento della maggioranza in Senato riflette queste incertezze.
Di qui a dire che il governo corra rischi, però, ce ne corre. Renzi ha sempre in mano la leva delle elezioni anticipate, e anche per questo assenti e franchi tiratori di questi giorni ci penseranno due volte prima di metterlo seriamente in difficoltà.
Repubblica 26.3.14
Renzi dice sì alla “Grande riforma”
Accolte le proposte di Forza Italia. “Serve armonia e velocità”
il premier potrà revocare i ministri tempi certi per le leggi del governo
di Claudio Tito
QUALCUNO già la chiama “Grande riforma”. Perché il progetto che sarà formalmente presentato lunedì non si limiterà solo a rivedere il bicameralismo perfetto.
ENON ridisegnerà soltanto il raggio d’azione delle Regioni con il nuovo Titolo V della Costituzione. In queste ore sta maturando qualcosa di più. E riguarda i poteri di cui è dotato il governo. Con una novità che potrebbe essere rivoluzionaria per gli assetti istituzionali del nostro Paese. Il presidente del consiglio potrà contare su due nuove facoltà: l’esame preferenziale ed accelerato dei suoi disegni di legge e soprattutto la “revoca dei ministri”.
Al treno delle riforme, guidato dalla locomotiva che deve trasformare le competenze dell’aula di Palazzo Madama, sta quindi per essere aggiunto un vagone straordinario. Che, di fatto, è in grado di correggere la forma di governo così come era stata concepita dal 1948 ad oggi. Il presidente del consiglio non sarebbe più un “primus inter pares” ma verrebbe sovraordinato rispetto ai ministri. Una modifica che avvicina il ruolo del capo dell’esecutivo a quello di altri Paesi europei come la Francia o l’Inghilterra.
Questa soluzione è stata avanzata nelle ultime ore da Forza Italia e sottoposta all’attenzione di Matteo Renzi e del ministro competente, Maria Elena Boschi. È stato recapitato attraverso i canali diplomatici che ormai da circa due mesi sono stati attivati tra il segretario del Pd e via del Plebiscito. Lo stato maggiore berlusconiano ha già pronto un emendamento in questo senso. Del resto è un vecchio cavallo di battaglia del Cavaliere. Che nel periodo in cui sedeva a Palazzo Chigi più volte ha lamentato la necessità di affidare al premier la possibilità di ritirare dalla compagine governativa un singolo ministro. Allo stato infatti esistono due soli modi per revocare un membro dell’esecutivo: le dimissioni volontarie o la mozione di sfiducia individuale (come accadde nel 1995 con l’allora Guardasigilli Filippo Mancuso).
Il punto, però, è che la proposta forzista è stata sostanzialmente accolta da Matteo Renzi. «Io sono d’accordo», ha ammesso ieri. La disponibilità di Palazzo Chigi, allora, ha di fatto accelerato l’esame di un emendamento che potenzialmente rivoluziona l’intera Carta costituzionale. Il ragionamento che gli uomini della presidenza del consiglio stanno compiendo in questa fase è piuttosto netto: «Per governare efficacemente nel XXI secolo serve soprattutto velocità. Approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra». La revoca dei ministri disposta dal presidente del consiglio garantirebbe una delle due esigenze. La seconda è contenuta nell’articolo 72 dell’attuale bozza di riforma: «Il governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione finale entro 60 giorni ». Una vera e propria “ghigliottina”, già prevista in forma più blanda nei regolamenti di Camera e Senato (a Montecitorio è stata utilizzata solo una volta a gennaio scorso sul decreto Imu-Bankitalia) ed ora potenziata conuna disposizione costituzionale.
Nella bozza circolata ieri, non era stata ancora inserita la modifica concernente la revoca dei ministri. Non è stato fatto perché stasera Renzi ha un appuntamento piuttosto delicato: l’assemblea congiunta dei gruppi Pd. In quella sede il premier dovrà provare a convincere i deputati e i senatori della necessità di impegnarsi sull’intero pacchetto di misure. E i due nodi che solleveranno dubbi e perplessità saranno proprio il rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio e la “riduzione” del Senato. Il segretario democratico dovrà persuadere i Gruppi in vista anche della direzione del partito convocata sullo stesso tema per venerdì. Ma dovrà mettere nel conto che una parte dei democratici e della sua stessa coalizione di governo, non accetterà di dare senza battaglia il via libera. «Al Senato - fa ad esempio notare il lettiano Francesco Russo - forse non c’è quella maggioranza di governo che alla Camera danno tutti per scontata. Le riforme si fanno solo bipartisan». Del resto qualche minaccia è stata già ieri ventilata in occasione delle votazioni sull’abolizione delle province. E l’ex ministro Mario Mauro, ex Scelta civica ed ora Popolare per l’Italia, con un sorriso ironico ieri diceva: «Dite che mi sto vendicando perché mi ha fatto fuori dal governo? Mi sorprende che lo pensiate...».
Renzi sembra comunque intenzionato a tirare dritto. «Noi - ripete - facciamo sul serio perché vogliamo trasformare il Paese. Abolire le province, abbandonare il bicameralismo perfetto e governare davvero». Il suo obiettivo però resta quello di fare rapidamente: «Lunedì vogliamo essere pronti».
Forse anche per stemperare il clima sono state accolte alcune modifiche che riassegnano al Senato una serie di poteri configurandolo come Camera Alta. Potrà ad esempio chiedere di correggere le leggi riguardanti gli enti locali, quelle sui sistemi elettorali e sulla cosiddetta clausola di salvaguardia che permette allo Stato di legiferare oltre propri limiti su materie spettanti alle regioni.
Il capo del governo, però, con ogni probabilità dovrà persuadere anche il Quirinale. I poteri sulla nomina dei ministri, infatti, per il momento spettano solo al presidente della Repubblica: «Il Presidente della Repubblica - recita l’articolo 92 della Costituzione - nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Nessun cenno alla revoca. Ma affidare questa possibilità al premier equivale a ridimensionare il peso del capo dello Stato sulla formazione dell’esecutivo.
Insomma gli ostacoli non mancano. Ma la battaglia per la “Grande riforma” è dunque iniziata.
l’Unità 26.3.14
Renzi Stasera il confronto con i gruppi Pd di Camera e Senato
Stasera Renzi alle 21.30 incontrerà i gruppi Pd di Camera e Senato e chiederà ai parlamentari di discutere del testo base, confrontarsi, ma alla fine il partito dovrà rispettare gli impegni presi anche con l’opposizione, quel pacchetto «tutto compreso» siglato da Renzi e Berlusconi e al quale è arrivato l’ok sul ddl unico da parte di Denis Verdini
Questa mattina sarà in una scuola di Scalea, come ha promesso di fare ogni mercoledì
Dall’articolo di Maria Zegarelli
Il Sole 26.3.14
Riforme, un cammino possibile ma in salita
di Stefano Folli
qui
il Fatto 26.3.14
Potere e amicizie
L’impero renziano dal padre all’inseparabile Carrai
di Davide Vecchi
Altro che cerchi magici di Umberto Bossi prima e di Silvio Berlusconi ora, attorno a Matteo Renzi c’è una famiglia allargata. Divisa in più rami. Ciascuno con incarichi, nomine, partecipazioni che rimandano comunque al premier di Rignano. C’è la famiglia naturale, quella dell’amico fraterno Marco Carrai e quella dei fidatissimi. Ognuno porta poi con sé gli affetti più cari. Mariti, fidanzate, fratelli. Un albero genealogico che dalla provincia di Firenze ora distende i rami nel Pd e nel del governo.
LA FAMIGLIA. L’unico contratto di lavoro della sua vita Matteo Renzi l’ha ottenuto dal padre Tiziano che nel 2003, il giorno prima della candidatura alla Provincia, lo ha assunto come dirigente nella Chil srl, azienda di famiglia. Chiusa nell’ottobre 2010, il padre lo riassume, sempre come dirigente, nella nuova società: Eventi6. Qui siedono la madre, Laura Bovoli, e le due sorelle, Matilde e Benedetta. Tra i soci entra anche Andrea Conticini, marito di Matilde. Quest’ultima ora è impegnata ad amministrare l’azienda mentre la sorella Benedetta è stata indicata come assessore alla cultura del Comune dove vive: Castenaso, nel bolognese. Il sindaco democratico Stefano Sermenghi ha garantito che la scelta “non è dipesa dal cognome che porta”. Ma certo, un assessore in casa Renzi può essere utile. Il cognato, Andrea Conticini è, oltre che socio della famiglia, anche agente della DotMedia, società privata che gestisce il sito dell’azienda di Alessandro Dini, proprietario dell’ormai nota casa di via degli Alfani 8 (pagata da Marco Carrai per l’amico Matteo che qui ha risieduto per tre anni). Tra i soci della DotMedia figura anche Alessandro Conticini. DotMedia ha ricevuto fondi da Palazzo Vecchio, ha lavorato per Firenze Parcheggi (presieduta da Carrai), per Publiacqua (nel cda siedeva Maria Elena Boschi) e ha curato, tra l’altro, la comunicazione delle due convention alla Leopolda e la campagna elettorale alle primarie del 2012 dell’allora sindaco.
L'AMICO FRATERNO, Marco Carrai. Crea e cura dal 2007 le associazioni e le fondazioni che finanziano l’ascesa politica del fu rottamatore. Festina Lenta, Noi Link, Big Bang, Open: 4 milioni di euro . Ha ottimi contatti internazionali. Che mette a disposizione del premier. Da Davide Serra del fondo Algebris a Michael Ledeen, consulente per Cia, Sismi e governo Reagan. Renzi e Carrai si conoscono nel 96. Non si dividono più. Carrai guida Firenze Parcheggi prima e ora Adf (aeroporti di Firenze). Siede anche nell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze che destina 10 milioni di euro al fondo Algebris di Serra che a sua volta finanzia la campagna di Renzi. Marco con sé “porta” il fratello Matteo Carrai che, attraverso la società edile Carim Sas, nel 2013 realizza i lavori al negozio fiorentino di Eataly dell’altro amico Oscar Farinetti. Infine la compagna, nonché futura moglie, la 26enne Francesca Campana Comparini: a lei il Comune di Firenze ha affidato la mostra Pollock e Michelangelo. E la fidanzata garantisce: “La merito”.
I FIDATISSIMI. Il viaggio da Firenze a Roma è stato improvviso, ma il vagone s’è riempito al volo. Francesco Bonifazi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti sono quelli che spiccano tra i fidatissimi del premier. Bonifazi, oggi tesoriere nazionale del Pd, è l’artefice dell’incontro tra Renzi e Boschi: lei era una praticante dello studio legale in cui lavorava Bonifazi. L’attuale ministro per le Riforme, dopo l’esperienza dal 2009 in Publiacqua, è dallo scorso dicembre ora segretario della fondazione Open. Con lei ha fatto il suo ingresso nella cassaforte renziana anche Lotti. Sottosegretario del consiglio con delega all’editoria, Lotti, come Bonifazi, è anche consigliere comunale. E a Palazzo Vecchio ha lasciato gli affetti. La moglie, Cristina Mordini, è impiegata nella segreteria del sindaco.
Non è invece voluto andare nella Capitale l’altro fidatissimo di Renzi: Alberto Bianchi, suo avvocato e braccio destro di Carrai nella raccolta fondi. Presidente della Big Bang prima e della Open poi, Bianchi ha presentato a Renzi il fratello Francesco Bianchi che è stato nominato commissario straordinario del Maggio Musicale Fiorentino. Ex consigliere del cda di Bpm, cresciuto tra Jp Morgan e Citibank, Francesco s’è fatto carico di risanare i conti del Maggio a cui Renzi tiene molto. Gli amici del resto servono a questo.
l’Unità 26.3.14
Prepensionamenti e «una sana mobilità volontaria»
La ministra Madia avanza l’idea per gli esuberi nella pubblica amministrazione, ma non cerca il tavolo coi sindacati: «C’è poco tempo»
Il segretario generale della Fp-Cgil, Rossana Dettori: «Non ci dica che non c’è tempo per confrontarsi sulla riforma della pubblica amministrazione. È una posizione paternalistica che stride con la sua giovane età. Per altro una posizione fortemente sbagliata. I processi virtuosi si governano con il consenso, soprattutto con quello dei lavoratori, non con provvedimenti calati dall'alto»
«Madia farebbe bene umilmente ad adoperare il suo compito nell'interesse generale anzichè della chiacchiera generale». «Non credo che un ministro intelligente come Marianna Madia, che ci ha chiesto di aiutarla nel difficile compito di riorganizzare e innovare le amministrazioni pubbliche, non trovi l'interesse e il tempo di farlo insieme ai lavoratori e professionisti della Pa»
Dall’articolo di Massimo Franchi
il Fatto 26.2.14
Madia pre-pensiona ma senza i sindacati
Nessuna concertazione, per la Ministra “Non c’è tempo”
Intanto annuncia: “Saranno 85mila gli esuberi nel pubblico impiego”
Sulle dimissione in bianco la maggioranza è variabile con Fi e Sel
di Salvatore Cannavò
Sul lavoro il governo Renzi intende proseguire sulla strada tracciata. Compresa l’ipotesi di uno scontro con il sindacato. Anche se, in questo caso, il problema non è il merito dei provvedimenti ma la mancanza di concertazione.
La ministra Marianna Madia ha spiegato ieri cosa intende fare nella Pubblica amministrazione rilanciando una proposta che il mondo sindacale ha sempre richiesto: aprire le porte del pre-pensionamento per gli 85 mila esuberi del pubblico impiego in modo da lasciare maggior spazio al reclutamento di personale giovane. Una proposta che ha visto il via libera di Cgil, Cisl e Uil i quali, però, non hanno apprezzato, nelle parole della ministra, la volontà di non essere invitati a nessun tavolo di confronto e di concertazione. Esiste “una gara tra ministri” per evitare una discussione con il sindacato, chiosa con rammarico il segretario della Cgil, Susanna Ca-musso. Mentre quello della Cisl, Raffaele Bonanni, sceglie il dileggio accusando Madia di fare solo “chiacchiera generale”. Il paradosso è che la posizione inflessibile del governo potrebbe obbligare i sindacati, loro malgrado, a scegliere una strada più tradizionale. È stato lo stesso Bonanni, infatti, ad annunciare che, visto che il governo non vuole confronti, il suo sindacato si rivolgerà direttamente alla “gente”. E, parlando al congresso Cgil dell’Emilia Romagna, Camusso ha rispolverato un classico approccio “contrattuale” invitando la propria organizzazione a ricostruire “quel rapporto di forza dove l’abbiamo perso”.
IL GOVERNO, approfittando di queste incertezze, prosegue però spedito anche se la proposta di Madia dovrà tradursi in atti concreti e precisare i costi. È vero che trasferire dipendenti pubblici all’Inps per lo Stato rappresenta una partita di giro vantaggiosa visto che le pensioni sono più basse degli stipendi. Se poi ai prepensionamenti non corrispondono nuove assunzioni, il saldo può essere addirittura positivo. Se i pensionati, invece, dovessero essere sostituiti dagli attuali precari, il costo potrebbe essere davvero minimo. Il problema si chiarirà quando, dalle parole, si passerà ad atti ufficiali. Contestualmente, la ministra assicura di aver già firmato una circolare in cui si ribadisce il tetto agli stipendi dei dirigenti della Pubblica amministrazione “tarato su quello del primo presidente della Corte di Cassazione”, circa 300 mila euro e comprensivo di “tutti i trattamenti pensionistici compresi i vitalizi”. Un proposito già avanzato altre volte ma finora mai riuscito. In giornata, sul fronte del lavoro , si è avuta anche l’audizione del ministro Poletti in commissione alla Camera dove il governo ha registrato i dubbi, oltre che di Sel e M5S, anche di quella parte del Pd, rappresentata da Cesare Damiano. Ma dove, comunque, è stato ribadito da Poletti che “discutere con i sindacati è nell’ordine delle cose ma il governo decide”.
LA VERA discussione è avvenuta però nell’aula di Montecitorio dove Renzi ha potuto saggiare una stranissima maggioranza variabile. Sul provvedimento delle dimissioni in banco, infatti, il governo ha avuto i voti favorevoli di Pd, Scelta Civica, Sel e Forza Italia e quelli contrari di M5S e dell’alleato Ncd. La nuova legge modifica le norme della Fornero, in particolare la convalida presso le Direzioni territoriali del lavoro, introducendo i moduli telematici forniti di numero e data prefissato per evitare eventuali raggiri. A contrastare seriamente la norma, però, è stato solo il Movimento Cinque Stelle: “È l’ennesima mossa propagandistica che non risolverà nulla” dice al Fatto la deputata Gessica Rostellato. Anche perché, aggiunge, “è stata eliminata quella piccola difesa costituita dalla convalida”. Ma, conclude, “li abbiamo visti con i nostri occhi mentre concordavano gli emendamenti con gli uomini di Confindustria”.
l’Unità 26.3.14
Camusso: la politica non ci parla dobbiamo diventare un partito?
La leader Cgil critica i ministri: «Fanno a gara per evitare il confronto»
Sulla riforma Pa: «Solo tagli lineari, dov’è il progetto?»
Cisl-Uil d’accordo: «Andremo a parlare con operai e pensionati»
di Andrea Bonzi
Il sindacato confederale è «sotto attacco ». I ministri del governo Renzi «fanno a gara per non discutere con noi, al massimo sono pronti ad accettare dei consigli». In questo contesto la Cgil deve reagire, tracciando nuove coordinate entro le quali muoversi: «Siamo considerati un ostacolo da rimuovere. Cosa intendiamo fare? Attendiamo? Oppure pensiamo che siccome c’è un primato, non so quanto forte, della rappresentanza politica, ci trasformiamo in un partito?». Se lo chiede provocatoriamente Susanna Camusso, leader della Cgil, che arringa dal palco i quasi 700 delegati riuniti al congresso emiliano-romagnolo del sindacato.
TENSIONE ALTA CON L’ESECUTIVO
Da giorni è alta la tensione tra l’esecutivo e i confederali: tra i principali motivi di attrito, il decreto Lavoro (con i nuovi contratti a termine) e la spending review che riguarda la Pubblica amministrazione. «Siamo considerati un ostacolo da rimuovere - incalza Camusso -, perché si pensa che la rappresentanza sociale interferisca nel rapporto diretto con il cittadino, e che lo scambio deve passare dal consenso». Nel giorno in cui viene annunciato il piano prepensionamenti, la segretaria Cgil affonda il colpo, rivolgendosi direttamente al ministro Marianna Madia, ultima ad aver dichiarato che, visti «i tempi stretti», il confronto con le sigle potrebbe anche essere evitato («Non è detto che ci saranno dei tavoli con le parti sociali», sono le sue parole).
La leader della Cgil, dal canto suo, è convinta che il sindacato «possa sfidare questo governo sulla riforma della Pubblica amministrazione», ma chiede chiarezza sul progetto: «Se il problema è il numero di dipendenti da espellere, non si sta parlando della riforma della Pubblica amministrazione, ma di un altro taglio lineare». In pratica, suggerisce Camusso, si usano le forbici sul settore pubblico, «come sulle pensioni, per tenere insieme un Paese sul quale non vai poi a fare modifiche profonde». Detto ciò «non abbiamo mai dichiarato di non essere disponibili a discutere processi di riorganizzazione, mobilità e riqualificazione di certi servizi rispetto ad altri», ma il ragionamento deve partire «dall’idea che quei servizi devi continuare ad erogarli», insiste.
Anche sulla scelta dei dirigenti nelle aziende a partecipazione statale, Camusso teme «che diventi una gigantesca campagna di nomine della politica. L’abbiamo già sperimentata, succede in tutta la Sanità dove tanta parte degli incarichi non avviene in ragione delle competenze e degli obiettivi, ma dell’appartenenza di chi governa ». C’è spazio anche per l’autocritica nel lungo intervento di Camusso. Sulla riforma Fornero delle pensioni «c’è un orientamento forte di lavoratori e pensionati sul fatto che noi non abbiamo fatto tutto ciò che era necessario: è vero, non c’è dubbio. Per noi è stata una sconfitta. Ma ora dobbiamo ripartire e costruire nuove alleanze per cambiare quella norma», chiude.
FRONTE COMUNE CON CISL E UIL
Ben deciso a far farsi sentire con l’esecutivo è anche Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, che la rassicura la collega: «Camusso non si preoccupi. Più che parlare con i vari ministri, noi andremo a parlare con la gente, con i lavoratori e i pensionati, spiegando quello che di positivo farà il governo Renzi, ma anche le cose negative, che non vanno affatto bene». Bonanni ribalta l’uscita di qualche giorno fa del premier Matteo Renzi: «Non vuole confrontarsi con noi? Ce ne faremo una ragione, senza strapparci le vesti. Faremo il nostro mestiere, orientando con le nostre opinioni il giudizio di lavoratori e pensionati sulle scelte di questo governo». Infine, un commento durissimo sulle dichiarazioni della ministra Madia, che viene invitata a fare meno «chiacchiere » e a lavorare «nell’interesse generale ».
Promette battaglia anche Antonio Foccillo, segretario conferedale Uil: «Le riforme della Pa, ogni volta che sono proposte senza il coinvolgimento dei lavoratori o di chi li rappresenta, si sono sempre rivelate fallimentari ». Gli obiettivi da perseguire, ovvero «il cambiamento, una maggiore efficienza e la valorizzazio
l’Unità 26.3.14
Guglielmo Epifani: «Il decreto lavoro non va. Prima il contratto unico»
«Con i sindacati bisogna confrontarsi, il dialogo sociale è un caposaldo del programma del Pse Sui prepensionamenti serve chiarezza: si fanno solo nel pubblico?»
«Nel Pd bisogna rivedere lo statuto e chiarire quando vanno convocate le primarie e quando no»
intervista di Andrea Carugati
La velocità del governo sulle riforme rischia di comprimere eccessivamente la concertazione con le parti sociali?
«Il tema della velocità nell’azione di governo risponde a diverse esigenze, tra queste la principale sono le attese e i problemi del Paese», risponde Guglielmo Epifani, deputato Pd, presidente della Commissione Attività produttive della Camera ed ex segretario del partito e della Cgil. «Il problema dunque non è la velocità ma cosa si sacrifica sul terreno della costruzione del consenso democratico».
Ritiene che il governo Renzi stia sacrificando troppo i sindacati?
«Innanzi tutto vorrei capire bene, quando sento le critiche, a cosa ci si riferisce. Le ultime vere forme di concertazione sono finite con il primo governo Prodi e l’ingresso nella moneta unica. Da allora i governi di centrodestra hanno fatto tutto il contrario, Berlusconi non convocava mai la Cgil e neppure i governi tecnici hanno mai avuto un’idea forte di concertazione. Credo che il governo debba mantenere un profilo di dialogo, e in fondo è quello che si sta facendo con Anci e Regioni. Lo stesso andrebbe fatto con chi rappresenta lavoro e impresa. Poi è ovvio che il governo ha la responsabilità della scelta finale. Del resto, nel programma del Pse il dialogo sociale è uno dei capisaldi. Il presidente Obama ha detto che senza i sindacati l’America sarebbe più povera e anche meno democratica. Lo stesso vale per l’Italia. Se l’Italia ha superato la crisi senza gravi tensioni sociali, che pure ci sono state in Spagna, questo si deve anche alla responsabilità del sindacato».
Ritiene che il governo tema di trovare nei sindacati un freno più che uno stimolo alle riforme?
«Lo si vedrà sulle singole questioni. Quando c’è un intervento di riduzione fiscale per i lavoratori a reddito più basso non manca il sostegno dei sindacati. Anche sulla riforma della Pubblica amministrazione io penso che ci sarà una disponibilità. Possono esserci anche valutazioni diverse su singoli temi, ma questa è la fisiologia di un dialogo. Non ha senso parlare di veti che nessuno vuole mettere».
Nel merito lei come valuta il decreto del governo sui contratti a tempo determinato e apprendistato? C’è il rischio che si crei maggiore precarietà?
«I dati cidiconocheil68%degliavviamenti al lavoro ha una caratteristica precaria e che la riforma Fornero non ha funzionato. L’obiezione che muovo al decreto è che per affrontare in modo logico una riforma bisognerebbe partire dal Jobs act, e cioè da un contratto di inserimento valido per tutti, in cui i lavoratori dopo un periodo di prova allungata hanno pienezza di diritti. Questo è uno strumento in grado di abbattere la precarietà. Se si parte solo dal contratto a tempo determinato, il risultato è creare condizioni vantaggiose per le imprese e negative per i lavoratori. Non si è ancora visto un tempo determinato senza causali, tre anni è un periodo lungo e otto proroghe sono eccessive. Se il decreto si approvasse cosi com’è, dunque, finirebbe per essere preclusa la convenienza a fare la riforma del contratto unico di inserimento.Equel68%di precari potrebbe addirittura aumentare. Per questo bisogna invertire l’ordine dei provvedimenti».
Perché non si è seguita questa strada che pure Renzi aveva indicato?
«Non riesco a comprenderlo. In fondo, del contratto unico di inserimento si parla da anni e trova un larghissimo consenso nel Paese».
Cosa pensa della proposta del ministro Madia di prepensionamenti nella Pa?
«Ogni anno si sa quanti lavoratori pubblici vanno in pensione. Se si vuole fare un’operazione utile, bisogna programmare un numero di assunzioni proporzionale alle uscite, in particolare nella scuola e nella sanità. Quanto ai prepensionamenti serve chiarezza: si fanno solo nel pubblico e non nel privato? Bisognerebbe tornare a ragionare sulla flessibilità in uscita. Perché in un mondo che si vuole flessibile l’unica cosa rigidissima deve essere l’innalzamento per tutti dell’età pensionabile? ».
Vuole rivedere la riforma Fornero per rendere meno rigida l’età pensionabile?
«Certamente. Nel pubblico può servire anche a rinnovare, dando spazio a molti più giovani. Credo però che serva un ragionamento più ampio su questo tema. Se lo si fa nel pubblico si riapre anche il tema di alcuni settori del privato dove è assai duro lavorare fino a 67 anni». La manovra economica di Renzi la convince?
«Sì, e non capisco le obiezioni di Confindustria. In poco più di un anno, se tutto va in porto, il mondo del lavoro e dell’impresa potranno contare su sgravi per 17 miliardi, compresi anche i 3 miliardi per il cuneo decisi dal governo Letta. Unitamente al rimborso dei crediti delle imprese con la Pa, danno uno stimolo forte alla domanda ».
Sul fiscal compact ritiene che il premier faccia bene a chiedere delle modifiche?
«Renzi ha posto con forza il problema in Europa, ha seminato. Dopo le elezioni europee, con la nuova Commissione, sarà il momento di raccogliere i frutti. Non è un problema solo italiano. Se non c’è più attenzione alla crescita e più flessibilità sul fiscal compact, il meccanismo europeo rischia di incepparsi. Dalle urne arriverà un rafforzamento delle spinte antieuropee. Dopo l’Europa dovrà necessariamente cambiare per poter andare avanti».
Insieme ad altri lei ha sollevato il tema di come gestire il Pd mentre il leader è a palazzo Chigi.
«Il partito in effetti è rimasto un po’ sguarnito. Dobbiamo discutere in modo approfondito di quale partito vogliamo. Credo che serva un Pd che da una parte sostenga il governo e dall’altra mantenga un’autonomia di proposta e una forte presenza nella società. Bisogna mettere un po’ d’ordine nel tesseramento, ritrovare un collegamento forte coni circoli, recuperare capacità di elaborazione e prepararci a una importante tornata amministrativa. Se saremo tutti d’accordo sul profilo del partito, credo che sia necessaria una gestione unitaria. Perché la sfida che abbiamo davanti come governo e come Pd richiede che tutti si lavori nella stessa direzione. Senza cancellare le differenze. E si potrebbe anche mettere mano insieme alle parti dello statuto che non funzionano».
A cosa si riferisce in particolare?
«Penso ad esempio all’uso delle primarie, che oggi si fanno a macchia di leopardo. Questa decisione non può essere lasciata al caso, serve una registrata. È un tema decisivo dell’identità del Pd».
l’Unità 26.3.14
Quelli che fanno a meno dei sindacati confederali
Vanno di moda quelli che attaccano i sindacati, che giudicano inutili o fastidiose le organizzazioni di rappresentanza sociale, alimentando i populismi
Nella Germania di Merkel nessun ministro
si sognerebbe di prendere a schiaffi la Dgb
di Bruno Ugolini
Conviene davvero infierire sul sindacato confederale, considerarlo una specie di ente inutile? Magari per lasciar spazio a tutti i possibili movimenti protestari, ai tanti nipotini di Le Pen e compagnia? E una domanda che dovrebbero porsi in molti, nella politica e nella società italiana.
Non parliamo solo del presidente del Consiglio o dei ministri che, come dice Susanna Camusso, vanno a gara ormai nel lanciare i loro polemici strali, affermando la volontà e necessità di non trattare con il sindacato scelte che investono direttamente il mondo del lavoro. Un pensiero che sta diventando dominante, supportato dai mass media e che rischia di diventare senso comune. E così si applaude, anche in popolari appuntamenti televisivi, al «coraggio» antisindacale. Come se ci trovassimo di fronte a governanti mascherati come novelli Reagan o novelle Tatcher, alle prese con assatanati controllori di volo o minatori inferociti. E facendo così apparire la Camusso, ma anche Bonanni e Angeletti, come gli eredi naturali di Arthur Scargill, lo sconfitto sindacalista inglese, capo, appunto dei minatori, molti anni or sono.
Certo tali atteggiamenti sono incoraggiati dalle difficoltà di organizzazioni alle prese con una crisi che uccide i posti di lavoro, con la nascita di un esercito di precari, con problemi irrisolti di democrazia interna e di rappresentanza estesa. Sarebbe necessario aiutare il sindacato nei suoi sforzi di cambiamento e rinnovamento che pure ci sono e basterebbe frequentare i congressi della Cgil in corso da settimane per capirlo.
Invece s’insiste nel prendere le distanze da Cgil-Cisl-Uil e si finisce con indebolire ancor più le Confederazioni, costringendole a far quadrato e a dimenticare ogni necessaria correzione. Mentre si teorizza l’autonomia assoluta del politico, inseguendo paradossalmente il pensiero degli «operaisti» del secolo scorso, facendo pensare che per contare l’organizzazione dei lavoratori dovrebbe trasformarsi (a questo ha alluso sempre ieri Susanna Camusso) in un Partito politico (a dire il vero con circa 6 milioni di iscritti e non sarebbero pochini).
Questo anche perché in questa crociata tesa ad annullare il ruolo dei cosiddetti «soggetti intermedi», per far posto a un rapporto diretto tra leader e popolo, nessuno vuol riconoscere quel che Bruno Trentin teorizzava. Ovverosia il rinnovamento di un sindacato che intendeva uscire dalle secche del semplice corporativismo, fatto solo di contratti e salari, per divenire nuovo soggetto politico non partitico. Capace di incidere, anche senza seguire i canoni della concertazione che pure ha dato i suoi risultati negli anni novanta, su scelte che pesano sulla condizione di chi lavora, più di un contratto. Come fisco, pensioni, mercato del lavoro. Il parere di chi è coinvolto ogni giorno in tali questioni può essere di una qualche utilità. Nessuno ha imparato nulla dagli errori sul calcolo degli esodati, da un’affrettata riforma delle pensioni? Oppure erano errori voluti da chi ignora la necessità del consenso (e poi, come ha registrato Mario Monti, ne paga le conseguenze).
Ora sarebbe necessario far marcia indietro. Questo Paese ha bisogno di coesione sociale, di slancio e impegno comune, di fiducia anche in possibili, necessari sacrifici. Come quelli che sono richiesti in queste ore al pubblico impiego.
I precedenti governi puntavano sulla divisione sindacale, ora è la volta dell’indifferenza se non dello sbeffeggiamento nei confronti di tutti i sindacati. Perlomeno bisognerebbe rispettare, fra i tanti moniti per i quali si chiede severa obbedienza, anche quello che impone l’obbligo europeo del «dialogo sociale». Signora Merkel spieghi lei che nessun ministro in Germania prenderebbe a pesci in faccia la Dgb.
l’Unità 26.3.14
Confronto a sinistra, ripartiamo dal lavoro
di Nicola Fratoianni
Coordinatore nazionale di Sel
LA GRANDE MARCIA DI GOVERNO DI RENZI SI MUOVE VELOCE, TOCCA CON ABILITÀ COMUNICATIVA OGNI PUNTO DELLA TASTIERA, MA NEI FATTI che contano comincia con un passo sbagliato. Un passo sbagliato proprio sul nodo attorno a cui misurare il cambiamento, quello da cui si può capire se siamo a un cambio di rotta o se invece, semplicemente, si corre laddove prima si camminava, ma sempre nella stessa direzione. Il passo sbagliato è quello sul lavoro. Il decreto sui contratti a termine e l’apprendistato, si pone in stretta continuità coi provvedimenti del governo Monti e li peggiora. Su questo terreno i lavoratori, in specie i giovani e le donne, hanno conosciuto in questi anni solo arretramenti e il centrosinistra ha già pagato, sul piano politico ed elettorale, un prezzo salato di credibilità. Prevedere un lavoro a termine senza causale, prorogabile per ben otto volte in tre anni e senza garanzia di assunzione, svilendo per di più la formazione nell’apprendistato, altro non vuol dire che tramutare la flessibilità in precarietà. E come abbiamo visto in questi decenni ogni forma di precarietà nel lavoro diviene in fretta precarietà esistenziale nella vita delle persone. Questo è successo finora e questo continuerà a succedere con il decreto del governo. La flessibilità non crea occupazione, né aumenta la produttività. Oltre che umiliare il lavoro abbassa la stessa qualità produttiva dell’impresa.
Ci muoveremo in Parlamento per cambiare alla radice il decreto partendo da un’altra logica. Quando parliamo di lavoro, e lo facciamo in un Paese ormai primo in Europa per disoccupazione giovanile e con squilibri insostenibili tra nord e sud, il punto da cui partire è come far crescere la domanda di lavoro. Il passo giusto che il governo avrebbe dovuto compiere è qui. Quando parliamo di lavoro - del valore e della dignità, della quantità e della qualità - dobbiamo aver chiaro che il nodo non sta prima di tutto sul terreno delle regole e neppure su quello dell’economia. Il terreno su cui si vince o si perde la sfida globale sul lavoro si gioca tutto sulla politica. Se non si parte dalla politica, cioè se non parte l’Europa politica, nessuna forma economica sia pure di segno diverso dalla ricetta fallimentare dell’austerità segnerà l’inversione di rotta. È la cruda lezione della crisi a dircelo. Ci potrà essere crescita - e vorrei dire crescita sostenibile, crescita di qualità nuova attraverso una riconversione ecologica della produzione e del consumo - se il lavoro torna a essere centrale in tutta Europa. Se misuro la distanza tra questa dimensione della sfida e il continuismo con le politiche fallimentari del passato che il decreto del governo fa proprie, colgo il valore e la potenzialità delle critiche di merito che ad esso viene mosso da diversi esponenti del Pd come Fassina, Civati, Damiano. È qualcosa che mi interessa, di più: che ci riguarda, lontani e distanti come siamo da ogni facile tatticismo. Ci interessa e ci riguarda sia per cambiare di segno al decreto in Parlamento, sia per costruire in prospettiva uno spazio di confronto sui contenuti del cambiamento del Paese, proprio a partire dalle politiche del lavoro. Noi siamo convinti che un confronto a sinistra sull’Italia è sempre di più un confronto sull’idea stessa di Europa, sulla via d’uscita così urgente e necessaria, così matura, tra una realtà politica prigioniera dell’ipoteca di grosse coalizioni ispirate a pratiche di governo liberiste e populismi antieuropeisti che prefigurano il ritorno alle anguste frontiere degli stati nazionali.
C’è qui uno spazio comune possibile, praticabile a partire dal merito, dai contenuti - il lavoro in primo luogo - di quell’Europa politica che è la risposta vera tanto all’immobilismo di gran parte degli attuali governi di fronte alla crisi, quanto dei venti di disgregazione dell’idea comunitaria che soffiano minacciosi a ridosso delle elezioni. Ne ha parlato bene Chiara Ingrao auspicando a sinistra un confronto «paritario e sereno» sull’idea di Europa. Lo stesso ha fatto Gianni Cuperlo proponendo una convenzione della sinistra. Condivido in pieno l’esigenza immediata di un confronto, come l’appello rivolto agli elettori del Pd affinché, nel rispetto della loro autonomia e differenza nell’espressione del voto, forniscano un sostegno per la raccolta di firme alla lista L’altra Europa con Tsipras. Ne trarrebbe vantaggio la democrazia e ci si misurerebbe, a sinistra, sugli argomenti e non sugli sbarramenti, viene giustamente detto. Noi, da parte nostra, avvertiamo il valore di un confronto e di un incontro che nella trasparenza e differenza delle idee e delle proposte assuma in sé il bisogno di una prospettiva da costruire dentro l’orizzonte di una nuova e diversa Europa. Per quanto la strada sia difficile, siamo pronti ad iniziare il cammino.
il Fatto 26.3.14
Bagnasco ordina al ministro: “Via quel libretto da scuola”
“Distruggono la famiglia. Al rogo i libretti del diavolo
Il presidente dei vescovi italiani chiede ai politici di mettere al bando i nuovi libri di testo per le elementari e le medie voluti dai governi Monti e Letta per combattere l’omofobia
di Valerio Cattano
Allarme, la scuola italiana apre alla “dittatura di genere”. In altri termini alla normalizzazione dell’omosessualità. La “colpa” è di tre volumetti dal titolo Educare alla diversità a scuola destinati alle primarie e secondarie di secondo grado. Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, sulle pagine di Avvenire non usa mezzi termini: la scuola pubblica sta diventando un immenso campo di rieducazione perché quei libretti “instillano preconcetti contro la famiglia e la fede religiosa”. Un monito indirizzato forte e chiaro al governo Renzi e al ministro competente.
Di cosa si tratta? I volumi sono stati autorizzati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri (Dipartimento per le Pari opportunità) all’epoca del governo Monti e dall’allora ministro del Lavoro con delega alle Pari opportunità, Elsa Fornero. Il governo di Enrico Letta ha dato seguito nell’ambito delle nuove strategie nazionali anti omofobia. A curare le pubblicazioni l’Unar, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. La realizzazione è dell’istituto Beck.
LE TEMATICHE si sviluppano in cinque schede che trattano le “linee-guida per un insegnamento più accogliente e rispettoso delle differenze” attraverso altrettanti capitoli: le componenti dell’identità sessuale; omofobia: definizione, origini e mantenimento; omofobia interiorizzata: definizione e conseguenze fisiche e psicologiche; bullismo omofobico: come riconoscerlo e intervenire; adolescenza e omosessualità. Si legge che non basta più “Essere gay friendly (amichevoli nei confronti di gay e lesbiche), ma è necessario essere gay informed (informati sulle tematiche gay e lesbiche). Lo scopo è avere un manuale contro il bullismo che si accanisce contro i “diversi” tanto che a pagina 18 c’è un vero e proprio manifesto scolastico contro il bullismo. “Bisogna che l’insegnante riveda la scheda sul bullismo. È importante, inoltre, che l’insegnante sia molto chiaro e deciso nello spiegare ai suoi studenti i seguenti punti: la scuola non tollera questo tipo di comportamenti. Il bullismo è sbagliato. Prendere in giro, minacciare, picchiare qualcuno, farlo sentire escluso, perché è grasso, perché è un “secchione”, perché è diverso da noi, perché pensiamo che sia omosessuale, è sbagliato. Ognuno ha diritto di essere com’è, ognuno ha qualcosa da insegnarci. Quanto più qualcuno è diverso da noi, tanto più ha da insegnarci. Essere bulli non è “figo”, è stupido”.
C’È POI UNO SPAZIO con le domande frequenti (faq) dove si risponde in modo schematico ai quesiti sulla sessualità. “I rapporti sessuali omosessuali sono naturali? Sì. Il sesso tra le persone dello stesso sesso è presente in tutta la storia dell’umanità, sin dall’antica Grecia. Inoltre, molti eterosessuali possono avere sporadiche fantasie omosessuali, così come molti omosessuali possono avere sporadiche fantasie eterosessuali. Un pregiudizio diffuso nei paesi di natura fortemente religiosa è che il sesso vada fatto solo per avere bambini. Di conseguenza tutte le altre forme di sesso, non finalizzate alla procreazione, sono da ritenersi sbagliate. Un altro pregiudizio è che con l’omosessualità si estinguerebbe la società. In realtà, come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la sessualità è un’espressione fondamentale dell’essere umano. L’unica cosa che conta è il rispetto reciproco dei partner. Quindi potremmo ribaltare la domanda chiedendoci: “i rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?”. Qui si arriva al terreno di scontro con la Cei, perché sono questi e altri passaggi che hanno fatto fare un salto sulla sedia al cardinale Bagnasco ; ad esempio quelli che riguardano la televisione e i media “che discriminano le famiglie omosessuali”, invitando i docenti a chiedere agli alunni come mai “in Italia non ritraggono diverse strutture familiari”. Passaggio “delicato”, il tentativo di far immaginare “sentimenti ed emozioni che possono provare persone gay o lesbiche”; e la masturbazione fra ragazzi è presentata “come un gioco”. Bagnasco ha sparato a zero: “Strategia persecutoria contro la famiglia”. Ancora: “Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei ‘campi di rieducazione’, di indottrinamento. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati?”. E conclude: “I genitori non si facciano intimidire...non c’è autorità che tenga”.
il Fatto 26.3.14
Il sindacalista Pantaleo (Flc Cgil)
Altro che sesso la Chiesa attacca la scuola pubblica
di Val. Cat.
Non vorrei che si sia creato un asse con il governo Renzi, in modo particolare con il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, con l’intento di andare verso il ridimensionamento della scuola pubblica per favorre gli istituti paritari. È una vecchia questione...”. Così Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil, commenta l’allarme lanciato dal cardinale Bagnasco. Allora il sindacato non vuole una scuola anti religiosa? “Per nulla. Al contrario, noi siamo per una scuola che non sia “anti”, ma in grado di abbattere i muri dei pregiudizi, che difenda i valori della Costituzione”. Pantaleo conclude “Se per educazione si intende creare degli individui che si piegano alle religioni in modo acritico, che crescano senza la capacità di analizzare, di ragionare con la propria testa, allora forse abbiamo trovato un punto di disaccordo con il cardinale Bagnasco”.
Intanto contro “l’introduzione a scuola dell’ideologia del gender” l’Associazione italiana genitori (Age) propone una "giornata di ritiro dalla scuola": rispettando il calendario di assenze programmate, i ragazzi non vanno a scuola un giorno al mese. “Iniziativa - sostiene il presidente Fabrizio Azzolini - che potremmo rilanciare come è accaduto in Francia dove il governo è stato costretto a tornare sui propri passi. Un gesto forte che, inoltre, farebbe capire che sono i genitori i primi responsabili dell’educazione dei loro figli”.
Agitazione pure all’interno del governo. Già qualche giorno fa il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi aveva dichiarato: “Il governo deve decidersi a intervenire chiarendo una volta per tutte ruolo e funzioni dell’Unar”, l’Ufficio Nazionale antidiscriminazioni razziali che “da tempo sembra aver spostato il raggio d’azione verso la teoria di genere e l’orientamento sessuale”. “Posto che la lotta alla discriminazione, di qualsiasi tipo, è sacrosanta - aggiunge - non credo possa però essere confusa con iniziative che con essa hanno poco o nulla a che vedere e che, invece, mi pare siano un tentativo di indottrinamento rispetto all’ideologia del gender e alle nuove forme di famiglia”.
il Fatto 26.3.14
Reggio Emilia
L’appalto al cugino di Delrio e il conflitto d’interessi in Comune
di Marco Lillo
Non accenna a placarsi a Reggio Emilia la questione dell’appalto vinto dalla società del cugino del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, allora sindaco della città, nel giugno del 2009. Il M5s, dopo avere letto l’inchiesta del Fatto (Reggio Emilia, Delrio e quell’appalto da 140mila euro alla ditta del cugino) sull’affidamento dei lavori di ristrutturazione della scuola dell’infanzia Allende, ha chiesto l’accesso agli atti. “Abbiamo scoperto” spiega il consigliere comunale del M5s Matteo Olivieri, “che il Comune era consapevole della piccola quota di partecipazione della funzionaria dell’ufficio gare, Enrica Montanari, alla società che poi si è aggiudicato l’appalto”. Come il Fatto aveva raccontato infatti la Delrio Bonfiglio & figli di Delrio Paolo Sas era amministrata dal cugino del sindaco Delrio, Paolo Delrio, che in qualità di socio accomandatario possedeva il 99 per cento della Sas. Mentre il restante uno per cento era intestato a Enrica Montanari. In pratica la funzionaria responsabile dell’unità appalti e contratti del Comune non era solo la moglie del titolare ma era lei stessa socia accomandante (senza poteri di amministrazione) con una quota minima. Proprio l’ufficio della dottoressa Montanari inviò gli inviti alle 20 società che il Comune decise di coinvolgere nella gara a inviti. Dalle carte si scopre che il 14 aprile del 2009 i dirigente dell’ufficio tecnico “scuole e nidi di infanzia” del comune di Reggio Emilia, Ilaria Martini, scrive a “Enrica Montanari, Ufficio gare” quanto segue: “Si trasmette l’elenco delle ditte da invitare alla procedura negoziata relativa all’ampliamento e ristrutturazione della scuola dell’infanzia Allende”.
L’ELENCO È COMPOSTO di 20 ditte e include la società del marito Paolo Delrio, cugino del sindaco. Dopo un mese e due giorni, il 16 maggio, parte il fax di invito alle venti società preselezionate per partecipare alla “gara” con termine perentorio entro il 3 giugno. Rispondono solo in quattro. Il 5 giugno proprio nell’ufficio appalti e contratti, si decreta la vittoria della società di Paolo Delrio (& funzionaria-socia-consorte ) che presenta l’offerta più bassa. Sottolinea il consigliere Olivieri del M5s “a leggere le carte, Enrica Montanari aveva conoscenza dell’esistenza della ‘gara’ un mese prima degli altri contendenti”. Non solo. Quello stesso giorno, il 5 giugno 2009, Paolo Bonacini, dirigente del Servizio Affari Istituzionali del Comune, dal quale dipende l’ufficio di Enrica Montanari, scrive alla Procura di Reggio Emilia: “Si richiede il rilascio del certificato del casellario giudiziale intestato alle 2 persone di cui all’elenco allegato per controllo autocertificazione relativa alla gara d’appalto”. In pratica, prima di aggiudicare definitivamente (cosa che accadrà il 24 giugno 2009) alla Delrio Bonfiglio e figli di Del Rio Paolo Sas, il Comune vuole sapere cosa risulta al casellario sui soggetti che figurano nella visura storica estratta il giorno stesso e allegata alla richiesta. Peccato che, sotto la richiesta per due, si legga un solo nome: Delrio Paolo. “sembra quasi che”, commenta Olivieri, “il Comune si sia fermato un attimo prima di chiedere il casellario di una sua funzionaria perché avrebbe svelato a tutti che stava assegnando un appalto a una società nella quale era presente lei stessa con una piccola quota”. Anche il consigliere Pdl Cristian Immovilli ha presentato un’interrogazione sul ruolo di Enrica Montanari e sugli appalti ottenuti dal cugino dell’ex sindaco Delrio. Secondo l’assessore Catellani, la dottoressa Montanari non aveva comunicato ufficialmente la sua partecipazione ma il regolamento del Comune non lo imponeva. Invece la società del cugino ha ricevuto pagamenti per 793 mila euro dal 1997 al 2010, sia prima che dopo l’elezione di Graziano Delrio a sindaco nel 2004. Nell’elenco fornito dall’assessore, però, non ci sono i 140 mila euro della scuola Allende, forse perché il pagamento era stato contestato.
Corriere 26.3.14
Il concorso per prof contestato dal Nobel
di Sergio Rizzo
Tredici righe e dodici firme. Nobel ed economisti di fama mondiale che esprimono al ministro dell’Istruzione Giannini e al premier Renzi il loro sconcerto per i risultati degli esami di abilitazione scientifica per accedere all’insegnamento accademico di Storia economica. «Ci lascia perplessi la bocciatura di alcuni candidati con un eccellente curriculum».
«Esclusi colleghi di valore» Economisti di tutto il mondo contro il concorso in Italia Lettera di protesta al governo firmata da un Nobel La lettera che un ministro dell’Istruzione non vorrebbe mai ricevere è planata sulla scrivania di Stefania Giannini il 21 marzo scorso. Tredici righe ustionanti: sia per il contenuto che per le dodici firme in fondo al foglio. Nomi pesantissimi. Dal premio Nobel per l’Economia Douglass North al professore di storia economica alla London School of Economics, Stephen Broadberry. Da Jeffrey Williamson, già capo del dipartimento di Economia ad Harvard, ai docenti della Oxford University Jane Humphries e Kevin O’Rourke. Dodici autorità mondiali nelle discipline economiche, i quali manifestano al ministro Giannini, ma anche al premier Matteo Renzi, cui è stata recapitata la stessa lettera (spedita in copia anche al presidente dell’Anvur, l’Agenzia di valutazione del sistema universitario Stefano Fantoni e al direttore generale del ministero Daniele Livon), sconcerto per i risultati degli esami di abilitazione scientifica necessari per accedere all’insegnamento accademico di Storia economica. «Ci lascia perplessi» dicono senza mezzi termini, «la bocciatura di alcuni candidati con un eccellente curriculum». Il riferimento è a «tre colleghi di grande valore»: Mark Dincecco della University of Michigan, Alessandro Nuvolari della Sant’Anna di Pisa e Giovanni Vecchi dell’Università romana di Tor Vergata. «Costoro», scrivono i dodici luminari, «sono ben noti fuori dall’Italia per le loro pubblicazioni, gli interventi a conferenze e seminari, gli articoli per importanti riviste e la collaborazione a progetti di ricerca internazionali». A nessuno di questi, stigmatizzano, «è stato attribuito il titolo di professore di prima fascia e sarebbe un terribile peccato se ciò impedisse loro la completa realizzazione dei programmi di ricerca: la storia economica ne risulterebbe impoverita». Ma non è finita. Perché i dodici luminari sottolineano un secondo «aspetto inquietante» dell’esito delle selezioni. Cioè che mentre i tre «colleghi di grande valore», come sono definiti Dincecco, Nuvolari e Vecchi, venivano esclusi, a superare l’esame erano «candidati con un curriculum di ricerca assai limitato in termini di pubblicazioni internazionali». E questo, conclude la lettera, «non è la direzione verso cui la storia economica italiana deve andare se vuole garantirsi il posto che le spetta all’avanguardia della ricerca nel nostro campo».
A Nicola Rossi, ex senatore democratico, animatore dell’Istituto Bruno Leoni e docente di Economia politica a Tor Vergata, cadono le braccia: «Con la globalizzazione le competenze e le responsabilità del nostro sistema universitario sono cambiate radicalmente. Certe cose che forse un tempo qualcuno poteva ritenere tollerabili, come una caratteristica tipicamente italiana, oggi sono da considerare del tutto inaccettabili».
Dincecco, che voleva tornare in Italia, resterà quindi in America. Nuvolari continuerà forse a dirigere il dottorato di ricerca in storia economica alla sant’Anna di Pisa. Mentre Vecchi ha avuto un’offerta dalla Spagna.
Su lavoce.info Pierangelo Toninelli, Gianni Toniolo e Vera Zamagni hanno fatto barba e capelli agli autori della bocciatura. Gli è bastato fare il conto delle citazioni dei lavori in articoli e pubblicazioni di ciascun candidato. Arrivando alla conclusione che fra i promossi c’è chi ha avuto in tutto anche soltanto 10 citazioni, mentre sono stati considerati «non idonei a ricoprire il ruolo di professore ordinario studiosi citati 280, 349 e 664 volte». Per Dincecco, Vecchi e Nuvolari si contano rispettivamente 211, 336 e 661 citazioni. Numeri superiori a quelli degli stessi membri della commissione esaminatrice. Come del resto anche per le pubblicazioni. La cosa si può facilmente verificare su Econlit, il sito dell’Associazione degli economisti americani che aggiorna scrupolosamente i curriculum internazionali di tutti i professori del settore.
Affermano Toninelli, Toniolo e Zamagni che «i criptici verbali» della commissione «non consentono un’adeguata comprensione dei criteri adottati per promuovere o bocciare». Aggiungono però che «contrariamente a una prassi internazionale consolidata» la suddetta commissione «non ha preso in considerazione lavori a più mani». Escludendo in questo modo «dalla valutazione articoli pubblicati sulle migliori riviste internazionali». Come mai?
Gli autori di questo commento puntano il dito sulla «qualità scientifica media della commissione», dove «tre dei commissari hanno meno di 30 citazioni ciascuno: una situazione che del resto li accomuna a molti colleghi». Tre su cinque. E «con una tale maggioranza», concludono, c’era il rischio «che prevalessero criteri valutativi fortemente divergenti dalle raccomandazioni dell’Anvur». Rischio o certezza?
il Fatto 26.3.14
Pieczenik, l’esperto Usa
La ronda dei Servizi il giorno di via Fani
di Marco Dolcetta
Al telefono, Steve Pieczenik ha ricordato la breve ma intensa esperienza del suo soggiorno in Italia nei giorni più caldi del rapimento Moro e della sua morte. “Mi dispiace che sia dovuto morire ma, in realtà, in termini di strategia, la sua morte è stata uno degli elementi chiave per il risultato finale della strategia adottata. Sono uno psichiatra laureato a Harvard, poi chiamato da Henry Kissinger a ricoprire la carica di assistente alla Segreteria di Stato per dare vita a un nuovo organo statale, un Dipartimento per il controllo delle Crisi Internazionali e per il contro-terrorismo”.
Chi vi ha mandato in Italia nel marzo del 1978?
Mi ha mandato in Italia Ben Reed, all’epoca sottosegretario di Stato che, preciso, mi ha chiesto e non ordinato, per conto del Segretario di Stato Cyrus Vance, di andare in Italia per aiutare il governo italiano a far fronte al terrorismo delle Brigate rosse, al rapimento di Aldo Moro, risposi di sì. Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno, chiese espressamente di me, per avere l’aiuto di qualcuno in stretto rapporto con i piani alti dell’amministrazione statunitense, ma che non fosse legato alla politica, non appartenente alla Cia né all’esercito.
Quando arrivò in Italia qual era la sua conoscenza delle Brigate rosse?
Non sapevo niente. Arrivato in Italia, il capo della Cia sul posto aveva ben poco da dirmi, non esistevano rapporti su Moro né sulle Brigate rosse, né sulla P2 o i fascisti, oppure il Sisimi o il Sisde. Quello che ho fatto è stato imparare da Cossiga e da Ferracuti, uno psichiatra, suo consulente. Poi ho saputo che era agente della Cia e piduista. La prima cosa che mi disse Cossiga fu molto chiara: ‘Guarda, non abbiamo capacità per gestire questa crisi, non abbiamo una strategia’. Avevo capito subito che le Br già si erano infiltrate ovunque, nel Parlamento come nel gruppo dei fedelissimi di Cossiga.
Come erano riusciti a infiltrarsi così bene nello Stato italiano e come faceva a saperlo?
Probabilmente non era così difficile. L’ho capito in conseguenza dei fatti avvenuti, dei nostri sospetti e tramite l’aiuto del Vaticano. Tutte le informazioni utili che io e Cossiga abbiamo ricevuto venivano dal loro intelligence, perché quello del governo italiano praticamente non esisteva. Attraverso il sistema dell'intelligence italiana deviata, erano arrivate informazioni a Cossiga come quelle sul mio conto, che sapevano tutto di me, chi ero, di cosa mi occupavo e che dovevo essere eliminato: ho subito capito quanto erano presenti nel Parlamento, negli organismi della sicurezza.
Aveva avuto sentore che i Servizi deviati stessero giocando un ruolo in quella tragica rappresentazione che si stava svolgendo a vari livelli sul caso Moro?
Sì. La prima impressione l'ho avuta quando mi fu detto alla presenza del colonnello Guglielmi , dei Servizi di Sicurezza, presenti sulla piazza e la sua assurda giustificazione da cui risultava che si trovava lì alle 10 del mattino perché era stato invitato a colazione alle 13 in un appartamento accanto a via Fani. Altrettanto paradossale risultava l'ingenuo movimento della moto Honda che da ore, a detta dei testimoni, stava facendo la ronda prima, durante e dopo l'atto terroristico. Sono passati tanti anni e non ricordo più bene i particolari, ma si diede subito per scontato che sia il colonnello sia i motociclisti stessero effettuando un banale controllo del teatro delle operazioni così come è consuetudine in questi casi.
Repubblica 26.3.14
Il patto dei mafiosi nel nome di Dio
di Barbara Spinelli
COSÌ come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i riti di iniziazione a Cosa nostra.
E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita.
Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam. Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.
Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore di Libera vissuto per anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma. Il Papa ha ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».
Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più cruciali processi italiani - quello sui patti fra Stato e mafia - esigendo a voce alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal menzionare. È un j’accuse pesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la più grande novità di questi giorni. L’Altra Chiesa, quella di Don Gallo e Don Puglisi, da periferia che era diventa centro.
Gian Carlo Caselli, presente alle cerimonie e poi alla marcia di Libera per la XIX Giornata della memoria e dell’impegno, ha detto una cosa importante: che la Chiesa parla alle menti se ha profeti, «e per un profeta non è difficile arrivare più in là della politica». È facile soprattutto in Italia, dove la politica s’inabissa nei silenzi elusivi, nelle smemoratezze. Caselli lo ripete fin da quando, insediato a capo della Procura di Palermo, disse in un convegno della Chiesa di Sicilia, nel ’93: «È necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (...) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, e conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società ». Se Falcone e Borsellino vennero uccisi con le loro scorte, fu «perché lo Stato, ma anche noi cristiani, noi Chiesa, non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere (...). Quante volte, invece di vedere il prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile e del devozionismo religioso». Già allora chiedeva al Vaticano uno scatto di responsabilità: lo stesso implorato venerdì da Don Ciotti. Lo scatto che tarda a venire nella politica. Antonio Ingroia, ex pubblico ministero a Palermo, osserva come manchi, nei primi discorsi di Renzi premier, ogni accenno alle procure minacciate. Come sia vasto, e voluto, il mutismo sul processo Stato-mafia (Huffington Post,3-3-14).
Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso, “La Chiesa e la mafia”; da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza.
Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane». Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana». Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano. E implica, nella Chiesa, l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori. È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80: proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta collaborazione » lo prescrisse soltanto.
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta - lo è ancora - dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato, c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una trattativa Stato- mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia. Allo Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).
Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo Dolci e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco. Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il ’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma ancor più i preti complici non processati.
Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».
l’Unità 26.3.14
«Lo stato della follia» un doc sui lager di Stato
di Gabriella Gallozzi
C’ERAMO ARRIVATI. FINALMENTE. UNA LEGGE DEL 2012 NE STABILIVA LA CHIUSURA ENTRO IL 31 MARZO 2013. MA DOPO UNA PRIMA PROROGA AL 1° APRILE 2014, IL TERMINE È STATO POSTICIPATO ANCORA AL 1° APRILE 2017. Non sono bastate le sanzioni in sede europea, le denunce, le accuse: gli Ospedali psichiatrici giudiziari, meglio noti come manicomi criminali, sono ancora una realtà. Così come ci racconta Lo stato della follia il potente documentario di Francesco Cordio che alla stesura di quella legge ha contribuito. E che adesso torna in sala per dare una nuova spallata all’indifferenza generale che avvolge questi lager di stato. Buchi neri della democrazia, dove ancora oggi sono rinchiusi poco meno di mille dannati. I «matti da legare» senza diritti, i «violenti» reietti, quelli condannati a pene che, senza sapere il perché, si rinnovano di cinque anni in cinque anni. Fino a dieci, quindici, vent’anni di detenzione. Come quell’uomo robusto, con la voce concitata che, davanti alla telecamera di Francesco Cordio, racconta della sua mano, atteggiata come si fa da bambini a mo’ di pistola che gli è costata l’arresto per rapina. Come quell’altro che bussa dietro al vetro della sua cella mostrando un dente cavato di fresco. Che invoca giustizia, attenzione, che si dispera davanti ai membri della Commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Ignazio Marino nel 2010, da cui questo film ha preso le mosse e da cui tutto è partito. Un blitz in piena regola che ha decretato per sempre la vergogna di questi luoghi di follia, dove la follia, appunto, non è quella dei detenuti ma quella di uno stato che azzera ogni diritto civile e principio di legalità, in barba assoluta alla legge Basaglia. Sono sei attualmente i manicomi criminali in Italia. Montelupo Fiorentino che contiene più di 200 persone, mentre la sua capienza massima è di 188. Aversa, in provincia di Caserta, che ne contiene più di 200 sulle 150 previste. Napoli più di 150 su 150. Reggio Emilia più di 200 su una capienza di 190. Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, più di 200 su 194 posti. E Castiglione delle Stiviere, Mantova, l’unico ad avere anche un reparto femminile che contiene circa 200 persone, delle quali meno di 100 sono donne.
Finirci dentro è un attimo. Uscirne è un incubo infinito. Come racconta Luigi Rigoni, attore condannato per stalking che mette il suo volto e la sua voce in questo viaggio allucinato nel buio pesto dell’assenza di diritti. Lo stesso che ha conosciuto Bobò, decenni dietro alle sbarre dell’opg di Aversa ed oggi volto cardine di tanto teatro di Pippo Delbono. L’odore dell’urina, le lenzuola luride, le mura marce arrivano attraverso le immagini come pugni in faccia. Mentre le grida, i racconti, i ricordi consumati degli internati si fanno monumenti all’umanità negata, all’identità calpestata. Lo stato della follia sarà a Roma, stasera al Nuovo Cinema Aquila, e il 29 al Teatro Villa Pamphilj, Scuderie Villino Corsini. Per proseguire in tour per l’Italia. Non perdetelo.
La Stampa 26.3.14
Primo anno di Medicina a Tirana, poi il passaggio: secondo il Tar si può
qui
Corriere 26.3.14
Medicina, la scorciatoia di Tirana ora ha la certificazione del Tar
di Gianna Fregonara
Come sanno i 69 mila studenti che l’8 aprile si «sfideranno» per gli 8 mila posti di matricola nelle facoltà di Medicina, si tratta di un percorso a numero chiuso. Ma, anche no. Perché il test di ammissione si può aggirare.
Alcuni studenti già si erano ingegnati ma ora c’è la certificazione del Tar del Lazio che in una sentenza di poche settimane fa stila una serie di indicazioni che implicitamente riaprono il numero chiuso. Come? Basta iscriversi all’Università di Nostra Signora del Buon Consiglio di Tirana, pagare una sostanziosa retta, sostenere con profitto gli esami in italiano del primo anno e richiedere l’ammissione a una delle università — da Milano, a Roma, Bologna e Bari — che dieci anni fa si erano impegnate a far sorgere un ateneo che nelle intenzioni originarie doveva aiutare a «europeizzare» l’Albania dopo i drammi dei Balcani negli anni 90 e che ora diventa una porta girevole per diventare medici quando il test di ammissione si è rivelato un muro invalicabile.
I giudici del Tar hanno dato ragione a una studentessa che, dopo aver frequentato tre anni nella facoltà di Tirana, chiedeva di essere ammessa al quarto anno a Tor Vergata. L’ateneo aveva detto di no. Il Tar ammette che è ragionevole che a Tor Vergata vogliano «evitare da parte di alcuni studenti veri e propri aggiramenti dell’obbligo preselettivo mediante l’iscrizione al primo anno e al superamento di pochi e più semplici esami in altre università straniere».
Tuttavia, poiché «il piano di studi», la lingua e i professori sono coincidenti con quelli di Tor Vergata, la studentessa e chi fa come lei hanno diritto di tornare nell’ateneo che non li aveva accolti. Ora naturalmente dovrà decidere il Consiglio di Stato se le aperture del Tar ai «bocciati» del numero chiuso sono da confermare. Il Tribunale amministrativo del Lazio ha messo un solo limite agli studenti, che studino con profitto. E alla studentessa di Tor Vergata fa impliciti complimenti visto che nella sentenza i giudici apprezzano il suo «profitto brillantissimo» in Albania .
Il Sole 26.3.14
Professioni. Cambia la deontologia
Codice dei medici: cinque mosse anti-contenzioso
Niente accanimento ma anche mai più dolore
Il «cittadino» diventa «persona», perché il diritto alle cure è di tutti «anche di chi cittadino non è», come gli extracomunitari
di Paolo Del Bufalo e Barbara Gobbi
Un focus speciale sugli errori per evitare i contenziosi medico-paziente. Un freno alle voglie di "uomo bionico" e regole sulla medicina informatizzata. La lotta al dolore come compito primario dei medici. Sono solo alcune delle novità in arrivo col nuovo Codice deontologico degli oltre 360mila dottori d'Italia che, ormai alla stesura finale, attende ora le ultime limature per dettare da metà maggio la deontologia medica.
Ed ecco il nuovo Codice d'Ippocrate – anticipato dal settimanale «Il Sole 24 Sanità» (per il testo www.24oresanita.com) – che affronta – cercando di prevenirle - le conseguenze più "negative" della medicina. In particolare, con l'esplosione dei contenziosi medico-legali che valgono miliardi di spesa per la "medicina difensiva" a carico del Ssn, il testo si appunta su «prevenzione e gestione degli eventi avversi e sicurezza delle cure». Così il medico sarà «tenuto» a promuovere le più idonee condizioni di sicurezza, secondo 5 regole auree: adesione alle buone pratiche cliniche; attenzione al processo di informazione e di raccolta del consenso; comunicazione di un evento indesiderato e delle sue cause; sviluppo continuo di attività formative e valutative sulle procedure di sicurezza delle cure; rilevazione, segnalazione e valutazione di eventi-sentinella, siano errori, "quasi-errori" o eventi avversi.
Nel sua parte più "filosofica" e avanzata, poi, pensa moderno il Codice nel tentativo di affrontare, oltreché le nuove frontiere della medicina, anche le richieste al medico di interventi per potenziare le capacità fisiologiche e psicofisiche: la medicina "potenziativa", o cybermedicina. «Precauzione» e «proporzionalità» sono le parole d'ordine, ma senza alterare identità e peculiarità genetiche dell'individuo. Ma soprattutto un'efficace informazione al paziente.
Strettamente legata alla cybermedicina, ecco l'informatica: telemedicina, teleconsulenza, teleconsulto entreranno nel Codice etico dei medici, allargando al settore princìpi e cautele della cybermedicina, e in più il rispetto della multidisciplinarietà e della partecipazione dell'assistito. Nell'era di internet, insomma, fare da soli non ha più senso.
Infine, la rilettura, e anche più, del «sedare dolorem» di Ippocrate. Il Codice ricorda ai medici il dovere di astenersi da trattamenti diagnostico-terapeutici «non proporzionati» e che, invece, il controllo efficace del dolore è sempre «un trattamento proporzionato». Niente accanimento quindi, ma anche mai più dolore. Anche perché il «cittadino» diventa «persona», perché il diritto alle cure è di tutti «anche di chi cittadino non è», come gli extracomunitari.
Corriere 26.3.14
Autodeterminazione dei popoli e intangibilità delle frontiere
risponde Sergio Romano
Ha più valore l’autodeterminazione dei popoli o la salvaguardia delle frontiere? Secondo me le minoranze in una Nazione vanno rispettate, ma se costituiscono una maggioranza, bisogna dar loro la possibilità di pronunciarsi con chi vogliono stare. Le frontiere, però, vanno difese contro ogni sopruso che tenti di ribaltare la storia del Paese.
Francesco Italo Russo
Caro Russo,
Il principio dell’autodeterminazione dei popoli risale ai moti nazionali dell’Ottocento, fa la sua apparizione ufficiale nei «Quattordici punti» del presidente americano Woodrow Wilson, ispira alcune delle norme del Trattato di Versailles, è alle origini del processo di decolonizzazione, risuona periodicamente nelle piazze di tutto il mondo e condiziona la politica internazionale. Ma accanto a questo principio ve n’è un altro, il rispetto delle frontiere, che è suggerito dall’esperienza e dalla prudenza.
La compatibilità di questi due principi fu uno dei temi maggiormente discussi durante la Conferenza per la cooperazione e la sicurezza europea, conclusa con l’approvazione dell’Atto unico di Helsinki il 15 agosto 1975. I sovietici volevano che il trattato contenesse un esplicito riferimento all’intangibilità delle frontiere; gli occidentali invocavano quello dell’autodeterminazione dei popoli. Il contrasto non era astratto e giuridico, ma strettamente politico. L’Urss temeva che il principio dell’autodeterminazione avrebbe offerto pretesti per rimettere in discussione l’appartenenza dei territori conquistati dall’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondale e, in particolare, i confini tedeschi e polacchi. Gli occidentali volevano lasciare una porta socchiusa per la futura riunificazione tedesca e volevano che il principio dell’autodeterminazione fosse iscritto nel Trattato. Il risultato fu un trattato in cui i due principi sono presenti, su un piano di parità, in uno stesso testo. Tutti sapevano che sarebbero stati, in ultima analisi, incompatibili, ma il desiderio di stabilizzare la Guerra fredda con un accordo prevalse su qualsiasi altra considerazione.
Il problema riemerse drammaticamente alla superficie con l’unificazione tedesca nel 1990 e la crisi dello Stato jugoslavo nel 1991. Il riconoscimento della Slovenia e della Croazia, fortemente voluto dalla Germania, ha aperto il vaso di Pandora e reso legittimi, se non legali, i movimenti indipendentisti e secessionisti degli scorsi anni. Oggi l’Ucraina è il campo di battaglia in cui lo scontro fra due principi — autodeterminazione e intangibilità — può mettere a rischi o l’esistenza del Paese.
l’Unità 26.3.14
Marcelle Padovani
«Le Pen e Grillo, due facce dello stesso populismo»
La giornalista francese: «Front National e M5S sono fatti per andare mano nella mano in Europa
Il problema a Parigi è la crisi dei socialisti»
di Umberto De Giovannangeli
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La Stampa 26.3.14
I duri del Fronte Nazionale: “Con noi i delusi di sinistra”
Nel Midi dove il Fronte trionfa “Arruoliamo i delusi di sinistra”
di Alberto Mattioli
A Béziers l’exploit del fondatore di Reporters sans frontières: i veri libertari siamo noi
Il candidato sindaco, Robert Ménard, nega di essere di estrema destra, anzi nega di essere di destra tout court («ma di certo non di sinistra»), men che meno del Front national, che ha solo sei aspiranti consiglieri sui 49 della sua lista. «Io sono indipendente. Il mio partito è Béziers», proclama il celebre giornalista, già fondatore e anima di «Reporters sans frontières», protagonista di spericolati blitz in difesa della libertà di stampa e della libertà in generale. Però sul suo santino elettorale ci sono, in fondo e in piccolo, i simboli di chi lo sostiene: il Front e altri tre partitini di destra. Quindi se domenica Ménard vincerà al ballottaggio, cosa non solo possibile ma molto probabile, perché parte dal confortevole 44,88% del primo turno, si potrà dire che Béziers è la più grande città francese amministrata dal Fn: 72 mila abitanti, 160 mila nell’area metropolitana.
Distinguo a parte, però, Béziers, nell’angolo sud-occidentale della Francia, fra Montpellier e Perpignan, è un caso da manuale che spiega non solo perché madame Le Pen venga votata, ma anche perché non ci si vergogni più di farlo. Altro che i fascisti su Marte come nel film di Guzzanti raccontati da chi non vuol vedere e soprattutto capire quel che sta succedendo nel ventre della Francia profonda, specie in questo Midi dove le contrapposizioni sono sempre state aspre a spesso sanguinose: ugonotti contro cattolici, rivoluzionari contro realisti, resistenti contro collaborazionisti.
La città è carina, con la solita cattedrale gotica e le lapidi che ricordano illustri sconosciuti locali tipo Jean-Pons-Guillaume Viennet, 1777-1868 (complimenti), pari di Francia ed «esecutore testamentario di Luigi Filippo» (ah, beh, allora...). Ma dà l’impressione di aver urgente bisogno di un buon piano di manutenzione straordinaria o almeno di una bella mano di pittura. Il problema è che la situazione economica non è nemmeno cattiva: è catastrofica. Béziers è la quarta città più povera del Paese, il 32% dei suoi abitanti vive sotto la soglia della povertà, il 16,4% è disoccupato. In compenso, la tassa rifiuti è aumentata del 39,5% in quattro anni e la bolletta dell’acqua è la più cara di Francia. «Qui si viveva di vino, di “pinard”, il rosso a buon mercato. Non si è capito che bisognava investire sulla qualità, e così siamo stati travolti dal vino prodotto in altri Paesi ancora più a buon mercato. Sopravvive un po’ di industria petrolifera e basta», spiega Ludovic Trabuchet, capo della redazione del «Midi libre».
Il sindaco uscente, dell’Ump, destra «repubblicana», ha governato per 19 anni ed è così discreditato che non si è più ricandidato. Ma ha fatto presentare il suo vice, «insomma la solita politica fatta di clientelismo, affarismo e comunitarismo», tuona Ménard. Il vice candidato, Elie Aboud, si è fermato al 20,17%, quello socialista, Jean-Michel Du Plaa, a un imbarazzante 18,65.
Due passi in centro? Sembra una città fantasma e, in ogni caso, non una città francese. Dalla cattedrale alla chiesa di Saint-Jacques, egualmente bella ma romanica, si incontrano esclusivamente donne velate. L’immigrazione magrebina è massiccia: quando ancora l’economia andava bene, si mugugnava e basta; adesso che va a rotoli, è iniziata la guerra fra poveri e ai mugugni si è aggiunto il voto per Le Pen. E tanta rabbia. «Li vede, tutti quei panni stesi alle finestre?», mi intima una madama quasi soffocata dall’indignazione. Beh, sì. «E le sembra possibile? E il decoro? Qui non è mai usato. Certo che ho votato per Ménard, perché è uno di noi. E domenica lo rifarò. Questi vivono secondo le loro leggi, non quelle della République». Ed ecco come il bucato spiega anche il comunitarismo.
Intanto Ménard si gode il trionfo e ci ragiona sopra: «La crisi della politica è evidente in tutta la Francia. La gente non ne può più dei professionisti della politica che creano problemi invece di risolverne. Certo che sento Marine Le Pen, ma non sono iscritto al Fn e non lo voto nemmeno». Infatti lei sembrava piuttosto di gauche, all’epoca di «Reporters sans frontières»... «Ma non è che se uno si batte per le libertà, ha un cuore e magari legge pure qualche libro sia di sinistra per definizione. Sa quel è l’unico Comitato centrale ancora esistente? Quello che dirige la Lega dei diritti dell’uomo».
L’obiezione è che, mettendoci la faccia, i vari Ménard diano una mano alla «dédiabolisation» del Fn e lo rendano presentabile. «Ormai che il Fn sia il diavolo lo possono davvero credere e scrivere solo “Le Monde” o “Libération”. I francesi, no di certo. Vuole un esempio? Ho proposto di armare la polizia municipale e mi hanno detto che ero un “facho”, un fascista. Bene: per legge, in Francia, i vigili non possono uscire di pattuglia dalle 23 alle 7 se non sono armati. Quelli di Béziers non lo sono, quindi di notte la città non è presidiata. Che c’entra il fascismo?».
Sarà. In città si dice però che Ménard sia assai più vicino alla famiglia Le Pen di quanto ammetta e prepari un libro-intervista con il papà. Lui stesso prevede che, se diventerà sindaco, la figlia «dirà che il Front ha espugnato Béziers, ma è normale, fa parte della politica». Basta aspettare una settimana. I socialisti hanno tempo fino alle 18 di oggi per decidere se ritirarsi dal ballottaggio, invitare a votare l’uomo dell’Ump o addirittura mettersi insieme in lista con lui. «Ormai sono disperati», dice Ménard. E su questo ha certamente ragione.
La Stampa 26.3.14
Europa, il vero circolo vizioso
di Stefano Lepri
Ma non era l’austerità ad alimentare la protesta populista e il rigetto dell’Europa? No, altrimenti il successo del Front National nelle amministrative francesi non si spiega proprio. Di austerità in Francia se ne è fatta assai poca (anzi, a detta di certi professori tedeschi, troppo poca).
Le spinte antieuropee sono potenti, in molti Paesi del continente. Sono pericolose, come ha giustamente denunciato il Presidente della Repubblica. Rinfocolano vecchi odi tra nazioni che sembravano al tramonto. Le loro cause però sono ben più profonde degli asimmetrici aggiustamenti economici che nel 2011 apparvero l’unica via per salvare l’euro.
Le difficoltà in cui si trovano i francesi non possono essere attribuite all’euro, se non per quanto attiene al suo cambio oggi troppo forte rispetto al dollaro. A differenza dell’Italia, i tassi di interesse non si sono mai distaccati molto da quelli tedeschi. Non è mancato il credito alle imprese. Il risanamento del bilancio pubblico procede a passi cauti, senza drammi, senza «stangate».
Eppure il malessere c’è, a Ovest delle Alpi: ottocentomila disoccupati in più, produzione industriale ancora del 14% inferiore ai livelli pre-crisi (contro il nostro 23%). Si stenta ad uscire dalla lunga recessione. Sono, in forma più acuta, problemi comuni a gran parte dell’Europa, abbia l’euro o non ce l’abbia.
Nel cambio di fase dell’economia mondiale che la grande crisi segna, in tutti i Paesi avanzati non è ancora chiaro che cosa ci riserbi il futuro; negli stessi Stati Uniti un economista celebre come Larry Summers ipotizza una «secular stagnation», un ristagno di lungo periodo.
Ovunque, le disuguaglianze sociali aggravatesi negli anni dell’euforia appaiono ora, senza crescita, difficili da attenuare. Nulla esclude che l’instabilità della finanza torni a provocare disastri. Gli immigrati che hanno cambiato l’aspetto delle nostre città possono più facilmente apparire un peso (pur se il preesistente declino del Giappone mostra tutti gli svantaggi del non averne).
Quando il domani appare incerto, si comprende la reazione popolare di volgersi indietro. Marine Le Pen attribuisce all’Europa, in quanto perdita di sovranità, il fatto che la Francia non sia più una grande potenza; cerca di unire su una scelta di tipo reazionario tutti quanti pensano di aver perso, nei grandi mutamenti dell’epoca, un pezzetto di qualcosa.
In Italia, dove a tornare al passato ci avevamo già provato all’inizio dello scorso decennio (la promessa del «nuovo miracolo», il sogno di ritrovare valori, prassi e costumi degli Anni 50), Beppe Grillo ha capito che la paura del futuro si sfrutta meglio proclamando di voler cambiare tutto alla radice. E poiché la nostalgia – del mondo prima della globalizzazione – avvince sia mentalità di destra sia mentalità di sinistra, è essenziale per lui non collocarsi né di qua né di là.
Prima della crisi del debito nei Paesi deboli, l’euro in realtà aiutava l’Italia: leniva con i bassi tassi di interesse un impoverimento già in corso dall’inizio del secolo. La Francia ha ricevuto il privilegio di continuare a illudersi fino a ieri.
Con istituzioni europee migliori, l’austerità degli ultimi anni sarebbe stata meno dura. Ma cambiare era necessario, nei Paesi a cui euro e finanza combinati avevano permesso di vivere al di sopra dei propri mezzi (in termini di conti con l’estero). E non si tratta di un tunnel senza uscita: oltre all’Irlanda, anche il Portogallo è ora sulla via della guarigione.
Altro che decimali di deficit, il circolo vizioso è un altro, è politico: tra i governi che non sanno o non osano fare, e le forze di opposizione che accusando l’Europa di ogni male evitano di formulare proposte credibili. Da qui al 25 maggio, la sfida è romperlo.
Repubblica 26.3.14
Londra, niente libri ai carcerati il divieto che indigna gli scrittori
Da novembre parenti e amici non possono più inviare ai detenuti effetti personali Romanzieri e intellettuali protestano con una petizione che imbarazza il governo
di Enrico Franceschini
LONDRA. Nell’intento di soddisfare il populismo da tabloid, il governo britannico ha trovato un nuovo sistema per rendere più dura la vita a chi sta in carcere: proibire ai detenuti di ricevere libri. Familiari e amici non possono più spedirli ai loro congiunti o conoscenti dietro le sbarre. Il divieto è entrato in vigore lo scorso novembre, ma è diventato di dominio pubblico solo recentemente, dopo la denuncia di un blog sui diritti umani. La reazione è stata immediata: una petizione online lanciata da Philip Pullman, Mark Haddon e altri scrittori e intellettuali inglesi ha raccolto migliaia di firme in appena 24 ore e ieri la polemica ha costretto le autorità a cercare di giustificare il provvedimento.
Il ministro della Giustizia Chris Grayling, ideatore dell’iniziativa, nega che siano stati messi al bando i libri in prigione: «Tutti i carcerati possono tenere fino a un massimo di dodici libri nella propria cella», afferma. Ma poi spiega in che modo possono procurarseli: o prendendoli in prestito nella biblioteca del carcere, o ottenendo un certificato di buona condotta in virtù del quale il divieto non ha più valore, e allora hanno di nuovo la possibilità di acquistarli o di farseli inviare da qualcuno. «Vogliamo dare degli incentivi ai condannati affinché si comportino meglio, vogliamo spingerli a impegnarsi per guadagnare privilegi », osserva Grayling, che ha vietato non soltanto l’invio di libri ma pure di ogni altro effetto personale.
Il problema è che le biblioteche nelle carceri non esistono, sono mal fornite o sono comunque visitate dai carcerati al massimo una volta ogni due-tre settimane, tanto più ora che i tagli alla spesa pubblica hanno fatto diminuire il numero delle guardie carcerarie e spesso non c’è nessuno che possa accompagnare il prigioniero dalla sua cella alla biblioteca.
Per gli scrittori che protestano contro le nuove misure, tuttavia, la questione non è solo pratica ma soprattutto morale. «È uno degli atti più maligni, disgustosi, vendicativi di un governo barbaro come il nostro» dice Pullman, autore del romanzo La bussola d’oro e della serie Queste oscure materie, augurandosi che Downing street ritiri il divieto, licenzi il ministro responsabile e «gli tolga di mano la frusta».
La scrittrice Susan Hill afferma che «una società si giudica dal modo in cui tratta i suoi prigionieri, vietare i libri in carcere è una mossa da stato totalitario». Mary Beard, docente di storia e letteratura a Cambridge, osserva che «i libri educano e riabilitano, vietarli in prigione è una follia ». Jo Glanville, direttore dell’Associazione Scrittori d’Inghilterra, nota che il lavoro svolto in carcere dalla sua organizzazione rivela quanto i libri siano importanti per i prigionieri. E altri ricordano che perfino nel campo di prigionia di Guantanamo, dove l’America tiene rinchiusi senza processo i sospetti di terrorismo, i prigionieri possono ricevere libri (sebbene con assurde censure). Ma in Inghilterra, patria dei diritti civili, no.
Repubblica 26.3.14
Mark Haddon aderisce alla campagna
“Assurdo e crudele leggere aiuta tutti a migliorarsi”
di E. F.
LONDRA. «Credevo di stare leggendo qualcosa accaduto in un altro secolo, quando mi hanno mostrato il divieto ai carcerati di ricevere libri». Mark Haddon, il romanziere inglese autore del bestseller Il curioso incidente di un cane a mezzanotte, è uno dei promotori della petizione che chiede al ministero della Giustizia britannico di cancellare le nuove misure restrittive imposte ai detenuti.
Quale è stata la sua prima reazione?
«Ho pensato che perfino ai prigionieri di Guantanamo è consentito ricevere libri in regalo. È un provvedimento assurdo, crudele e controproducente, perché proprio la lettura di libri può avere un ruolo chiave nella riabilitazione dei detenuti in carcere».
Perché allora questa decisione?
«Per compiacere un’opinione pubblica forcaiola, senza pensare a cosa è più utile per la società, che i detenuti di oggi saranno i nostri vicini di casa domani».
A cosa serve un libro?
«A rendere una persona migliore. E poiché il carcere non è solo punitivo ma dovrebbe anche redimere, ci aspettiamo che i detenuti ne escano come persone migliori di quando ci sono entrati. Ma privandoli dei libri neghiamo loro l’accesso al mezzo che può aiutarli a migliorare».
Il Sole 26.3.14
Bilancia commerciale extra-Ue
Usa e Cina trainano l'export
di Luca Orlando
Il segnale più promettente è senza dubbio la crescita delle importazioni. L'analisi dei dati extra-Ue di febbraio a prima vista in realtà evidenzia un dato opposto, ma il calo globale del 5,2% per i nostri acquisti dall'estero su base annua è interamente determinato dal calo del comparto energetico, frenato in parte dalla debolezza della domanda per motivi "meteorologici", in parte dalla riduzione dei listini. Al netto dell'energia, per la nostra manifattura gli acquisti sono ingenti, con una crescita corale che abbraccia beni di consumo durevoli e non, beni strumentali e prodotti intermedi. Segnali di un possibile risveglio della nostra industria, visibile del resto nei buoni dati 2014 già registrati dalla produzione industriale e dal fatturato. Sul fronte delle vendite anche qui il bilancio a prima vista non è esaltante, una crescita annua dello 0,5% che diventa addirittura un calo di due punti su base mensile destagionalizzata. Sulle nostre vendite estere c'è però un effetto non trascurabile legato alla riduzione dei listini dell'oro, che principalmente esportiamo in Svizzera. E proprio Berna, non a caso, si conferma anche a febbraio il paese extra-Ue con la peggior performance in termini di acquisti di merci italiane, con un calo del 16% che sfiora addirittura i venti punti dall'inizio dell'anno.
Anche il bilancio dell'export extra-Ue migliora escludendo dal calcolo l'energia, con una crescita annua del 2,1% frenata solo dal comparto dei beni intermedi (dove è classificato l'oro), mentre per beni di consumo e prodotti strumentali la crescita del mese è più che robusta.
Su base geografica la dispersione dei risultati è particolarmente ampia, a testimonianza di una fase di turbolenza economica e geo-politica che inizia ad incidere anche sui conti delle nostre aziende. La svalutazione del rublo – ad esempio – è uno dei motivi principali della frenata in Russia, con acquisti in calo di oltre quattro punti nel mese. Svalutazioni e difficoltà economiche interne si ripercuotono anche nelle performance di Turchia (+0,5% nel mese, ma in rosso di quasi quattro punti da gennaio) e India, quest'ultima in calo di oltre otto punti percentuali.
Per fortuna delle aziende italiane, febbraio registra lo scatto evidente degli Stati Uniti, nostro primo mercato di sbocco extra-Ue, capace di crescere nel mese dell'8,1%, trainando in particolare le nostre vendite di macchinari. Ancora meglio ha però saputo fare la Cina, in grado di incrementare nel mese di febbraio gli acquisti di prodotti italiani del 14,3%.
Da soli, Washington e Pechino nel mese di febbraio hanno portato nelle casse delle aziende 262 milioni di euro in più rispetto a quanto accaduto nello stesso mese del 2013.
Per effetto del diverso trend di export (in lieve crescita) ed import (giù di 690 milioni per il calo dell'energia) la bilancia commerciale italiana extra-Ue chiude un altro mese in terreno positivo con un saldo attivo di 1,4 miliardi, più che raddoppiato rispetto allo stesso mese dell'anno precedente.
La Stampa 26.3.14
Smog e debiti, banco di prova per la Cina
di Bill Emmott
Una verità eterna sulla Cina moderna è che è in continua evoluzione. Appena credete di aver capito cosa sta succedendo, soprattutto in campo economico, vi scoprite superati. E’ inevitabile in un’economia che raddoppia di volume ogni 7-10 anni e che oggi è 25 volte più grande e più ricca di quando nel 1978 l’allora leader, Deng Xiaoping, diede il via al processo di transizione dalla pianificazione centrale maoista al capitalismo di mercato. Ma una cosa resta uguale: la politica conta molto di più dell’economia.
Durante la mia visita a Pechino, la scorsa settimana, due fenomeni hanno attirato la mia attenzione. In primo luogo che, nonostante alcune splendide giornate di sole senza traccia di smog , tutti quelli che incontravo fossero intenti a studiare i loro smartphone per consultare le applicazioni in grado di informarli sulle ultime stime dell’inquinamento atmosferico nella capitale.
A questo visitatore l’aria sembrava sorprendentemente limpida, ma tutti i miei amici scuotevano la testa, spiegando quanto sia raro il cielo blu, ma anche come, grazie ai loro telefoni, sapessero che anche in quei giorni incantevoli il livello delle pericolose particelle cancerogene nell’aria era molto più alto rispetto al livello di sicurezza fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Il secondo fenomeno è stato l’improvviso irrompere nei notiziari di storie di aziende insolventi, portate dai loro debiti al fallimento, anche per volontà del governo o delle banche di proprietà statale.
Dall’inizio della crisi finanziaria globale, nel 2008, la crescita economica cinese è stata trainata in gran parte da una grande espansione del credito, tanto al settore privato come ai governi locali. Un’espansione ora in rallentamento, la parola d’ordine del governo centrale è che le imprese insolventi non debbano necessariamente essere salvate. Saranno lasciate andare in bancarotta, per reintrodurre una certa disciplina nel mercato.
L’aria e l’acqua inquinata e il cibo contaminato sono diventati negli ultimi dieci anni tratti distintivi della storia economica della Cina. Lo stesso vale per il debito, la cui crescita è stata associata almeno a livello di aneddoto, alla costruzione di palazzi di uffici e condomini rimasti vuoti, con rapidi cambiamenti nel settore finanziario e con il manifestarsi di quella che in Occidente era una frase legata al crollo del 2008, il «sistema bancario ombra», in altre parole la finanza non regolamentata, che può anche significare finanza pericolosa.
Di conseguenza, la combinazione di questi problemi ambientali in costante peggioramento con la crescita spaventosa del debito ha portato a molte previsioni, soprattutto occidentali ma a volte anche cinesi, di un imminente disastro. La crescita economica è andata comunque rallentando, dai tassi annui, parametrati sull’inflazione, di oltre il 10%, fino al pur sempre alto 7,5% . Potrebbe essere sul punto di crollare adesso, sepolta dai debiti e soffocata dall’inquinamento?
La risposta è in parte nell’economia ma soprattutto nella politica. La parte economica della risposta è che, certo, il debito è cresciuto rapidamente e spesso in modo dispendioso, ma partendo da un punto piuttosto basso. Il sistema finanziario rimane principalmente controllato dalle banche statali. Quindi, se i prestiti crollano, la conseguenza non sarà uno shock come quello della Lehman Brothers ma piuttosto costi crescenti per il Tesoro.
Le cifre non sono del tutto trasparenti. Ma, secondo le migliori stime, attualmente il debito congiunto dell’amministrazione centrale e di quelle locali ammonterebbe a circa il 55-60 % del Pil, che è meno della metà del rapporto debito pubblico-Pil dell’Italia. Un aumento del rapporto, causato da perdite su crediti delle banche statali, sarebbe una mossa nella direzione sbagliata, potenziale fonte di problemi per il futuro. Ma può essere sopportato, almeno per il prossimo decennio o più, così come l’Italia è stata in grado di permettersi un crescente livello di indebitamento negli Anni 70 e 80.
Il vero problema è l’aspetto politico di questo processo avviato per fare pulizia dei prestiti sconsiderati e affrontare l’enorme spreco di capitale che si è verificato nel corso degli ultimi cinque anni. E questo è il vero problema anche per quanto riguarda l’ambiente.
Se esaminate i discorsi dei dirigenti a capo del Partito comunista cinese nel corso degli ultimi cinque anni, o anche su un periodo più lungo e date un’occhiata anche ai loro «piani quinquennali», troverete una promessa dopo l’altra: «riequilibrio» dell’economia, fine di una direzione «insostenibile», opera di pulizia, tanto dell’ambiente come del cattivo credito. Ma fin qui poco è davvero stato fatto, su entrambi i fronti.
Le leadership del presidente Hu Jintao e del primo ministro Wen Jiabao erano troppo deboli o troppo poco disponibili a mantenere le loro promesse. Secondo studi indipendenti ci potrebbero essere oltre un milione di morti premature ogni anno per colpa dell’inquinamento atmosferico. Su una popolazione di 1,3 miliardi può non sembrare molto. Ma significa che l’inquinamento dell’aria è già diventato la quarta causa di morte più comune tra gli adulti, anche se molti degli effetti dell’assorbimento di particelle cancerogene nei polmoni non saranno visibili per parecchi anni a venire.
Ora c’è una nuova leadership e si sta parlando e agendo in modo molto più duro. Il presidente Xi Jinping e il suo premier, Le Keqiang, da quando sono entrati in carica, l’anno scorso, hanno stretto la presa. In Cina c’è sempre stata una sorta di unità anticorruzione, ma con la presidenza Xi l’azione è diventata più ampia e incisiva di qualsiasi altra da due decenni a questa parte e ha portato al licenziamento e all’arresto di migliaia di alti funzionari nel partito e nelle potenti imprese di proprietà statale, e quindi alla rimozione di molti potenziali nemici.
Si tratta di una purga di cui i vecchi dittatori comunisti potrebbero andare orgogliosi. Ma coniugata a un crescente orientamento a utilizzare fonti disciplinari non comuniste, ossia il mercato e le imprese private. Di qui l’ondata di default del debito, dal momento che la dirigenza ha dichiarato di non voler salvare le imprese in via di fallimento. C’è un po’ di ottimismo anche per l’ambiente. Dopotutto, anche i capi del partito devono respirare. E devono preoccuparsi della protesta pubblica che ormai si è abitualmente focalizzata sull’ambiente.
Sarà la nuova leadership a segnare la svolta? Non possiamo saperlo. Ma sappiamo che il più importante banco di prova della loro forza e della loro determinazione sarà il confronto con i tanti gruppi di interesse – spesso nei governi locali e nelle imprese statali – che traggono vantaggio dall’inquinamento e che sono cresciuti grazie a un continuo flusso di credito facile.
Due luoghi si stanno riempiendo velocemente: le prigioni e campi di lavoro, grazie alle epurazioni degli alti funzionari; e ora alle liste dei fallimenti. Più spesso questo accade, più dovrebbe crescere l’ottimismo nei confronti della Cina degli investitori stranieri e degli osservatori. Solo se questo processo si fermerà, vuoi per timidezza politica, o per proteste popolari di massa, ci si dovrebbe preoccupare. La Cina ha il potenziale per un progresso economico molto più grande. Che questo avvenga o meno è nelle mani della politica.
Traduzione di Carla Reschia
Il Sole 26.3.14
A TheMicam Shanghai in vetrina calzature da almeno cento euro di prezzo alla fabbrica
Cina, alle scarpe italiane il 28%
Italia leader di mercato nel top di gamma - L'export è cresciuto del 16,7%
di Rita Fatiguso
SHANGHAI. L'incerto scenario politico russo rischia di rendere il mercato cinese ancora più appetibile come approdo dell'export della calzatura di fascia alta made in Italy.
In alternativa (o in combinata), la Cina diventa una meta necessaria per tenere testa a quello che si profila come un calo drammatico della Russia: c'è chi azzarda addirittura un -30% e fa ancora più colpo perché è un mercato fedele, per tradizione, alla scarpa italiana mentre la Cina bisogna corteggiarla senza requie, investendo tempo e risorse.
Questa è la sensazione che serpeggia tra gli stand della terza edizione di TheMicam Shanghai, nello Shanghai exibition center, la versione cinese della più importante fiera calzaturiera che si svolge da anni a Milano, organizzata da Assocalzaturifici, Fiera Milano e dalla sua società in Cina, la Hannover Milano Fairs Shanghai, con la collaborazione dell'Agenzia Ice.
Cleto Sagripanti, presidente di Assocalzaturifici, pur confermando queste sensazioni fa intuire che la partecipazione degli italiani potrebbe e dovrebbe essere più compatta e convinta. «Ne sono sicuro - pungola Sagripanti -: qui potremmo essere ancora di più. Bisogna rendersi conto che l'export e l'internazionalizzazione sono elementi imprescindibili del nostro futuro. TheMicam Shanghai dimostra il forte impegno degli organizzatori in Cina e il successo del suo format per la promozione di calzature di alta qualità». Gimmi Baldinini, responsabile delle strategie per le politiche estere di Assocalzaturifici, smorza i toni sulla Russia, ma conferma: «Questo cinese è un mercato in cui bisogna esserci, però bisogna farlo con grande abilità. Io sto iniziando da Hong Kong, dove apriremo una serie di negozi monomarca».
Il risultato è che TheMicam Shanghai si è consolidata come uno dei più importanti appuntamenti del settore in un mercato, come quello cinese, molto interessato alle calzature, specie italiane e di alta qualità artigianale. Una platea di compratori disposta a spendere il più alto prezzo medio alla fabbrica: almeno cento euro.
Dice l'amministratore delegato di Fiera Milano, Enrico Pazzali: «Come Fiera Milano organizziamo eventi in tutto il mondo e siamo contenti di essere partner di questa realtà, un punto di riferimento del settore nel mondo, con un profondo impatto e influenza sull'industria ashion in Cina. Siamo sulla buona strada». Claudio Pasqualucci, responsabile dell'ufficio Ice di Shanghai, ricorda i numeri del settore: «L'Italia, nel 2013, si è confermata primo esportatore di scarpe in Cina con 401 milioni di euro, in crescita del 16,7%. Il nostro Paese detiene il 28% del mercato delle calzature in Cina. Per questi motivi continueremo a sostenre TheMicam Shanghai».
I rapporti con le realtà cinesi e con i buyer, veri ambasciatori del made in Italy della calzatura in Cina, si sono rafforzati. William Wong, basato a Hong Kong, ha avviato un interessante esperimento a Chengdu, nel centro della Cina, sulla scarpa italiana che lo ha portato a siglare proprio qui un'intesa, la prima, tra il suo network, Ifg, e TheMicam, una piattaforma innovativa per la Cina. Vale anche il caso contrario: Michelangela Agnolin sviluppa il business di Vipshop, la piattaforma di e-commerce di Guangzhou che si è appena quotata a Wall Street, ed è in cerca di marchi del made in Italy da portare su Vipshop. Assicura Agnolin: «Le aziende che sono qui, spesso di medie dimensioni, hanno tutto da guadagnare a entrare nella rete Vipshop». Come dice Teresa Huang di Ocean, trader di Shenzhen, «i cinesi amano le calzature italiane perché solo voi sapete farle così». The Micam Shanghai, dove espongono 200 brand, chiuderà i battenti domani.
Il Sole 26.3.14
Le mani cinesi sulla Grecia: ecco come Pechino ha puntato sull'economia ellenica (mentre tutti scappavano)
di Vittorio Da Rold
qui
Il Sole 24.3.14
Ecco perché la crescita di Atene supererà quella italiana nel 2015
di Vittorio Da Rold
qui
l’Unità 26.3.14
Berlinguer voleva cambiare nome al Pci?
di Bruno Gravagnuolo
BERLINGUER VOLEVA ARCHIVIARE IL NOME DEL PCI? Suggestivo, ma stentiamo a crederci. Eppure Achille Occhetto, a margine del film di Veltroni, attira sul Corsera del 22 l’attenzione su un «dettaglio» del suo libro che va in tal senso (La gioiosa macchina da guerra, E. R.). Racconta di quando durante la campagna per il divorzio Berlinguer gli si fosse avvicinato, dicendogli: «E se cambiassimo nome al Pci? Lenin lo ha cambiato per molto meno». Occhetto rimase di stucco. Era un «sinistro», e dieci anni prima aveva liquidato l’idea di un nuovo Partito socialista unificato, o unitario della classe operaia, proposto da Amendola. Riproposto nel 1967 come partito «né socialdemocratico né leninista».
Interessante è pure il rifiuto di Berlinguer, della proposta buttata lì da Occhetto: «Partito comunista democratico». «Troppo poco» - replica Berlinguer - «così si poteva pensare che fino ad allora non eravamo stati delocratici». Ma davvero Berlinguer, «ortodosso» e revisionista, almanaccava certe cose? Nel 1974, alla vigilia dell’Eurocomunismo e in piena avanzata del Pci, del Portogallo dei garofani, dei movimenti di liberazione, del Vietnam vittorioso! Chissà, forse il contesto della conversazione era scherzoso: un divertissment. Magari era una «pensata leninista» all’incontrario, per estendere alleanze e consenso. Una folgorazione profetica in una battuta, perché Berlinguer conosceva bene l’Urss e i suoi fallimenti. E proprio a quell’anno - ci pare - risale la proclamazione della «democrazia come valore universale»: contro Alvaro Cunhal. Che in Portogallo voleva fare come in Russia.
Sta di fatto però che in seguito Berlinguer fece e disse l’opposto. Urss? «Tratti illiberali». E, sempre: «Siamo e resteremo comunisti!». E poi nel 1982: «fine della spinta propulsiva» dell’Ottobre. Ma con l’ovvio sottinteso che con Lenin la spinta propulsiva c’era stata eccome. Un enigma, grande e drammatico, quello del Berlinguer revisionista. Chissà, che avrebbe fatto nel 1989, se fosse stato vivo...
l’Unità 26.3.14
La storia
Nel ’44 Marchini fece nascere la società Unità spa
Durante il fascismo i costruttori stampavano clandestinamente il giornale comunista
Nel ’44 fra gli azionisti Terenzi, Scoccimarro e Di Vittorio
di Jolanda Bufalini
Roma. Nell’archivio dell’amministrazione de l’Unità è conservato un documento a suo modo emozionante. La «Costituzione di società» denominata «L’Unità – Società per azioni», in data 15 settembre 1944, quando a Roma c’era, come recita l’atto, Umberto di Savoia, principe di Piemonte, Luogotenente del Regno. Gli azionisti del quotidiano, che tornava alla luce del sole dopo la lunga notte della clandestinità, erano Mauro Scoccimarro, Giuseppe Di Vittorio, Celestino Negarville, Giacomo Pellegrini, Velio Spano, Eugenio Reale, Amerigo Terenzi, Alvaro Marchini. Nell’articolo 3 dell’atto notarile si spiega che la società ha lo scopo di «provvedere alla stampa ed alla diffusione del giornale «l’Unità. organo del Partito Comunista Italiano». Il capitale è di un milione di lire, il consiglio di amministrazione è costituito da Giacomo Pellegrini, Amerigo Terenzi, Velio Spano, Alvaro Marchini. Il presidente del CdA è Giacomo Pellegrini, l’amministratore delegato è Amerigo Terenzi. Fra i sindaci c’è Pietro Ingrao. La redazione si trova a Roma, in via IV novembre, dove è anche la sede del partito. Il documento fu consegnato dalla figlia di Alvaro, Simona Marchini, alcuni anni fa, alla direzione e amministrazione del quotidiano.
Il coinvolgimento di Alvaro Marchini in quei primi passi de l’Unità nella Roma appena liberata non è casuale, il costruttore, insieme al fratello Alfio, aveva organizzato in tipografie clandestine la stampa e la diffusione del giornale comunista durante l’occupazione nazista.
Di quegli eventi è memoria in uno straordinario libretto che Alvaro Marchini pubblicò nel 1975. Il libretto dal titolo Andrea uscì anonimo in poche copie che vennero donate agli amici, nel 1993 Antonio Lisi, biografo di Gioacchino Gesmundo, dirigente comunista romano trucidato alle Fosse Ardeatine e fraterno amico di Alvaro Marchini, fu autorizzato da Simona (che negli eventi raccontati ha pochi mesi ed è chiamata con il diminutivo Netta) a rivelare chi fosse l’autore di Andrea, che era stato il nome in clandestinità di Alvaro mentre suo fratello Alfio era Luca. Lisi fece delle copie fotostatiche del libro e le inviò alle biblioteche perché non si perdesse quel pezzo di storia della Resistenza romana. Alvaro stampò il libro a sue spese nella tipografia Mengarelli, in via Cassiodoro 1, che fu la prima tipografia clandestina.
I fratelli Marchini erano arrivati a Roma bambini, quando il padre Sandro, muratore comunista, era dovuto scappare da Moiano in Umbria per le persecuzioni fasciste. A Roma Sandro aveva un amico comunista, Fausto Marzi Marchesi, ingegnere e costruttore che divenne presto per i ragazzi un punto di riferimento, come imprenditore e nell’attività cospirativa. Nei loro cantieri nascondevano altre tipografie e depositi di armi.
Dopo l’8 settembre Andrea-Alvaro incontrò per la prima volta Giorgio Amendola in corso Rinascimento, fino ad allora il loro gruppo era guidato da Gioacchino Gesmundo, professore di filosofia e politico finissimo che riuscì a tenere insieme il gruppo clandestino, nonostante le ripercussioni delle vicissitudini tremende dei processi staliniani, del patto Ribbentrop-Molotov.
«Tu dovrai occuparti de l’Unità – disse Amendola a Andrea-Alvaro – e non dimenticare che è sempre un lavoro clandestino, anche se questi parlano di libertà». «Una nuova tipografia assolutamente segreta fu allestita negli scantinati di un palazzo a Monteverde Vecchio, costruito da Fausto. Solo Andrea, Luca (Alfio), Fausto e Michele (Quartieroni, ndr) - continua il racconto - ne conoscevano l’esistenza. Da lì e da via Cassiodoro sarebbe uscita per 5 mesi l’Unità clandestina».
Quando Radio Londra trasmette il messaggio concordato che annuncia il prossimo sbarco di truppe anglo-americane a sud e a nord di Roma, i cospiratori entrano in fibrillazione. I tedeschi - pensano - per non rimanere accerchiati dovranno per forza lasciare Roma. Luca- Alfio deve occuparsi dell’insurrezione. Amedola chiede ad Andrea, «appena sbarcano» di «uscire con una edizione straordinaria de l’Unità». Nella notte del 22 gennaio c’è lo sbarco ad Anzio, Amendola consegna ad Andrea il materiale da pubblicare che viene portato nella tipografia clandestina di piazza Rosolino Pilo, nel pomeriggio c’è un secondo incontro fra Andrea e il capo comunista: «Ancora niente – dice Amendola – tieni pronta la stampa del giornale». Andrea va alla tipografia e ordina al tipografo Ettore: «Stampa, prepara i pacchi e aspetta». Ma dovevano passare sei mesi tremendi prima della Liberazione: arresti, distruzione delle organizzazioni clandestine a sud di Roma, via Rasella e l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
I fratelli Marchini organizzarono l’insurrezione di Monterotondo, Alvaro viene ferito. Si nascondono fino a quando una autoambulanza inglese li riporta a Roma, scaricandoli a Montesacro, dove Alvaro si emoziona, vedendo l’Unità in edicola, la sfiora con le dita. Giornalaio: «Volete l’Unità?», «Non abbiamo soldi». «Ma da dove venite?», «Da Monterotondo, siamo partigiani». «Partigiani da Monterotondo? Adele, vedi? So’ quelli che hanno liberato Monterotondo! So’ compagni! Tiè, pija l’Unità!».
A Roma cominciano i dolori, Andrea deve organizzare il giornale, l’amministrazione, la diffusione. Ma il clima è cambiato, da Parigi, il centro esterno del partito, è arrivato Giulio Cerretti che gli fa la guerra. In redazione c’è tanta gente che Andrea non ha mai incontrato durante la clandestinità. Nelle parole di Marchini si percepisce un sentimento di rivoluzione tradita. Ma il suo lavoro per un po’ va avanti. Quando entra in redazione trova i cassetti delle scrivanie pieni di soldi, i proventi delle vendite. «Ma come, manco un conto corrente?». La società per azioni viene creata per ovviare a quella situazione. Quanto alla diffusione, l’idea è di farsi dare dalla Fiat tre furgoncini 1100 militari da usare per fare la staffetta nell’Italia centrale, via Grosseto all’andata, attraverso l’Umbria al ritorno. A Torino il commissario del popolo alla Fiat, Battista Santhià gli dà i furgoni. La diffusione aumenta in modo straordinario. Andrea-Alvaro, nel 1975, si commuove ancora per i complimenti che gli fece Palmiro Togliatti: «È un successo politico». Con la collaborazione di Maria Luisa Righi Fondazione Istituto Gramsci
il Fatto 26.3.14
L’arte non può servire il potere
Anticipiamo un capitolo del libro dal titolo “Istruzioni per l’uso del futuro. Un’analisi sul patrimonio culturale e la democrazia che verrà”
di Tommaso Montanari
Anticipiamo un capitolo del libro di Tomaso Montanari dal titolo “Istruzioni per l’uso del futuro. Un’analisi sul patrimonio culturale e la democrazia che verrà”.
Asservire il patrimonio artistico alla propaganda dei valori del presente – per esempio asservirlo alle ragioni della politica attuale – significa disinnescarlo, neutralizzarlo: o peggio, pervertirlo, tradirlo, falsificarlo. Se l’arte dice la verità sulla condizione umana, difficilmente andrà d’accordo col potere: ed è per questo che in una democrazia basata su una Costituzione come la nostra, l’unico modo di gestire il patrimonio è metterlo al servizio della conoscenza, e dunque della verità, e non al servizio del potere, e dunque della propaganda e della mistificazione pianificata.
FACCIAMO UN ESEMPIO. Nel settembre 2013 una grande (cinque metri per due e mezzo) Annunciazione di Sandro Botticelli è stata spedita in Israele, per celebrare i 65 anni dello Stato ebraico. Botticelli la affrescò nella loggia esterna di una specie di orfanotrofio della Firenze del Quattrocento: l’Ospedale di Santa Maria della Scala. Quella Madonna che culla il suo bambino nella pancia, quella casa accogliente e tranquilla perdono un po’ di significato per ogni chilometro che si allontanano da Firenze. Il passare del tempo scompone il mosaico della storia in tante tessere, che dovremmo sforzarci di rimettere insieme, e non di allontanare. Con amore, possibilmente. Ma quando il ministro Massimo Bray ha provato a bloccare il viaggio del Botticelli volante – che anche a lui pareva senza senso – è scoppiata quasi una crisi diplomatica.
Non si potevano mettere in discussione gli accordi dello sventato predecessore, e il ministro degli Esteri Emma Bonino riteneva l’ostensione di un singolo Botticelli assai più efficace di una seria pianificazione di rapporti culturali. Quando Bray ha chiesto al massimo istituto di restauro italiano, il fiorentino Opificio delle Pietre Dure, una relazione sulle condizioni dell’opera, ne è arrivata una così concepita: la vera relazione tecnica, scritta da una restauratrice, diceva che l’opera aveva subito danni durante spostamenti recenti e che un’ulteriore movimentazione sarebbe stata “pericolosa”. Ma questa verità scientifica veniva schiacciata dalla lettera di accompagnamento del soprintendente dell’Opificio, dove la ragion di Stato induceva a definire “non significative” le preoccupazioni sullo stato di conservazione. E così Bray si è arreso, e Botticelli è volato a Gerusalemme. D’altra parte esiste un precedente eloquente: nel 1930 proprio Botticelli fu protagonista di una spettacolare quanto criminale mostra voluta da Mussolini a Londra, esaltata dal Corriere della Sera dell’epoca come “un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica”. E basta sostituire “brand Italia” a “razza italica” per ottenere la retorica propagandistica di oggi. Che travolge la verità della storia dell’arte e della scienza in nome delle ragioni di un potere autoreferenziale.
In una lettera scritta insieme a Sefy Hendler – che insegna Storia dell’arte all’Università di Tel Aviv – abbiamo provato a dire che entrambi crediamo profondamente nell’amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell’amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzate da scambi di singole opere “feticcio” decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento della comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un “evento” del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell’antico regime: nelle democrazie moderne le opere d’arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini.
UNA VERA MOSTRA di ricerca aperta al grande pubblico avrebbe ogni ragione di spostare dall’Italia a Israele, o viceversa, anche cento opere (magari meno fragili del Botticelli): non ha invece alcun senso spedire un’opera singola e irrelata, in un’operazione assai vicina al marketing. Crediamo che la regola fondamentale della conoscenza, e cioè il perseguimento della verità, debba stare anche alla base delle relazioni internazionali: specie quelle che si vogliono fondate sulla cultura. È per questo che dirsi la verità non può in nessun caso mettere in crisi, ma anzi può solo rafforzare, le relazioni culturali internazionali dell’Italia. Può sembrare curioso – certo sembra ingenuo – ricordarlo in un momento in cui “parole come verità o realtà sono divenute per qualcuno impronunciabili a meno che non siano racchiuse tra virgolette scritte o mimate”: ma “il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità [...] La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. In questo consiste ogni serio programma di politica culturale, a questo serve il patrimonio culturale. A dire la verità.
Repubblica 26.3.14
La lobby di Big Pharma
I padroni della nostra salute
Pressioni su medici e Asl, decreti legge affossati. Ecco come le multinazionali farmaceutiche condizionano il mercato. E la nostra salute
di Michele Bocci e Fabio Tonacci
«Egregio onorevole... ». Comincia così la lettera che deputati e senatori italiani si sono ritrovati nella posta elettronica 24 ore dopo la batosta della maxi multa da 180 milioni di euro inflitta dall’Antitrust a Novartis e Roche per lo scandalo Avastin. «Tengo a condividere con Lei, nell’attesa di poterlo fare di persona, che ci troviamo in forte disaccordo con i presupposti di quell’inchiesta...» .BigPharma aveva bisogno di parlare, di spiegare, di convincere. E il Parlamento è solo uno dei luoghi dove “premere”. Forse il più importante, ma non l’unico.
Corsie degli ospedali, ambulatori, convegni, aule di università: ogni luogo è utile quando si deve promuovere un nuovo flacone, una molecola innovativa, una lozione.
Basta individuare le persone o gli enti la cui voce ha un certo peso al momento degli acquisti. Prima di tutto i medici. Dalla borsa di studio pagata per dare uno stipendio al professore associato all’appuntamento scientifico in estate in località turistica. «I dottori vengono tutti studiati e schedati - racconta a Repubblica, con la garanzia dell’anonimato, un dirigente di una delle più grandi aziende del settore - per individuare quelli su cui fare pressione. Ci sono gli “autorevoli”, che hanno capacità di persuasione sugli altri, “gli inutili”, i “sensibili alle novità”, che basta presentargli le stesse gocce con un nome diverso e li hai già convinti ». Poco male se, come nella vicenda Avastin-Lucentis ,ci sono studi che ne hanno dimostrato l’eguale efficacia.
«Egregio onorevole...», scrive Novartis. Due cartelle firmate dall’amministratore delegato Georg Schroeckenfuchs per dire che «il nostro operato è sempre stato corretto» e che è «a disposizione per dare tutte le risposte necessarie ». Arrivando addirittura al mite consiglio di evitare ogni riforma della prassi dell’offlabel «fatta su basi emotive». Proprio così, su basi emotive. Insomma, una vistosa excusatio non petita. Diretta ai parlamentari, acquista un sotto testo che suona più o meno così: avete affossato quel comma 3 del decreto Balduzzi che modificava il regime dell’uso “fuori etichetta” dei medicinali, eccone le conseguenze. La lobby del farmaco lo sa. Chi votò quegli emendamenti, pure.
L’Avastin, per esempio. Prodotto dalla Roche per alcune forme di cancro del colon. Dal 2005 gli oculisti di tutta Europa cominciarono a utilizzarlo off label, cioè fuori dall’indicazione dell’etichetta, perché funzionava anche per le maculopatie. La legge lo permetteva. Oltretutto costava poco, 80 euro a dose. Poi però arrivò sul mercato il più costoso Lucentis della Novartis, 1.000 euro a fiala, specifico per quella patologia.
Il Parlamento si accorse che qualcosa non andava già nel 2007, quando cioè - come riporta il quotidiano La Notizia-una senatrice dell’Udc, Sandra Monacelli, presentò una dettagliata interrogazione all’allora ministro della Salute Livia Turco per chiedere di autorizzare ufficialmente l’uso di Avastin per gli occhi. Si discusse, si fecero prospetti, si snocciolarono dati. Sembrava fatta, ma l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, il 18 ottobre del 2012 decise di escludere il prodotto della Roche dall’elenco di quelli rimborsabili dal sistema sanitario. Paradossalmente su spinta proprio della Roche che, come testimoniano le decine di email interne recuperate dall’Antitrust e alla base della sua sanzione, aggiornava costantemente Novartis sullo stato della pratica.
Ma di maculopatie, in quello stesso periodo, si parlava anche nella commissione Affari Sociali della Camera, dove era in discussione il decreto Balduzzi. Il comma 3 dell’articolo 11, infatti, permetteva l’uso off label «qualora il farmaco sia in possesso del medesimo profilo di sicurezza di quello autorizzato e ci sia una convenienza economica». Un passaggio disegnato apposta per l’Avastin che avrebbe permesso al ministero di risparmiare qualche centinaio di milioni di euro, con buona pace degli interessi di mercato - legittimi, naturalmente - della Novartis, che del costoso Lucentis detiene il brevetto. Ma un emendamento proposto da Laura Ravetto e Giancarlo Abelli, allora entrambi nel Pdl, e passato con i voti di Pdl, Lega e Udc, lo cancella del tutto. «Il trionfo delle lobby», commentò un’infuriata Livia Turco, che di quel testo era relatrice.
Qualcuno resiste, nonostante tutto. E fa di testa propria. Alfredo Pazzaglia, oculista della oftalmologia del Sant’Orsola di Bologna, racconta: «Avremo fatto 9-10 mila iniezioni di Avastin e non abbiamo mai visto complicanze nei pazienti. Così per chi è già in trattamento firmo un foglio di assunzione di responsabilità e continuo ad usarlo».
Altra leva per convincere i medici, da sempre, sono i convegni. Silvio Zuccarini, oculista fiorentino della clinica privata Villa Donatello è un professionista che ha usato l’Avastin «migliaia di volte». E racconta: «Ai congressi trovavo luminari dei trattamenti della retinopatia che attaccavano violentemente chi continuava ad usarlo, sostenendo che era illegale. Sono sicuro che hanno le spalle coperte da gruppi potenti».
Big Pharma, del resto, sa come farsi amici quelli che contano. Non è un caso che l’unica donna imprenditrice accanto al presidente del consiglio Matteo Renzi durante l’ultimo vertice bilaterale italo-tedesco di Berlino fosse Lucia Aleotti, capo di Menarini, colosso da 3,27 miliardi di fatturato all’anno, che con il premier condivide le origini toscane. Una delle donne più potenti dell’economia italiana, però, è anche un’imputata. Nel giugno scorso è stata rinviata a giudizio insieme al fratello Giovanni e al padre Alberto Aleotti, che di Menarini è il patron storico. Per 20 anni l’azienda - sostengono i pm fiorentini - avrebbe sistematicamente gonfiato il prezzo dei suoi farmaci, causando un danno di 860 milioni di euro allo Stato. In questa faccenda, Lucia Aleotti deve rispondere di evasione fiscale, riciclaggio e corruzione (quest’ultimo reato insieme al padre). Al processo si sono costituite parte civile tutte le Asl d’Italia.
«Il sistema pubblico deve emanciparsi dall’industria, avviando ricerche autonome». Lo pensa e lo dice Pier Giuseppe Pelicci, il condirettore dell’Istituto oncologico europeo di Veronesi. Oncologo e farmacologo, ha un’idea ben definita sui rapporti perversi che possono nascere tra le multinazionali e il sistema pubblico. «Il caso Avastin - spiega - insegna che le leggi le devono rispettare tutti, indipendentemente dal loro potere. Ma la domanda fondamentale che dobbiamo porci è un’altra: come è possibile che i farmaci costino così tanto?». Esatto, come è possibile? «Ci fanno pagare anche i fallimenti delle ricerche. Possiamo uscirne solo in un modo, facendo anche noi ricerca sui medicinali. Non siamo innocenti, abbiamo delegato gli studi in questo campo a Big Pharma e non si può pensare che loro lavorino senza orientarsi al profitto. Contemporaneamente però il pubblico investe poco in ricerca e finiamo in una situazione di sudditanza». La strada, secondo Pelicci, è segnata. «Ci costa di più comprare i farmaci o investire per produrli? Secondo me acquistarlo, per questo lo Stato deve aumentare gli investimenti nella ricerca: in prospettiva risparmierà per l’acquisto dei farmaci, perché se li farà da solo». Una maggiore autonomia scientifica potrà portare anche a emancipare la politica dall’attività di lobby e dagli interessi delle case farmaceutiche.
Repubblica 26.3.14
Ma l’industria non è il male assoluto
di Gilberto Corbellini
Da un paio di decenni l’industria farmaceutica ha sostituito quella degli armamenti nel cosiddetto immaginario collettivo, come paradigma della malvagità e dell’egoismo di cui gli uomini sono capaci quando si lasciano ammaliare dal profitto economico. L’epiteto diventato sinonimo di un Moloch che sfrutta i bisogni umani di salute.
Probabilmente è anche perché di mestiere studio e insegno Storia della medicina e Bioetica, che questo luogo comune non mi ha mai convinto. Non è di sicuro un’invenzione che prima dell’avvento dei metodi sperimentali per studiare le cause delle malattie, e per controllare le procedure di produzione, sviluppo e valutazione della sicurezza ed efficacia dei farmaci, la salute umana era peggiore.
Vaccini e farmaci sono stati i principali mezzi a disposizione della sanità pubblica per ridurre malattie e morte. Ancora nel corso del decennio scorso l’innovazione farmaceutica ha contributo per circa metà all’allungamento dell’attesa di vita nei Paesi occidentali, e si stima per un sesto alla riduzione della mortalità per cancro - parliamo sempre solo di farmaci innovativi. In Occidente farmaci o trattamenti avanzati sostengono concretamente anche la speranza di una vita qualitativamente apprezzabile per centinaia di milioni di malati.
Questi successi richiedono un costante miglioramento di conoscenze e tecnologie, e controlli adeguati per incrementare la sicurezza, cioè ridurre gli effetti avversi, e per valutare l’efficacia dei principi o dei preparati. Quindi gli esami a cui deve essere sottoposto un qualunque nuovo principio, che si pensa possa diventare farmaco, sono articolati, incerti, costosi, e richiedono in media più di 10 anni. Si parte da oltre 5mila composti per ottenerne uno che entrerà sul mercato, e l’investimento medio per ogni farmaco innovativo, calcolando anche gli insuccessi, è dell’ordine di 1,2 miliardi di dollari.
Attraverso questi investimenti l’industria farmaceutica sostiene sia la ricerca di base sia l’innovazione tecnologica, cioè aiuta il progresso economico e sociale. Anche se chi guida l’industria, si preoccupa prima di tutto di fare profitto, senza questi ricavi non vi sarebbero le risorse finanziarie che alimentano la spirale di vantaggi generalizzati di cui tutti godiamo. I farmaci rimangono i prodotti industriali con il più elevato valore aggiunto dal punto di vista scientifico, tecnologico e sociale. Circa il doppio rispetto agli altri prodotti industriali. Per inventare e portare sul mercato farmaci innovativi servono ricercatori scientificamente eccellenti e tecnologie sofisticate, nonché un sistema gestionale molto complesso. Stante la necessità di tempi lunghi di sviluppo ed elevati investimenti, i ricavi non sono così certi e stabili - anche se possono essere ingenti - come farebbe credere la vulgata mediatica. Di fatto sono influenzati da un periodo relativamente breve di sfruttamento reale del brevetto. Dopo il lancio, è mediamente di poco superiore a 10 anni. Questo significa che nel giro di 10 anni un farmaco importante va in qualche modo sostituito da uno equivalente o migliore, a fronte del fatto che esistono dei competitori e non sempre i margini di miglioramento ci sono. Si può decidere di cambiare area di intervento clinico, ma è un rischio non da poco.
Qualcuno pensa che ci libereremmo di una minaccia facendo scappare l’industria farmaceutica verso i Paesi asiatici? O che vi sia denaro pubblico a sufficienza per far fronte alle disastrose conseguenze di un’eventuale contrazione dell’industria farmaceutica occidentale? Forse pensiamo che alimentando le paranoie anti-industriali e anti-mercato, che si sono manifestate in tutto il loro candore di fronte all’ipotesi di un cartello farmaceutico nella vicenda Avastin/Lucentis risolveremo più rapidamente i problemi economici dell’Italia?
Coltivo anche una visione naturalistica della psicologia umana, per cui ho imparato e verificato che invidia e ipocrisia sono tratti umani innati, da cui viene quella forma di autoinganno che induce a credere che possa sempre esistere una soluzione ottimale per un problema - se non si trova è perché qualcuno sta complottando ai nostri danni - e che le persone siano ragionevoli, cioè che possano mai davvero accontentarsi di soluzioni solo vantaggiose. Se poi è in gioco la salute, men che meno. Quando le cose vanno relativamente male, è una tendenza innata anche dire che non sono mai andate peggio di così. Ma, inquesto caso, non è vero.
(L’autore è docente di Storia della medicina e Bioetica all’università di Roma Sapienza)
Repubblica 26.3.14
Vent’anni dopo
Dai furbetti alle olgettine, la mutazione di un Paese
Il nuovo libro di Enrico Deaglio è un’indagine con ricordi e testimonianze sui cambiamenti italiani, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi del ’94
di Concita De Gregorio
Enrico Deaglio lo ha fatto di nuovo. Un diario finito stamattina, l’ultima pagina è oggi. Una foto scattata in movimento, mentre ancora tutti gli invitati alla festa stanno risalendo sulle auto tenendo con una mano la coda del vestito, la pochette sotto l’ascella nuda, gli uomini il piede nella berlina la portiera aperta il sorriso troppo largo ad uso della tv, buonanotte e grazie del vostro lavoro. Nitida la foto, ferma la mano: ogni dettaglio bene in vista e il quadro d’insieme ai lati del grandangolo, sul fondo. Vent’anni. Il Ventennio, il secondo dei due. 1994, 2014.
Indagine sul ventennio, s’intitola il libro. Proprio come se fosse un delitto, o per lo meno un pasticciaccio brutto. Al principio di questa storia Deaglio aveva mandato alle stampe per la stessa casa editrice, Feltrinelli, i primi due suoi quadernetti di appunti. Il “diario di un anno abbastanza crudele”, era il 1994 e il titolo del libroBesame mucho. Poi il “diario di un anno che poteva anche andare peggio”, era il 1995, il libroBella ciao.Dopo è venuto altro: romanzi, biografie di uomini notevoli, storie di gesti efferati e di agguati. Nel 2010 l’antologia di un trentennio, dagli anni Settanta ai Duemila, per il Saggiatore: un’opera monumentale, un abbecedario indispensabile a chiunque si occupi di cosa
è accaduto in Italia, per chi voglia sapere l’Italia cos’è:Patria. Adesso, di nuovo, quaderni di diario: con gli appunti e le interviste, il glossario e i post-it su cosa facevamo, come mangiavamo, cosa dicevamo in quegli anni. Però nel frattempo Deaglio, che è un grande giornalista attento soprattutto alle cose di politica e di mafia, è andato a vivere in America, a San Francisco. Sarà per l’oceano che ha messo in mezzo, ma questo suo ultimo diario ha qualcosa di meno e qualcosa di più rispetto agli altri. Di meno: l’enfasi, il personale ingaggio, l’illusione e la disillusione di chi è dentro la storia che racconta. Di più: la chiarezza quasi da antologia scolastica, la nitida messa a fuoco, alla distanza, della sequenza. Di suo, sempre, c’è quella peculiare capacità di essere analitico nella sintesi, sintetico nell’analisi. «I furbetti del quartierino furono i nostri lupi di Wall Street». Le olgettine «fantastico gruppo di ragazze, un vero musical. Le prime a capire che un’orgia poteva trasformarsi in sindacato».
Indagine sul ventennio non è una lettura adatta a chi pensi, avvisa l’autore, che questi due ultimi decenni abbiano portato freschezza novità e liberalismo. Costoro d’altra parte si sarebbero astenuti comunque dal leggere un libro di Deaglio. Così oggi stanno le cose: si legge ormai quasi solo per avere conferma di quel che già si pensa, in generale. Assai di rado per curiosità, per mettere alla prova le proprie certezze o esercitare il dubbio. Sarebbe interessante avere a disposizione un’analisi altrettanto documentata, precisa e dettagliata da mettere a confronto con questa: una confutazione punto per punto. Per qualche ragione, tuttavia, manca. Per il momento manca.
Il racconto di Deaglio parte dall’alba del nuovo mondo, il ’94, e si occupa sì di Silvio Berlusconi, le sue origini la sua ascesa i suoi legami e i suoi padrini, i suoi alleati. Racconta certo la storia di un uomo e della stagione politica che lo ha visto dominare la scena, stagione che sarebbe azzardato oltre che ingenuo considerare chiusa. Più di tutto, però, si occupa di cosa sia stato e cosa sia ancora il berlusconismo. Una definizione di quello spirito gregario, servile, pronto all’acchiappo del piccolo vantaggio che tanti considerano connaturato all’indole dell’italiano medio, amorale familista e antistatuale. Già Piero Gobetti nel ’24 diceva che più grave del fascismo era stato il mussolinismo, «abito cortigiano, scarso senso della propria responsabilità, vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza». Del duce, poi, cambia il nome ma sempre qualcuno che arrivi a risolvere si attende.
Il berlusconismo, dice Deaglio, «se ti prende da giovane è una brutta bestia, perché nasci senza aver visto altro; se ti prende da adulto è quasi peggio perché ti viene il terrore di morire prima che finisca ». Grande la responsabilità delle opposizioni, nel Ventennio. «Il Pci sapeva, taceva, trattava. Gli eredi del Pci non si accorsero, quando si accorsero non si opposero sicuri di soccombere in uno scontro aperto. Non furono né intelligenti, né lungimiranti, né coraggiosi ». Le ragioni dell’interesse di Silvio Berlusconi per la politica l’autore le lascia declinare a Fedele Confalonieri: lo fece perché «altrimenti noi oggi saremo sotto un ponte o in galera con un’accusa di mafia». Detto e noto questo resta da capire l’atteggiamento degli italiani. Il perché, più del come. Il movente non del colpevole del delitto ma della vittima consenziente. Perché acconsentiva, la ragione del consenso.
Deaglio ne chiede conto a Romano Prodi per la parte strettamente politica, a Peppino Ortoleva domanda del potere televisivo, ad Andrea Jacchia della degenerazione della borghesia, a Fausto Melluso, studente universitario, chiede come sia stato crescere a Palermo, a Roberto Saviano di Napoli e Caserta. Ogni tanto disserta e ricorda come parlavamo, cosa dicevamo in quegli anni. Berlusconi mi ricorda mio cognato. Inciucio, lodo, mi consenta. Passo indietro, pizzino. Ad personam, metterci la faccia, usato sicuro. Poi, ostinato, torna a chiedere. A Mario Deaglio di economia. A Ivan Carozzi di usi e costumi. Ad Adriano Sofri il ventennio visto dalla galera. A Gad Lerner dell’ascesa della Lega, a Massimo Recalcati una diagnosi psicanalitica di nevrosi, ossessioni, paranoie. Intanto, come di passaggio, torna a declinare con esattezza la storia dell’acquisto di villa San Martino ad Arcore, la riunione coi capi di Cosa Nostra di cui si dà conto nel dettaglio nella sentenza di condanna di Marcello Dell’Utri, i legami con la mafia, nomi e cognomi di tutti. Come passavamo il tempo libero, nel frattempo. Cosa vedevamo in tv, cosa leggevamo se ancora stavamo leggendo. Come mutavano i paesaggi: il Veneto, il parlamento, Genova nei giorni del G8, la terra dei fuochi.
Dice Saviano: «Probabilmente i problemi dell’Italia sono più gravi di quanto pensassimo. Probabilmente siamo tutti parte del problema». Dice Sofri: «Quando sono uscito dalla prigione mi sembrò che le persone avessero facce incattivite, anche quando parlavano da sole per strada, anche quando guidavano l’automobile. Solo un’impressione ». Dice Prodi, nell’intervista forse più importante, che Berlusconi certo si poteva sconfiggere e difatti in qualche occasione è accaduto, ma in sostanza le «divisioni e i personalismi dell’opposizione hanno lanciato all’opinione pubblica il messaggio che non vi fossero alternative concrete a Berlusconi». Non è scontato, aggiunge, che non sarà così anche alle prossime elezioni.
In coda al capitolo sul miraggio fallico (Recalcati) e a quello, tecnico, intitolato “La gnocca”, parlano due donne. Silvia Ballestra, scrittrice, e Marcelle Padovani, giornalista corrispondente dall’Italia per il suo paese, la Francia. Padovani racconta che ad una conferenza alla Stampa estera Berlusconi la avvicinò per chiederle, galante, quale fosse il suo profumo. Lei ebbe la prontezza di domandargli subito, specularmente, quale fosse il suo. Berlusconi non lo ricordava. Il giorno dopo le arrivò un pacco imponente da Palazzo Chigi, accompagnato da un biglietto: «Ecco la risposta alla sua domanda». Era colmo di decine di creme, dopobarba, deodoranti e polveri col marchio Antaeus di Chanel. «Insomma, il presidente del Consiglio mi aveva spedito un pacco pieno del suo odore». Ecco, questo. Indagine su un ventennio torbido come una palude, ma odoroso di Chanel.
La Stampa TuttoScienze 26.3.14
Carlo Rovelli
“Prima del Big Bang l’Universo fece il Grande Rimbalzo”
La rivoluzione si chiama “gravità quantistica”
intervista di Gabriele Beccaria
Mai credere al buon senso. Ovunque si rivolga lo sguardo le apparenze ingannano. L’aveva già capito un antico filosofo, Talete, e la lezione arriva dritta al presente: la fisica ci prende a pugni, come per svegliarci, e svela - pezzo dopo pezzo - com’è il mondo vero, quello invisibile.
«La realtà è una rete di eventi granulari. E, tra un evento e l’altro, spazio, tempo, materia ed energia sono sciolti in una nuvola di probabilità», scrive Carlo Rovelli, fisico dell’Università di Aix-Marsiglia nel saggio «La realtà non è come appare», edito da Raffaello Cortina. Il tutto si agita in forme talmente bizzarre da mettere in dubbio perfino la solidità del nostro io. Anche Talete sarebbe sorpreso, per esempio di sapere che le ricerche che stanno generando questa rivoluzione si concentrano in una disciplina ancora magmatica: la gravità quantistica.
Professore, facciamo un passo indietro: lei sottolinea che c’è una specie di schizofrenia tra la Relatività generale e la meccanica quantistica che ci impedisce di capire davvero la realtà: in cosa consiste?
«Rispetto alla fisica classica, precedente all’una e all’altra, la Relatività ha cambiato la nozione di spazio e di tempo ma ha lasciato la materia com’era, mentre la meccanica quantistica ha cambiato il modo di descrivere la materia, ma ha lasciato lo spazio e il tempo come prima. Di mettere insieme queste due realtà, per ora, nessuno si è ancora rivelato capace».
Ed ecco allora entrare in scena la gravità quantistica, che punta a conciliare le due teorie: qual è l’idea forte da cui parte?
«Che lo spazio-tempo ha esso stesso proprietà quantistiche. È fatto cioè di grani».
Se si immagina l’Universo con gli occhi di un fisico che sposa la gravità quantistica, come apparirebbe?
«Invece di uno spazio in cui tutte le cose vivono, lo spazio viene sostituto da una struttura composta da tanti granelli dinamici, che si trasformano gli uni negli altri in continuazione».
È un’idea tremendamente controintuitiva, come spesso accade con la fisica. È così?
«Sì. E’ un altro passo verso una più precisa descrizione del mondo, diversa dall’intuizione elementare».
E allora cambiano anche i modi di concepire tanti maxi-problemi: che cosa diventa per esempio il Big Bang?
«Fino all’altro ieri cosa sia successo al momento della nascita dell’Universo era solo un punto interrogativo e le teorie disponibili facevano predizioni insensate. Con le equazioni della gravità quantistica, invece, possiamo iniziare a studiare cos’è avvenuto. La prima indicazione che emerge è la possibilità che l’Universo non sia esploso dal nulla, ma sia rimbalzato da una fase precedente, in cui si contraeva. Il Big Bang, quindi, non è l’inizio di tutto, ma l’inizio della fase che vediamo noi e che segue rispetto a un’altra precedente».
Lei scrive che si trasforma anche l’idea dei buchi neri: che cosa sarebbero?
«Tendono a somigliare, in qualche modo, all’idea che ci stiamo facendo dell’inizio dell’Universo: anche in questo caso ci sarebbe un punto estremo, in cui tutto si concentra e dove le equazioni standard non funzionano».
I buchi neri, però, vengono studiati già da tempo: che cosa suggeriscono le osservazioni in cielo?
«Noi ne vediamo solo il bordo. Ma le equazioni ci suggeriscono cosa potrebbe succedere al loro interno e anche cosa potrebbe succedere nel futuro lontano, perché i buchi neri non hanno una vita infinita».
E qual è l’ipotesi?
«Che evaporino. Al centro si verifica un “rimbalzo”, che fa sì che nel futuro la materia entrata possa uscire di nuovo e il buco nero, così, si sciolga».
Un’altra rivoluzione della gravità quantistica è un concetto ancora più astruso, quello della «soppressione degli infiniti»: di cosa si tratta?
«E’ un’idea ancora speculativa, ma oggi la fisica sembra aver eliminato quella che sembrava essere la possibilità di una direzione infinitamente grande o infinitamente piccola. L’infinito sparisce».
Può spiegare meglio?
«Mi riferisco alla continuità dello spazio. La meccanica quantistica dà un taglio all’idea che lo si possa dividere all’infinito e che in ogni granellino ci possano essere universi e universi: sostiene che al di sotto di una determinata scala non c’è più niente, un po’ come accade con la materia ordinaria. La gravità quantistica, da parte sua, suggerisce che anche lo spazio presenta questa granularità: ha un numero finito di “mattoncini”. Alla fine, perciò, li si può contare e arrivare a un numero che, per quanto stratosferico, è finito. Non infinito. È una grande differenza».
È una svolta anche filosofica.
«Sì. E’ da Aristotele che il concetto di infinito ci confonde e che si cerca di domare. Ciò non significa che nella matematica non esista più, ma nel mondo fisico non ci sarebbe».
A che punto è la teoria della gravità quantistica? Che prove deve superare?
«Non dispone ancora di prove sperimentali e perciò deve fare gli esami e dimostrare di essere una teoria coerente e compiuta. Ci sono molte questioni aperte: sia teoriche (siamo sicuri che non ci siano aspetti nascosti che poi si rivelino contraddittori?) sia sperimentali (siamo sicuri che la realtà dia tutte le conferme necessarie?)»
Si può pensare a un esperimento decisivo (o quasi)?
«Esistono lavori che cercano di trarre dalla teoria delle conseguenze da testare in varie direzioni. Altrimenti avremmo lavorato per nulla. Ma più che un esperimento è corretto parlare di osservazioni cosmologiche».
Vale a dire?
«L’eliocentrismo non ha richiesto un esperimento, ma tante osservazioni. E lo stesso è stato in tempi recenti per la radiazione cosmica di fondo. Penso, perciò, a raccolte dettagliate di dati: potrebbero mostrare tracce significative dei momenti in cui la gravità quantistica aveva effetti importanti sulle future trasformazioni dell’Universo».
La Stampa TuttoScienze 26.3.14
“Non è cancerogena”
Così la ricerca smentisce i falsi miti sulla pillola
In Italia sono ancora poche le donne che la usano
di Stefano Rizzato
Sul suo conto se ne dicono e sentono di ogni genere. Che faccia venire il cancro e anche la cellulite. Che riduca la fertilità e perfino il desiderio sessuale. Che vada interrotta ogni tanto e che non vada presa prima dei 20 anni. Tutti limiti e rischi che la pillola anticoncezionale, in realtà, non ha. Così, per cancellare la lunga serie di falsi miti, si è mossa in modo deciso la Società Italiana della Contraccezione. Con un decalogo, che ad ogni «leggenda» sul conto della pillola contrappone la ragione dei dati scientifici.
Ad essere ribaltati dai più recenti studi in materia sono prima di tutto i presunti effetti cancerogeni. Non solo non ci sono prove che la pillola provochi il cancro, ma i dati la indicano come principale strumento per la prevenzione del tumore dell’ovaio: quello più ostico e letale, difficile da diagnosticare in tempo e con tassi di sopravvivenza bassi. «A mostrarlo sono studi su larga scala, pubblicati sul “British Medical Journal”», assicura Franca Fruzzetti, ginecologa dell’ospedale Santa Chiara dell’Università di Pisa. «Per il tumore dell’ovaio la pillola rappresenta uno dei pochi fattori di protezione: dimezza il rischio relativo ed è particolarmente efficace se viene assunta in modo prolungato e continuo. Non soltanto: l’effetto protettivo degli estro-progestinici resta valido anche 20 anni dopo l’interruzione, proprio nell’età più a rischio per questo tumore».
A confermare tutto questo è anche una corposa meta-analisi che incrociava 45 studi epidemiologici, pubblicata nel 2008 sulla rivista «Lancet». «Secondo quella ricerca, il rischio di contrarre il tumore dell’ovaio si riduce del 20% ogni cinque anni di utilizzo della pillola - spiega la specialista -. Dalla pubertà in poi non c’è invece motivo di attendere: il contraccettivo orale non interferisce né sulla crescita né sul metabolismo. Anzi, può essere un alleato prezioso per un’età a rischio dal punto di vista dei comportamenti sessuali».
Tra le preoccupazioni ricorrenti riguardo alla pillola, tuttavia, non tutte sono fasulle. È vero che il contraccettivo orale aumenta il rischio trombosi, quindi di coagulo agli arti inferiori. «Ma è un rischio che va ridimensionato», sottolinea Annibale Volpe, past-president della Società della Contraccezione. «L’incidenza normale della trombosi è di due donne ogni 10mila. Quella tra chi prende la pillola oscilla tra i cinque e i 12 casi ogni 10mila. Siamo su cifre ancora molto basse, cinque-sei volte inferiori a quelle che riguardano le donne in gravidanza. In compenso la pillola è efficace come cura - e in futuro forse come prevenzione - per l’endometriosi, una patologia che colpisce una donna su 10, tre milioni solo in Italia».
Nel nostro Paese, però, a usare la pillola come contraccettivo è solo il 16,2% delle donne. Numeri in linea con quelli degli Usa, ma al di sotto della media europea del 21,4% e di Paesi come Germania (52,6%) e Francia (41,5%). «Così continuiamo ad avere quasi 110mila interruzioni di gravidanza all’anno - osserva Volpe -. Sugli effetti collaterali bisogna poi fare chiarezza e dire che la pillola non modifica il metabolismo dei grassi. E che ad ogni inconveniente si può rimediare con l’aiuto del medico, scegliendo il tipo più adatto alle proprie esigenze. Ormai sono molte le pillole naturali».
Contro leggende e falsi miti innovazione e informazione devono andare di pari passo. «Tra una visita ginecologica e l’altra passano anche 18 mesi: in mezzo c’è il rischio di cadere nella trappola della disinformazione», dice Carlo Capo, B.U. Branded director di Teva Italia, azienda leader per i farmaci generici. Un altro campo dominato da troppi falsi miti. «Sui generici ci sono ancora tante resistenze, ma sono farmaci equivalenti di nome e di fatto. Non dimentichiamo che l’agenzia Aifa controlla la sicurezza e la bontà di tutto ciò che entra sul mercato e che ogni anno si vendono centinaia di milioni di confezioni. Senza che nessuno ci abbia mai rimesso la salute».
Allo stesso modo sgomberare il campo dai timori ingiustificati sulla pillola è prima di tutto un passo culturale. «L’obiettivo - dice Capo - dev’essere quello di portare le donne nella condizione di scegliere ed essere protagoniste della propria sessualità. La nostra ricerca sulla salute femminile è continua e per noi è un campo importante quanto gli altri settori di cui siamo leader, dalle terapie del dolore alla sclerosi».
La Stampa 26.3.14
Anche tu puoi diventare un grande oratore
Basta seguire i segreti dei Ted Talk di Monterey, ora in un libro
di Vittorio Sabadin
In un’epoca nella quale persino le discussioni politiche avvengono su Twitter e su Facebook, l’arte oratoria non sembra più necessaria. Eppure c’è un luogo, Monterey in California, dove ancora la si pratica con passione: ogni anno, personalità di spicco del mondo della scienza, della cultura, dell’economia e della politica vengono invitate al TED Talk a tenere un discorso davanti a 1400 persone. Ci sono andati Bill Clinton, Bono, Bill Gates e Larry Page, Jimmy Wales e numerosi Premi Nobel. TED sta per «Technology, Entertainment, Design», ma si può parlare di ogni idea che meriti di essere diffusa. L’importante è fare un bel discorso, che conquisti il pubblico e resti memorabile.
Si può imparare molto dalle conferenze che da 30 anni si tengono a Monterey. Carmine Gallo, un famoso esperto di comunicazione, ne ha esaminate 500 per scoprirne i segreti, condensati nel libro «Talk like Ted». Per fare un bel discorso, consiglia Gallo, si deve creare un connessione emotiva con il pubblico. Bisogna raccontare una nuova esperienza e fare in modo che diventi memorabile. Per riuscirci, è necessario seguire tre direttrici principali.
Innanzi tutto, bisogna raccontare una storia. Dai tempi di Omero, gli esseri umani sono sempre incantati dalle storie, e le ascoltano volentieri. Le storie hanno un inizio e una fine, e si deve portare con sé il pubblico in un viaggio che non si aspettava di fare. Quando Sheryl Sandberg, una delle donne più influenti del mondo, andò al TED Talk, aveva preparato la solita presentazione di dati e slide sulla condizione del lavoro femminile. Prima di salire sul palco, raccontò ad un amico che la sua bambina, mentre usciva di casa, le aveva toccato una gamba e le aveva detto: «Mamma, non andare via per favore». L’amico le suggerì di dirlo al pubblico. Sandberg lo fece, e scoprì che il modo migliore per connettersi con l’audience è attraverso le storie. Non devono sempre essere storie personali, possono essere case history, ma devono raccontare le vicende di qualcuno. Gallo suggerisce che ogni discorso sia per il 75% storie e per il 25% dati.
Il secondo imperativo di una presentazione efficace è provocare emozioni. A Monterey, Bill Gates tenne nel 2009 un discorso sulla malaria. Il fondatore di Microsoft posò sul tavolo un grande vaso trasparente pieno di zanzare, lo aprì per lasciarle uscire e disse: «Volevo spiegarvi come si diffonde questa malattia». Ogni momento che crea sorpresa, shock, persino paura rende l’evento memorabile. Il cervello umano rilascia dopamina quando viviamo esperienze molto tristi o molto felici e questo le fa diventare indimenticabili. Dare al pubblico zanzare invece di slide in powerpoint rese il discorso di Gates del tutto nuovo e inatteso e lo impresse nella memoria di tutti.
L’ultimo consiglio riguarda la regola del 3. Gli esseri umani amano le comunicazioni in gruppi di tre. Ci sono i tre Porcellini e i tre Fanciulli del Flauto Magico di Mozart, i film e i romanzi vengono realizzati in trilogie e ogni cosa che ci viene spiegata con tre argomenti risulta più convincente. Gallo consiglia di ricorrere sempre a tre gruppi di informazione, sia che si tratti di vendere un prodotto che di illustrarne le nuove caratteristiche. Tre concetti si fissano sempre nella memoria a breve termine, cosa che non avviene con la stessa efficacia se sono due o quattro.
Chris Anderson, che è ora responsabile di TED Talk, ha suggerito in un articolo sulla Harvard Business Review di dare anche molta importanza alla presenza fisica e a come ci si muove sul palco, elementi che di solito si tende a trascurare. Bisogna essere a posto, non agitarsi, non leggere e non imparare a memoria. Bisogna comunicare concetti freschi, mai sentiti prima. E bisogna fare prove decine di volte, davanti agli amici, con settimane di anticipo. I discorsi di Monterey sono disponibili online ed è un piacere ascoltarli. Tra un tweet e l’altro, una boccata di aria fresca.
La Stampa 26.3.14
Ma il seduttore è uno di poche parole
La ricerca canadese: l’uomo silenzioso in genere è considerato più “macho”
di Lorenza Castagneri
Da sempre tutti pensano che le donne siano attratte dagli uomini di poche parole per via di quell’aura di mistero che li circonda. Non è così. Oggi si scopre che i tipi silenziosi seducono perché questa loro caratteristica è considerata un segno di mascolinità.
In media, le signore parlano tre volte tanto rispetto agli uomini. E così, quando incontrano un potenziale fidanzato troppo chiacchierone, finiscono per considerarlo una «femminuccia», noioso e tutt’altro che affascinante. A dirlo è una ricerca condotta dalla University of British Columbia in Canada, pubblicata sulla rivista scientifica «Plos One».
La professoressa di linguistica Molly Babel ha registrato la voce di 60 volontari, 30 uomini e 30 donne. Poi, la docente e i suoi colleghi hanno chiesto ai partecipanti all’esperimento di dare un voto compreso tra «uno» e «nove» al fascino emanato dagli altri, basandosi esclusivamente sul loro timbro vocale. Uno dei primi risultati è stato che le persone sono naturalmente più attratte da chi ha un accento e un tono di voce simile al proprio. Motivo: ci sentiamo parte dello stesso gruppo sociale e viviamo con più serenità ciò che ci accade.
Poi è venuto fuori questo: le donne preferiscono l’uomo laconico che usa termini brevi e che, quando c’è una decisione da prendere, taglia corto, piuttosto che perdersi in mille, barbosissime discussioni.
Meglio ancora se ha un tono di voce basso, alla George Clooney. Semplicemente irresistibile. Dietro c’è una ragione ben precisa. Il motivo - suggerisce lo studio - è che la mente pensa che i maschi che possiedono questa caratteristica abbiano anche un fisico più possente e muscoloso. Da macho vero, insomma. Il che non lascerebbe le signore indifferenti.
Quanto alle donne, l’esperimento ha evidenziato che le più apprezzate sono quelle con un timbro vocale acuto a cui, il cervello maschile, fa corrispondere un corpo più esile e indifeso. Da proteggere. C’è di più. Gli uomini amano le signore che parlano quasi ansimando, come faceva Marilyn Monroe. Lo percepiscono come un segno di giovinezza, di buona salute e di gioia di vivere. Al contrario, una voce stridula, fiaccata dalla stanchezza, da una vita passata a fumare una sigaretta dopo l’altra, e, magari, pure dal raffreddore, non ci vuole un genio a capirlo, è decisamente poco stuzzicante.
Preferenze a parte, la ricerca mette in luce l’importanza del modo in cui si parla nell’approcciarsi agli altri. In particolare con un eventuale partner. «La voce - ha detto la professoressa Babel - è uno strumento incredibilmente flessibile. Ricchissimo di sfumature. Fondamentale - conclude - per costruire l’identità stessa di ogni individuo».
Corriere 26.3.14
L’amore al tempo dI Botteghe Oscure
di Raffaele La Capria
Uno spiritello sulfureo e irriverente, appare e scompare nella uniforme nuvolaglia della narrativa italiana di questi anni in cui tutti scrivono un libro autobiografico come se sapessero che potrebbero morire senza che nessuno abbia preso nota della loro esistenza. Lo spiritello appartiene a Umberto Silva, scrittore irregolare e pour cause. Lui è diverso da tutti questi, con lui la musica cambia, diventa estrosa lieve e dissonante.
Silva i suoi libri li pensa li scrive e se li pubblica da sé, nella piccola casa editrice Il sofà magico. I grandi editori, la radio, la televisione, i giornali, ormai promuovono ed accettano soltanto chi è già promosso dal successoci: si è mai visto a Che tempo che fa o Le invasioni barbariche , a Otto e mezzo o in una qualsiasi trasmissione soi-disant culturale della tv, promuovere qualcuno che non è già una celebrità?
I libri di Umberto Silva e il loro autore, per esempio andrebbero promossi, sono libri esili, quasi tutti meno di cento pagine, si leggono velocemente e senza fatica, ma ci vuole un orecchio capace di captare l’onda di una scrittura terribilmente ironica e sapiente, consapevole di attraversare un mondo che la guarda con sospetto a causa dell’apparente frivolezza. L’ultimo di questi libricini si intitola L’amore al tempo delle Botteghe Oscure , e proprio nel palazzone del Partito comunista lo scrittore attraversandone la pesantezza con la sua frivolezza, mette l’una di fronte all’altra, facendo risaltare meglio e di più quanto noiosa è diventata oggi quella pesanteur . È una pesantezza che oggi, tutti sentiamo di più e tutti sopportiamo la pesantezza che appesta l’aria che si chiama politica italiana, fatta di chiacchiere e pettegolezzi, di sottili distinguo, dove non si capisce niente di quello che avviene tra partiti, leggi, decreti, tasse, il bene e il male, e dove non si sa mai come stanno le cose .
Che c’entra tutto questo col libro di Umberto Silva? C'entra perché noi non ne possiamo più di questa pesantezza, noi vorremmo sentire ogni tanto una musica diversa, «con brio», come quella che suona Silva; vorremmo uscire da questa atmosfera ammorbante dove siamo chiusi come in uno scatolone, lo scatolone che in metafora, nel libro di Silva, è il palazzo del Partito comunista in via delle Botteghe Oscure. Lì si muovono come en passant fantasmi dai nomi familiari, Pajetta, Secchia, che Silva ha davvero conosciuto, e tra loro lo scrittore, rievocando il passato, si aggira nelle severe stanze del Palazzo disinibito e vivace come il topolino di un cartone animato. E però si pensa non so come anche alla pesantezza degli anni Trenta e per contrasto alla musica di Cabaret, a una irrisione fatta in tono leggero in un ambiente poco adatto a tollerarla. Quell’aria svagata dei racconti di Silva non deve ingannare, sono un modo indiretto di far sentire che amoreggiare come fa lui in un severo palazzo comunista con una cugina che gli sussurra in un orecchio «scopami», fa sussultare tutto il palazzone dalle fondamenta, mettendone in questione la seriosità e procurando a noi un piccolo fremito di soddisfazione.
Ci sono in questo libro pagine esilaranti come quelle in cui si entra davvero e ci si appropria della pazzia della madre molto amata, e si esplora il rapporto che questa pazzia ha instaurato con una briciola di pane. Sono pagine comiche e tragiche nello stesso tempo, e a loro modo «diaboliche». E ci sono dialoghi divertenti tra lui e la cugina che gli confessa di «aver preso la piega di andare con tutti ma proprio tutti. “Come con tutti?” mormorai affranto. “Ma sì, è un modo di dire”, rise lei, “non penserai che mi facessi tutti ma proprio tutti”. Beh, un po’ lo pensavo, anche se non proprio tutti, diciamo molti, moltissimi, e quel che più mi annichiliva è che me lo diceva così, senza badarci».
E così, senza badarci, con molta disinvoltura Umberto Silva prende in giro la Storia (per esempio la débâcle americana alla Baia dei Porci e la ridicola esultanza dei suoi amici comunisti), la Storia, e insomma la vita in generale. Quando ho detto che in lui, nel suo umorismo, nella sua apparente frivolezza, c’è qualcosa di sulfureo avrei dovuto aggiungere anche che la sua scrittura ci comunica finalmente un senso di sollievo e di grande liberazione.
Corriere 26.3.14
Fotografia al cinema: i grandi direttori della luce
di Paolo Mereghetti
Se il cinema è luce, perché chi «crea» la luce non può essere considerato co-autore dell’opera cinematografica? La domanda ce la pone Vittorio Storaro, uno dei cinematographer più conosciuti del mondo, tre Oscar, due lauree honoris causa, decine di riconoscimenti, e, per usare le sue parole, «l’aspirazione al riconoscimento sul “diritto d’autore” per la cinematografia». Perché la legislazione italiana protegge chi dirige un film, chi lo scrive, chi compone la musica ma non chi lo illumina.
E per sostenere quell’aspirazione, ha pubblicato, con Bob Fisher e Lorenzo Codelli, un elegantissimo volume bilingue da Skira, appunto L’arte della cinematografia (pagine 352, e 80), che rende omaggio a 150 «autori della fotografia», dalle origini del cinema ai giorni nostri. «Non una storia esaustiva della fotografia cinematografica — precisa — ma una carrellata tra chi ha saputo emozionarmi durante la mia vita di spettatore e di autore» e in cui ha coinvolto anche Luciano Tovoli. Centocinquanta nomi legati a centocinquanta film (anche se qualche volta gli occhi dietro la fotografia sono più di due) divisi per decenni (ma con un unico capitolo per tutto il muto), da Segundo De Chomóne con Cabiria (1914) fino ad Anna Foerster con Anonymous (2011), ognuno accompagnato da un bel ritratto critico-storico di Fischer o Codelli e da una composizione fotografica dove Storaro incrocia le immagini del film prescelto per restituire anche sulla pagina il dinamismo del cinema. Con allegato un dvd, realizzato da Daniele Nannuzzi, che ripropone lo stesso viaggio per immagini.
I principali destinatari dell’operazione sono gli occhi del lettore, che vengono trascinati dentro le «dissolvenze» storariane e la marea di aneddoti e informazioni che ogni profilo contiene. Ma quest’opera pone al cinefilo più di uno stimolo per riflettere sulla creazione artistica e il concetto di autorialità. Esemplare a questo riguardo la «voce» Walt Disney e Biancaneve, che non soltanto rivendica al «produttore» Disney un ruolo creativo che nemmeno i titoli del suo film gli attribuiscono, ma ricostruisce nei particolari il lungo cammino tecnico svolto, per spiegare che anche in un disegno animato il ruolo della luce e delle ombre (come si ottennero nel 1937 quegli effetti così realistici?) sia fondamentale per il successo finale. Altre voci, poi, ricordano allo spettatore «distratto» il ruolo di un autore della fotografia nella realizzazione di capolavori: chi si ricorda il nome del cinematographer di Via col vento , di Suspiria , di Elephant Man , di Amadeus ? Oppure sa riconoscerne l’operato quando il regista è così celebre da oscurare i nomi dei collaboratori? Come nel caso di Chaplin e Roland Totheroh (per Luci della città ) o Dreyer e Karl Andersson (per Dies irae) o De Sica e Carlo Montuori (per Ladri di biciclette ). O, in tempi più recenti, Zhang Yimou e Zhao Fei per Lanterne rosse , James Cameron e Russell P. Carpenter per Titanic o Christopher Nolan e Walter Pfister per Inception.
Alla fine di questo lungo viaggio, non puoi che convincerti che solo una legge antiquata non sa riconoscere il ruolo centrale di chi ha saputo «illuminare le emozioni» del cinema.
Repubblica 26.3.14
Bologna
Bellocchio presidente della Cineteca
Marco Bellocchio è il nuovo presidente della Fondazione Cineteca di Bologna. Il regista ha assunto un incarico che fu anche di Giuseppe Bertolucci e Carlo Mazzacurati.