Corriere 24.3.14
Ricordare via Tasso e Fosse Ardeatine, dovere comune per Sinistra e Destra
di Dino Messina
Oggi ricorrono settant’anni dal massacro delle Fosse Ardeatine, la rappresaglia con cui i nazisti che occupavano Roma risposero all’attentato di via Rasella del giorno precedente. Il 23 marzo 1944 uno studente di medicina travestito da spazzino aveva portato un carrettino della nettezza urbana carico di 18 chili di tritolo e spezzoni di ferro in via Rasella, dove ogni giorno passava l’XI compagnia del III battaglione SS Bozen. L’azione era stata decisa in gran segreto dal comando dei Gap (Gruppi di azione patriottica), presente in forze sul luogo, il compito più difficile era stato affidato dal comandante Carlo Salinari allo studente Rosario Bentivegna, che riuscì a far esplodere il carrettino e a fuggire. Le vittime nel battaglione Bozen furono 32.
Per i tedeschi un’onta da cancellare subito. Dopo convulse telefonate con Berlino si decise per dieci italiani ogni tedesco ucciso. I solerti esecutori andarono oltre e gli italiani condotti alle Fosse Ardeatine furono 335.
Più volte è stata smentita la leggenda secondo la quale sui muri di Roma vennero affissi manifesti che invitavano i partigiani responsabili dell’attentato a consegnarsi. La rappresaglia fu condotta in gran segreto e soltanto il 25 marzo sul Messaggero comparve la prima notizia dell’accaduto. Tra le vittime delle Fosse Ardeatine c’era gente senza alcuna responsabilità politica, detenuti comuni, molti ebrei e tanti partigiani finiti nelle mani degli aguzzini nazisti. Un nome per tutti, il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, capo del fronte militare clandestino a Roma, considerato da Herbert Kappler un nemico personale e deportato assieme ad altri compagni alle Fosse Ardeatine dalla prigione di via Tasso, uno dei luoghi di tortura delle SS diventato museo della Resistenza. Bene ha fatto il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini a dedicare a via Tasso la sua prima visita ufficiale. Una scelta criticata ieri sul Giornale in una lettera aperta di Gianfranco de Turris. Peccato. Certi valori dovrebbero essere patrimonio comune di destra e sinistra.
Repubblica 24.3.14
Sequestrata in Germania cocaina indirizzata al Vaticano
di Andrea Tarquini
BERLINO – Colpo grosso dei doganieri tedeschi all’aeroporto di Lipsia. In un controllo del terminal cargo, gli agenti hanno trovato un pacco con 340 grammi di cocaina. Destinatario: il Vaticano, senza precisazioni ulteriori. Indagini sono in corso, con le autorità italiane e quelle della Santa sede. La droga, il cui valore sul mercato è stimato dai doganieri in circa 40 mila euro, era liquefatta e nascosta in 14 profilattici. Il pacco è stato trovato il 19 marzo nella sezione trasporto merci dell’aeroporto, dove ogni giorno il corriere Dhl smista pacchi da e per tutto il mondo con la sua flotta di jet. Una doganiera tedesca si è recata a Roma, con mandato della magistratura, e ha consegnato il pacco alle autorità vaticane, sperando che qualcuno chiedesse conto del mancato recapito all’ufficio postale della Santa sede. Ma forse il destinatario era stato avvertito del fatto che l’ordinazione era stata intercettata e scoperta, anche se non si sa chi abbia potuto informarlo. Le indagini proseguono ora insieme all’ufficio Interpol della Santa sede.
La Stampa 24.3.14
Il Papa all’Angelus: “Gesù ha rotto gli schemi contro le donne”
di Giacomo Galeazzi
qui
Firenze, le primarie per il dopo Renzi
Nardella esulta: “Abbiamo stravinto”
Scarsa affluenza, solo 11 mila votanti
L’8 dicembre scorso avevano votato 48mila fiorentini
Nardella aveva dichiarato che sotto i 15000 sarebbe stato un insuccesso
Ma ora invece baldanzosamente si dice molto soddisfatto “Mi sento come il sindaco di Sofia!”
Ha votato per lui circa l’83 % di chi si è recato alle urne
Cioè il 2, 4% dei fiorentini: circa 9 su 369mila
Fonte Repubblica edizione di Firenze, La Stampa, il Fatto
La Stampa 24.3.14
L’affondo della Camusso:
“Le posizioni di Renzi indeboliscono la democrazia”
“Sta scavalcando parti sociali”
La leader Cgil: cancellare la rappresentanza è un errore ed espone a rischi
intervista di Francesco Manacorda
«Posizioni come quella di Renzi, che riducono le forme di partecipazione, indeboliscono la democrazia. Sempre. Non è un giudizio su questa fase, ma un’affermazione di scuola». È secca la replica di Susanna Camusso, segretario della Cgil, ai ripetuti attacchi del premier indirizzati proprio a lei e al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Renzi ha detto ancora ieri sera al Tg1 che «mi interessa il consenso delle famiglie italiane non quello delle associazioni». La concertazione è morta davvero - come lascia intendere il premier - o sta solo poco bene? «Lui, che teorizza la necessità di cambiare verso, in realtà non fa che assecondare una tendenza già esistente. Penso che sia un errore. Ma penso anche che sia una grande occasione per il sindacato di riappropriarsi della contrattazione nelle fabbriche. Non mi angoscio di fronte alle sue parole, ma ritengo che esprimano un elemento di conservazione».
Ma si è chiesta il perché di questo martellare voi e le altre associazioni di rappresentanza? «Di sicuro Renzi cavalca un’onda di parte dell’opinione pubblica. Ma forse ha anche un’idea diversa della relazione tra politica e società, peraltro tutta da sperimentare, quando dice che parla direttamente ai cittadini senza intermediazioni. È un modello ben conosciuto anche in Italia, nella versione politica di Berlusconi come in quella tecnocratica di Monti. Ma al di là delle singole organizzazioni c’è un modello che l’Europa dichiara di sposare che è quello della rappresentanza degli interessi e della partecipazione che aiuta a mantenere la democrazia. Non mi pare che il governo vada in quella direzione».
Il messaggio politico è chiaro: per Renzi voi, come Confindustria, non servite. Anzi, siete simboli della conservazione da abbattere. «Di nuovo, penso che commetta un errore: non puoi semplificare una società complessa perché prima o poi tutta questa semplificazione ti si ritorce contro. La rappresentanza sociale è qualcosa che arricchisce e rafforza la democrazia. Volerla cancellare espone a rischi».
Anche se il sindacato, vi accusano in tanti, protegge solo chi ha un lavoro fisso e non chi il lavoro non lo ha o chi è precario... «Mi sembra curioso che queste accuse arrivino da chi come primo atto riproduce, invece di cambiarli, modelli di precarizzazione. Ovviamente noi abbiamo un problema di rappresentanza, ma quando contestiamo i contratti a termine non facciamo altro che difendere proprio i precari. Mi rendo conto che è più facile andare per luoghi comuni che non affrontare il merito dei problemi, ma così non si risolve nulla».
È vero però che quando Renzi dice che sindacato e Confindustria devono spiegare cosa hanno fatto negli ultimi vent’anni incontra largo consenso. Lei cosa replica? «Io replico per noi. Ad esempio la Cgil, ma tutto il sindacato, direi, in questi anni ha rappresentato chi pagava le tasse mentre altri evadevano, ha lottato contro la Mafia e la Camorra, ha combattuto i caporali e il lavoro nero, ha contribuito in modo determinante a far entrare l’Italia nell’euro. Poi certo ha fatto errori e subìto sconfitte, ma ha difeso sempre un mondo come quello del lavoro che era il peggio trattato. Invece ritengo che in questi vent’anni tanta parte del sistema d’impresa ha spostato alla rendita e alla finanza risorse che era meglio andasse agli investimenti produttivi. E ce ne sarebbe anche per la politica, che è stata troppo spesso silenziosa o assente».
Dunque lei e Squinzi non siete una «strana coppia», come ha detto il premier in un’intervista al Messaggero? «Non abbiamo avuto e non abbiamo le stesse opinioni su tutto. E mi pare che Renzi, con il decreto sul lavoro annunciato, apra in toto a quanto Confindustria rivendicava su temi come l’apprendistato e i contratti a termine. Dunque sono stupita che veniamo accomunati. Più in generale dico che se si vuole non la concertazione, ma almeno una modalità di confronto politico ordinario, non si può gridare “aiuto, mi attaccano!” appena c’è dissenso. Bisogna misurarsi con gli argomenti; ne abbiamo già avuto un altro che diceva che non lo facevano governare».
E l’altra strana coppia, quella Renzi-Landini, funzionerà? «Mi pare una coppia che si usa reciprocamente e auguro a entrambi di non farsi male. Ma a proposito di noi e della Fiom il premier dice una cosa scorretta: ci accusa di non avere bilanci trasparentiquando tutti i bilanci della Cgil sono pubblicati da metà degli Anni ’70, lo decise allora Luciano Lama».
Renzi annuncia anche la riforma della Pubblica Amministrazione e annuncia un vero derby conservazione contro innovazione. Voi da che parte sarete? «Accogliamo con entusiasmo questo annuncio del presidente del Consiglio. Del resto abbiamo chiesto la riforma della Pubblica amministrazione in tempi non sospetti. Siamo per rapporti di lavoro che non siano sottoposti alla politica e per mettere mano a una forbice delle retribuzioni tra manager e dipendenti che è insopportabile. Vorremmo un sistema pubblico di qualità e al servizio dei cittadini e un riordino serio dei livelli istituzionali. Ma vogliamo capire davvero cosa pensa Renzi: già oggi, ad esempio, tanti dirigenti sono a termine, ma li nomina la politica. Confermare questa impostazione non sarebbe certo una grande innovazione; servono invece procedure trasparenti e bisogna mettere il lavoro al centro di questa riforma che avrà così tanta importanza per la vita dei cittadini».
l’Unità 24.3.14
Il grande freddo
Scontro Renzi-Cgil Camusso: sono offesa
Il premier: «Se sindacati e Confindustria si arrabbiano ce ne faremo una ragione»
di Vladimiro Frulletti
«Squinzi e Camusso si arrabbiano? L’importante è che cambi l’Italia». È la frase con cui Matteo Renzi chiude una giornata di botte, risposte e gelo tra il premier e le parti sociali. La segretaria Cgil reagisce alle accuse di scarsa trasparenza: «Parole offensive, i nostri bulabnci sono pubblici dal 1976». Fassina a l’Unità: «Attaccare il sindacato è un errore».
«Renzi sarà molto determinato nel portare avanti il progetto del Paese: ascolterà, ma non consentirà che le concertazioni fini a se stesse blocchino questo percorso». Dario Nardella legge così le dure parole del premier contro «la strana coppia Camusso-Squinzi» lasciate ieri sul Messaggero. E in questo caso, come si dice, la fonte è particolarmente accreditata. Non solo perché Nardella (che ieri ha vinto le primarie del Pd a Firenze) è in procinto di sostituire l’ex sindaco a Palazzo Vecchio. Ma soprattutto perché ne è stato il braccio destro per quattro anni come vice. Nardella ha cioè visto all’opera Renzi ad esempio quando decise di chiudere al traffico (anche dei bus pubblici) Piazza Duomo senza discuterne con le parti sociali, a cominciare dai commercianti. «Se avessi dovuto aprire un tavolo di concertazione non avrei mai liberato la piazza dal traffico» spiegava. Insomma se Nardella dice che Renzi «non riproporrà il vecchio stile delle concertazioni estenuanti » c’è da credergli. Anche perché il premier punta a rivolgersi più al lavoratore e all’imprenditore che a chi li rappresenta. «A me interessa il consenso delle famiglie italiane» scandisce lo stesso premier al Tg1. Di fronte ai soldi in più in busta paga, al taglio dell’Irap e alle altre riforme «speravo - dice - che sindacati e industriali fossero d’accordo. Niente si sono arrabbiati anche questa volta. Pace ce ne faremo una ragione». Quello che è certo è che non mostra alcuna intenzione di rallentare dal ritmo che s’è imposto. «L’importante è che l'Italia cambi. Se a maggio arriveranno le risposte che abbiamo annunciato, credo che potranno fare tutte le polemiche che vogliono. L’importante è che l'Italia si rimetta in moto» spiega. Infatti venerdì metterà mano ai testi definitivi sul nuovo Senato e la riforma del Titolo V e ai conti del documento di economia e finanza. Ma prima avrà una parentesi internazionale. Oggi e domani è all’Aja per il vertice sulla sicurezza nucleare (a margine si terrà anche un G7 sulla crisi Ucraina) e giovedì l’incontro con Obama «gli chiederò qualche consiglio». Mentre mercoledì riprenderà le visite nelle scuole a Scalea in Calabria. Renzi infatti sa che la velocità è l’unico modo non solo di non farsi impantanare, ma anche di battere quello che ora considera l’avversario più pericoloso in vista delle europee del 25 Maggio: Grillo. «È bravissimo a cogliere gli umori e sa che, se facciamo le cose promesse, e noi le faremo, si sentirà franare il terreno sotto i piedi perché lui prende i voti di protesta »». Comunque Renzi sa anche che le resistenze più forti arriveranno nel momento in cui metterà mano alle riforme più profonde, quelle «strutturali», a cominciare dalla burocrazia pubblica e dal taglio ai super-stipendi dei manager pubblici. «Resisteranno a parole, ma poi ovviamente è naturale che le cose cambino - dice al Tg1-. Perché non è possibile che l'amministratore delegato di una società guadagni mille volte di più di un operaio. Torniamo ad un principio di giustizia sociale».
Ecco, magari allora potrebbe trovare anche degli insospettabili alleati. Questo, almeno, è quanto pare suggerirgli l’ex segretario della Cgil e suo predecessore alla guida del Pd, Guglielmo Epifani che ieri dall’Annunziata sui Rai3 non ha smentito la sua attitudine a smussare gli angoli. Epifani in sostanza spiega che collocare Cgil e Confindustria nello schieramento dei conservatori è sbagliato. La questione quindi non è il se le cose vanno cambiate, mail come cambiarle. «Per una forza di centrosinistra il dialogo con le parti sociali è una condizione fondamentale » è il ragionamento di Epifani anche se ovviamente poi «il governo non deve fare quello che dicono le parti sociali» ma senza dubbio deve avere la capacità di «ascoltare quello che dicono ». Ma l’ex leader Cgil invia anche un messaggio al suo sindacato e a tutto il Pd spiegando che il lavoro di Renzi va sostenuto. A parte il decreto sul lavoro che anche per Epifani andrà cambiato, i «primi passi» del governo sono buoni. E quindi c’è da concedergli fiducia: «è in condizione di cambiare l’Italia e bisogna dargli credito». La traduzione immediata è che nel Pd occorre una «gestione unitaria» ma con una forte dialettica interna, tanto che Epifani auspica la nascita di un’area socialdemocratica. Più complesso smussare l’angolo Cgil. Susanna Camusso nega sintonie con Confindustria. Altroché strana coppia. «Questo asse non esiste perché i temi sono profondamente diversi. Niente mi toglie dalla testa che ad esempio il decreto lavoro è un modo del governo di rispondere positivamente a Confindustria, non ai lavoratori» sottolinea. Casomai s’è sentita offesa dalla richiesta di Renzi di pubblicare i bilanci visto che quelli della Cgil sono pubblici fin dal 1976, da quando cioè «lui era appena nato».
l’Unità 24.3.14
Stefano Fassina
«Non mi pare che Cgil e Confindustria dicano le stesse cose. Il decreto sul lavoro va cambiato, così è peggio che cancellare l’articolo 18»
«Basta delegittimare i sindacati o resteranno solo i forconi»
intervista di Vladimiro Frulletti
Il governo deve decidere, certo, ma deve saper anche ascoltare i corpi intermedi altrimenti restano solo «i forconi». Il deputato Pd Stefano Fassina, già viceministro del governo Letta, mette in guardia Renzi da pericolose «scorciatoie». E sul futuro del Pd dice sì a una «gestione unitaria» ma a patto che «la segreteria non sia lo staff di Palazzo Chigi».
Per il premier è strana l’assonanza di Camusso e Squinzi nel criticare il governo. Che ne pensa?
«Non mi pare che i rilievi di Camusso e Squinzi siano stati sintonici. Pongono questioni diverse. In ogni caso credo che sia un grande errore sottovalutare la rilevanza e l’utilità dei corpi intermedi, soprattutto in una fase di sofferenza economica e sociale così acuta». Perché? «Perché senza sindacati e organizzazioni di categoria si scivolerebbe facilmente nei movimenti dei forconi. Chi ha responsabilità politica è giusto che non accetti veti da parte di nessuno, ma una democrazia di qualità si fonda anche sul ruolo attivo e propositivo della rappresentanza economica e sociale».
Non sono strumenti di conservazione?
«No. La più importante riforma l’hanno fatta Confindustria con Cgil, Cisl e Uil con l’accordo sulla democrazia e la rappresentanza ».
La crisi di rappresentanza però oltre che i partiti non ha investito anche sindacati e organizzazioni di categoria?
«È vero, ma ai sindacati ogni mese 12-13 milioni di lavoratori e pensionati versano le quote di iscrizione. Rete Imprese per l’Italia il 20 febbraio ha portato in piazza 50mila artigiani e commercianti. Sono cioè forze reali con cui va costruito un rapporto sano, non vanno marginalizzate. Imboccare scorciatoie porta a sbattere».
Lei sostiene che il decreto Poletti sul lavoro sia peggio che abrogare l’articolo 18. Non le pare di esagerare?
«No. Quelle norme porteranno a un crollo dei contratti a tempo indeterminato. Se cancellassi solo l’articolo 18 almeno avrei il tempo indeterminato».
Un contratto a tempo determinato è meglio di un lavoro precario, o no?
«Rimane precario, ma ha una serie di benefit. Se pensano che così sostituiranno le finte partite Iva o i contratti a progetto si illudono perché quei contratti costano molto meno. In più stravolgono l’apprendistato svuotandolo di ogni contenuto formativo, rendendo ingiustificabile il generoso sgravio contributivo che lo caratterizza. Se vogliono usare il contratto a termine per sostituire i contratti precari ne cancellino almeno le principali tipologie».
Non mi pare ottimista.
«Il punto è che il decreto lavoro si muove sulla linea delle ricette neo-liberiste europee che non potendo svalutare la moneta nazionale hanno visto nella diminuzione dei diritti del lavoro e nella riduzione dei suoi costi la strada per una crescita basata sull’export. È stata e rimane un’illusione».
Per quale motivo?
«Le aziende non assumono non perché non dispongano di contratti flessibili, in Italia hanno il carnet più ampio d’Europa. Ma perché non c’è domanda interna. La capacità produttiva utilizzata è intorno al 50%. Nel gruppo Pd ci impegneremo per cambiarlo e presenterò un emendamento per verificare fra un anno quanti contratti a tempo determinato sono partiti e quanti a tempo indeterminato saranno stati cancellati».
Se a mancare è la domanda interna, allora le misure del governo per aumentare le buste paga sono giuste?
«Sì, ma a condizione che quei soldi non siano presi tagliando la spesa pubblica. Devono essere fatte in deficit altrimenti il risultato sarà recessivo. La ridistribuzione è sacrosanta, ma non serve a far ripartire la domanda interna se tolgo da una parte e metto dall’altra. Va allentata la morsa dell’austerità».
La spending review è un errore?
«No, colpire sprechi e inefficienze è giusto. Ma quei soldi vanno messi per altre priorità come la lotta alla povertà che è raddoppiata e per finanziare ad esempio la sistemazione delle scuole. Così si fa crescere la domanda».
Epifani vorrebbe costruire un’area socialdemocratica dentro al Pd. Che ne pensa?
«Che è interesse di tutti che si distinguano le funzioni del governo da quelle del partito, che deve avere vita e cultura politica autonome. Il congresso s’è chiuso l’8 dicembre con un vincitore chiarissimo, ma ora la fase è diversa perché chi ha vinto presiede il governo. Il compito di chi ha portato avanti un punto di vista differente è farlo vivere per migliorare le iniziative del governo. Non ci servirebbe un partito ridotto a staff del premier o a service per installare i gazebo delle primarie».
Cuperlo convoca la minoranza per il 12 aprile. Passaggio utile?
«Ogni discussione è utile, ma serve una netta discontinuità rispetto a quello che è successo fino all’8 dicembre». Gestione unitaria del Pd, è favorevole? «Dipende da cosa deve fare un gruppo dirigente e da quale funzione deve svolgere il partito. Se la segreteria deve essere lo staff di Palazzo Chigi non serve una gestione unitaria. Se si vuole avere non un luogo, ma un soggetto politico autonomo allora sì. Spero che venerdì in direzione si discuta di questo, delle funzioni e solo dopo dei nomi».
Non è che il Renzi che porta il Pd nel Pse, tassa la rendita, aumenta le buste paga dei lavoratori, taglia le spese militari, vis upera a sinistra e vi sentite spiazzati?
«Io mi sento gratificato perché porta a compimento tante battaglie che io e altri abbiamo sostenuto anche quando non andavano di moda. L’approdo nel Pse è figlio del lavoro di Bersani. Ed è stato quel Pd col governo Monti a far salire il prelievo sulla rendita al 20%. Mi preoccupa invece sul lavoro il cedimento a una cultura non nostra. Ci sono ancora delle contraddizioni nel progetto di Renzi».
l’Unità 24.3.14
«Vi spiego l’anomalia Fiom», firmato Rinaldini
L’ex leader delle tute blu Cgil e Gabriele Polo raccontano «l’autonomia» nel libro «In basso a sinistra». Vent’anni di storia sindacale e politica
di Massimo Franchi
In mesi in cui la vulgata comune vuole che esista - e specula su - un asse fra Matteo Renzi e Maurizio Landini, ha ancora più interesse indagare le radici di quella «autonomia» e quella «anomalia» che permette alla Fiom di essere interlocutore diretto del presidente del Consiglio, creando tumulti dentro la Cgil. Tenendosi debitamente alla larga dallo scomodo rapporto tra l’attuale segretario generale dei metallurgici della Cgil e l’ex sindaco di Firenze, Gianni Rinaldini e Gabriele Polo spiegano e raccontano gli ultimi venti anni del sindacato più antico d’Italia - la Fiom è stata fondata il 16 giungodel1901edèstata l’azionista di maggioranza della Cgil, nata nel 1906. Venti anni decisivi per la storia del Paese e ancor di più per il sindacato e per la Cgil. Già dal titolo “In basso a sinistra” (Manni editore, 162 pp., 14 euro) e dal lungo sottotitolo («Politica, sindacato e conflitti sociali tra globalizzazione e crisi», «L’anomalia chiamata Fiom») gli autori lasciano intendere le ragioni che portano i metalmeccanici della Cgil a «voler mettere il becco su ogni questione politica», come li accusano i loro detrattori. È la lezione di Claudio Sabattini, storico leader scomparso 10 anni fa, che coniò e diede sostanza a quella «autonomia » e «indipendenza» tratti distintivi dell’attuale Fiom: «aprire una riflessione che riguarda il modello sociale di riferimento » significa per Sabattini occuparsi di globalizzazione, partecipare al movimento contro ilG8a Genova, incalzare la Cgil per «cambiare la società».
Gianni Rinaldini ne prende il posto nel 2002.E,comeracconta, nelle prime pagine del libro, deve affrontare subito il problema della sua ingombrante presenza. Il 26 maggio 2003 Sabattini si dimette da segretario della Fiom siciliana. Ma lo fa – rivela oggi Rinaldini –anche perché lo stesso Rinaldini aveva deciso di dimettersi. Il filo che lega quell’avvenimento al percorso della Fiom è chiaro: «la radicalità delle trasformazioni» succedutesi nella società, nel sindacato e dentro alla Cgil hanno portato la Fiom a «scelte conseguenti che hanno coinvolto tutti», scrive Rinaldini.
La particolarità di Rinaldini è difatti quella di provenire non dalla Fiom, ma di arrivarci da una lunga carriera interna alla Cgil. Ma, nonostante la sua storia non «fiommina»,porta avanti le idee di Sabatini in modo coerente. Gli scontri tra Fiom e Cgil partono fin dall’accordo del 1993, passando per il primo contratto separato - metalmeccanici 2003 - la battaglia di Melfi del 2004 (con giudizi poco lusinghieri sui comportamenti dell’allora segretario generale Cgil Guglielmo Epifani) fino al referendum di Pomigliano del 2010. Nel dialogo con l’ex direttore del Manifesto(e ora direttore di iMec,il periodico della Fiom) Gabriele Polo l’analisi passa alla crisi della sinistra e del sindacato, al ruolo di supplenza avuto dalla Fiom negli ultimi anni.
Dunque, l’anomalia Fiom. Un’anomalia che però fino ad oggi non ha ancora fatto i conti o risolto il problema del rapporto con gli altri sindacati metalmeccanici. Nella palazzina diCorsoTrieste36solo il centralinista continua a rispondere «Pronto Flm».La Federazione dei lavoratori metalmeccanici non è mai stata così lontana. Con i dirimpettai Fim e Uilm sono più le offese che i comunicati unitari. E a pagare questa situazione sono i milioni di lavoratori metalmeccanici. Finché la Fiom non risolverà questo problema, la sua un’anomalia non sarà vincente.
l’Unità 24.3.14
Gelo da Confindustria: «Solo chiacchiericcio romano»
Il presidente Squinzi parlerà oggi, ma molti imprenditori temono che le «slide» del premier non abbiano coperture
Dubbi sui pagamenti dei debiti Pa. Il timore di una patrimonale in arrivo
di Bianca Di Giovanni
Come presidente di Cassa depositi e prestiti Franco Bassanini conosce bene il piano di privatizzazioni avviato dal governo Letta e su cui l’esecutivo Renzi intende dare un colpo d’acceleratore. L’istituto che presiede è parte attiva di quel processo, visto che oggi controlla parecchie aziende destinate ad andare sul mercato. Ma il processo che i governi a guida centrosinistra stanno riattivando non è così semplice come sembra. Nel suo colloquio con l’Unità Bassanini mette in fila una serie di precisazioni per nulla scontate. Primo: quando è la Cassa a vendere quote di partecipazione, non si può parlare formalmente di vere privatizzazioni, visto che la Cdp è al di fuori del perimetro della pubblica amministrazione per le regole Eurostat. E fin qui una nota tecnica. Ma subito dopo si apre una riflessione più ampia, che coinvolge le scelte di fondo di un Paese. «Bisogna chiedersi a cosa servono le privatizzazioni, e la risposta non è solo quella di fare cassa. Almeno per noi non lo è: noi pensiamo anche a rafforzare le imprese e a ridare competitività al sistema, ad aprire le società italiane ai mercati internazionali - spiega il presidente - Lo abbiamo fatto con Fincantieri e lo stiamo facendo con Ansaldo energia, per cui stiamo cercando un partner industriale forte. Ci sono diversi gruppi interessati, oltre ai coreani che volevano acquisirla all’inizio. Se tutto andrà bene Renzi potrà aggiungere Ansaldo al Nuovo Pignone che cita sempre, giustamente, quando parla di investimenti esteri ben riusciti». Ma il ragionamento di Bassanini non si ferma qui. Se lo Stato vorrà mantenere il controllo delle aziende strategiche più importanti - aggiunge - sarà difficile raggiungere l’obiettivo di abbattere il debito in modo significativo. Di qui un’altra domanda: «Quando si avviano questi processi, bisogna anche riflettere sulle partecipazioni che si vogliono mantenere in capo allo Stato perché considerate strategiche - aggiunge - Per esempio: la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, oggi, richiede ancora il controllo pubblico di Eni ed Enel? La risposta, ovviamente, non spetta a me ma alla politica».
Presidente, il ministro Padoan ha parlato di accelerazione del piano di privatizzazioni. Lei può dirci qualcosa in più sui tempi delle operazioni? «Mi lasci dire che sulle intenzioni del governo andrebbe interrogato lo stesso governo. Noi siamo una controllata e siamo a valle delle decisioni dell’esecutivo: io non ho né le competenze né l’autorità, né le informazioni per poter dire quello che decide il governo».
Nella lista di aziende in via di cessione ce ne sono molte controllate dalla Cassa.
«Il nostro piano industriale prevede diverse cessioni, e queste si sono “incrociate” con le decisioni del governo di aprire questo dossier. Sin dall’inizio abbiamo detto che eravamo intenzionati a contribuire al programma di privatizzazioni. Formalmente le nostre cessioni non possono chiamarsi privatizzazioni, ma dal punto di vista sostanziale indirettamente lo sono, visto che lo Stato controlla la Cassa con l’81% del capitale».
Dunque per voi si è trattato di una scelta autonoma. «Sì, il nostro piano prevede piani di valorizzazione e di cessioni di partecipazioni con la finalità anche di ricapitalizzare la Cassa, che ha sborsato l’anno scorso 10 miliardi per l’acquisto dallo Stato di Sace, Simest e Fintecna».
Allora le risorse che si otterranno dalla vendita di Fincantieri o di Sace non andranno ad abbattere il debito pubblico.
«Intanto sono andati a ridurre il debito pubblico i 10 miliardi versati un anno fa. Ma prendiamo Fincantieri che è controllata da Fintecna. Il mercato della cantieristica ha subito una crisi profonda, ma anche grazie al nostro sostegno (credito all’export e Sace) Fincantieri ne è uscita brillantemente. Oggi ha un portafoglio ordini di 14 miliardi, è leader in Europa per la cantieristica, ha acquisito il controllo di una società norvegese- coreana leader nella costruzione delle piattaforme off-shore per l’estrazione di prodotti oil. Quindi oggi Fincantieri è nelle condizioni di poter essere collocata in Borsa con successo. È una società così attrattiva, che le più grandi banche d’affari hanno fatto a pugni per organizzare la Ipo (initial public offering - offerta pubblica iniziale): questo fa pensare che il mercato è favorevole. Dobbiamo ancora valutare quanto collocheremo, mantenendo comunque il controllo, ma tutto fa pensare che ci sarà una buona risposta. Il ricavato andrà in parte a rafforzare Fincantieri, e in parte a ricapitalizzare la Cassa».
E lo Stato?
«Lo Stato non può vendere due volte la stessa cosa, e Fincantieri l’ha già venduta quando ha ceduto Fintecna. Ma se dal collocamento in Borsa noi riusciremo a ottenere una plusvalenza, allora sarà possibile distribuire all’azionista Stato anche un dividendo straordinario. Faccio l’esempio di Sace perché è più semplice. Noi l’abbiamo acquistata per 6,1 miliardi. Se noi collocando il 50% ricaviamo 3 miliardi Eurostat non accetterà che li retrocediamo allo Stato, ma se arriviamo a 4 miliardi possiamo parlare di una plusvalenza di 950 milioni che può essere distribuita».
Entro l’anno quali operazioni farete?
«Contiamo di chiudere l’operazione Fincantieri entro l’estate, poi c’è cessione di una quota di Cdp reti (Snam e Terna) per cui stiamo cercando dei partner di minoranza (ci sono già 3 offerte), poi il collocamento o la cessione di una quota di Sace sempre entro l’anno».
Secondo lei le privatizzazioni servono per la competitività del sistema. Come si riduce il debito allora?
«Il debito si riduce tenendo sotto controllo la finanza pubblica e facendo ripartire la crescita e l’occupazione (cioè il Pil). Se non si prevede la fine del controllo pubblico su settori strategici, le privatizzazioni si devono fare, ma daranno un contributo limitato alla riduzione del debito. Le privatizzazioni vanno fatte per favorire la crescita, per aprire alle nostre imprese i mercati internazionali, per attirare nuovi investimenti dall’estero per farle crescere. Noi siamo convinti che le operazioni su Fincantieri, Sace e Ansaldo faranno bene alle loro attività, così come siamo convinti che la stessa cosa potrà avvenire nelle società controllate dagli enti locali ».
il Fatto 24.3.14
Ingrao e Landini, il buio oltre la lotta del lavoro
di Furio Colombo
In Italia, questa lotta ha evocato il tema della separazione tra produttore e prodotto, tipica del lavoro salariato. Evoca una condizione più generale del mondo moderno, apre un discorso sui fini, sulla ineguaglianza, sulle condizioni e sulla collocazione dello sviluppo nel mondo. Chiama in causa sia i poteri dell’impresa che i poteri dello Stato... Non vorrei illudermi, ma mi chiedo se c’è proprio una separazione totale fra i contenuti di questa lotta e di questa contrattazione che abbiamo combattuto, e la ricerca di un nuovo principio produttivo. La contrattazione, il condizionamento, la battaglia condotta dal movimento operaio sono tutti e solo dentro l’orizzonte del capitale e di quel tipo di rapporto? Qui, invece, io vedo un germe”. (Pietro Ingrao, La Tipo e la notte, scritti sul lavoro, a cura di F. Marchianò. Ediesse Editore).
“Il conflitto, tanto esorcizzato nella sua forma organizzata e collettiva, minaccia di investire tutti, con modalità radicali e violente, su base individuale. Sono fenomeni percepiti anche dai padroni, che, a volte, ne sono anche tragici protagonisti...Questo è il sentire comune, l’insicurezza. Quando si passa sul piano delle proposte e delle politiche, tutto si fa incerto (...) Quando l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, parla di guerra cui i lavoratori sono chiamati per far vincere la loro impresa, ci parla di una guerra fra imprese, chiamando i dipendenti a coalizzarsi con il loro padrone contro i dipendenti e il padrone concorrente....Frantumazione e delocalizzazione del processo produttivo hanno approfondito la crisi della rappresentanza attraverso la competizione al ribasso che hanno determinato...” (Maurizio Landini, Forza Lavoro. Feltrinelli).
I due libri sono dello stesso anno (2013) ma il frammento di Ingrao nel volume citato porta la data del 2 novembre 1980. Dunque stiamo ascoltando due voci autorevoli a una distanza abbastanza grande per capire che cosa è accaduto: il grande costone che reggeva l’impresa, con la sua moltiplicazione di forme produttive e dunque di impiego, ha cominciato a franare. E adesso, mentre Landini parla, ci troviamo molto lontano dalla lotta e dai risultati possibili della lotta su cui rifletteva Ingrao, e molto, molto più in basso. Il valore grandissimo di Ingrao era di ostinarsi ad allargare l’immagine e l’esperienza, per vedere più in grande e più avanti. L’impegno di Landini è di farti vedere, in tutta la sua portata, i tragici risultati della guerra in corso contro il lavoro. Hanno in comune, Ingrao e Landini, la vista chiara e lunga. E li accomuna, attraverso i decenni, una antica parola che sta perdendo senso, “solidarietà”. Li separa, come due voci che ormai si sentono a distanza, la linea della tragedia chiamata “crisi”. Manca la politica, nel discorso, che ha altri riti a cui attendere.
Questi due libri potrebbero essere guide preziose, ma mancano mezzi di trasporto, che sono i partiti. Ecco la descrizione del peggior momento vissuto dalla Repubblica.
La Stampa 24.3.14
Renzi: “Il mio nome nel simbolo? Vedremo alle Politiche”
Il premier: “Alle Europee non ci sarà, per il 2018 c’è tempo...”
di Federico Geremicca
qui
Corriere 24.3.14
Riforma del Senato, il premier convoca il Pd
di Monica Guerzoni
ROMA — Per scongiurare che le riforme siano risucchiate dalla «palude», Matteo Renzi accelera e convoca per mercoledì, in riunione congiunta, i gruppi parlamentari del Pd. All’ordine del giorno la rivoluzione del Senato, che tanto agita gli animi a Palazzo Madama. Se uscirà indenne dal confronto, venerdì in direzione il premier potrà dedicarsi all’approvazione delle liste per le Europee e all’organigramma, nominando Debora Serracchiani speaker (o vicesegretario) e Lorenzo Guerini coordinatore della segreteria. Una scelta che la minoranza non contesta. Anche se la giornata di ieri ha segnato il risveglio dell’ala sinistra, con Cuperlo, Epifani e Barca che cercano un posto sulla scena occupata da Renzi.
Mercoledì il premier si presenterà ai gruppi con la bozza (riveduta e corretta) del ddl governativo, la cui sostanziale novità è l’abbinamento con la riforma del Titolo V. Non sarà un testo chiuso, promettono i renziani, ma un progetto aperto alle modifiche dei partiti: incassato il via libera del Pd il provvedimento sarà incardinato in commissione Affari costituzionali, presieduta da Anna Finocchiaro. Ed è lì che sarà fatta la sintesi, per arrivare a una riforma condivisa dall’intera maggioranza. «Non è la Bibbia...», giura Guerini. I senatori si preparano a modificare profondamente il testo del governo, eppure l’onorevole Ettore Rosato è convinto che «Renzi otterrà il via libera prima delle Europee».
Un ottimismo che stride con le tensioni interne al Pd, dove l’ala sinistra prova a tornare in gioco contestando il modello dell’uomo solo al comando. Oggi alle 12 l’ex ministro Fabrizio Barca presenterà il suo progetto per un partito che rinasca dal territorio e il fatto che abbia scelto lo storico circolo di via dei Giubbonari è già un programma. Guglielmo Epifani, a cui molti pronosticano un futuro da presidente del Pd, sprona Renzi a riallacciare il dialogo con le parti sociali, chiede di correggere il decreto lavoro e annuncia l’intenzione di creare un’area socialdemocratica: per l’ex segretario «un Pd senza dibattito non esiste» e Renzi dovrebbe «organizzarlo meglio». Il problema è che il modello organizzativo di Renzi, un partito leggero che consulti online gli iscritti, è l’esatto opposto di quello vagheggiato dalla sinistra. Anche i lettiani soffrono e Francesco Boccia lo dice con un tweet: «Dov’è il Pd?».
La stessa domanda assilla Gianni Cuperlo, che lancia un appello per ridestare la minoranza partendo da una convenzione il 12 di aprile: «Esiste ancora, un partito? E di quale partito stiamo parlando? Se tu identifichi il Pd con le istituzioni e col premier, il giorno (malaugurato) che dovessimo tornare all’opposizione che fai?».
Insomma, per la minoranza il Nazareno e Palazzo Chigi non possono essere la stessa cosa e, in prospettiva, il segretario e il premier non possono essere la stessa persona. Tentazioni che Lorenzo Guerini stoppa sul nascere: «Il Pd ha un segretario che si chiama Matteo Renzi, il discorso della coincidenza delle cariche di segretario e premier è stato risolto con la vittoria al congresso». Il che non toglie, concedono i renziani, che la sinistra possa trovare tre o quattro posti in segreteria. E se Cuperlo, come Epifani e Bersani, premono per separare il partito dal governo, Renzi tira dritto sulla via di un «Labour Party» all’italiana, dove il partito si identifichi in pieno con il capo dell’esecutivo.
La Stampa 24.3.14
Il teatrino dell’Italia a Bruxelles
di Mario Deaglio
Un’altra puntata di un «teatrino», che, a intervalli più o meno regolari, si svolge da circa tre anni: così può essere descritto il vertice della settimana scorsa tra Italia e Unione Europea. Un presidente del Consiglio italiano - che cambia troppo rapidamente - «sale» a Bruxelles, si reca in visita «ad limina» come un vescovo si reca in Vaticano: a presentare la realtà, i problemi e i programmi di politica economica del proprio governo e a ricevere consigli, correzioni e suggerimenti, approvazioni o note di biasimo più o meno cortesi e più o meno velate. L’Italia ha sicuramente fatto progressi, sta - più o meno - nei limiti prescritti, non può essere platealmente punita dal momento che da altri grandi Paesi membri si sono accettati in passato e si continuano ad accettare sforamenti ben maggiori.
Non si può certo dire, però, che il Paese sia un campione di osservanza delle regole economiche europee e questo gli deve essere ricordato ogni volta.
Ecco allora il «teatrino», che, da parte dell’Unione Europea, vede in scena un duetto. La prima voce, che la settimana scorsa ha assunto le cadenze suadenti di Herman van Rompuy, da cinque anni presidente del Consiglio Europeo, dice: brava Italia che hai messo in programma le riforme e ti proponi di approvarle rapidamente. Subito dopo, però, a far da contrappunto, ecco la voce severa di José Manuel Barroso, da dieci anni presidente della Commissione Europea: attenta Italia che devi rispettare scrupolosamente i vincoli di bilancio e non puoi permetterti un deficit superiore al 3 per cento. Altre volte il copione era all’inverso: brava Italia che stai nei limiti del deficit, attenta però che devi anche fare le riforme. In ogni caso, il contentino e la critica, né una piena assoluzione né una piena condanna.
Non assolvendo e non condannando mai, Bruxelles diventa una sfinge che non disdegna di esprimersi con sorrisini enigmatici e ammiccanti. I mezzi di informazione italiani amplificano a dismisura questi segnali e queste dichiarazioni, dividendosi in due categorie: secondo gli uni l’Europa ha detto sì al governo italiano secondo gli altri ha detto no. Forse bisognerebbe prendere atto che, di fatto, non ha detto (quasi) niente di concreto.
L’indecisione europea non riguarda solo l’Italia e non riguarda solo l’economia. Si tratta del malinconico finale di un periodo lungo e importante della storia dell’Unione Europea, che ha avuto i suoi aspetti positivi e che gli storici del futuro probabilmente classificheranno come «la stagione dei burocrati». I burocrati hanno volutamente scelto per l’Unione il colore grigio, l’andatura lenta e forse la loro scelta è stata oculata in un momento di allargamento e di forti suscettibilità dei Paesi maggiori. Hanno stemperato populismi ed egoismi nel formalismo delle procedure giornaliere. Hanno tessuto un lodevole (e noiosissimo) intreccio di norme e regolamenti tecnici che rappresentano, purtroppo, quasi l’unica spina dorsale dell’Europa di tutti i giorni ma che talvolta sembrano soffocare l’economia più che invitarla a crescere; hanno subito e non gestito la crisi economica mondiale, anche se qui la parte maggiore della colpa va sicuramente ai governi nazionali.
In ogni caso, i burocrati sono alla fine della corsa. Dopo dieci anni, di presidenza della Commission, Barroso scadrà tra pochi mesi ed è estremamente difficile che venga riconfermato per un terzo mandato. Anche Van Rompuy, ammirato per le sue doti di negoziatore ed efficiente veterano della politica del basso profilo, e la baronessa inglese Katherine Ashton, «ministro degli esteri» dell’Unione, spesso oggetto di critiche severe per la scarsa incisività della sua azione e per un profilo ancora più basso, avranno difficoltà ad essere riconfermati. Si prospetta un possibile mutamento generazionale, o, per usare un linguaggio «renziano», una «rottamazione» di una parte consistente della leadership di Bruxelles e Strasburgo.
Non è solo l’Italia a essere oggetto del «teatrino» europeo. Le ultime settimane hanno visto gravi indecisioni dell’Unione nell’affrontare la questione dell’Ucraina. Spiazzati come gli americani, gli europei si sono trovati tra l’impossibilità di decretare sanzioni serie ai russi - i quali, con i gasdotti, gli oleodotti e le ingenti commesse alle imprese europee, hanno le mani sulla vena giugulare dell’Europa - e l’impossibilità di non decretarle. Hanno quindi deciso di applicare ai russi delle «non sanzioni» che non possono soddisfare gli americani e sicuramente irritano i russi.
Il malessere italiano nei rapporti con l’Unione Europea si configura quindi come indizio di un più vasto malessere dell’Unione stessa le cui cause vanno ricercate più a Bruxelles e a Parigi (la Francia è probabilmente il vero malato d’Europa) che a Roma. Se ne deve dedurre che, per modificare il rapporto tra l’Italia e l’Europa, non è sufficiente che cambi l’Italia ma è anche necessario che cambi l’Europa. E l’Europa quasi certamente cambierà con le elezioni del 25 maggio: si potrà vedere allora se, oltre a cancellare il potere dei burocrati, gli elettori europei saranno capaci di sostituirvi un altro potere, più flessibile e più vicino agli interessi delle persone e delle imprese oppure se, al contrario, correranno il rischio di cancellare l’Europa, buttando via il bambino insieme con l’acqua sporca.
l’Unità 24.3.14
Se l’Italia non crede all’Italia
di Michele Ciliberto
NEGLI ULTIMI GIORNI SONO ACCADUTE DUE COSE CHE MERITANO UNA RIFLESSIONE. LA PRIMA è una dichiarazione del Presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz: «L’Italia è un Paese del G8, ma quando sono in Italia ho l’impressione che gli italiani lo dimentichino. L’Italia è uno dei Paesi industrializzati maggiori al mondo, è la quarta economia: se non ci sarà crescita in Italia, non ci sarà neppure in Europa».
La seconda è la polemica che è scoppiata sui giornali italiani su un (presunto) sorrisino del presidente della Commissione europea Barroso e di van Rompuy a proposito delle posizioni sostenute dal presidente del Consiglio italiano a Bruxelles: è dello stesso tipo di quello di Sarkozy e della Merkel sull’allora premier Silvio Berlusconi, oppure no? E in ogni caso, che giudizio implica sul nostro Paese? Sono due fatti singolari che vanno venire alle labbra la stessa domanda: che idea gli italiani hanno di se stessi? E su questo punto il presidente - tedesco - del Parlamento europeo coglie un aspetto rilevante: gli italiani non sanno chi sono, se lo dimenticano.
Ma questa dimenticanza, e il giudizio negativo su se stessi che essa implica, non è un fenomeno specifico di questo difficile periodo, anzi: è una struttura della nostra «autobiografia» nazionale, quale è stata messa a punto, soprattutto, dalle classi intellettuali nazionali, specie di quelle attive agli inizi del Novecento.
Naturalmente, anche a quella data, ci sono state grandi eccezioni, a cominciare da Benedetto Croce che nella Storia d’Italia rivalutò, con grande energia, l’Italia post- risorgimentale e quella giolittiana, contrapponendo la «prosa» - la realtà concreta, compreso il «trasformismo» - alla «poesia», cioè alle fantasie retoriche di coloro che si lamentavano del nuovo Stato nazionale, delusi nelle loro aspettative di grandezza. Ma la posizione di Croce è in anche in questo caso minoritaria, anzi solitaria, nonostante le tante chiacchiere sulla sua egemonia. In Italia, la tendenza generale è stata un’altra: da un lato, i retori che hanno celebrato il passato, deprecando il presente e fantasticando - in chiave prima nazionalista, poi fascista - di un grande avvenire; dall’altro, quelli che hanno insistito sui «ritardi» italiani, sulla nostra arretratezza, sull’assenza di eventi fondamentali della modernità come la Riforma protestante: mancanze, «assenze» che avrebbero inciso sul nostro carattere nazionale, indebolendolo e corrompendolo.
È un tratto tipico della nostra autobiografia nazionale su cui sarebbe interessante fare una ricerca, cercando di capire perché l’autorappresentazione degli italiani e della loro nazione sia così misera, fino ad apparire sorprendente ad un osservatore esterno come Schulz. Al fondo, si tratta di forti e resistenti modelli antropologici costruiti in una lunga storia, nei quali è possibile che abbia giocato un ruolo importante la presenza nel nostro Paese - vasta e capillare - della Chiesa romana, che ha contribuito a conformare attraverso lo strumento della «confessione», il carattere di generazioni di italiani, lungo i secoli: in questo caso i Promessi Sposi di Manzoni dovrebbero essere una fonte e un archetipo, decisivo.
Varrebbe la pena di seguire questa pista, ma mettendola in tensione con altri tratti di fondo della storia italiana, che vanno in una direzione frontalmente opposta.
Ce lo siamo dimenticato, ma lungo i secoli moderni - anche dopo il Rinascimento, quando diviene il centro del mondo - l’Italia è stata il «luogo» in cui sono stati elaborati momenti centrali delle «libertà dei moderni», che non sarebbero state portate alla luce, e diffuse, senza i carceri, le persecuzioni, i roghi dei pensatori italiani - da Bruno a Campanella, da Galileo a Giannone fino a Beccaria il quale nel 1764 rigetta, per la prima svolta e in modo radicale, sia la tortura che la pena di morte. Senza questa Italia, non ci sarebbe stata l’Europa «moderna», come sapevano benissimo, per primi, gli Illuministi. Naturalmente questo è solo un lato, e il migliore, della medaglia: l’«identità» italiana è assai complessa e tormentata. Per venire alle bassure dei tempi più recenti conosco anche io quanto sia profondo e diffuso oggi il cancro della mafia, della ’ndrangheta, della camorra, e quanto sia stato radicato nella storia il fenomeno del berlusconismo. Lo so, ma insisto su questo, perché è di ciò che in genere si parla quando il discorso cade sull’Italia. Sat prata bibere.
Il problema, su cui vorrei richiamare l’attenzione, è invece un altro: perché l’immagine dell’Italia mafiosa, corrotta, clientelare cancella e dissolve quella dell’«altra» Italia, quella civile, laica, moderna? E perché, tornando alla domanda posta all’inizio, gli stessi italiani hanno una idea così misera e meschina si se stessi, una autorappresentazione così modesta della loro identità e «complessi» così profondi? Perché il modello del Gattopardo continua a riscuotere successo, fino ad a essere citato anche in Parlamento? A cosa allude tutto questo? Vorrei provare ad abbozzare una risposta.
Certo, hanno avuto un peso decisivo le arretratezze della nostra borghesia, il suo affidarsi allo Stato come una greppia inesauribile (salvo trasferirsi altrove, quando resta poco da mungere), la sua dimensione economico-corporativa: sono i problemi affrontati da Gramsci nei Quaderni e restano ancora e sempre aperti. Ma il problema è più profondo perché attiene direttamente alle forme di governo e alla ideologia, delle nostre classi dirigenti, che, attraverso di esse, è penetrato nella Costituzione «interiore» della Nazione. A destra, anzitutto, ma anche a sinistra, le classi dirigenti nazionali hanno insistito sui limiti del Paese, sulla sua fragilità, sulla sue debolezze, sulla necessità, per dirigerla, di «larghe »intese, sulla impossibilità di avere una alternativa di governo. A destra, come a sinistra, è stata posta sull’Italia una sorta di «ipoteca» di ordine etico- politico che è diventata uno strumento, anzi un principio di direzione della nazione, mai libera.
Ma l’Italia non è solo questo, è anche un’altra cosa. Esistono, continuano a esistere, forze profonde, sempre pronte ad esplodere e a venire alla luce. Sono- e uso volutamente questo termine, a costo di suscitare i «risolini» dei politici realisti - forze «morali », non meno intense e influenti di quelle «materiali ». Anzi, come diceva il poeta latino , è la «mente » che agita la «mole», non il contrario. Sono forze che guardano al futuro, forze - nonostante tutto - della speranza: quelle che costituiscono il «deposito » della nazione, ciò che le consente di diventare, ed essere, una comunità. Queste forze, in Italia, ci sono ancora, affondano le radici in una lunga storia; e aspettano di essere intercettate, e coinvolte, dalla politica, dalle istituzioni per farsi sentire ed incidere.
Credo che questo sia oggi il problema del nostro Paese: se le forze riformatrici riusciranno ad incrociare queste energie, forse riusciremo ad uscire dal tunnel e a vedere il nuovo giorno. Ma per farlo occorre evitare un duplice scoglio: la «depressione» storica e la «boria delle nazioni». E questo implica, a sua volta, un cambio radicale delle forme di governo e della ideologia delle classi dirigenti nazionali, a destra e a sinistra. Nessuna delle due cose è però possibile se non cambiano il rapporto con la nostra storia, e l’autorappresentazione che gli italiani hanno, da troppo tempo di se stessi. Il presidente del Parlamento europeo ha fatto bene a ricordarcelo.
Corriere 234.3.14
Tortorella e lo «scontro aperto» su Berlinguer
di T. L.
ROMA — «Non c’era soltanto l’opposizione dell’ala dei miglioristi dentro il Pci», e l’orologio di questa storia è sempre sincronizzato sull’anno 1984, «c’era da tempo uno scontro aperto, che riguardava la politica di Enrico Berlinguer. Sia chiaro, questa replica a Macaluso la faccio in amicizia. L’amicizia con Emanuele mi è cara». Aldo Tortorella, all’epoca coordinatore della segreteria del Pci, conferma le parole pronunciate di fronte alla macchina da presa di Walter Veltroni, che l’ha intervistato per il film «Quando c’era Berlinguer». È la tesi del Berlinguer che, poco prima di morire, era praticamente in minoranza nella direzione del partito. Una tesi che l’ala dei miglioristi, come ha detto Macaluso al Corriere di ieri evocando «la maggioranza bulgara» del segretario, ha contestato. «Ma il mio è un giudizio, non una rivelazione». «Non c’era nessuna maggioranza bulgara», insiste Tortorella. E, tanto per essere più precisi, l’ex dirigente comunista ribadisce che «non eravamo più in tanti, ormai, a essere d’accordo con Enrico. C’era uno scontro aperto. E Berlinguer ne era perfettamente consapevole». Basti pensare, aggiunge, «a quelle parole che il segretario aveva pronunciato qualche tempo prima, quando aveva detto: “sia chiaro, non l’ho chiesto io di venire in questo posto (alla segreteria del Pci, ndr), questo posto è sempre a disposizione”». Ma tolte le posizioni dell’ala migliorista rivendicate da Macaluso, chi altri nella direzione di Botteghe Oscure si opponeva a un Berlinguer che, spiega Tortorella, «adottava una politica che puntava a rifare i fondamenti del Pci?». La risposta dell’ex coordinatore della segreteria berlingueriana inizia con un nome: «Persino Alessandro Natta», che era stato vicinissimo a Berlinguer e che gli sarebbe succeduto. «Natta, come avrebbe scritto nei diari resi pubblici dopo la sua morte, lo scriveva chiaramente: “Non capisco più quello che dice Berlinguer”». E oltre Natta? «Lasciamo perdere», sussurra Tortorella. «Molte di queste persone, tra l’altro, non ci sono più… Resta il fatto che quello scontro c’era. E che il dissenso era molto più esteso rispetto all’area di Macaluso».
Repubblica 24.3.14
In un video le raffiche di mitra nel Canale di Sicilia, indaga la procura militare
Quegli spari al barcone degli scafisti che imbarazzano la Marina italiana
di Fabio Tonacci
ROMA - Raffiche di mitragliatrice nel Canale di Sicilia. Una, due, tre sventagliate contro la poppa del peschereccio degli scafisti che fugge e non si ferma. Dentro ci sono 16 egiziani, ma si saprà soltanto dopo. Poi arrivano i colpi singoli, nove, sparati anch’essi dalla piattaforma della fregata Aliseo dove è sistemato il fucile Mg, azionato da tre marò. Il barcone vira, si vedono pezzettini di legno saltare, dalla porta sulla stiva appaiono due ombre, forse due teste. È il 9 novembre scorso e il primo ciak di questo video girato con un telefonino, su cui ora indaga la procura militare di Napoli, si chiude così. Col Far West sul mar Mediterraneo.
Il filmato che Repubblica
ha visionato, due minuti in tutto, è stato fatto dal ponte di una delle navi della Marina impegnate nell’operazione “Mare Nostrum”, l’Aliseo, durante l’inseguimento di un piccolo peschereccio in fuga, senza bandiera sullo scafo, sospettato di aver trainato e sganciato a largo di Capo Passero una chiatta con 176 profughi siriani. «L’abbordaggio è stato un successo - dirà poi il comandante Massimiliano Siragusa, una volta rientrato nel porto di Catania - l’imbarcazione degli scafisti, tutti arrestati, è affondata per le cattive condizioni del mare». Degli spari, non una parola.
E però i quattro spezzoni di video raccolti da un uomo dell’equipaggio (saranno fatti vedere domani in una conferenza stampa alla Camera organizzata dal Partito per la tutela dei diritti di militari) raccontano di una sorta di “caccia al cinghiale” sul mare. Il primo spezzone porta l’orario delle 16.26. Il peschereccio, cabina bianca e chiglia scura, sta navigando a una trentina di metri dalla Aliseo. Si vedono le raffiche, tre, una indirizzata fuori obiettivo, di prova, le altre due verso la poppa dello scafo, poco dietro la linea di galleggiamento. Spruzzi che salgono dall’acqua e, in alcuni frame, pezzetti di legno che schizzano via. Dietro il mitragliatore della Aliseo almeno due marò, più un terzo uomo.
«Sta a vede’ che entriamo in guerra... - si sente dire da qualcuno vicino a chi sta riprendendo - guarda, guarda come gira». Un altro militare sta facendo foto col cellulare. Il secondo spezzone dura 39 secondi: il mitra Mg è stato posizionato in modalità single shot, e spara 9 colpi sempre in direzione della poppa del barcone, che tenta una virata di fuga. Nel terzo, di appena 7 secondi e datato 10 novembre alle 7.09, si vede il peschereccio vuoto trainato dalla fregata italiana: ha imbarcato acqua, forse dai buchi nella chiglia. Nel quarto e ultimo, il ciak finale: la prua che affonda lentamente. Sono le 9.23, il mare non è mosso, è una tavola, si intravede l’elipista della fregata e la scritta “F 574” sul ponte, la sigla della Aliseo.
Sono immagini che faranno discutere, soprattutto chi dell’operazione “umanitaria” Mare Nostrum lanciata dal governo italiano dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre ha sempre criticato il ruolo “militare” e le regole di ingaggio. «Gli italiani giudicheranno da soli - dice Luca Comellini, del Partito dei militari, che ha interessato dell’episodio la procura di Napoli - in un paese civile qualche alto vertice si dimetterebbe ».
Si può sparare addosso a un barcone di presunti scafisti che scappano? «No - spiega a Repubblica un marinaio che ha partecipato a decine di abbordaggi - a meno che prima non ci sia stata una violenta offesa a colpi di arma da fuoco». Chi ha vissuto il blitz del 9 novembre non ricorda niente del genere. Le cronache giornalistiche non parlano di sparatorie da parte degli egiziani, né di armi trovate a bordo. E le mitragliate non vengono riportate nemmeno nel diario di un poliziotto della scientifica che ha raccontato la sua esperienza sulla Aliseo sulle pagine di Polizia Moderna.
C’è la descrizione dei vani tentativi di stabilire un contatto radio con i conducenti del peschereccio, «ma questi - scrive il poliziotto - iniziano una precipitosa fuga verso le acque libiche, facendo salire in coperta altre persone che prima erano nella stiva». Nonostante l’intervento dell’elicottero e di un gommone dei Marò «lo scafo non rallenta, cambiando sempre direzione». Poi, «dopo diverse ore, l’imbarcazione si ferma. Si sono arresi!». Del come si avvenuta veramente questa resa, non una parola.
Corriere 24.3.14
Una legge o un decreto per risarcire i detenuti ed evitare la condanna
La missione di Orlando a Strasburgo
di Giovanni Bianconi
ROMA — Un disegno di legge da approvare in tempi brevi, o un decreto che entri subito in vigore, per risarcire i detenuti che hanno subito il sovraffollamento nelle carceri italiane, che la Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha sanzionato come «inumano e degradante». È la promessa che il ministro della Giustizia Andrea Orlando farà oggi e domani ai vertici del Consiglio d’Europa e della stessa Corte, nella sua missione a Strasburgo, per tentare di evitare le nuove condanne già annunciate un anno fa dai giudici che sorvegliano il rispetto delle norme comunitarie; uno sfregio che il governo vuole evitare a tutti i costi, anche perché arriverebbe alla vigilia del semestre a guida italiana del Consiglio Ue. E non sarebbe un buon viatico.
L’emergenza — denunciata più volte anche dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, con un messaggio alle Camere rimasto pressoché inascoltato — resta tale. Però l’Italia sta lavorando per risolverla. I dati del soprannumero sono in calo rispetto al momento in cui, un anno fa, arrivò l’ultimatum della Cedu dopo la «sentenza pilota» che ha condannato l’Italia a risarcire con 100 mila euro complessivi sette detenuti che per dodici mesi erano stati rinchiusi in spazi troppo ristretti: se entro il maggio 2014 il governo di Roma non avesse trovato soluzioni, la Corte avrebbe preso in esame tutti gli altri ricorsi (ce ne sono oltre tremila pendenti, e ogni giorno se ne aggiungono di nuovi) con sanzioni che calcoli approssimativi stimano intorno ai 40 milioni di euro. All’epoca di quel verdetto-avvertimento i reclusi erano poco più di 66.000, venerdì scorso eravamo a 60.419. Sempre troppi rispetto alla capienza regolamentare di 47.857 posti. Anche i detenuti in custodia cautelare in attesa del processo di primo grado sono scesi, da oltre 14.000 a 10.864. Però la situazione non garantisce che non ci siano più persone che scontano la pena in meno di tre metri quadrati per ciascuno. E soprattutto non incide sulle violazione passate, che in un modo o nell’altro vanno risarcite.
Ecco perché nei suoi incontri di oggi e domani con il presidente del Consiglio d’Europa, con il presidente della Cedu e con l’Alto commissario per i diritti umani, il ministro Orlando spenderà la carta di un provvedimento legislativo che — come accade per chi subisce una «ingiusta detenzione» attraverso la cosiddetta legge Pinto — garantisca degli indennizzi in Italia, senza la necessità di rivolgersi alla Corte europea. In questo i danneggiati potrebbero presentare le proprie istanze alle istituzioni italiane, e la Cedu lascerebbe cadere le migliaia di reclami che a Strasburgo attendono di essere esaminati. Se la Corte dovesse considerare adeguata questa «soluzione interna», l’Italia potrebbe ottenere di pagare cifre meno consistenti, anche meno della metà rispetto alle stime europee. Per chi è già uscito di galera, infatti, non c’è altro rimedio che il risarcimento economico, mentre per chi è ancora dentro si proverà con una decurtazione della pena, in modo da farlo uscire prima.
Il problema di Orlando è convincere gli interlocutori che questo passo l’Italia lo farà in fretta, quindi un con disegno di legge da approvare entro qualche mese, del quale lui stesso si faccia garante: oppure con un decreto-legge, come aveva immaginato l’ex Guardasigilli Annamaria Cancellieri che però non riuscì a far passare la sua proposta. Orlando conta di avere migliore fortuna, anche perché la scadenza si avvicina e la brutta figura internazionale ricadrebbe sulle spalle del governo Renzi. Ma conta anche di far capire ai vertici europei che in questi mesi l’Italia non è stata con le mani in mano. Solo che a Strasburgo non ne hanno tenuto conto; oppure non sono stati sufficientemente informati, se il 6 marzo scorso è arrivato un ulteriore monito a prendere le contromisure necessarie a evitare la condanna.
Il decreto divenuto legge il 19 febbraio (che prevede un «taglio» di 75 giorni per ogni sei mesi trascorsi in cella) non è considerato sufficiente, ma nel frattempo l’Italia ha provato a migliorare le condizioni di vivibilità nei penitenziari. Anche attraverso le convenzioni con le Regioni per i detenuti che possono accedere alle comunità di recupero, sui cui pure Orlando insisterà. Sperando di persuadere gli esponenti e i giudici europei che il terzo ministro della Giustizia italiano nell’ultimo anno — dopo l’avvocato Paola Severino e l’ex prefetto Cancellieri — è un politico di professione in grado di rispettare gli impegni che prende. Pena una condanna che peserebbe molto sul piano dell’immagine, oltre che su quello economico.
La Stampa 24.3.14
La corsa contro il tempo
Una settimana per abolire le Province
altrimenti si tornerà alle urne
di Antonio Pitoni
Il punto di non ritorno è fissato a fine marzo. Quando scatterà l’indizione dei comizi elettorali. Per questo la parola d’ordine è «fare presto». Per evitare che anche nelle Province, che il ddl Delrio punta ad abolire, si torni a votare per il rinnovo degli organi elettivi all’election day del 25 maggio. Quando 73 organi provinciali, 52 a statuto ordinario e 21 già commissariati, in caso di mancata approvazione del provvedimento, tornerebbero alle urne.
In realtà, il disegno di legge che porta il nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, non certificherà di per sé, la morte delle Province. Constatazione di decesso che, d’altra parte, richiederebbe una riforma costituzionale. Ma procederà, in ogni caso, con lo strumento della legge ordinaria, allo svuotamento delle funzioni e allo spostamento del personale. E, non più tardi di quattro giorni fa, era stato lo stesso Delrio a premere sul Senato, dove il suo ddl è attualmente all’esame, per accelerare i tempi. «Se non si approva il ddl entro fine marzo si andrà a votare per le Province», ha avvertito il sottosegretario, invitando a ritirare gli emendamenti per non perdere «l’occasione di abolire le Province attesa da 20 anni e istituire le città metropolitane». Un’incognita, quella degli emendamenti, i cui effetti si misureranno domani, quando salvo imprevisti, il testo dovrebbe approdare in Aula a Palazzo Madama: in programma una discussione di 11 ore e rinvio, al giorno successivo, per le dichiarazioni prima del voto finale previsto, sempre mercoledì, intorno alle 18.30. Ciò che è certo è che al Senato non ci sono margini di manovra: l’unica possibilità di vedere approvato il ddl entro la fine del mese è quella di ottenere il semaforo verde sullo stesso identico testo licenziato da Montecitorio lo scorso febbraio, scongiurando una terza lettura alla Camera. Per questo, l’appello di Delrio al ritiro degli emendamenti, tenuto conto che in commissione Affari Regionali del Senato si è abbattuta una pioggia di quattromila proposte di modifiche, si è dimostrato tanto necessario quanto inevitabile.
Di eliminazione definitiva delle Province si parla in realtà da quasi 3 anni. Già nel dicembre 2011 il governo Monti, con il decreto Salva Italia, aveva previsto la cancellazione della giunta provinciale e dell’elezione diretta di consiglio e presidente. Ma poi, nel luglio 2013, il primo stop dalla Corte Costituzionale congelò tutto. Nel mirino della Consulta, il ricorso allo strumento del decreto il cui impiego è legittimo per fronteggiare le urgenze e non per dare vita a riforme organiche di sistema. Il lavoro del sottosegretario Delrio, inizia, durante il governo Letta, nel quale ricopriva la carica di ministro per gli Affari Regionali. Il disegno di legge che porta il suo nome arriva in commissione alla Camera nel dicembre 2013. Nonostante le barricate erette da Forza Italia, M5s e Lega Nord, il testo viene approvato dopo tre settimane di battaglia parlamentare. E nel gennaio 2014 il disegno di legge che mira a svuotare per via legislativa l’ente provincia arriva al Senato.
Corriere 24.3.14
«Illegale pretendere soldi dalle famiglie degli alunni»
Il ministro ai presidi: possibili solo contributi volontari
di Leonard Berberi
L’ultima circolare lo scriveva chiaro il 7 marzo del 2013. E non cambiava, di una virgola, quello che aveva già sostenuto l’anno prima. «I contributi scolastici sono volontari». E ancora: «Nessun istituto può subordinare l’iscrizione degli alunni al preventivo versamento del contributo». In caso contrario «non solo è illegittimo, ma si configura come una grave violazione dei propri doveri d’ufficio». Più esplicito, non si può.
E, invece, le cose non stanno proprio così. Decine di istituti scolastici continuano a fare finta di nulla. A volte cambiano il nome del «contributo», ma non la sostanza. In alcuni casi avvertono, usano toni da ultimatum. E per la famiglie si traduce in un costo di almeno 60 euro. In alcuni casi anche di 300.
Su siti come Skuola.net continuano ad arrivare decine di segnalazioni. Una situazione inaccettabile, secondo il Miur. «Mettere la scuola al centro per il governo significa non solo restaurare muri e ridipingere pareti, come stiamo facendo — spiega al Corriere il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini —, ma anche tornare a investire per migliorare la qualità dell’insegnamento e dell’offerta formativa, cosa che ci siamo impegnati a fare». Proprio per questo, «non è possibile obbligare le famiglie, con metodi inappropriati, a pagare contributi che per definizione sono volontari. Questo deve essere un principio inderogabile. I presidi lo sanno, ma se qualcuno non dovesse ricordarselo lo faremo noi con una nota che ribadirà questo concetto».
Complici i tagli degli ultimi anni, le scuole hanno sempre meno risorse a disposizione. E così, per trovare un po’ di soldi, si rivolgono ai genitori degli alunni iscritti. Soldi che qualche istituto — segnalano dal ministero — destina in parte alle voci di spesa relative al funzionamento stesso della struttura. Compresi i costi per le fotocopie e il materiale didattico. «I nostri bilanci sono ridotti all’osso — spiega il preside di un liceo scientifico lombardo che chiede di restare anonimo —, se viene meno proprio quel contributo dato dai genitori allora è meglio chiudere. Non è un problema soltanto mio, ma di tante scuole dell’area».
«Io chiedo 80 euro, non basta, ma almeno mi arriva qualcosa», aggiunge un altro preside, di un liceo classico toscano. Che propone: «Quei contributi per noi sono vitali: forse sarebbe il caso di togliere il velo di ipocrisia e accorparli alle tasse scolastiche».
«Ma allora dobbiamo pagare o no?», è la domanda di mamma e papà. E intanto si improvvisano giuristi, cercano sul web documenti e leggi. Ricevono comunicazioni di presidi «a volte sgradevoli». Prendiamo, per esempio, una circolare di un liceo di Cuneo. Punti esclamativi inclusi. Scrive il dirigente: «Si ricorda che i contributi, se pure non obbligatori, sono richiesti perché indispensabili per il funzionamento dell’istituto». Quindi il suggerimento: «Per gli alunni, le cui famiglie non intendono versare i contributi, vi sono due possibilità. Pagare ogni volta la quota relativa al servizio, all’acquisto di cui usufruiscono (esempio: pagare ogni fotocopia, ogni ingresso nell’aula informatica). Strada di fatto non percorribile!». Oppure «usufruire di tutti gli strumenti, di tutti i servizi, perché gli altri alunni hanno pagato».
Più a est, un liceo scientifico di Milano chiede 150 euro quale «contributo spese di funzionamento». Per arrivare a Mestre, dove i 120 euro (per chi si iscrive al secondo anno) e i 130 euro (per la registrazione alle classi 3°, 4° e 5°) servono, tra le altre cose, anche alla «parziale copertura delle spese di fotocopiatura».
«Al netto di chi ha l’esonero per merito, motivi economici o appartenenza a speciali categorie — chiariscono dal ministero — sono obbligatorie soltanto le tasse di iscrizione, di frequenza, di esame e di diploma». Tutto quello che eccede questa cifra — vedi alla voce: contributi scolastici — «può essere chiesto, ma i genitori non sono costretti a pagare». Resta in piedi un Regio decreto del 1924 e riguarda soltanto gli istituti tecnici, professionali e l’artistico. Quei contributi, chiamati «di laboratorio», si devono pagare. Tutte le irregolarità, continua il Miur, si possono segnalare «agli Uffici scolastici regionali che sono responsabili della vigilanza sulle scuole».
Corriere 24.3.14
Nel 2013 hanno lasciato le superiori in 160 mila
È come se fossero scomparsi, nell’ultimo anno, tutti gli abitanti di una città grande come Livorno o Ravenna. Ha infatti queste dimensioni il buco nero della dispersione scolastica nel quale, nel 2013, sono precipitati 160 mila studenti che hanno abbandonato la scuola secondaria superiore statale. Più di uno su quattro non ce l’ha fatta a reggere il passo con i compagni di classe. A ritirarsi è stato il 27% di chi aveva iniziato il ciclo formativo dei cinque anni. Un piccolo miglioramento rispetto alla precedente rilevazione con 20 mila drop out in più, pari al 29,7%. Ma resta intatto l’allarme per una emergenza formativa che colloca l’Italia in fondo alla media Ue, con ben due milioni e 900 mila studenti — più degli abitanti di Roma — che negli ultimi 15 anni hanno lasciato istituti tecnici e licei senza diploma in tasca. I calcoli di questa emorragia che «indebolisce il sistema Paese» li ha fatti Tuttoscuola , elaborando i dati del Miur. Solo una parte dei dispersi — osserva il report — ha continuato gli studi nella scuola non statale o nei corsi di istruzione e formazione professionale (IeFP). Quanti? Non esiste un’anagrafe integrata per calcolare quanti hanno proseguito gli studi, quanti hanno trovato un lavoro e quanti hanno ingrossato le fila dei cosiddetti Neet , i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, non fanno formazione. Complessivamente, negli ultimi quindici anni, non è arrivato nemmeno alla soglia dell’esame di maturità il numero colossale di 2.868.394 studenti. Centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze, senza nome né volto, che si sono persi per strada e hanno abbandonato la sfida. Erano partiti, anno dopo anno, in 9.109.728: risulta quindi, «caduto» sui banchi, il 31,5%. In Italia la quota di Neet è molto superiore a quella della media europea (22,7 e 15,4 per cento rispettivamente). E cresce significativamente se rapportata a Germania (9,7%), Francia (14,5%) e Regno Unito (15,5%) per avvicinarsi a quella della Spagna (21,1%).
La Stampa 24.3.14
Solo una matricola su due arriva a conquistare la laurea
di Walter Passerini
Atenei Un mondo che cambia sotto i colpi della crisi ma è stata una settimana di passione per l’istruzione italiana. Prima l’insoddisfazione dei diplomati (il 41% dichiara di aver sbagliato a scegliere la scuola; dopo un anno gli stessi si dichiarano pentiti della scelta nel 44% dei casi, spiega il Rapporto AlmaDiploma). Poi i ritardi e il disorientamento dei laureati, che chiamano in causa orientamento e servizi di accompagnamento. Questa a volta ad affermarlo è il primo Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca, realizzato dall’Anvur, l’ente di valutazione del sistema universitario, che ci spiega la drammatica dispersione tra immatricolati e laureati italiani: quasi uno su due non ottiene la laurea.
Troppi dottori?
Il Rapporto segnala che negli ultimi vent’anni c’è stato un aumento di laureati. “Tra il 1993 e il 2012, infatti – spiega Roberto Torrini, direttore generale Anvur e coordinatore del Rapporto - la quota dei laureati sul totale della popolazione in età da lavoro è salita dal 5,5 al 12,7%; tra i giovani in età compresa tra i 25 e i 34 anni si è passati dal 7,1 al 22,3%”. A confronto, la Germania è al 29%, il Regno Unito al 45%, la media europea è al 35%. Come è successo in tutti i paesi anche l’Italia ha superato la concezione elitaria dell’istruzione universitaria per imboccare la strada dell’istruzione di massa. Questo fenomeno fisiologico, specie dopo la riforma del 2000, ha suscitato polemiche e pregiudizi, a cui è seguita una convinzione diffusa quanto scorretta, quella cioè che “nel nostro paese vi sia un eccesso di laureati”. In realtà, i confronti internazionali rivelano che l’Italia è uno dei paesi con la più bassa quota di laureati in assoluto, tra gli adulti e tra i più giovani. C’è stato uno scivolamento progressivo: rispetto alla parallela crescita dell’istruzione universitaria nei diversi paesi, non si è ridotto lo scarto rispetto ai valori medi europei. “Il ritardo italiano nei tassi di laurea sembra dipendere in gran parte dal basso tasso d’immatricolazione tra i giovani adulti (forse già impegnati sul lavoro) e da bassi tassi di successo degli iscritti nel confronto internazionale. Parte delle differenze con gli altri Paesi potrebbero dipendere dalla mancanza in Italia di un’offerta di corsi terziari professionalizzanti, che nella media Ue ha un peso di circa il 25% sul totale dei laureati. La quota dei giovani tra i 20 e i 24 anni con almeno un diploma di scuola secondaria superiore è in Italia ormai allineata alla media europea e non può quindi spiegare per i più giovani il ritardo nei tassi di conseguimento della laurea. Risulta invece bassa la quota complessiva di diplomati che intraprendono una carriera di studi universitaria in un qualche momento della loro vita. L’università italiana non riesce ad attrarre studenti maturi: gli immatricolati con almeno 25 anni di età sono infatti appena l’8% del totale, contro un valore medio del 17%. In Italia poi il tasso di successo negli studi universitari è ancora molto basso: su 100 immatricolati solo 55 conseguono il titolo a fronte di una media europea di quasi il 70%”. Dopo il primo anno circa il 15% abbandona gli studi nella triennale e altrettanti decidono di cambiare corso.
Gravi ritardi
Il tempo medio di conseguimento della laurea triennale è di oltre 5 anni. Per una laurea a ciclo unico di sei anni ce ne vogliono 7,4. Il fatto che quasi un terzo degli immatricolati abbandoni o cambi corso di studio dopo il primo anno indica la difficoltà del passaggio dalle scuole superiori all’università: «Ciò è dovuto – conclude il Rapporto - all’inefficacia dell’orientamento formativo, a deficit di preparazione degli studenti, alla debolezza del tutoraggio per gli immatricolati». I dati sulla dispersione, sulla regolarità degli studi e sul tempo medio per laurearsi rivelano infine una forte dispersione del sistema con costi sicuramente elevati a livello generale (tra tutti il ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro). Nonostante i luoghi comuni sul mercato del lavoro la laurea sembra offrire migliori opportunità rispetto al diploma. La crisi ha colpito i più giovani, ma gli effetti sono stati peggiori per quelli che hanno un livello d’istruzione più basso.
Repubblica 24.3.14
Il nostro patrimonio artistico in bilico tra pubblico e privato
di Salvatore Settis
A chi tocca tutelare e promuovere il nostro patrimonio artistico? Lo svuotamento di risorse degli uffici di tutela e le conseguenti disfunzioni hanno fatto venire di moda la diceria che le Soprintendenze sono enti inutili, da eliminare. Quando la nave affonda, tutti se ne accorgono ma nessuno si prende la colpa: si fa prima a cercare un capro espiatorio. Così da una settimana all’altra la patria è salva se si aboliscono le Province, se chiude il Senato, se si smontano i Beni Culturali. Questa voglia di rottamare tutto e tutti, spacciata per moderna, non ha niente di nuovo: è del 1950 un intervento alla Camera del liberale Epicarmo Corbino su «l’enorme discredito» che getta sullo Stato chi dice «se si vuol fare una cosa seria, serviamoci di tutto, tranne che degli organi dello Stato».
L’ultimo libro di Sabino Cassese (Governare gli italiani. Storia dello Stato), appena pubblicato dal Mulino, offre un lucidissimo sguardo di lungo periodo sul tarlo che rode l’organizzazione della cosa pubblica. Da sempre chi ci governa gonfia l’amministrazione di nuove funzioni e strutture con una mano, con l’altra la delegittima perché lenta, pletorica, inefficace. A lungo la soluzione per snellirla fu di creare aziende autonome (come le Ferrovie dello Stato, 1905) o enti pubblici (come l’Iri, 1933). Questo «processo di fuga dallo Stato» ne diventa, scrive Cassese, «un fattore di disaggregazione». È qui che si è innestato lo slogan di Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il problema»: l’impulso a privatizzare, spacciato per modernissimo, è tutto in questa frase datata 1981.
Ma la politica continua il gioco delle tre carte, delegittima lo Stato per asservirlo a sé: dopo la riforma del pubblico impiego (1993), la dirigenza è stata precarizzata, i concorsi per merito sono l’eccezione e non la regola, la competenza è esiliata, «il vertice amministrativo è composto di persone transeunti». «La politicizzazione del vertice si estende alla periferia, con assunzioni dettate da criteri di patronato politico, non da quello del merito». Si formano, in nome di una “flessibilità” contrabbandata per funzionale, legioni di precari, che impediscono di bandire concorsi e premono per assunzioni ope legis. Tutto contro la Costituzione(artt. 97-98), secondo cui «il personale pubblico dovrebbe esser retto dal principio di neutralità perché al servizio esclusivo della Nazione»: reclutamenti discrezionali e successive stabilizzazioni sono pertanto «un aggiramento della Costituzione». Lo Stato svaluta se stesso, delega funzioni a terzi e assume non per competenza e merito, ma secondo appartenenze e fedeltà.
Le Soprintendenze ai Beni Culturali, devastate dall’efferato dimezzamento dei bilanci perpetrato dal duo Tremonti-Bondi (2008), fanno solo in parte eccezione: da un lato i livelli dirigenziali sono sottoposti al voto di ubbidienza imposto dalla politica, ma il centro è ipertrofico rispetto agli uffici territoriali su cui pesano le funzioni costituzionali di conoscenza e tutela. Dall’altro, la mancanza di turn over (età media 57 anni) ha lasciato nelle soprintendenze molti funzionari assunti per competenza e per merito, che talora osano ancora opporsi alle voglie del politico di turno. Perciò spesso chi se la prende con le Soprintendenze o ne reclama l’abolizione non punta su una maggior funzionalità dell’amministrazione, ma su un suo totale asservimento alla politica: questo il senso di ripetute invettive del sindaco di Verona (il leghista Tosi) ma anche del sindaco di Firenze, ora presidente del Consiglio. A una frase di Renzi si ispira un professore di Architettura (Corriere, 3 marzo), secondo cui le Soprintendenze sono «un intralcio» e vanno soppresse; ma vuole affidarne le funzioni, guarda caso, alle facoltà di Architettura.
Questo il quadro entro il quale con monotone litanie si invoca da vent’anni l’intervento dei privati, inteso come supplenza a uno Stato in ritirata. In una recente intervista, il ministro Franceschini si è mostrato consapevole della differenza fra mecenatismo e sponsorizzazione (che in Italia sfugge ai più), e ha giustamente indicato come modello da seguire l’accordo del Ministero con la Fondazione Packard per gli scavi di Ercolano. “Mecenatismo” è infatti solo la donazione volontaria e senza alcun corrispettivo economico se non (com’è negli Stati Uniti, e dovrebbe essere da noi) qualche vantaggio fiscale. Tutt’altra cosa è la presenza di ditte private che fanno quello che dovrebbe essere il core business dei musei (ricerca conoscitiva, mostre, programmi educativi): al Louvre o al Metropolitan a nessuno verrebbe in mente di appaltare una mostra a un privato. Ma il mecenatismo privato non può funzionare, se non in un quadro garantito da finanziamenti pubblici adeguati, come oggi non è.
Lo ha scritto Eugenio Scalfari in queste pagine (11 novembre 2008): «cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio sono considerati elementi opzionali dei quali si può fare a meno. Ma non si tratta di spese bensì di investimenti che, per loro natura, non possono esser interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi. (...) La condizione in cui versano da anni le nostre Soprintendenze è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. (...) Sarebbe necessario chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la pubblica fruizione. (...) Da qui l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo che sia depositario di una visione generale». Perciò occorre non solo indicare un modello positivo di mecenatismo, come Franceschini ha già fatto, ma anche tenere a bada il patriottismo for profit di chi investe in beni culturali solo per averne un rientro economico (basterebbe seguire l’ottimo esempio della Francia). Ancor più importante è però tornare almeno ai livelli di investimento pubblico ante 2008 (già allora insufficienti), poiché i contributi privati sono virtuosi solo se si innestano su forti politiche pubbliche. In nome della Costituzione (art. 9), ma anche delle buone pratiche diffuse in tutto il mondo. In questo come in altri settori, il buon funzionamento delle istituzioni non è il problema. È la soluzione.
Repubblica 24.3.14
Sono arrivati i miliardi attenti a come si usano
di Mario Pirani
L’andamento dei nostri mercati suscita interrogativi misteriosi per l’investitore comune. Si stanno muovendo trilioni di dollari e bisogna interpretarne le ragioni e la direzione. Siamo di fronte a una riallocazione generale del debito pubblico. Il punto di partenza almeno da un anno a questa parte è la decisione dei grandi fondi internazionali dominati dai grandi fondi di investimento americani(fondi pensione e altri), dai fondi sovrani (il fondo sovrano cinese, il fondo sovrano di Singapore, di Dubai, ecc.) e dai private equities (questi ultimi investono in attivi industriali di qualsiasi tipo sulle imprese, sull’immobiliare ecc.) di liquidare le loro posizioni nei mercati emergenti dove si erano mossi negli ultimi 6-7 anni facendo guadagni enormi. Un'altra caratteristica importantissima è rappresentata dal fatto che, nello stesso periodo, questi fondi si sono enormemente dilatati perché con le politiche di monetary easing(denaro facile) la quantità di denaro in circolazione è diventata ingente (facilitata dalla Bce e dalla Banca centrale Usa) e quindi la raccolta sul mercato è aumentata esponenzialmente. Questi fondi investono dappertutto ma basta che muovano l’1% delle loro sostanze per spostare cifre enormi, più vicine alle centinaia di miliardi che al miliardo di dollari. La gestione di questi movimenti è in mano a poche persone che si parlano fra loro. Gli basta spostare il 5% dei fondi a disposizione per determinare dei sommovimenti enormi sul mercato dei capitali e provocare sostanzialmente due fenomeni: l’aumento del corso dei titoli che comprano (e quindi se comprano debito pubblico brasiliano aumentano il valore dei titoli del suddetto debito) e la discesa dei tassi di interesse, ma soprattutto determinano una rivalutazione delle divise nelle quali investono. Quando comprano titoli pubblici brasiliani, scendono i tassi del Brasile e aumenta il Real brasiliano.
L’interesse dei mercati negli ultimi 6-9 mesi si è rivolto verso l’Europa dopo aver compreso, circa due anni fa, che l’euro sarebbe sopravvissuto e che la speranza di spaccare l’unione monetaria e di farne uscire l’Italia (paese cruciale ma estremamente fragile per le mancate riforme e le debolezze del governo) era mal riposta. Questo è avvenuto grazie a Mario Draghi che con un grande colpo di coraggio disse: «We will do whatever it takes (faremo tutto ciò che è necessario) per difendere l’euro». Questa famosa frase insieme a tutti gli strumenti che la Bce ha messo in azione furono interpretati dai mercati sufficientemente credibili. L’interesse degli investitori sull’Europa ha naturalmente privilegiato i Paesi con i tassi di interesse più alti , ovvero Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, e li ha portati ad acquistare proprio questi titoli di debito determinando la consistente diminuzione dello spread. Il fatto che oggi il nostro Paese ha i prezzi attivi più bassi al mondo (imprese ed immobiliare italiano) sta determinando un enorme afflusso di capitali in Italia. Questo scenario non è sostenibile nel lungo periodo e durerà probabilmente tra i 18 e i 24 mesi in cui lo spread resterà basso, il mercato azionario salirà, il tesoro non avrà problemi a collocare il debito e l’immobiliare, che sarà l’ultimo, comincerà a rivalutarsi.
Renzi quindi oggi si trova in una congiuntura estremamente favorevole. Se lui riuscisse veramente in questi due anni a fare le riforme necessarie è possibile che la nostra situazione si stabilizzi, se non ce la facesse il nostro destino sarebbe segnato.
Oggi, per approfittare di questo ingente e temporaneo grande passaggio di liquidità e trasformarlo in una occasione stabile di crescita bisogna quindi concentrarsi sulla riforma del mercato del lavoro, già bene avviata dal ministro Poletti; quella della giustizia; l’abolizione della burocrazia e quella del sistema di “governance” del Paese che metta ordine nei livelli di potere concorrenti, sovrapposti, interposti che impedisce di prendere decisione e successivamente di portarla ad esecuzione, dando nel frattempo un po’ di respiro alla gente sul piano dei salari. Renzi dimostra di conoscere le questioni su cui agire, ma ce la farà? È quello che tutti speriamo.
l’Unità 24.3.14
«Via Fani, gli 007 proteggevano le Br»
Un ex poliziotto: erano in due sulla Honda, uno confessò anonimamente. Indagai, mi bloccarono
di Massimo Solani
Trentasei anni dopo la strage di via Fani e con una nuova commissione di inchiesta che potrebbe vedere la luce presto, l’agguato in cui venne rapito Aldo Moro e trucidati i cinque uomini della scorta, si arricchisce di un nuovo mistero. Rivelazioni che sollevano nuove ombre su un presunto coinvolgimento di uomini dello stato e su coperture di cui le Brigate Rosse avrebbero goduto. Un mistero che ruota attorno alla misterioso moto Honda blu presente sulla scena dell’agguato la mattina del 16 marzo del 1978 e i suoi due passeggeri che aprirono il fuoco contro l’ingegnere Alessandro Marini, uno dei testimoni della strage. Due persone che secondo i brigatisti Mario Moretti e Valerio Morucci non avrebbero avuto nulla a che fare con le Br. A sollevare i nuovi dubbi è Enrico Rossi, ispettore di Polizia in pensione per anni all’antiterrosimo. È lui, dopo un lungo silenzio, a raccontare all’Ansa la nuova «verità». «Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall'uomo che era sul sellino posteriore». Secondo Rossi i due appartenevano ai servizi segreti, e avevano il compito di «proteggere» l’azione delle Br. «Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi - prosegue Rossi - che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978». Secondo la ricostruzione tutto nasce da una lettera anonima inviata a un quotidiano nell’ottobre2009.Questa la lettera, diffusa dall’Ansa, che l’anonimo avrebbe lasciato ordine di consegnare dopo la sua morte per un cancro: «La mattina del16marzoerosudiunamotoeoperavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere». L’anonimo, a sostegno delle sue affermazioni, aveva fornito anche elementi utili a rintracciare quello che sarebbe stato il pilota della moto. Fra questi il nome di una donna e l’indirizzo di un negozio di Torino. «Tanto io posso dire - concludeva - sta a voi decidere se saperne di più».
Quella lettera, racconta oggi Rossi, fu inoltrata dal quotidiano alla procura per poi finire casualmente nel febbraio 2011 sulla sua scrivania all’antiterrorismo. Non ha un numero di protocollo e nessuno sembra essersi preso la briga di fare ulteriori accertamenti. Rossi li fa, o almeno così racconta, e in poco tempo identifica il presunto guidatore della Honda di via Fani. Quello che, secondo il racconto fatto da Alessandro Marini agli inquirenti subito dopo l’eccidio (i proiettili esplosi contro di lui avevano colpito il parabrezza del suo motorino), era un giovane di 20-22anni,moltomagro,conil viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Seduto dietro invece, secondo le parole dell’ingegnere che dopo la sua testimonianza ricevette minacce per anni prima di trasferirsi in Svizzera, un uomo con il passamontagna nero che sparò con un mitra (forse la misteriosa ottava arma che avrebbe aperto il fuoco a via Fani)verso di lui perdendo poi il caricatore durante la fuga. Su chi fossero quei due sino ad oggi tante ipotesi (due autonomi romani, uomini della ‘ndrangheta o gente dei servizi, come ipotizzò il pm romano Antonio Marini) e una sola certezza: «non c’entrano con noi», dissero i vertici brigatisti nel corso dei processi.
«Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli - spiega oggi Rossi - Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca, pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta. Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono emi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo».
«Nel frattempo - continua Rossi - erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche “incomprensione” nel mio ufficio. La situazione si “congela” e non si fa nessun altro passo, che io sappia». «Capisco che è meglio che me ne vada - conclude Rossi che ha deciso di rompere il silenzio su questa storia soltanto oggi - e nell’agosto del 2012 vado in pensione a56 anni. Tempo dopo, una “voce amica” di cui mi fido m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l'inchiesta “incompiuta”». Una inchiesta che, secondo quanto trapelato, al momento potrebbe essere arrivata alla procura di Roma dove è tutt’ora aperto un fascicolo sul caso Moro.
l’Unità 24.3.14
Miguel Gotor
«È una polpetta per la Commissione. Non sarà la sola»
Lo storico e senatore: «Queste rivelazioni ci vogliono indirizzare su una pista ben precisa. Ci vuole responsabilità istituzionale e molta prudenza»
di Roberto Rossi
«Ho l’impressione che questa sia una polpetta che viene data in pasto in un momento particolare. Ce ne saranno anche altre». Miguel Gotor, oggi senatore, è uno degli storici che più ha indagato sul rapimento Moro. In parlamento ha firmato per l’istituzione della Commissione d’inchiesta sugli anni di piombo.
Perché parla di polpetta? E data in pasto a chi?
«Perché in questo caso colpisce il rapporto che c’è tra questa ultima rivelazione e la nascente Commissione Moro. Soltanto qualche giorno fa, all’inizio di questa settimana, la Camera dei Deputati ha approvato la sua istituzione, ora all’esame del Senato, e ho l’impressione che possa esserci un rapporto...»
Che tipo di rapporto?
«Questo tipo di rivelazioni, a distanza di anni, possono avere un valore orientante e depistante al tempo stesso: informare per disinformare. E di questo, naturalmente, bisogna tenerne conto. Qualche mese fa qualcosa di analogo è avvenuto con delle presunte fonti citate nel libro dell'ex magistrato Imposimato. Che poi, come a una prima lettura critica del testo si poteva capire, si sono rivelate infondate. Non bisogna avere pregiudizi ma anche sapere che esiste questa possibilità. Il caso Moro è una galassia e da questa galassia possono partire dei razzi depistanti che alzano spesse cortine fumogene e che possono contare su un’ampia disponibilità dell’opinione pubblica».
Cosa si può leggere in questa ultima rivelazione?
«Proviamo ad analizzare che cosa viene detto: abbiamo un ex ispettore di polizia il quale dichiara di aver ricevuto una lettera anonima, indirizzata a un quotidiano. Di questa lettera anonima la prima cosa che colpisce sono gli interpreti principali: i due uomini a bordo della Honda in via Fani. Entrambi sono infatti morti».
E poi?
«È interessante che la tardiva affermazione di questo ispettore Rossi inviti a concentrare l’azione della Commissione sullo scenario del 16 marzo e sulla presenza di questa moto Honda».
Perché è interessante?
«Perché tutti i brigatisti, in particolare Valerio Morucci ma anche Mario Moretti, hanno sempre negato la presenza del mezzo con un vero e proprio atteggiamento negazionista. Invece quella Honda, guidata da due persone non identificate, era presente sullo scenario di via Fani. Questo fatto è stato accertato».
C'è un testimone...
«...È l'ingegner Marini che fu colpito da una sventagliata di mitra e il suo parabrezza fu distrutto. E sono agli atti dei processi le minacce telefoniche che ricevette».
Anche la sera stessa...
«Ma non solo. Anche mesi dopo. Per esempio, io ne ricordo una a memoria: una chiamata durante la partita dei mondiale del 78, Italia-Francia quindi a giugno. C'è la sua testimonianza».
Quindi, Rossi ci invita a concentrarci sugli uomini a bordo della Honda. Ma chi erano? «Si è sempre pensato che queste due uomini potessero appartenere a delle schegge del “partito armato” non controllato dalle Br, uomini che avrebbero voluto partecipare anche loro all'assalto di via Fani ».
Invece l'ispettore ci dice altro....
«Ci suggerisce di rivolgere lo sguardo altrove, di concentrarci su presunti agenti dei servizi segreti, oggi defunti, guidati dal colonnello Camillo Guglielmi. Così facendo però distoglie l'attenzione dalla galassia del “partito armato”».
Guglielmi che era presente in via Fani...
«Era lì una ventina di minuti dopo la strage ».
Come giustificò la sua presenza?
«Diede una spiegazione così poco plausibile da apparire provocatoria. Disse che si trovava lì per un appuntamento che aveva a pranzo, quindi alcune ore dopo». Anche Rossi cita Guglielmi... «Ma le dichiarazioni del colonnello fatte alla magistratura sono pubbliche. È verosimile che Guglielmi sia subito accorso sullo scenario del delitto in virtù delle sue responsabilità in senso al Sismi, che però non era opportuno rivelare pubblicamente ».
Come si fa a setacciare il falso dal vero?
«Esercitando spirito critico. Quanti saranno scelti per fare i membri della commissione Moro dovranno avere responsabilità istituzionale e una doverosa prudenza per evitare di trangugiare queste polpette e fare poi delle brutte figure. Naturalmente, in presenza di nuovi e più probanti elementi, sono disposto a cambiare idea. Anche il recente episodio di Imposimato su via Montalcini e dei due presunti gladiatori sta lì a dimostrarlo».
Che significò il caso Moro per il nostro Paese?
«Segnò una frattura, una cesura tra un’Italia e un’altra. Tra un Paese che ha vissuto, da dopo la guerra fino al ‘78, un trentennio di crescita e sviluppo, con l'incontro tra forze popolari mediato dai partiti, e un’Italia in affanno, in difficoltà. Comunque sia credo che l’operazione Moro sia stata un’operazione chirurgica che costituisce un'anomalia rispetto alla storia della lotta armata in Italia».
In che modo?
«Perché deve essere letta dentro il nesso tra una dimensione originale, nazionale, autonoma, autoctona del nostro brigatismo e una internazionale. In questo legame sta la originalità di questa vicenda che costituisce per questo Paese un trauma mai assorbito, perché interroga il nodo della nostra sovranità».
il Fatto 24.3.14
L’ex Br dissociato nel 1983
Franceschini: “La storia è verosimile”
di Sal. Can.
Che lo Stato abbia strumentalizzato le Br secondo me è plausibile. Ora, però, chi di dovere de-secreti le carte, è venuto il momento di conoscere davvero tutto”. Alberto Franceschini delle Br è stato uno dei membri fino al 1983 anno in cui si dissocia dalla lotta armata. Nel 1992 lascia il carcere dopo 18 anni di galera e inizia una nuova vita. Accuse e sospetti sul rapporto tra Brigate Rosse e apparati dello Stato li ha già avanzati in diverse occasioni quindi, raggiunto al telefono, non sembra stupito della notizia. “Sì, è probabile, la storia del colonnello Guglielmi che si trovava a passare “casualmente” da quelle parti, è nota. Ora si scopre che qualcuno era lì a osservare tutta la scena. Ma sarebbe il caso di vedere dei documenti ufficiali.
Il governo dovrebbe agire in questo senso?
Sì, il nostro governo ma anche gli Stati Uniti dove ci sono altre carte. È anche vero che i servizi segreti non lasciano troppi testi scritti in giro ma, insomma, sarebbe davvero ora di desecretare tutto quello che è in giro. Almeno per rispetto ai famigliari delle vittime e per tutte le persone che vorrebbero sapere la verità.
Molti ex Br non condividono la posizione secondo cui gli apparati dello Stato coprivano il terrorismo.
Lo so, insieme a pochi altri faccio parte di un’esigua minoranza. Poi, però, emergono fatti come questi su cui occorre interrogarsi.
Ma se fosse vero, che ruolo hanno giocato le Br?
Le ipotesi possono essere diverse tra loro. Potrebbero essere stati “protetti” a loro insaputa, se vogliamo utilizzare una battuta. In fondo è la verità più semplice.
Strumentalizzati dallo Stato?
Sì, anche se questo significa ammettere di essere stati un po’ coglioni. Essere presi in giro dallo Stato che si sta combattendo con la lotta armata.
Oppure?
Oppure, come io credo, anche se non ho le prove, c’è stata una complicità. Su una vicenda come quella della lotta armata è impossibile che i servizi non abbiano tentato di incunearsi. Ma la partita è stata giocata da più soggetti. Spero si riapra una commissione d’inchiesta. La soluzione è tirare fuori tutte le carte anche per smentire eventuali, nuove, bufale.
l’Unità 24.3.14
Europee
Lista Tsipras, appello di Vendola per le firme
Nichi Vendola ha lanciato in un video sul sito web di Sinistra ecologia e libertà un appello per la raccolta delle firme necessarie a presentare alle elezioni europee la lista «L’Altra Europa con Tsipras». E paragona il leader greco della sinistra radicale a un «Davide » che difende i deboli dal Golia dell’austerità in Europa.
«C’è una buona notizia oggi sulla scena, a volte angosciante, della politica italiana e della politica europea», scrive il leader di Sel. «Un’alternativa c’è e si chiama Alexis Tsipras e la lista L'Altra Europa con Tsipras».
«Tsipras è una creatura nuova - prosegue Nichi Vendola sul sito - un Davide dell’Europa del sud che difende le ragioni di chi è stato schiantato dalle politiche della austerità e si erge contro questo Golia, questo gigante teutonico fatto di liberismo e di regole assurde che strozzano i diritti del mondo del lavoro, dei pensionati, del ceto medio».
Il presidente della Regione Puglia ricorda che «Alexis è il leader della sinistra che si candida oggi in Grecia ad essere sinistra di governo, ma che è anche il testimone della brutalità di quelle politiche di smantellamento del welfare», spiega, «Quelle politiche che hanno inciso nella carne viva dei servizi e dei diritti e che hanno rappresentato un calvario per un popolo intero », conclude il leader di Sel.
Alexis Tsipras si candida a guidare la commissione Europea sfidando Martin Schulz e altri candidati, ma in Italia la lista con il suo nome, che unisce varie anime della sinistra e movimenti di opinione, ma non vuole essere ricondotta a partiti, fatica nel raggiungere le firme necessarie. Per questo Barbara Spinelli ha chiesto alla presidente della Camera di farsi propotrice della proposta di legge che ne riduce il numero.
Repubblica 24.3.14
Se il mondo paga il prezzo di una teoria sbagliata
di Joseph E. Stiglitz
Il libero commercio è stato un principio cardine dell’economia nei primi anni di questa disciplina. Sì, vincitori e perdenti esistono, diceva la teoria, ma i vincitori possono sempre risarcire i perdenti, così che il libero commercio (o perfino un commercio più libero) sia una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, purtroppo, si basa su numerosi presupposti, molti dei quali sono semplicemente sbagliati. Teorie più vecchie, per esempio, ignoravano il rischio e presumevano che i lavoratori potessero passare senza problemi da un posto di lavoro all’altro. Si presumeva anche che l’economia fosse alla piena occupazione, così che i lavoratori spostati dalla globalizzazione si sarebbero rapidamente mossi da settori a bassa produttività a settori a più alta produttività.
Quando però c’è un alto livello di disoccupazione, e a maggior ragione quando una consistente percentuale di disoccupati è rimasta priva di lavoro a lungo (come accade adesso), una simile compiacenza non ci può essere. Oggi sono venti milioni gli americani che vorrebbero trovare un posto a tempo pieno ma non ci riescono. In milioni hanno smesso di cercarlo. Di conseguenza, c’è un rischio concreto che il personale spostato in un settore protetto da un posto di lavoro a bassa produttività di fatto finisca coll’entrare nelle lunghe file dei disoccupati a produttività zero.
Questo fenomeno nuoce perfino a chi riesce a mantenere il proprio posto di lavoro, dato che la maggiore disoccupazione aumenta al ribasso la pressione sui salari. Possiamo anche metterci a discutere sul motivo per il quale la nostra economia non è performante come si crede che debba essere - se ciò dipende da una mancanza di domanda aggregata o se avviene perché le nostre banche, più interessate alla speculazione e alla manipolazione dei mercati che al prestito, non stanno garantendo gli adeguati finanziamenti alle piccole e medie imprese. A prescindere dalle cause, però, la realtà è che questi accordi commerciali rischiano di aumentare la disoccupazione.
Una delle cause per le quali siamo in questa brutta situazione è che abbiamo gestito male la globalizzazione. Le nostre politiche economiche incoraggiano l’esternalizzazione, l’outsourcing dei posti di lavoro, e le merci prodotte all’estero con manodopera a basso costo possono essere riportate con poca spesa negli Stati Uniti. Così, i lavoratori americani capiscono di dover competere con quelli all’estero, e il loro potere contrattuale è indebolito. Per questo motivo fondamentale il reddito medio reale dei lavoratori di sesso maschile con un posto di lavoro a tempo pieno è inferiore rispetto a quello di 40 anni fa.
La politica americana odierna aggrava questi problemi. Anche nella migliore delle ipotesi, la vecchia teoria del libero commercio diceva soltanto che i vincitori avrebbero potuto risarcire i perdenti, non che l’avrebbero fatto. E così è stato: non l’hanno fatto. Anzi, hanno fatto il contrario. I sostenitori degli accordi commerciali spesso affermano che per far diventare competitiva l’America non si dovranno tagliare soltanto i salari, ma anche le tasse e le spese pubbliche, soprattutto quelle relative a programmi che vanno a sostegno dei normali cittadini. Dovremmo accettare di soffrire a breve termine, dicono, affinché sul lungo periodo ne traggano beneficio tutti. Ma, come disse una volta John Maynard Keynes in altro contesto, «nel lungo periodo saremo tutti morti». In questo caso, ci sono poche prove dalle quali evincere che gli accordi commerciali porteranno a una crescita più rapida o più profonda. I critici del Partenariato trans-pacifico (Tpp, Trans-Pacific Partnership, Trattato di libero scambio con 11 nazioni del Pacifico intorno alla Cina, NdT) abbondano perché sia l’iter sia la teoria sulla quale esso si basa sono un fiasco. L’opposizione al Tpp è fiorita non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Asia, dove i colloqui si sono arenati.
Mettendosi alla guida di una protesta a tutto campo contro l’ente responsabile del Tpp, Harry Reid, leader della maggioranza del Senato, sembra averci dato una piccola tregua. Sembra anche che a vincere questa scaramuccia siano stati coloro che pensano che gli accordi commerciali arricchiscano le multinazionali a spese del 99 per cento. Di fatto, invece, è in corso una guerra molto più estesa per garantire che le politiche commerciali - e la globalizzazione più in generale - siano strutturate in modo tale da migliorare gli standard di vita della maggior parte degli americani. L’esito di questa guerra è tuttora incerto. Più volte ho ribadito due punti: il primo è che l’alto livello di disuguaglianza presente oggi negli Stati Uniti (e il suo enorme aumento negli ultimi trent’anni) è il risultato cumulativo di tutta una serie di politiche, programmi e leggi. Tenuto conto che il presidente stesso ha sottolineato che la disuguaglianza è la priorità numero uno del paese, ogni nuova politica, ogni nuovo programma, ogni nuova legge dovrebbe essere valutata dal punto di vista del suo effettivo influsso sulla disuguaglianza. Accordi come quello del Tpp hanno contribuito in modo sostanziale a questa disuguaglianza. Le multinazionali potrebbero trarne beneficio, ed è addirittura possibile, per quanto non garantito, che migliori anche il prodotto interno lordo così come è misurato per prassi. È assai probabile, però, che il benessere dei normali cittadini subirà un duro colpo. E questo mi porta al secondo punto, che ho più volte sottolineato: l’economia con effetto a cascata è una leggenda. Arricchire le multinazionali - come farebbe il Tpp - non necessariamente aiuterà chi si trova a metà della piramide economica, e tanto meno quelli più in basso.
l’Unità 24.3.14
Vola la Francia di Le Pen. Hollande punito dal voto
Crollo socialista alle amministrative, in testa l’Ump di Sarkozy che punta a sbancare al ballottaggio
Ps: «Votare la destra per fermare il Front National»
di Marina Mastroluca
Béziers, Hénin-Beaumont, Avignon, Perpignan, Fréjus. Comincia da qui l’avanzata del Front National di Marine Le Pen. Roccaforti dell’ultradestra, che non hanno tradito le aspettative, in alcuni casi sfiorando l’elezione già al primo turno. I seggi sono appena chiusi che, conti alla mano, già si parla di un successo maiuscolo, «storico» secondo Le Monde, che potrebbe portare Marine a centrare ampiamente l’obiettivo che si era data di 1000 consiglieri comunali eletti. Va male - come previsto e forse persino oltre - il partito socialista di Hollande. In termini di voti, secondo gli exit poll, si sarebbe fermato al 40%, 5 punti indietro all’Ump, anche se i calcoli elettorali nelle amministrative vanno misurati sul terreno, zona per zona, prima di tirare le somme dei danni: c’è un secondo turno da giocare e la partita non è finita. Ma nelle dieci città-test i primi dati riconsegnano uno scenario negativo: a Reims il sindaco uscente si ferma dietro al candidato dell’Ump, ad Amiens è lo stesso e la distanza con il principale avversario si allunga. È cosi Saint-Etienne, a Quimper... Per il partito di Sarkozy al contrario si annuncia una rimonta decisiva e su scala nazionale. «La destra è in posizione di forza», scrive la stampa. Sparisce invece l’estrema sinistra, ferma all’1-2%.
A penalizzare la gauche c’è il voto di protesta e un’astensione record, mai toccata nemmeno nel 2008, anno passato negli annali francesi come quello della grande disaffezione verso la politica. Il mix di scandali a destra - la partita delle intercettazioni e dei finanziamenti illeciti che hanno chiamato direttamente in causa l’ex presidente Sarkozy - e della delusione nei confronti dell’esecutivo socialista si è tradotto in una massiccia diserzione ai seggi, che sembra però aver fatto più male a sinistra. Dei 45 milioni di francesi chiamati a votare per 36.000 consigli comunali, circa 17 milioni sono rimasti a casa, quasi il 40 per cento. Non è esattamente un buon segnale per Hollande, ai minimi storici di popolarità. Né per lo stato di salute della democrazia francese, nel primo test elettorale dopo le presidenziali e a poche settimane dalle europee dove già si intravede una clamorosa avanzata del Front National di Marine Le Pen, portabandiera di una svolta anti-euro, anti- europea. La prova di ieri doveva essere un primo test. Quasi seicento liste e l’ambizione di conquistare 15 comuni. È stata una valanga. Difficile da inquadrare nei sondaggi - molti elettori lepenisti evitano di dichiarare la loro preferenza - l’esito del Fn era una delle incognite del voto: ma secondo un sondaggio di Le Monde il 34 per cento dei francesi condivide le scelte di Marine.
LE TRIANGOLARI
Su scala nazionale i voti per il Fn sarebbero stati, secondo gli exit poll, il 7%. Ma il partito di Le Pen si guadagna un posto di primo piano in diverse triangolari, il passaggio al secondo turno che spetta alle liste che superino la soglia del 10 per cento. Il Ps, in discesa libera, che sperava di poter girare a proprio vantaggio questa circostanza, mobilitando l’elettorato per fare barriera contro la destra estrema - con la speranza di recuperare i voti del centro-destra - è costretto a un passo indietro. Come alle presidenziali del 2002, quando i socialisti di Lionell Jospin si turarono il naso e votarono Chirac al ballottaggio pur di fermare il padre di Marine, Jean-Marie Le Pen.
«Faremo di tutto per fermare i candidati del Fn», ha detto il ministro dei Diritti delle Donne e portavoce del governo Vallaud-Belkacem. In caso di confronto a tre, il Ps si appellerà ai propri elettori perché votino Ump, ha spiegato il ministro. Un favore che non verrà ricambiato dal centro-destra. Il segretario dell’Ump, Jean-Francois Copé, non esita a definire l’esito elettorale «un colpo molto duro per la politica del governo», semmai si profila un accordo per il secondo turno è con Marine Le Pen. «Gli elettori del Fn votino a favore dell’Ump», ha detto Copé, che invita a non concedere un centimetro alla gauche. «Ci sono tutte le condizioni per una grande vittoria al secondo turno - ha detto Copé su France2 -. La vittoria è a portata di mano per la destra e per il centro».
Repubblica 24.3.14
La paura e le ferite
di Bernardo Valli
PARIGI. ANCHE se attese, scontate, le sconfitte elettorali fanno male.
Bruciano in particolare se a contribuire all’insuccesso della sinistra è il Front National, il partito populista di Marine Le Pen. Ed è quel che si è verificato alle municipali francesi di ieri, alla prima consultazione nazionale dalla vittoria presidenziale di François Hollande, avvenuta due anni fa.
MENTRE lo spoglio era ancora in corso, Jean Marc Ayrault si è affrettato a definire inquietante il numero voti ottenuto dai candidati dal partito populista e ha esortato gli elettori «di sinistra e di progresso » a mobilitarsi per arginarlo al secondo turno, domenica prossima. Un appello d’emergenza che dà il clima della Francia mentre si contavano ancora i suffragi.
E’ stato evocato il Fronte repubblicano, ossia la tradizionale unione dei partiti democratici contro il movimento un tempo apertamente xenofobo, reso più presentabile da Marine, l’abile figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore. Ma in realtà quella strategia antifascista è invocata ma non più tanto praticata. Il centrodestra (Ump) attraverso il leader, François Copé, ha invitato i suoi a non votare né per il Front National né per il Partito socialista. E Ayrault, il primo ministro socialista, si è rivolto unicamente agli elettori di sinistra e di progresso. Lui non ha evocato il Fronte repubblicano. Quindi per ora ognuno dovrebbe affrontare da solo i ballottaggi, cui partecipano i candidati con i tre migliori risultati, che non hanno raggiunto la maggioranza assoluta. La gara triangolare impone di solito un’intesa tra due concorrenti. E le alleanze confidenziali o segrete sono realizzate con grande cinismo.
Il successo del Front National, definito storico, ha dominato lo scrutinio anche se il partito di Marine Le Pen presentava alle elezioni municipali soltanto 597 liste, vale a dire soltanto in una parte dei trentaseimila e più comuni che conta la Francia municipale.
Ma in almeno nove città importanti ha ottenuto successi senza precedenti. A Hénin-Beaumont, nel Pas de Calais, un candidato ha preso più del cinquanta per cento dei voti. E quindi Steeve Briois è stato il primo esponente nella storia del Front National ad essere eletto sindaco. A Béziers, nel Languedoc Rousillon, Robert Ménard ha superato il 44 per cento; e a Perpiagnan, nei Pirenei orientali, Louis Aliot ha avuto il 33 per cento. Entrambi sono quindi anche loro nelle condizioni di conquistare al ballottaggio il titolo di sindaco.
Nonostante abbia fatto il callo ai peggiori sondaggi di popolarità subiti dai presidenti in quasi sessant’anni di Quinta Repubblica, François Hollande ha ottenuto ieri un risultato pesante (4348 % a favore del centrodestra, stando a calcoli incompleti) alla prima elezione generale dopo il suo ingresso nel Palazzo dell’Eliseo. E’ stato un colpo severo. Il voto riguardava gli amministratori dei comuni di Francia, e quindi dipendeva in larga parte dal prestigio dei sindaci, di metropoli come Parigi, Marsiglia, Lione o di modesti o piccoli centri (l’Italia comunale è meno frantumata, conta poco più di ottomila municipi), e quindi la sconfitta è stata relativizzata, ridimensionata dai delusi, come accade con le elezioni locali.
Ma la sinistra era fiera della sua forte maggioranza nella Francia municipale, dove amministrava il cinquantacinque per cento dei comuni con più di diecimila abitanti. Sei anni fa ebbe al primo turno il 46 per cento contro il 41 della destra. Il rapporto si è rovesciato. E sembra prefigurare il risultato delle europee, nel maggio prossimo. Nel breve intervallo François Hollande cambierà il governo? Designerà un altro primo ministro, ad esempio il popolare Manuel Valls, attuale ministro degli Interni? C’è chi lo esclude, tenendo conto che la precipitosa nomina di un nuovo esecutivo non è nello stile di Hollande, e sarebbe comunque un segnale di panico, spropositato rispetto alla sconfitta in un voto amministrativo.
Soprattutto in una consultazione che avviene dopo due anni di una presidenza iniziata nel pieno di una crisi economica tutt’altro che superata, vista l’alta, quasi cronica disoccupazione, il consistente debito pubblico e il deficit di bilancio superiore ai parametri consentiti dalla Comunità europea. Il voto di ieri, benché influenzato da problemi locali, conferma l’impopolarità del presidente e del suo governo.
Parigi dovrebbe restare alla sinistra. Anche se l’ex ministro di centrodestra, Nathalie Kosciusko-Morizet, candidata nel difficile 14 esimo arrondissement, dove la sinistra è ben impiantata, ha ottenuto un numero di voti superiore al previsto. Questo non dovrebbe compromettere l’elezione a sindaco di Anne Hidalgo, la socialista patrocinata dal predecessore, il popolare e abile Bertrand Delanoe. Assai più difficile la situazione a Marsiglia, dove il candidato socialista, che sperava di detronizzare Claude Gaudin, sindaco da quattro mandati, è stato superato, umiliato, almeno al primo turno, dal candidato del Front National. Le ferite socialiste sono numerose in queste elezioni. Non poche città che amministravano sono cadute come birilli.
La Stampa 24.3.14
“Il Presidente vive in una bolla Non parla più alla sua gente”
L’ex direttore de “Le Monde” Plenel: “Débâcle prevedibile, questa vecchia politica apre varchi enormi agli estremisti”
intervista di Alberto Mattioli
Ai ballottaggi, comunque vada sarà un insuccesso. La classe politica francese tradizionale, di sinistra o di destra, è stata prima bastonata dagli «affaires», gli scandali, e poi dalle urne. Edwy Plenel, ex direttore di «Le Monde», oggi guida il temibile sito d’informazione indipendente «Mediapart», specializzato nel rivelare le malefatte di una classe dirigente che a molti francesi ormai sembra solo digerente.
Monsieur Plenel, record di astensione e di voti per il Front national: per i partiti «repubblicani» è la débâcle? «Una débâcle totalmente prevedibile. L’astensione ha colpito soprattutto la gauche. Quindi è una sanzione per Hollande. Il Presidente è al potere da due anni e in questo periodo è riuscito a smobilitare completamente i suoi elettori. Sembra che viva in una bolla: non parla più a chi lo ha votato. E i suoi ex elettori che non vogliono più votare per il Ps ma nemmeno per la destra sono, molto semplicemente, rimasti a casa».
Oppure hanno votato per il Fn. «No. I voti al Fn arrivano soprattutto da destra. E qui c’è una grande responsabilità di Nicolas Sarkozy e dei suoi successori. Sono loro ad aver fatto crollare la diga che rendeva impossibile votare Fn per ogni repubblicano».
Marine Le Pen sembra però molto abile. «Io non l’ho mai sottovalutata. Ma la vecchia politica, di destra e di sinistra, le ha aperto varchi enormi. In Francia siamo nella situazione descritta da Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”: il vecchio mondo muore e il nuovo non può nascere. E in mezzo prosperano questo fenomeni di estrema destra, xenofobi e autoritari, come il Front national».
Guardi che madame Le Pen minaccia querele per chi definisce il suo movimento di «estrema destra». «Però lo è. Il Fn esiste da più di trent’anni ma non ha mai fatto un esame critico delle sue origini e della sua storia. Niente di simile all’operazione di Gianfranco Fini nel Msi o a quello che hanno fatto i partiti comunisti occidentali. Mediapart ha pubblicato un’inchiesta dalla quale risulta che il Front in generale e in particolare la classe dirigente che circonda Marine Le Pen restano profondamente estremisti. Politicamente parlando, la giovane generazione non è giovane. È solo più abile della vecchia».
Il risultato delle amministrative francesi è un campanello d’allarme per l’Europa? «L’ennesimo. Ma l’Unione deve prendersela soltanto con se stessa. Io sono da sempre un europeista convinto, ma adesso sono anche un europeista disperato. La pedagogia europeista è un totale fallimento. Bruxelles non parla più ai popoli, ma solo alle agenzie di rating e ai poteri finanziari. La parabola di Hollande è lì a confermarlo». In che senso? «François Hollande era stato eletto appunto sulla promessa di ridiscutere i vincoli europei. Invece è diventato un custode dell’ortodossia budgetaria. I risultati si sono visti oggi». Matteo Renzi fa proclami che ricordano molto quelli di Hollande prima maniera. «Spero che almeno lui cerchi di far seguire alle parole i fatti».
[alb. mat. ]
La Stampa 24.3.14
Egitto, condannati a morte 529 Fratelli musulmani
Sono accusati morte di due poliziotti, di disordini avvenuti lo scorso agosto e di appartenere a un’organizzazione terrorista
La Corte d’assise di Minya in Egitto ha condannato a morte 529 Fratelli musulmani ed ha inviato il dossier al Gran Muftì d’Egitto che ha il compito di ratificare le condanne a morte o di respingerle.
Corriere 24.3.14
Testamenti secondo la Legge islamica, l’apertura britannica che divide
di Cecilia Zecchinelli
La notizia sembra (e in parte è) clamorosa. L’Ordine degli avvocati britannico ha stilato una serie di linee-guida per permettere ai suoi iscritti di redigere testamenti conformi all’Islam che saranno riconosciuti dai tribunali del Regno Unito. Ovvero, per la prima volta, la sharia entra ufficialmente nel sistema legale di un Paese europeo. E questo con tutti i limiti di norme risalenti ai tempi di Maometto, come la discriminazione tra uomini e donne (ai primi spetta in genere un’eredità doppia rispetto alle seconde) e l’esclusione dei figli illegittimi e dei non musulmani da ogni lascito.
«È una decisione allarmante, le suffragette si rivoltano nelle tombe», ha commentato la baronessa Caroline Cox, membro della Camera dei Lord, conservatrice e paladina della cristianità. Preoccupato anche il super-laico (e meno sospettabile di Lady Cox di islamofobia) Keith Porteous Wood, capo della National Secular Society: «È un passo a favore di leggi religiose di un’altra epoca e di un’altra cultura, il diritto britannico è il più rispettoso dell’uguaglianza tra sessi e anziché proteggerlo lo sacrifichiamo». Molti commenti sui media che ieri hanno dato la notizia erano concordi con queste posizioni. Ma altri ricordavano che in Gran Bretagna c’è totale libertà nel decidere a chi lasciare i propri beni, «anche a un canile, ad esempio». Soprattutto, corti islamiche esistono già nella vasta comunità musulmana del Paese: almeno 85 stima il Telegraph , e solo una minima parte sono ufficiali.
E allora, sostiene l’Ordine, prendiamo atto della realtà e fissiamo delle linee-guida perché i principi islamici siano applicati «correttamente» all’interno del nostro sistema. Una posizione coerente con il modello anglosassone del multiculturalismo, che riconosce le diversità delle componenti della società piuttosto di voler loro imporre l’assimilazione com’è invece in Francia. Due modelli antitetici, entrambi oggetto di battaglie e di ripensamenti. Ma per quanto riguarda i testamenti islamici l’Ordine degli avvocati di Londra è deciso. Sarà interessante vedere se ci saranno passi futuri.
Repubblica 24.3.14
L’altra memoria
Il 24 marzo 1944 la strage nazista a Roma. Oggi la studiosa Adachiara Zevi svela come il mausoleo che la ricorda cambia il nostro sguardo sulla storia
Fosse Ardeatine, l’anti-monumento oltre la retorica
di Simonetta Fiori
Siamo abituati a conoscerle come il luogo in cui molte storie finiscono. In realtà dalle Fosse Ardeatine riparte un’altra storia, che è un modo nuovo di vivere la memoria. Se è ormai sedimentato l’accadimento storico - trecentotrentacinque persone ammazzate dai nazifascisti per rappresaglia, il 24 marzo di settant’anni fa - è meno conosciuto il ruolo dirompente esercitato dal mausoleo che lo ricorda. Una svolta radicale nello sguardo sulla storia.
«I suoi meriti sono spesso ignorati», racconta Adachiara Zevi, storica dell’arte che ha a lungo lavorato sul rapporto tra architettura e memoria. Le Fosse Ardeatine occupano i primi capitoli del suo nuovo libro Monumenti per difetto, un’appassionante galleria di “antimonumenti” giocati più sull’afasia che sulla ridondanza (Donzelli, pagg. 226, euro 21). «Per la prima volta il mausoleo romano propone non un oggetto da contemplare, ma un percorso da attraversare per rivivere anche emotivamente l’esperienza delle vittime ». Un’idea che nel lungo dopoguerra avrebbe fatto scuola, ripresa a Gerusalemme dal museo Yad Vashem e a Berlino dal memoriale di Peter Eisenman. Fino al museo diffuso delle “pietre d’inciampo”, piccoli sampietrini disseminati per le strade d’Europa che - ricordandone il nome e il destino tragico - restituiscono dignità a dieci milioni di deportati.
Questo capovolgimento architettonico cominciò nella Roma appena liberata dai tedeschi. Come tutte le piccole rivoluzioni, fu accompagnata da aspre contese che divisero architetti, artisti e famiglie di estrazione sociale molto diversa. Nel luglio del 1944 - appena quattro mesi dopo la strage e un mese dopo la liberazione di Roma - il Governo decise di dare degna sepoltura alle vittime in una forma monumentale che sarebbe dovuta diventare il simbolo della lotta al nazifascismo. Si trattò del primo concorso pubblico dell’Italia democratica. La gara fu vinta dal progetto più sobrio ed essenziale, firmato da Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini e Nello Aprile, che però scontentava le famiglie che avrebbero voluto una soluzione più altisonante. Dopo varie mediazioni, nel novembre del 1947, comincia la costruzione del mausoleo destinato a rovesciare lo sguardo sul passato. La conquista della libertà coincide con la vittoria sulla retorica e sul trionfalismo. «Non si assiste più alla rappresentazione statica della storia», spiega la Zevi, «ma si è costretti a riviverla, diventando testimoni. Meno il monumento parla, più si è lasciati liberi di elaborare una personale memoria».
Nel caso delle Fosse Ardeatine il centro del memoriale è un piazzale vuoto. «Per la prima volta il fulcro di un monumento è un’assenza. Sono le cose intorno che definiscono questo spazio: le cave, il sacrario, la scultura di Coccia con i tre personaggi dalle mani legate». In quel “vuoto”, nel piazzale centrale, furono risucchiati settant’anni fa 335 innocenti. Scaricati dai camion tedeschi che li avevano prelevati a Regina Coeli, in via Tasso e in ogni punto della città. Ebrei, cattolici, atei. Molti militari, ma anche liberi professionisti, studenti, impiegati, artisti, commercianti, agricoltori, artigiani, operai. Anche un sacerdote e un diplomatico. Anche stranieri. Arrivano da tutti i quartieri di Roma, Trastevere e Montesacro, Torpignattara e Trionfale, Portico di Ottavia e Centocelle, Testaccio e La Storta. Furono presi perché esercitavano un impegno attivo nella resistenza o perché ebrei o per essersi trovati per caso nel luogo sbagliato. Il giorno prima un gruppo di partigiani aveva lanciato una bomba contro una colonna tedesca di poliziotti in via Rasella: trentadue persero la vita. La rappresaglia nazista fu immediata: dieci fucilazioni per ogni tedesco ammazzato. «L’unica strage metropolitana avvenuta in Europa», la definisce Alessandro Portelli, che ha scritto sull’eccidio pagine fondamentali. «Non solo l’unica perpetrata dentro uno spazio urbano, ma l’unica che nella eterogeneità delle vittime riassuma tutta la complessa stratificazione di storie di una grande città».
Dal piazzale centrale del mausoleo si possono seguire le vittime dentro le cave di pozzolana, nel punto esatto dove furono sterminate. Un cancello in bronzo di Mirko delimita il luogo della carneficina. L’ombra della caverna è stemperata da un po’ di luce che filtra dall’alto: sono i crateri aperti dalle bombe fatte esplodere dai tedeschi perché i cadaveri non fossero mai ritrovati. All’uscita dalle cave si può imboccare la strada del sacrario: 335 sepolcri in granito monzonite alleggerito dalla lama di luce che cade dalla fenditura in alto sulla parete. «Una soluzione che sembra anticipare le finestre di luce colorata progettate negli anni Settanta sulla costa californiana da Maria Nordman, Robert Irwin e James Turrell». Anche questa un’idea architettonica che lascerà una traccia nei memoriali successivi.
Così come sarà ripresa la mescolanza di codici espressivi distanti, «tra il carattere realistico della scultura di Coccia, l’astrazione geometrica del progetto di Perugini e Fiorentino e la contorsione espressionista di Mirko», allora contestata da alcune famiglie ma difesa da Argan e Venturi. «Il mausoleo », dice la Zevi, «evoca una sorta di palcoscenico dove sono esposti linguaggi artistici e architettonici nel punto in cui l’oscuranti-smo fascista li aveva interrotti». Ed è grazie all’arte, scrive Lewis Mumford, che «da vittime transitorie » i morti diventano «vincitori permanenti».
C’è meno armonia nella memoria dell’evento, che nonostante le ricerche storiche di Portelli rimane ancora divisa. Un nuovo senso comune, alimentato soprattutto negli anni Novanta nel segno dell’“anti antifascismo”, ha caricato di responsabilità gli artefici dell’attentato di via Rasella: la loro colpa sarebbe quella di non essersi costituiti. In realtà i documenti mostrano come da parte tedesca non ci fu nessuna richiesta di costituirsi per evitare la rappresaglia, che fu decisa immediatamente da Hitler. E nonostante ben tre sentenze assolvano mandanti ed esecutori di via Rasella, c’è ancora chi sporca la memoria partigiana.
Non c’è eco di queste divisioni nel memoriale delle Ardeatine, che anche oggi ospiterà la cerimonia ufficiale con il presidente della Repubblica. Ma un rito non meno importante avverrà nel pomeriggio in via Urbana, nel quartiere Monti, dove sarà rimessa a posto la pietra d’inciampo dedicata a don Pappagallo, il prete interpretato da Fabrizi in Roma Città aperta, una delle vittime delle Ardeatine. Tredici di loro hanno avuto il loro sampietrino, realizzato dall’artista tedesco Gunter Demnig. L’idea è che nella storia si deva inciampare, soprattutto emotivamente. Qualcuno non gradisce, e la pietra di don Pappagallo è stata divelta per due volte. Oggi il sacerdote riavrà il suo Stolperstein, la sua pietra d’inciampo. Perché il verbo stolpern in tedesco significa inciampare ma anche ricordare.
La Stampa 24.3.14
Quando la cultura genera mostri
Fino a che punto vanno puniti, e fin dove tollerati, quei reati condizionati da convinzioni anche religiose opposte alle nostre?
Una questione cruciale delle moderne società multietniche, al centro di un libro di Gianaria e Mittone
di Vladimiro Zagrebelsky
In Italia più che altrove vivono tradizioni, culture, valori, religioni, stili di vita diversi, radicati nella storia e anzi nelle storie, al plurale, di popolazioni e territori. La convivenza spesso non è facile, palpabile talora è il reciproco fastidio. Ma l’ormai lunga pratica dell’unità e l’esperienza della diversità hanno sviluppato una tolleranza civile. Le offese e le violenze accadono, ma in generale sono condannate e i loro autori emarginati. Si tratta dunque di differenze compatibili. Ma cosa avviene quando una società già pluralistica si articola ulteriormente e rapidamente, ricevendo persone e comunità portatrici di modi di vita, abitudini e, soprattutto, convinzioni anche religiose che hanno aspetti di radicale diversità e opposizione?
Il problema poi viene esasperato quando chi introduce la differenza è fisicamente identificabile, per l’abbigliamento o per il colore della pelle. Accade talora che ciò che nella società di arrivo è vietato dalla legge penale, nella società da cui quelle persone o comunità partono sia invece permesso o addirittura obbligatorio. Si tratta di casi di doppia e confliggente fedeltà. Le culture e i modi di vita sono diversi e si evolvono nello spazio e nel tempo. Il benevolo trattamento dell’omicidio per causa di «onore», che persisteva specialmente in certe aree e fasce sociali, è stato abrogato in Italia solo trent’anni orsono. Ecco un esempio che avverte come certe immigrazioni rendano più acuta e percepibile una questione che è però comunque presente nella nostra società.
Se chi agisce è immerso in culture o comunità che non vedono negativamente quella condotta o addirittura la impongono, magari con la forza di un fondamento religioso, come si pone la questione della sua autonomia decisionale? In che misura è libero di determinarsi e quindi è responsabile delle scelte fatte? Talora gli è impossibile persino immaginare che la sua azione sia vietata, talaltra il divieto è conosciuto, ma forte è la costrizione a violarlo. Gli esempi emergono dalle cronache: violenze entro famiglie dominate dal maschio padrone, violenze e umiliazioni nei confronti delle donne, fino ad atroci omicidi come reazione a insubordinazioni e stili di vita disapprovati dalla famiglia o dalla collettività di appartenenza, metodi violenti di educazione dei figli e anche uso di bambini per l’accattonaggio o il furto, sottrazione dei figli al dovere scolastico ecc.
Ci si domanda se e quanto abbia senso punire quelle persone, il cui agire è condizionato o imposto da radicate convinzioni, nutrite fin dall’infanzia dall’esempio e dall’insegnamento della famiglia e del gruppo frequentato. È il tema dei cosiddetti reati culturalmente condizionati, oggetto di studi e decisioni giudiziarie anche in Italia, Paese di recenti immigrazioni. A esso è dedicato Culture alla sbarra. Una riflessione sui reati multiculturali, il libro di Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, avvocati penalisti abituati a pensare alzando gli occhi oltre i testi di diritto, in uscita domani per Einaudi (pp. 138, € 12).
Il dilemma per chi deve giudicare è grave, poiché per un verso si può considerare che la pressione culturale riduce la libertà e la responsabilità, ma per il verso opposto proprio il motivo che ha indotto a commettere il fatto dimostra la pericolosità del suo autore. Ci si chiede allora se il rispetto delle culture e tradizioni altrui debba anche indurre a giustificare ciò che nella cultura e nelle leggi dal Paese è ingiustificabile. Ma non è ipotizzabile una «esimente culturale», almeno per i reati che offendono le basi stesse della società, così come essa è venuta definendosi, e che colpiscono la vita, l’incolumità personale, la libertà delle vittime, appartengano esse oppure no alla famiglia o comunità del colpevole. In altri casi, invece, per rispetto a tradizioni e convinzioni religiose, è ben possibile prevedere deroghe alle regole ordinarie, come avviene per la macellazione halal o kasher, oppure per la circoncisione maschile rituale.
Come è giusto, alle mille domande i due autori del libro danno risposte sfumate, rinviando alle differenze tra caso e caso, diffidando da prese di posizione generali e rigide. Ancora una volta viene in luce l’insufficienza delle astratte soluzioni legislative e la necessità di rimettersi alle decisioni giudiziarie. Naturalmente bisognerebbe però essere pronti ad accettare sentenze opinabili, riconoscendo la difficoltà del lavoro dei giudici nei casi difficili.
La difesa della vittima è il criterio per definire il limite del riconoscimento di culture e tradizioni diverse da quelle riflesse dalle leggi del Paese, a partire dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali sui diritti fondamentali, che, qualunque ne sia la giustificazione tradizionale o culturale, rifiutano ogni forma di violenza fisica o morale, particolarmente contro le vittime più vulnerabili che sono le donne e i bambini. Il rispetto per le culture diverse non può prescindere dalla consapevolezza che la concezione dei diritti fondamentali delle persone è frutto di un’evoluzione storica e del progresso. Come avviene quando la lotta per i diritti si svolge all’interno dell’originaria comunità nazionale e vede contrapposti gruppi e culture diversi, così, quando il problema si pone rispetto a comunità di migranti, va difesa la concezione europea, fondata sulla laicità dello Stato, la dignità, l’autonomia e la libertà della persona. La pretesa che tutti - cittadini e non - si adeguino senza aree di esenzione alle regole che riflettono il punto di arrivo europeo e italiano della cultura dei diritti, non è frutto di gretto orgoglio nazionalistico o della guerra di «noi» contro «loro». È invece conseguenza della responsabilità di difendere l’alta concezione della persona umana, che la storia europea ha prodotto.
Repubblica 24.3.14
“Perché l’inutile salverà l’umanità”
Nuccio Ordine e il bisogno di un rinascimento culturale
intervista di Raffaella De Santis
Mentre la finanza detta legge e The Wolf of Wall Street di Scorsese inscena l’inferno dei broker, ecco un saggio che ha il coraggio di parlare di cose non monetizzabili come la lettura, lo studio, la bellezza disinteressata. Studiare per il piacere della conoscenza appare sempre più un bene voluttuario, ma l’autore Nuccio Ordine, professore di letteratura italiana all’università della Calabria, noto a livello internazionale per i suoi lavori sul Rinascimento e Giordano Bruno, scommette su un paradosso: L’utilità dell’inutile (questo il titolo del libro) come antidoto all’imbarbarimento dei nostri giorni. Sarà anche per questa tensione civile che il saggio-manifesto, edito prima in Francia da Les Belles Lettres e poi da Bompiani, ha venduto decine di migliaia di copie solo in Italia e ha in cantiere traduzioni in tutto il mondo, perfino in Corea e Cina. Ci incontriamo all’aeroporto di Fiumicino nella coincidenza tra un volo e l’altro.
Professore, quanto ha contato la passione nella sua esperienza?
«Molto, fin da bambino, quando per riuscire a leggere i giornaletti che mio nonno aveva nella sua edicola, seguivo in tv le lezioni del maestro Manzi. Vivevo in Calabria, in un piccolo paese, Diamante, in cui non c’erano neanche le scuole elementari e si andava a studiare a casa della maestra».
La sua critica all’attuale sistema educativo non rischia di apparire nostalgica?
«L’istruzione è sempre più proiettata verso il professionismo e l’aziendalismo, non aiuta a diventare migliori. La logica aziendale guarda alla quantitas, sacrificando la qualitas. Gli studenti sono ridotti a “clienti”, mentre l’università dovrebbe essere il luogo dove si fabbricano eretici, il luogo della resistenza».
La cultura dovrebbe quindi scardinare il pensiero omologante?
«L’eretico, nel senso etimologico della parola, è colui che è in grado di scostarsi dall’ortodossia dominante, che oggi coincide con la logica utilitaristica del profitto. John Henry Newman sosteneva che il sistema scolastico deve formare uomini liberi, non costruire dei conformisti. L’incontro con un professore e con un libro può cambiarti la vita».
Eppure la storia dimostra che il male non è affatto sconosciuto agli uomini di cultura.
«George Steiner ultimamente mi faceva notare che i nazisti ascoltavano musica colta, leggevano i classici. È vero, però mi domando: che evoluzione avrebbe avuto il mondo se non ci fosse stata la cultura? Difficile rispondere».
Ma in tempi di crisi si può investire su qualcosa che non genera profitto nell’immediato?
«Lo Stato deve permettere a umanisti e scienziati di inseguire senza condizionamenti la lorocuriositas. Le grandi rivoluzioni, quelle che hanno creato svolte per l’umanità, sono il risultato di ricerche libere. Lo spiegava bene Abraham Flexner, pedagogo americano: gli esperimenti di Maxwell e Hertz sulle onde elettromagnetiche non nascevano da una finalità d’uso, ma grazie a loro Marconi inventerà la radio. E perfino un economista come Keynes spingeva ad “anteporre il buono all’utile”. Ho scritto questo libro perché volevo mostrare ai ragazzi che il gratuito e il disinteressato sono cose essenziali all’umanità».
Lei dirige la collana bilingue Bompiani dei “Classici della letteratura europea”, difende le lingue morte, si scaglia contro il consumismo.
«Mi interessano i valori universali, la giustizia, la solidarietà, il bene comune. I valori solidi della cultura. Mi scaglio contro quelle che Tocqueville chiamava le “bellezze facili”, che non richiedono sforzi né perdite di tempo. Non è un caso che abbandoniamo il greco e il latino, lingue che ingenuamente pensiamo ormai inutili, come non è un caso che le grandi case editrici stiano chiudendo le collane dei classici. Il mio saggio, ricco di citazioni, nasce anche da uno sforzo di umiltà, dall’esigenza di ridare la parola ai grandi del passato ».
Ammetterà però che anche l’utile non vada trascurato.
«Questo libro non è contro l’utile, ma contro l’idea che l’utile divenga un fine in sé. Invece oggi siamo ossessionati dalla misurabilità delle cose. Ma è la conoscenza a rendere più umana l’umanità».
l’Unità 24.3.14
Longo, vita da resistente
Höbel firma una nuova bio del dirigente comunista
Col nome di battaglia «Gallo» aveva guidato due guerre contro il fascismo in Spagna e in Italia
di Roberto Finzi
ERA SUL FINIRE DELL’AGOSTO 1960, DOPO L’INFUOCATO LUGLIO DELLE «MAGLIETTE A RIGHE», il nostro battesimo di fuoco nella lotta contro i fascisti. Claudio Sabattini, allora segretario della Fgci bolognese, invitò un gruppo di noi a una cena alla Festa dell’Unità… per incontrarci con Luigi Longo! Eravamo in sollucchero. Ma l’attesa fu vana. Longo non arrivò. E annullammo la delusione in un’allegra bevuta.
Nell’Olimpo dei paladini antifascisti Longo era davvero per noi – sia pure in maniera politicamente «rovesciata», per così dire – Il «maresciallo »; quel «maresciallo» che – sostenne Alcide De Gasperi nel corso del dibattito parlamentare sulla ratifica del Patto Atlantico – avrebbe minacciato libertà e sicurezza del paese ove l’Italia non avesse aderito alla Nato. A ricordarlo è Aldo Agosti nella sua prefazione a Luigi Longo, una vita partigiana (1900-1945) prima parte della biografa del dirigente comunista frutto del lavoro puntuale e approfondito di Alexander Höbel (Carocci 2013, pp. 374, €38,00) cui si deve anche il ponderoso e acuto volume Il Pci di Luigi Longo (1964-1969) uscito nel 2010 per i tipi delle Edizioni Scientifiche Italiane.
Aveva «Gallo» guidato due guerre contro il fascismo, in Spagna e in Italia, di cui una – la Resistenza italiana – non solo vittoriosa ma di cui era stato, in certo senso, uno dei «presupposti » essenziali. Come ricorderà Pietro Secchia, poco dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 in un colloquio a Milano con Ferruccio Parri sulla possibilità di promuovere una lotta armata all’invasore nazista e ai suoi accoliti repubblichini il dirigente azionista si era mostrato perplesso «dicendosi però “disposto a mettersi alla testa del movimento se ci fosse stato Longo, con l’autorità che egli aveva dalla guerra di Spagna” ».
Non potevamo dunque non amare Longo anche se ci appariva dal tratto un po’ «sovietico», diverso com’era dagli scoppiettii di un Giancarlo Pajetta, dall’imponenza aristocratica di un Giorgio Amendola, dal tratto popolare di un Giuseppe Dozza, dall’ironia tagliente di un Ernesto Rossi, dalla diafanità di un Parri. Un giudizio del tutto errato. Non solo nel tratto caratteriale, come ebbi la fortuna di poter verificare molti anni dopo quel mancato incontro alla Festa dell’Unità a casa di suo figlio Giuseppe (Poutiche) in una serata memorabile. Davvero, come aveva scritto Francesco Leone nel 1937 sul Grido del popolo, «Gallo è asciutto di fuori e… bagnato di dentro». E la ricerca di Höbel con i suoi contenuti ma pregnanti cenni al «privato» di una vita dura nell’infanzia e nella giovinezza, non solo per le definitive scelte politiche, ma anche per la povertà ce ne fornisce una delucidazione precisa.
Soprattutto, come il volume ricostruisce con puntualità e acume, Longo, pur fedele e attento al partito, alle sue esigenze, alla sua unità, mai rinuncia alle proprie posizioni dapprima più vicine ad Amadeo Bordiga poi via via più, si potrebbe dire con una sintesi forse un po’ forzosa, gramsciane. Il dirigente deve convincere, formare, spiegare, tenere conto delle diverse personalità. Anche per questo, dirà lui stesso a Giorgio Bocca, quando, a un certo punto, l’«Internazionale », vale a dire – in quel momento – Stalin, gli fa intendere che l’avrebbe appoggiato per sostituire Palmiro Togliatti come segretario del partito, «Gallo» si svincola da quel soffocante abbraccio: «Preferivo essere un secondo, fornito di autorità, piuttosto che un primo imposto dall’esterno». Se questo è possibile, in quei tempi di ferro e di fuoco, lo è anche perché – come il volume di Höbel mostra una volta di più – nonostante tutto, e pur con lacerazioni irreparabili, il gruppo dirigente comunista italiano accetta una dialettica non formale al suo interno.
Ma primo Longo lo diverrà. Di fatto quando inizia la lotta armata al nazi-fascismo. Ed è a tal proposito interessante notare come, già all’inizio della Resistenza nell’autunno 1943, «nella posizione di Longo sono già presenti molti elementi che saranno alla base della svolta di Salerno » propugnata da Togliatti nell’aprile del 1944. Pienamente «primo» Longo lo diverrà poi con la sua elezione a segretario dopo la morte di Togliatti nell’agosto del 1964. E in questo ruolo non solo innova nello stile di direzione ma apre con decisione il fronte dello scontro con i sovietici prima pubblicando il memoriale di Yalta poi, in particolare, con la condanna dell’invasione della Cecoslovacchia nell’estate 1968.
In quello stesso anno si mostra aperto ai fermenti del movimento studentesco che sta scuotendo Europa e Stati uniti. Di lì a poco, il 27 ottobre 1968, è colpito da ictus cerebrale. La sua capacità di direzione è gravemente menomata. Formalmente rimarrà ancora quattro anni alla guida del partito. Non a caso, però, Höbel, nel volume sopra ricordato, restringe l’arco del «Pci di Longo» al periodo 1964-1969.
Ripercorrendo quel periodo così puntualmente ricostruito dall’autore viene alla mente una domanda: e se la malattia non avesse interrotto l’azione di Longo? Forse non è del tutto paradossale chiedersi se il «maresciallo», proprio per la sua complessa ma insospettabile storia, avrebbe impresso un altro corso alla vicenda della sinistra italiana. Che forse, senza nulla togliere al carisma di Enrico Berlinguer, avrebbe potuto fare arrivare il Pci più attrezzato all’appuntamento del crollo del muro di Berlino. O forse è vero proprio il contrario. Non lo sapremo mai.