l’Unità 20.2.14
Colloquio tra Renzi e Cuperlo. La minoranza entrerà nel vertice del partito
Nuova segreteria e ministri Patto siglato nel Pd
di Maria Zegarelli
Gianni Cuperlo e Matteo Renzi si incontrano poco prima che arrivi Beppe Grillo a Montecitorio e siglano il patto che assicura al presidente del Consiglio incaricato il contributo della minoranza al governo. Non solo la fiducia, che i cuperliani non hanno mai messo in dubbio, a differenza di Pippo Civati che ancora non ha sciolto la riserva. Un contributo programmatico, che si traduce in un documento che ieri pomeriggio è stato inviato a Graziano Delrio e di cui Renzi terrà conto nel suo discorso alle Camere, e un contributo di uomini e donne alla formazione dell’esecutivo. «Gianni io voglio aprire questa sfida a tutto il partito, è una sfida che vinciamo o perdiamo tutti insieme», è stato il ragionamento del segretario- premier. In conferenza stampa lo dice apertamente: aprirà anche la segreteria a chi non lo ha votato, quindi la squadra cambierà, ci saranno nuovi ingressi. Ma il passaggio cruciale adesso è un altro ed è di questo che Renzi parla sia con Cuperlo sia con Roberto Speranza. Prima ancora che la capigruppo a Montecitorio decidesse per la seduta fiume per il decreto sul finanziamento dei partiti, Renzi aveva assicurato al leader della minoranza che un segnale chiaro di apertura verso il contributo programmatico sarebbe arrivato proprio oggi in direzione. Ma l’appuntamento salta e quindi è Graziano Delrio a incaricarsi del compito di prendere visione delle quattro cartelle inviate da Cuperlo. Un documento che trova, alla fine, tutti concordi, compresi i giovani turchi, e rimette insieme la minoranza cuperliana su una linea politica chiara: non si sta a guardare alla finestra. Superamento della strategia europea di austerità, un piano integrato «d’azione e riforme che metta al centro giovani, donne e disoccupazione » per il Lavoro; riforme costituzionali e legge elettorale; ma anche conflitto d’interessi, riforma della giustizia civile e penale; sburocratizzazione, lotta alla corruzione: queste le richieste che Cuperlo avanza, per ora quattro cartelle a cui seguiranno tabelle tematiche. «Io avevo dubbi sul voto in direzione, ma dal momento che abbiamo dato l’ok al segretario - ragiona Davide Zoggia- adesso dobbiamo appoggiare fino in fondo questo governo». Durante i colloqui tra esponenti della minoranza e premier si fanno anche alcuni nomi, oltre a quello di Andrea Orlando che Renzi intende riconfermare, ci sono quelli di Maurizio Martina, come ministro dell’Agricoltura, o in alternativa Susanna Cenni, si valuta anche la conferma di Massimo Brai. Adesso spetterà a Renzi fare offerte anche per viceministri e sottosegretari, la minoranza valuterà. Ripetono il proprio «no grazie », sia Cuperlo (a cui era stata offerta la Cultura», che Roberto Speranza.
Altro capitolo è il partito, e per assurdo questa è la parte più complicata. Se Zoggia e una parte dei bersaniani sono convinti che anche su questo fronte sia necessario mettersi in gioco, «senza rinunciare alla nostra identità ma portando un contributo serio al partito», c’è anche chi come Nico Stumpo invita a maggiore prudenza. Il punto politico è sostanzialmente uno: «Renzi non può pensare di chiederci di realizzare il suo programma delle primarie», è la riflessione che fa uno di loro. I Giovani turchi sono disponibili, ma Matteo Orfini a chiunque si avvicini dice: «Può scrivere che il mio ingresso al governo o in segreteria non è all’ordine del giorno. Non ci sarà alcun ingresso».
E anche la casella della Presidenza è lì, vuota e da riempire. La minoranza vuole discuterne e stavolta vuole poter dire la sua anche sul nome. Renzi una cosa la dice chiaramente: il segretario resta lui. Ma di fatto il partito sarà gestito da Lorenzo Guerini. E nel pieno delle consultazioni e della formazione di governo, l’ultima provocazione arriva da Dario Nardella, appena nominato da Renzi suo reggente a Palazzo Vecchio. «I tempi sono maturi per chiamarci democratici, senza la parola partito» butta là. «Il nome non cambia», stoppa subito il premier invitando i cronisti a non ricordagli il «dolore fisico» per quella poltrona che è stata sua fino all’altro giorno e oggi occupata proprio da Nardella. Secca la replica di Ugo Sposetti: «A Nardella dico: a lui i “Democratici”, a noi il Partito ». Ironico Cuperlo: «Per cortesia, basta con il cambio del nome. Abbiamo già dato». Ma c’è chi si mette in allerta. «Perché Nardella apre questo fronte?», si chiedono sospettosi bersaniani, cuperliani, giovani turchi e qualche franceschiniano.
La Stampa 20.2.14
Civati attacca Renzi: “Niente patti a destra”
di Antonio Pitoni
Nel giorno delle (non)consultazioni tra Renzi e Grillo, il «dissidente» Pippo Civati aggiunge, alla sua già lunga lista, l’ennesimo interrogativo sul nascente esecutivo a trazione Pd. «Quando mi hanno scritto da Napoli, pensavo fosse uno scherzo. Invece era tutto vero. A me fa un po’ impressione». Poche parole, sul suo blog, con il link ad un articolo (di Retenews24.it) dal titolo eloquente: «Blitz di Cosentino in Regione. Galvanizza i suoi: “Adesso entriamo al governo, saremo noi il valore aggiunto di Renzi”…».
Nuova benzina sul fuoco, dopo le aperture di Gal e l’incontro tra il coordinatore di FI, Denis Verdini, e il leader di Forza Campania, Nicola Cosentino, che hanno scatenato, nei giorni scorsi, polemiche e sospetti su un possibile «soccorso azzurro» al nuovo esecutivo. Nonostante, di nuovo ieri, Renzi avesse ribadito il concetto: «La maggioranza di riferimento è quella che ha sostenuto il governo uscente». Civati, però, insiste per un chiarimento: «Perché intorno a questo governo vedo un assieparsi di personaggi di destra». Come il vice presidente di Gal al Senato, Vincenzo D’Anna, che gli ha dato del «manettaro». Ma «contro di lui non ho nulla», replica Civati. «È che non voglio stare con Gal, di cui registro l’entusiasmo». Poi c’è il capitolo giustizia, inserito in agenda da Renzi: «Voglio credere che Matteo non si avventuri in una delle materie più controversie del dibattito pubblico».
Questione, quella del soccorso azzurro, che in serata, la responsabile Giustizia del Pd, Alessia Morani, disinnesca così: «Renzi è stato chiaro, fanno parte della maggioranza di governo le stesse forze che hanno sostenuto il governo Letta. Se poi altre forze vorranno confrontarsi, a differenza di Grillo, ed eventualmente sostenere le riforme, abbiamo sempre detto che le regole vanno scritte con il più ampio consenso possibile».
Nel giorno delle (non)consultazioni tra Renzi e Grillo, il «dissidente» Pippo Civati aggiunge, alla sua già lunga lista, l’ennesimo interrogativo sul nascente esecutivo a trazione Pd. «Quando mi hanno scritto da Napoli, pensavo fosse uno scherzo. Invece era tutto vero. A me fa un po’ impressione». Poche parole, sul suo blog, con il link ad un articolo (di Retenews24.it) dal titolo eloquente: «Blitz di Cosentino in Regione. Galvanizza i suoi: “Adesso entriamo al governo, saremo noi il valore aggiunto di Renzi”…».
Nuova benzina sul fuoco, dopo le aperture di Gal e l’incontro tra il coordinatore di FI, Denis Verdini, e il leader di Forza Campania, Nicola Cosentino, che hanno scatenato, nei giorni scorsi, polemiche e sospetti su un possibile «soccorso azzurro» al nuovo esecutivo. Nonostante, di nuovo ieri, Renzi avesse ribadito il concetto: «La maggioranza di riferimento è quella che ha sostenuto il governo uscente». Civati, però, insiste per un chiarimento: «Perché intorno a questo governo vedo un assieparsi di personaggi di destra». Come il vice presidente di Gal al Senato, Vincenzo D’Anna, che gli ha dato del «manettaro». Ma «contro di lui non ho nulla», replica Civati. «È che non voglio stare con Gal, di cui registro l’entusiasmo». Poi c’è il capitolo giustizia, inserito in agenda da Renzi: «Voglio credere che Matteo non si avventuri in una delle materie più controversie del dibattito pubblico».
Questione, quella del soccorso azzurro, che in serata, la responsabile Giustizia del Pd, Alessia Morani, disinnesca così: «Renzi è stato chiaro, fanno parte della maggioranza di governo le stesse forze che hanno sostenuto il governo Letta. Se poi altre forze vorranno confrontarsi, a differenza di Grillo, ed eventualmente sostenere le riforme, abbiamo sempre detto che le regole vanno scritte con il più ampio consenso possibile».
«Il deputato della minoranza pd non avrà ministri nell’esecutivo dell’ex sindaco ma sembra deciso a non lasciare il partito. Almeno per ora»
Corriere 20.2.14
Quattro senatori del M5S contro Grillo: «Occasione persa»
Sempre più possibile nuovo gruppo a Palazzo Madama con sei senatori del pd
qui
l’Unità 20.2.14
Berlusconi a quattr’occhi con Renzi
Italicum e presidenzialismo. Il Cav cerca l’asse anti-Ncd
di Federica Fantozzi
A un certo punto del colloquio, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi restano soli. Escono dalla sala Aldo Moro i capigruppo azzurri Brunetta e Romani, ma anche i fedelissimi del leader Pd, Delrio e Guerini. E lì, a quattr’occhi, la «profonda sintonia» tra i due assume connotati concreti. Non un patto ma una road map per «cambiare l’Italia» nel prossimo anno. Anche se di scadenza anticipata del governo non si è parlato, è questo l’orizzonte a cui pensa il Cavaliere.
Un solo, grande asse: bipartitismo e magari presidenzialismo. «Facciamo come negli Stati Uniti» ha detto suadente il Cavaliere. L’Italicum, su cui Renzi ha garantito tempi rapidi per l’approvazione (entro marzo) e l’elezione diretta del capo dello Stato, tema però ancora da approfondire. Con Forza Italia all’opposizione ma «disponibile ad approvare insieme le riforme», giustizia, lavoro, pensioni, fisco. A fare opposizione soft, valutando ogni provvedimento. Ma soprattutto Pd e Fi uniti in una blindatura anti- piccoli a cui non è estranea l’idea di ritoccare la par condicio, tradizionale bestia nera dell’ex premier.
Nell’incontro, oltre alla necessità di andare avanti «nei tempi previsti» con la legge elettorale - e cioè di non lasciarsi «imbrigliare» nella «palude» - premier incaricato ed ex premier si sono trovati d’accordo sul mantenere l’impianto. Che invece i partitini, da Ncd a Sc, vorrebbero scardinare. E Berlusconi ha messo sul piatto anche la riforma della Giustizia (che Brunetta ha poi “calendarizzato” pubblicamente per l’estate prossima). Mentre Renzi aggiungeva, a beneficio dei cronisti, che «non è solo quella di cui vi siete occupati per vent’anni». Non solo i temi penali: anche quelli civili e amministrativi. Vale a dire: i mali della giustizia italiana non sono (solo?) Berlusconi. Che ha fatto sapere: non accetterà un «giustizialista» come Guardasigilli. Non gli piacciono né Vietti né Livia Pomodoro. E nemmeno l’opzione «politica» del trasloco di Dario Franceschini lo fa sentire garantito. Il profilo a cui lavora Renzi è quello di un tecnico di alto profilo e «non di parte». E “Silvio” vedrebbe bene anche la delega delle Comunicazioni ad Antonio Catricalà.
Un ora e mezzo di consultazione. Berlusconi esce dall’incontro di umore radioso: «Ho avuto il piacere di incontrato un premier che ha la metà dei miei anni. È un buon segnale per il rinnovamento della classe dirigente, ringiovanisca la squadra di governo». Ecco un altro consiglio a “Matteo”: «Metti in squadra uomini nuovi e fidati ». Non come “Angelino”, insomma.
RENTRÉE IN PARLAMENTO. Si posiziona al microfono della Sala del Cavaliere - ironia della sorte - tra i suoi capigruppo (silenti e confinati nel ruolo di suggeritori), circondato dalle bandiere italiana ed europea. Una rentrée in grande stile: la prima volta del leader azzurro in Parlamento dopo la decadenza, e dopo aver giurato che non ci avrebbe più messo piede (ma anche, va detto, dopo essere stato alla Vetrata del Quirinale). Ed è praticamente un comizio, un programma di legislatura: il governo (con Alfano) si occuperà delle «cose normali », lui e Renzi faranno le riforme istituzionali perché «l’Italia ha assolutamente bisogno di diventare un Paese governabile». Le vere larghe intese, insomma, sono le loro. Trasversali, solide, innafffiate dai «consigli» che Silvio ha fornito al giovane politico. E dunque: «Rivedere l'assetto costituzionale per dare al presidente del Consiglio gli stessi poteri che hanno i suoi colleghi in altri Paesi». Poi, abolizione del Senato con un tempo massimo di 120 giorni alla Camera per approvare le leggi.
MODIFICARELACONSULTA. Modificare la Corte Costituzionale: «Non si può lasciare al capo dello Stato la prerogativa di nominare cinque membri. Oggi da istituzione di garanzia è diventato un organo politico della sinistra». Poi blinda l’Italicum: «Non si cambia, la discussione è stata sofferta, abbiamo già aderito a soglie di sbarramento che non pensavamo dovessero essere così basse». Da cambiare anche la par condicio, che «favorisce la frammentazione e concede lo stesso spazio televisivo dei grandi ai partiti piccoli»
Infine, l’ultima stilettata ad Alfano: «Renzi non si preoccupi per il semestre europeo che è solo un incarico onorifico. Non deve impedire nessuna attività del governo e del Parlamento ». Comprese le eventuali elezioni politiche. Il messaggio è chiaro: questa è la minestra, altrimenti si va al voto. Berlusconi è convinto così di spuntare le pretese dei «cugini» di Ncd.
Ed è certo che il percorso tracciato con Renzi sia «assolutamente percorribile ». Anche se, di fatto, per la maggior parte del tempo è stato il Cavaliere a parlare, e l’altro ad ascoltare, magari annuendo. Pure gli aneddoti degli anni di Berlusconi al governo, dei vertici internazionali, e dei «pugni da battere» in Europa per arginare lo strapotere della Merkel. Aspetti di colore e cordialità reciproche che il leader di Forza Italia - dopo essersi fatto il segno del silenzio con un dito sulle labbra in conferenza stampa - ha raccontato nei particolari al pranzo a Palazzo Grazioli con i suoi europarlamentari. Salutati con «salve, voi siete gli inutili idioti...». Oggi pomeriggio sarà la volta dei gruppi parlamentari.
il Fatto 20.2.14
Il seduttore
Renzi-Berlusconi, 7 minuti per un patto di ferro
Matteo: “È il numero uno, un cazzaro insuperabile”
Silvio: “Noi per te ci saremo sempre” I due detteranno i tempi della legislatura
di Fabrizio d’Esposito
Matteo Renzi stesso lo ha dovuto ammettere a caldo, appena terminato l’incontro: “Resta il numero uno, è in forma strepitosa, un cazzaro insuperabile”. Tutti complimenti, compreso il “cazzaro”. Il soggetto destinatario è il convitato di cerone del governo che nasce, la pistola (o il pistolino) puntata alla tempia di Alfano: il Condannato Silvio Berlusconi, padrino del renzismo e della Terza Repubblica. I due, “Matteo” e “Silvio”, si rivedono dopo il patto del Nazareno sulle riforme. Per B. ormai è una rivincita continua. Stavolta l’incontro è istituzionale, nella sala dal Cavaliere dove il premier incaricato fa le consultazioni.
RENZI ARRIVA pure in ritardo. Al telefono avvisa, a metà mattinata: “Falli accomodare dove era Alfano ieri”. Ma tra i due, B. e Alfano, non c’è paragone, non c’è partita. Il Nuovo Centrodestra sarà costretto a entrare nel governo, per non morire. Questione di tempo. Il destino è già segnato stando almeno al colloquio riservato tra il Rottamatore e il Condannato. Il primo è con i suoi fedelissimi Delrio e Guerini, addetti all’ascolto e alla trascrizione delle consultazioni. Il secondo con i capigruppo parlamentari Romani (Senato) e Brunetta (Camera).
B. gigioneggia alla grande. Ci tiene a non sfigurare con la giovinezza smart del premier in pectore. Di qui un approfondito racconto di avventure erotiche, con nomi e cognomi delle protagoniste. Renzi ride. Delrio, che è monogamo credente con nove figli, ostenta un distacco imbarazzato. Guerini, al computer, smette di picchiettare i tasti. Tra tutti i verbali stilati tra ieri e martedì, questo farà la gioia degli storici. A conferma che la vera staffetta a Palazzo Chigi, saltando Monti ed Enrico Letta, è quella tra “Matteo” e “Silvio”.
Il Cavaliere si sofferma pure sul suo rapporto con Putin e racconta altre avventure in terra russa. Si sente a suo agio, con il leader che a sinistra ha rottamato anche “il comunismo”. Poi quando si tratta di fare sul serio restano a quattr’occhi. “Ci date cinque minuti?”, rivolti ai quattro testimoni. E i quattro eseguono, senza obiettare nulla. I minuti saranno sette per la precisione. Nasce un altro patto, che secondo una fonte berlusconiana “va oltre tutto”. È l’offerta totale del Condannato a Renzi: “Matteo quando vuoi noi ci saremo sempre, di me ti puoi fidare”. Questo il principio stabilito. Di qui tutto il resto: l’annientamento di Ncd, complice l’intoccabilità dell’Italicum; le garanzie su Giustizia e Comunicazioni, come anticipato sabato scorso dal Fatto ; finanche la pattuglia del soccorso azzurro dei dissidenti di Forza Campania (Cosentino), Forza Puglia e Forza Sicilia.
A PALAZZO GRAZIOLI , la residenza di B. nella Capitale, la versione autentica del colloquio segreto, durato sette minuti, è questa: “Di fatto è il governo Renzi-Berlusconi, saranno loro due a dettare i tempi della legislatura. Adesso c’è il primo tempo, poi ci sarà l’intervallo e finalmente inizierà il secondo tempo”. Nulla è da escludere, nel secondo tempo. Il doppio inciucio di Renzi, da un lato Alfano, dall’altro Berlusconi, alla fine condurrà a un sanguinoso duello fratricida a destra. E chi resterà in piedi, cioè B., prenderà il posto dell’altro nella maggioranza. Semmai il punto è: può il Condannato fidarsi di Renzi? Per il momento sì. All’uscita il Condannato gigione sorride a una commessa e poi davanti ai cronisti (nella classica scaletta a tre: da Brunetta verso il più alto, Romani) parla più da padre e da alleato che da oppositore duro e puro. “Sono molto contento di vedere un premier che ha la metà dei miei anni”. Il Condannato è tornato in gioco e non sta nelle pelle. Detta l’agenda : no alle richieste sull’Italicum (abbassamento delle soglie di sbarramento e preferenze), riforma della Corte costituzionale, presidenzialismo, par condicio, giustizia. Ufficialmente i suoi parlamentari diranno no alla fiducia, la prossima settimana. Ma questo prevede il primo tempo. Poi si andrà negli spogliatoi e uscirà uno solo tra Berlusconi e Alfano. Indovinate chi?
il Fatto 20.2.14
Il governo si fa (forse) con Ncd, ma lo sostiene Fi
Nel programma il premier in pectore inserisce la giustizia
E il presidente Napolitano gli detta la linea sull’economia
di Wanda Marra
Affronteremo a luglio i temi della giustizia”. Nella conferenza stampa di fine-consultazioni Matteo Renzi inserisce tra le riforme da fare nei primi mesi di governo il quinto capitolo del “vasto programma” illustrato dopo il colloquio di lunedì al Colle. Lunedì la giustizia non c’era. È entrata in agenda, dopo il colloquio con Berlusconi? A domanda specifica durante la conferenza stampa, Renzi prima prova a dire che no ne aveva parlato anche dopo l’i n c arico ricevuto al Colle. Poi prende tempo “non ho capito la domanda”. Poi divaga.
LA GIORNATA di ieri per il premier incaricato è tutto cinema, con Berlusconi che fa un comizio, gli assicura il voto su alcuni provvedimenti e si dice “felice” che ci sia un premier con la metà dei suoi anni. E Grillo che si siede al tavolo ufficiale, e gli parla addosso per nove minuti. Poi esce e fa un comizio anche lui. “Oggi hai ricevuto due pregiudicati, me e Berlusconi”.
ECCOLO LÀ, l’asse con Berlusconi, talmente evidente da non essere neanche negato. Se Berlusconi lo sbandiera, Renzi non lo nega: “Scriveremo le riforme anche con l’opposizione”, dice. Il Cavaliere ha dal premier incaricato la garanzia che la legge elettorale andrà avanti "senza cambiamenti" secondo i tempi fissati. E da parte sua assicura che, pur restando all’opposizione, su temi come il fisco, il lavoro e la giustizia “se i provvedimenti saranno favorevoli ai cittadini, daremo l’ok, altrimenti diremo no”.
Renzi da parte sua assicura che “la maggioranza sarà la stessa del governo uscente”, ma subito dopo con la consueta strafottenza se n’esce così: “Vertice di maggioranza? Lo sapete, sono allergico”. E, voilà l’incontro previsto nel pomeriggio con Ncd sparisce dall’agenda. Alfaniani palesemente in difficoltà valutano l’ingresso nel governo. Difficile che possano farsi indietro, ma visto il patto evidente tra B. e Renzi la loro inutilità si palesa sempre di più. E infatti Gaetano Quagliariello ammette che la situazione è un po’ inquietante, visto che le riforme dovrebbero essere “un alveo che parte dalla maggioranza ma che non deve disperdere il proficuo coinvolgimento di forze dell'opposizione”. Ncd ha tutta l’intenzione - anche se dovesse entrare nel governo - di rendergli la vita difficile appena possibile.
I PROBLEMI del premier incaricato però, non finiscono qui. Intanto, ha il suo da fare. Ovvero il ministro dell’Economia. In questi giorni, non ha fatto mistero di volere un politico. Il nome più probabile, quello di Graziano Delrio, supportato da due tecnici concordati con Draghi. Un uomo di fiducia, che permetta a Renzi di tenerre in mano le cose. Ma la soluzione non piace troppo a Bankitalia (ieri Renzi va da Visco) e non piace soprattutto a Napolitano. Dal quale Renzi si ferma per ben due ore nel tentativo di arrivare a una quadra. Il Capo dello Stato su Guido Tabellini, l’ex Rettore della Bocconi, non molla. “Un nome molto autorevole. Ma ho paura che non mi copra a sinistra”, ragiona Renzi in serata. Ma è pronto a cedere a questa richiesta, come ad altre. Dal Capo dello Stato c’è stato due ore. “Siamo entrati molto nel merito delle cose”, dice, parlando di colloquio positivo. Renzi al Capo dello Stato ha anche detto di poter contare sull’opposizione morbida di Fi. Un’ipotesi che al Presidente non dispiace.
Poi, con i suoi, fa un punto della situazione: “Siamo molto avanti con il lavoro”. Anzi, in realtà è ancora più ottimista: “Sarei pronto a fare il governo anche prima di sabato, ma preferisco fare un discorso programmatico serio e rigoroso”. Oggi e domani dovrà mediare con tutti, da Ncd che deve contare, alla minoranza Pd divisa con ogni branca che vuole il suo posto al sole, con i piccoli, con Napolitano. Sabato dovrebbe presentare la lista dei ministri e lunedì e martedì chiedere la fiducia alle camere. Ma se le cose dovessero mettersi male - oggi o tra un po’ - esiste sempre il piano b. Magari una sorta di monocolore democratico con l’appoggio esterno di Berlusconi.
l’Unità 20.2.14
L’abbraccio del Cavaliere mette in difficoltà il premier
di Ninni Andriolo
IL PREMIER PROMETTE CHE LUNEDÌ CHIEDERÀ LA FIDUCIA ALLE CAMERE.
Si capirà nelle prossime ore quindi se al di là degli annunci il Renzi 1 avrà respiro e garanzie di durata diversi dal Letta bis fatto abortire. Al di là delle etichette, tuttavia, quello che sta per decollare non è l’esecutivo che il leader Pd aveva immaginato. Non è il suo governo, ma quello di una coalizione obbligata. E anche da questo trae motivazioni chi scommette su elezioni prima del 2018, azzardando una forte accentuazione della visibilità del nuovo premier giocata, al di là dei risultati di governo, per incassare consensi e popolarità da giocare al momento opportuno. È stato Berlusconi a riproporre ieri la priorità della legge elettorale da approvare così com’è a dispetto delle modifiche chieste da Alfano e da parti consistenti del Pd. Per il Nuovo Centrodestra con il Renzi 1 non cambia «nulla» rispetto al «patto di maggioranza» messo in cantiere da Letta: solo il nome del premier. Una semplice staffetta con il frazionista che passa il testimone perché a corto dei energie? Gli uomini di Renzi giurano sulla discontinuità di un nuovo governo che - a differenza del precedente - «farà le cose», anche se la maggioranza è uguale. Almeno per il momento, tuttavia, l’attesa della rivoluzione è legata al richiamo al carisma, al decisionismo e alla carica propulsiva del futuro presidente del Consiglio. Giurano che il rullo compressore di Renzi, contrapposto al cacciavite di Letta, farà sentire immediatamente i suoi benefici fino a scacciare le ombre che pesano sulle modalità disinvolte con le quali l’ex vice segretario del Pd è stato liquidato. I ripetuti «no» incassati sulla composizione della squadra di governo, la prassi delle consultazioni e i tempi non certo accelerati hanno fatto balenare in questi giorni l’ombra della prima Repubblica. Anche per questo, in zona Cesarini, Renzi ha ridimensionato il vertice di maggioranza promesso ad Alfano - spostato da ieri a stamattina - e ne ha preso platealmente le distanze. Il leader del Ncd aveva chiesto quell’incontro per delimitare plasticamente i confini della maggioranza nel giorno stesso in cui il calendario della consultazioni prevedeva l’appuntamento Renzi-Berlusconi. E puntualmente, tra l’altro, il Cavaliere ha fatto di tutto per far credere che la «governabilità» del Paese passa ancora da Palazzo Grazioli, oltre a lasciare sul campo i semi di una confusa sovrapposizione tra maggioranza di governo e maggioranza per le riforme. Ieri mattina Il Giornale enfatizzava presunte stampelle al futuro governo orchestrate da esponenti di primo piano di Forza Italia, poche ore dopo il Cavaliere annunciava opposizione non pregiudiziale e una disponibilità a Renzi anche su materie dell’esecutivo come lavoro, fisco, giustizia e pensioni. E il tutto condito da apprezzamenti per il ringiovanimento della squadra di governo e dalla sottolineatura della preziosa esperienza dell’età da offrire al futuro premier. Berlusconi non punta solo a far saltare i nervi ad Alfano. Riconquistato il palcoscenico dal quale Letta lo aveva scalzato, cerca adesso di massimizzare il suo rientro sulla s cena. Chiede personalità non ostili nei ministeri che più gli interessano, non vuole rimanere escluso dalle nomine che riguardano le società controllate direttamente o indirettamente dal Tesoro, e si tiene stretta la carta di riserva del voto anticipato sfoderando le armi tipiche della sua propaganda, l’elezione diretta del Capo dello Stato e la par condicio. Il leader di Forza Italia ricerca il massimo vantaggio all’interno degli attuali rapporti di forza che considera sfavorevoli, e coltiva l’obiettivo di ribaltarli alla prima occasione. Contando magari sull’effetto che potrebbe produrre sugli alfaniani e sul Pd l’ostentazione di un abbraccio stringente a Renzi non certo disinteressato. Benedice il futuro premier con una mano e con l’altra gli offre una mela avvelenata (anche dal no alla modifica dell’Italicum). Il leader Pd ne è consapevole. Ma insiste sulla doppia maggioranza, puntando le carte sulle sue capacità di tenere le due redini, nella certezza che la politica dei due forni versione 2014 non farà scottare le «ambizioni» dei democratici. Renzi è convinto che tenendo aperto il dialogo con il Cavaliere sarà può facile conquistare parte del suo elettorato fin dalle imminenti Europee. In vista delle quali, anche grazie al flop di Grillo di ieri, spera di recuperare anche nel mondo grillino. Il governo sta per nascere, si vedrà se andrà avanti fino alla fine della legislatura. Lo spettro del voto anticipato intanto rimane, anche se più defilato di ieri.
il Fatto 20.2.14
Gli studi "renziani"
“Per lui non bisogna scomodare i Classici Basta citare Crozza”
Luciano Canfora fa una disamina spietata del nuovo prodotto nato in casa democratica:
È cinetico, per questo l’hanno messo sul trono
di Antonello Caporale
“La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno” (dal Manifesto del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti)
Fermarsi alla parola e definire con Luciano Canfora, filologo dell’età classica e osservatore sgomento della lunga crisi italiana, i parametri espressivi di Matteo Renzi, la forza della sua leadership. Immaginare il nuovo mondo dentro il quale il giovane fiorentino sta conducendo il Paese ha una sua utilità, in qualche modo è fatica necessaria. “Riprendo in mano Aristofane e a mente rivado a “I Cavalieri”, quando fa dire a uno dei suoi protagonisti: emetti dalla bocca delle polpette ripugnanti”. Renzi è Paflagone? Il servo che - conquistato il comando - spadroneggia in casa? Il professore vive un pessimismo cosmico, sembra così atterrito dal nuovo che addirittura affida a Crozza l’interpretazione più degna del renzismo. “Fare, dire, amare... quando il comico pronuncia quelle parole interpreta magistralmente la vena sconclusionata e stravagante del nostro leader. Ma cosa vuol dire fare, amare? E allo stesso tempo che razza di progetto è, che pensiero sottende, quale carica espressiva si dipana nella frase: faremo una riforma al mese!. Neanche se parlassimo di frittelle! Questo è il dramma, da qui lo sconforto e la rassegnazione”.
Ma l’Italia l’ha scelto perchè non ne poteva più del potere immobile, incartapecorito. Almeno la velocità, la voglia di dare risposte, la forza di stare in movimento, gliela dobbiamo riconoscere. “Ma si rende conto che un partito ha fatto indicare la sua leadership da alcune migliaia di passanti? Ho visto con i miei occhi signori che avevano Il Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi sotto braccio in fila ai gazebo per votare alle scorse primarie, a queste benedette primarie che gli sono servite per espandere in modo arbitrario un campione minuscolo della società italiana, a sentirsi legittimato da tutti invece che da pochi. Affidare a gente che la pensa nel modo opposto di quel che ritieni la scelta del tuo leader significa commettere il secondo errore madornale, ingiustificabile dopo quello di aver costruito un partito senza passione, nato da convenienze, da una fusione fredda”. L’alterità renziana per Canfora nasce qui, da questo deficit genetico: prendere uno che non la pensa come te ma appare vincente, e porlo alla guida del tuo partito, che è perdente. Estraneo tra estranei. “Renzi, proprio lui, lascia spazio a Berlusconi di dire: l’ultimo premier eletto sono io. Renzi, proprio lui, garantisce, giura che uno come Alfano non sarebbe mai potuto essere ministro e ora lo stiamo per ritrovare al suo fianco. Capisce il danno? E la misura della colpa? E non si rimedia con paroline tipo: il dire, il fare, l’amare. Ma cos’è? Lo hanno issato al trono solo perchè dotato di questa straordinaria energia cinetica? Ecco l’iniqua, sperequata logica. Io non mi sorprendo. Studio da una vita i classici e già in Eschilo, Agamennone e poi naturalmente in Platone la parola esprime il contrario del pensiero. Non c’è dunque stupore. Perchè è certo che anche adesso la parola ingannevole è usata come un bastone nodoso”.
SI DICE A PER PREFIGURARE B, ci si allea per finta con questo e insieme si tratta per davvero con quello. “E nascono sconcezze lessicali, si consumano vere e proprie truffe ai danni della nostra intelligenza e della lingua. Quando non ci piace l’avversario, magari invoca rigore e integrità morale, lo tacciamo di populismo. E che significa? Non c’è continenza, adeguatezza, misura. Parole inutili, vuote, vacue. Cesti rotti”. Le parole truffaldine. “La verità è che siamo in una condizione di soggezione, completamente piegati a poteri esterni. Le sembra possibile che la Merkel, il cancelliere tedesco, ci indichi i giorni e le ore che possiamo permetterci per formare un nuovo governo? È nella sua disponibilità? Siamo asserviti, e la nostra debolezza ha la radice nella crisi della classe dirigente. E la crisi esprime poi questi volti, queste fughe solitarie, questi tipi italiani. I partiti hanno una forma provvisoria e stentano a stare insieme. E siamo feriti, uccisi dalla valanga di informazioni che sembrano avere come unico obiettivo l’azzeramento della memoria. Siamo un popolo senza memoria purtroppo e tutto ci è concesso”. Perfino di avere in campo una coalizione che si chiamava Popolo della libertà. “E qui ritorniamo alle parole ingannevoli. Questo è davvero un mirabile esempio: se tu sei il popolo della libertà io che non ti voto appartengo al popolo della schiavitù? Esiste un partito democratico, quindi si contrappone a un partito aristocratico?”. Parole come zucche vuote, professore. “Temo di sì, penso di sì”. Sembra che il fiorentino non le piaccia proprio. “La città di Renzi ha una antica amicizia con la lingua italiana, e questo è l’unico un punto a suo favore”. Poi è veloce. “Si veloce”. Il fare. “Purtroppo la memoria mia va a Crozza e al suo stupendo: dire, fare, amare”. Dobbiamo rassegnarci, non c’è proprio scampo? “Non la prenda così male e non si angusti. Sappia che l’unica vera resistenza, l’unico baluardo a questa deriva , l’unica struttura antagonista è la scuola. La scuola ci salverà”.
l’Unità 20.2.14
«L’ultima parola sta a me» Ma resta il rebus Economia
di Vladimiro Frulletti
L’ultima parola spetta ame perché qua sono io che rischio ».Èun Renzi particolarmente deciso («bello carico » come dicono i suoi) quello che conclude la giornata probabilmente decisiva per il suo futuro e quello del governo. Tutti gli ostacoli paiono se non superati comunque superabili a breve. Anche da Napolitano dopo oltre due ore di colloqui ha avuto il via libera che già aveva incassato dai partiti della maggioranza. L’intesa è oramai fatta. «Un incontro molto positivo è andato tutto molto bene» spiega Renzi ai suoi uscendo dal Quirinale. Sabato quindi salirà, ultima formalità, al Colle per sciogliere la riserva e poi già nella serata di sabato o domenica mattina il nuovo premier e il nuovo governo giureranno nelle mani del Capo dello Stato. Dopodiché ci sarà la fiducia: lunedì al Senato, martedì alla Camera.
E infatti più da premier in carica che incaricato Renzi già spiega che le riforme istituzionali, con quelle sui costi della politica, fisco, burocrazia, giustizia e soprattutto lavoro faranno parte del pacchetto «dei compiti a casa» con cui l’Italia a luglio si presenterà alla presidenza del semestre europeo. Che poi è proprio il rapporto con l’Europa, e quindi la figura del ministro all’Economia, la questione più «delicata ». Serve la garanzia che l’Italia mantenga la serietà contabile già garantita dai governi Monti e Letta come s’è premurato di spiegare il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, nell’incontro avuto con Renzi nel primo pomeriggio. Nessuno strappo insomma sarebbe compreso. La conferma di Saccomanni andrebbe in questa direzione. Renzi però cerca un’altra soluzione che potrà essere o politica con Delrio o tecnica (il rettore della Bocconi Guido Tabellini), ma affiancata da un viceministro politico come Enrico Morando. Meno ingarbugliati gli altri due ministeri pesanti. L’Interno o sarà di Alfano (ma in cambio dovrà dire addio al ruolo di vicepremier) o di Franceschini. A Ncd (che però ha detto no) andrebbe così la difesa. Alla giustizia potrebbe finire Andrea Orlando, già ministro dell’ambiente con Letta, ma soprattutto già responsabile giustizia Pd e (particolare non irrilevante) considerato da tutti un vero garantista.
L’unica nota stonata per Renzi è quindi stato lo streaming con Grillo. La sua performance non gli è piaciuta. Renzi s’è visto troppo compassato per i suoi gusti e le sue abitudini di fronte all’aggressività del comico genovese. Una violenza (da qui l’invio di un abbraccio di solidarietà agli elettori 5Stelle) che Renzi si spiega anche con la paura di Grillo di perdere consenso sulla sua linea di netta chiusura sia fra i cittadini che fra i parlamentari che infatti avevano detto sì all’incontro ancor prima che la consultazione dei militanti in rete sconfigesse Grillo.
Anche questi sono considerati segnali positivi. Come incoraggianti sono definiti i vari confronti che Renzi ha avuto in questa due giorni. In tutti, spiega, ha trovato la «consapevolezza » della «drammaticità» in cui si trova il Paese e quindi la necessità di provare a svoltare. Posizioni responsabili emerse sia in chi lo sosterrà, ma anche in chi farà opposizione. Come Berlusconi con cui ha avuto anche un brevissimo colloquio senza testimoni (Graziano Delrio e Lorenzo Guerini e Renato Brunetta e Paolo Romani sono usciti dalla Sala del Cavaliere lasciandoli soli). E Berlusconi gli ha promesso un’opposizione non pregiudiziale ribadendo però che la legge elettorale va portata in fondo senza stravolgimenti. Il che per Renzi potrebbe rappresentare il primo vero problema politico da premier (riproducendo di fatto la situazione vissuta da Letta) visto che il suo principale alleato, Alfano, l’Italicum così com’è non lo digerisce. Comunque da Berlusconi Renzi avrebbe incassato anche consigli tecnici (forte della sua esperienza pluriennale a Palazzo Chigi, specifica Brunetta) e suggerimenti (interessati dicono alcune ricostruzioni al veleno) sui dicasteri della giustizia e delle comunicazioni. «Tanto Renzi farà di testa sua» spiegano quelli che conoscono bene il segretario Pd. Significativo però che il premier incaricato abbia posto fra le riforme da fare nei primi mesi anche quella della giustizia «senza le pregiudiziali » che l’hanno inseguita dal 1994 a oggi.
Quanto alla maggioranza, fissato il recinto che è lo stesso di Letta, il segretario del Pd s’è convinto che il più è fatto e che ora ci sono «tutte le condizioni » per raggiungere la meta. Insomma la prossima settimana ci sarà il governo. Tanto che la direzione del Pd è stata rinviata a data da destinarsi. Problemi tecnici, i parlamentari impegnati in varie votazioni, e opportunità politica le motivazioni. Doveva formalizzare l’ingresso del Pd nel Pse (che poi cambierà nome in partito dei socialisti e democratici), prima dello svolgimento del congresso dei socialisti europei a Roma il 28 febbraio. La direzione però sarebbe dovuta servire anche a fare il punto sull’agenda del governo con la minoranza intenzionata a presentare un proprio documento. La cartellina ieri è stata consegnata a Delrio. Al ministro del governo Letta infatti toccherà il compito, vista la riluttanza di Renzi per i vertici di partito, di tenere la riunione (slittata a oggi) sul programma chiesta dagli alleati di maggioranza. E sarà una discussione non formale visto che Renzi vuole impegni non interpretabili come è successo a Letta con l’Imu. «Meglio perdere qualche ora adesso, che stare fermi mesi dopo» dice.
La Stampa 20.2.14
Sardegna, scoppia la polemica interna al Pd tra Barracciu e Pigliaru
Il presidente di Regione annuncia: “Nessun indagato nella mia giunta”
La replica piccata: «Decide il Pd, non lui che non può sindacarne le scelte”
di Giuseppe Salvaggiulo
qui
Corriere 20.2.14
Gli alleati riluttanti
di Ernesto Galli della Loggia
Potranno mai Matteo Renzi e Angelino Alfano essere buoni alleati di governo collaborando lealmente per realizzarne il programma? La cruda realtà della politica, per sua natura così legata alla logica degli interessi e ai rapporti di forza, induce a rispondere con un caritatevole forse che tende ad avere però il suono di un no reciso. Oggi i due non possono che procedere insieme, ma da domani tutto o quasi comincerà molto probabilmente a spingerli su strade opposte.
Un Renzi al governo da solo, infatti — ipotetico vincitore di elezioni che gli avessero dato la maggioranza assoluta, grazie anche a voti non provenienti dal suo schieramento — un tale Renzi avrebbe sì potuto dimenticarsi del Partito democratico e fare, dove necessario, una politica anche niente affatto di sinistra. Privo invece di una vittoria elettorale alle spalle, egli è condannato ad essere, bene o male, solo il capo del Pd. Paradossalmente ma non troppo, proprio l’alleanza con il centrodestra gli toglie spazio su questo versante, e lo obbliga a stare a sinistra, a occupare uno spazio che tenga conto di quella che attualmente è la sua sola base di consenso. Una base peraltro — intendo il Pd — che ha mostrato di non amarlo troppo, e che di certo è pronta a prenderne le distanze non appena la sua azione non dovesse essere pari alle attese. Come credere infatti che il trattamento subito da Letta non abbia ormai il valore di un precedente?
Inversamente analoga appare la situazione di Alfano. Con l’aggravante che mentre bene o male il Pd esiste, e Renzi ci deve sì fare i conti, ma ci può anche in qualche modo contare, Alfano, invece, ha dietro di sé solo il vuoto. Nessun consenso elettorale, nessuna apprezzabile filiera di poteri forti, nessun partito: il suo è l’arduo tentativo da parte di un segmento moderato-cattolico di trovare spazio fuori dalla Destra, in un Centro che da vent’anni però non esiste più. Proprio a causa di questa scarsa consistenza politica Alfano, dunque, ha innanzi tutto una necessità: non apparire un inutile satellite del Pd. Per riuscirci, più che l’essere tentato dal fare, è probabile che egli s’impegni nell’impedire che si faccia. E cioè che Renzi vada a sinistra più di tanto, che s’intesti troppe iniziative con una leadership troppo personale, che si atteggi troppo a eroe dei tempi nuovi. Anche questo, come si vede, non è un buon viatico per il governo nascituro.
Il fatto è che la virtuale scomparsa/destrutturazione del Centro verificatasi nel 1994 nel sistema politico italiano ha reso in realtà impossibile qualunque effettiva alleanza governativa di centrodestra come di centrosinistra. Le «larghe intese» varate alla fine del 2011 ne sono state solo un surrogato emergenziale. Il quale poteva funzionare ma esclusivamente a patto di prendere pochi provvedimenti economici in quel momento urgentissimi e di varare un paio di riforme decisive: e infatti per altre cose quella maggioranza ha fatto poco con Monti, e altrettanto poco con Letta, mancando di fare, tra l’altro, proprio la più importante delle riforme di cui sopra, vale a dire una nuova legge elettorale.
Da domani una base parlamentare similmente eterogenea, ma in certo senso più debole perché più debole e insicura di sé sarà la componente di destra alfaniana, sosterrà il nuovo governo. La domanda cruciale è se basterà la personalità di Matteo Renzi, l’unica cosa che essa ha in più rispetto al passato (con la speranza che basti), a fare la differenza.
Corriere 20.2.14
Streaming e non solo. Le regole al contrario
Le dieci regole sovvertite dal nuovo galateo della politica
di Michele Ainis
Ne abbiamo viste tante, al punto da buscarci un orzaiolo. Ma tante in una volta sola no, questa è la prima volta. Sicché sgraniamo gli occhi, dilatiamo le pupille. Dopo 63 esecutivi in 68 anni di Repubblica, e perciò dopo 63 crisi di governo, sembrava impossibile registrare fatti inediti, eccezioni, stravaganze. Invece possiamo metterne in fila una decina, come i comandamenti ricevuti da Mosè sul Sinai. Solo che in questo caso si tratta di regole al contrario, regole che sovvertono la regola. Eccone l’elenco.
Primo. Il governo Letta viene licenziato durante una riunione di partito. Quindi da privati cittadini, nelle stanze di un’abitazione privata: giacché i partiti sono associazioni non riconosciute, al pari d’un circolo di caccia. E la legge sui partiti non è che l’ennesima promessa tradita dai politici.
Secondo. La crisi nasce da manovre di Palazzo, e purtroppo ci abbiamo fatto il callo. Significa che ha origine da decisioni sotterranee e per ragioni imperscrutabili. Ma il Palazzo va in diretta streaming . Da qui una nuova regola: la vecchia Costituzione (articolo 64) stabiliva la pubblicità dei lavori parlamentari; la nuova prescrive la pubblicità dei lavori extraparlamentari.
Terzo. Enrico Letta si dimette al Quirinale, il presidente non lo rinvia alle Camere per un dibattito sulle sue dimissioni. I precedenti sono altalenanti, anche perché la vita pubblica in Italia è un’altalena. In ogni caso, la «parlamentarizzazione» della crisi risale agli anni Settanta. Stavolta c’era l’esigenza di far presto, tuttavia ci hanno anche detto che non bisogna fare troppo presto. Il rischio è di passare dalla parlamentarizzazione della crisi alla «crisizzazione» del Parlamento.
Quarto. Lega e M5S disertano le consultazioni al Colle. Uno sgarbo istituzionale, una rottura senza precedenti. Però l’idea non è del tutto nuova. Il copyright si deve a Nanni Moretti (Ecce bombo , 1978): «Mi si nota di più se vengo e sto in disparte, oppure se non vengo per niente?».
Quinto. Ma di quale colpa si è macchiato il presidente? Come si spiega questo rifiuto d’incontrarlo? Risposta: consultazioni inutili, tanto l’incarico a Renzi è già deciso. Da chi? Da Renzi medesimo, o meglio dal suo partito. Destino amaro, quello di Napolitano: ieri messo in croce perché troppo interventista, oggi perché si limita al ruolo di notaio.
Sesto. E arriva infine l’incarico annunciato. Con i suoi 39 anni, Matteo Renzi sarà il più giovane Premier della storia italiana, anzi d’Europa, anzi della Via Lattea. Tuttavia la sua investitura non deriva dalla gioventù, bensì dal successo alle primarie dell’8 dicembre. Primarie di partito, trasformate con efficacia retroattiva in primarie di governo.
Settimo. Per la prima volta le chiavi di Palazzo Chigi vengono consegnate a un sindaco in carica, anziché a un parlamentare o a un uomo delle istituzioni. Non è una novità di poco conto: attesta, nel modo più solenne, il discredito che ormai sommerge la politica nazionale, quella che ha per teatro Roma. Ormai soltanto i sindaci rastrellano qualche grammo di fiducia. Ecco allora il sindaco d’Italia, riforma vagheggiata da vent’anni. Con questo governo, abbiamo cambiato la Costituzione senza cambiarla d’una virgola.
Ottavo. Sennonché il nuovo esecutivo nasce vecchio, nel perimetro della vecchia maggioranza. Come una squadra in crisi, che a metà campionato decida di sostituire l’allenatore, senza acquistare nessun calciatore. Lui potrà trasmettere un’iniezione d’entusiasmo, modificare la tattica di gioco, rimpiazzare qualche titolare chiamando in prima linea le riserve. Nel 1971 capitò a Invernizzi, subentrato a Heriberto Herrera; dopo di che l’Inter vinse lo scudetto. Ma capita di rado, e oltretutto Renzi tifa per la Fiorentina.
Nono. Dagli amici mi guardi Iddio, ché dai nemici mi guardo io. Sta di fatto che questo vecchio-nuovo esecutivo ha i suoi mal di capo con Alfano, mentre incontra la simpatia di Berlusconi. Chi è in maggioranza, chi all’opposizione? Vattelappesca.
Decimo. È il paradosso più paradossale, quello da cui dipendono le sorti del governo, oltre che di noialtri governati. Difatti il gabinetto Renzi avrà successo se negherà se stesso, se renderà impossibile in futuro un altro gabinetto Renzi. Come? Con una nuova legge elettorale, con una riforma costituzionale che restituisca agli elettori il potere di decidere i governi. E sarebbe pure l’ora.
il Fatto 20.2.14
Sardegna, astenuti il 60% dei grillini gli altri scelgono Fi e ignorano la Murgia
di Giorgio Meletti
L’analisi del voto per la regione Sardegna di domenica scorsa condotta dall’Istituto Cattaneo è sorprendente. Il Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013 si era piazzato al primo posto nell’isola, con 274 mila voti pari al 29,7 per cento dei consensi espressi. Un anno dopo, non essendoci in lizza alcuna lista legata a Beppe Grillo, secondo il Cattaneo il 60 per cento di coloro che avevano votato M5S sono rimasti a casa. Quindi hanno disertato le urne circa 165 mila elettori grillini (i dati vanno presi con qualche prudenza perché i calcoli del Cattaneo sono condotti solo sul voto a Cagliari e Sassari, che equivale al 15 per cento del totale).
UN ANNO FA avevano votato 950 mila elettori sardi, domenica scorsa 775 mila. Il calo di affluenza alle urne è di 175 mila unità, quasi del tutto ascrivibile, secondo l’analisi degli studiosi guidati da Elisabetta Gualmini, all’astensionismo grillino.
Il 40 per cento di coloro che a febbraio 2013 avevano messo la croce sul simbolo M5S, cioè 110 mila elettori, sono però andati a votare, e secondo questa analisi dei flussi lo hanno fatto in modo imprevisto. Se alla vigilia si riteneva che le liste di Sardegna Possibile, guidate dalla scrittrice indipendentista Michela Murgia, fossero predestinate a richiamare il consenso dell’area grillina, i risultati dicono un’altra cosa. A Sardegna Possibile è andato solo il 6,6 per cento del voto ex M5S a Cagliari e il 3,9 per cento a Sassari. La Murgia ha fatto una campagna contro i grandi partiti nazionali ma ha esplicitamente rifiutato l’idea di solleticare il voto di protesta, preferendo insistere su un voto di proposta. I risultati le danno ragione: solo 15 mila dei 75 mila voti conseguiti risultano di derivazione M5S.
PER IL RESTO chi un anno fa aveva scelto il M5S alle regionali ha scelto in prevalenza il centrodestra: il 26 per cento a Cagliari e il 16 per cento a Sassari (cioè buona parte del 40 per cento che ha votato). Molti elettori ex M5S hanno scelto il centrosinistra, votando Pd per il 7,5 per cento a Cagliari e per il 10 per cento a Sassari, dove altre liste di centrosinistra hanno portato a casa il 5 per cento del voto proveniente dal M5S.
Se si considera che Sassari è una città tradizionalmente più “rossa” di Cagliari, la distribuzione del voto ex grillino nelle due città sembra suggerire che, alle regionali, la più forte alternativa al non voto sia stata il ritorno a un voto di sapore clientelare.
il Fatto 20.2.14
Lo svuota-carceri è legge: evita la multa Ue, ma intasa i tribunali
Non risolve i problemi dei detenuti: ne usciranno appena duemila
di Silvia D’Onghia
L’obiettivo era e resta uno solo: arrivare a maggio e schivare il colpo. La sentenza Torreggiani non lascia scampo: se l’Italia non riuscirà a garantire – entro maggio, appunto – uno spazio non inferiore ai 3 mq e molte ore trascorse all’esterno della cella, verrà condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a risarcire, con centomila euro ciascuno, sette detenuti che avevano fatto ricorso per le condizioni disumane in cui vivevano nei penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza. Cifra che, moltiplicata per i 15 mila detenuti eccedenti rispetto alla capienza delle nostre carceri, farebbe una somma degna di una Finanziaria.
E così, a due giorni dalla sua scadenza e a una settimana dal nuovo governo, ieri il Senato ha approvato con voto segreto –147 sì, 95 no e nessun astenuto – il disegno di legge di conversione del decreto del 2013: quello che è stato definito lo “svuota-carceri” e che in realtà, finora, ha portato fuori di galera soltanto 2.100 persone. Erano 63.200, sono 61.100 e le previsioni da qui a maggio sono di scendere più o meno di altrettanto. Quanto basta, secondo le previsioni del ministro Annamaria Cancellieri, per portare a casa il risultato di Strasburgo. E poco importa se la legge rischia di essere travolta dai ricorsi.
LIBERAZIONE ANTICIPATA speciale. È la norma più discussa, nata male e finita – forse – peggio. Prevede che lo sconto di pena, già esistente, di 45 giorni ogni sei mesi per i detenuti che si comportano bene salga a 75. La decisione sarà comunque sub iudice. In origine, la norma era pensata per tutti i detenuti: le aspre critiche dei giudici antimafia, anche dalle colonne del Fatto , hanno portato poi all’esclusione dal beneficio di coloro che hanno commesso reati di mafia, omicidio, violenza sessuale, rapina aggravata ed estorsione. E già questo potrebbe violare l’articolo 3 della Costituzione. Se poi si considera che la norma è “in via temporanea” (dal 1 gennaio 2010 al 24 dicembre 2015), i profili di incostituzionalità potrebbero anche essere due. Perché chi è entrato in carcere il 31 dicembre 2009 non ne ha diritto? Ieri il Senato ha votato contro l’emendamento dei 5 Stelle che avrebbe impedito di estendere il beneficio a corruzione e concussione. “Vergogna”, ha commentato il senatore Enrico Cappelletti.
BRACCIALETTI ELETTRONICI. Viene ribaltato l’onere della motivazione: se finora il giudice, concedendo i domiciliari, poteva prescrivere il braccialetto “solo se necessario”, adesso dovrà farlo sempre, a meno che non ne escluda la necessità. I braccialetti erano già stati al centro di una grossa polemica, perché costati oltre 9 milioni di euro allo Stato a beneficio di Telecom (dove lavora come responsabile della Direzione Administration, finance and control Piergiorgio Peluso, figlio della Cancellieri) e perché, finora, ne sono state usate solo poche decine. La legge specifica che l’utilizzo dei braccialetti non comporterà un ulteriore aggravio per le forze di polizia. Resta da capire, allora, chi controllerà i detenuti che ne verranno dotati.
PICCOLO SPACCIO. Il codice prevedeva che la lieve entità fosse un’attenuante nella detenzione e cessione illecita di stupefacenti. Se bilanciata da aggravanti come la recidiva, finora potevano determinarsi pene molto alte. Lo svuota-carceri rende invece la lieve entità reato autonomo, con possibilità di disporre l’affidamento terapeutico dei tossicodipendenti anche per più di due volte. È un modo per ripristinare la differenza tra droghe leggere e pesanti, che la Fini-Giovanardi (bocciata dalla Consulta la settimana scorsa) aveva eliminato.
ESPULSIONE DEI DETENUTI stranieri. Viene ampliato il campo dell’espulsione come misura alternativa al carcere. Varrà anche per i delitti previsti dal testo unico sull’immigrazione, purché la pena non superi i due anni, e per chi è condannato per rapina ed estorsione. Anche in questo caso, visto che non ci sono i soldi per mettere le persone sugli aerei e riaccompagnarle in patria, è una misura che rischia di rimanere sulla carta.
AFFIDAMENTO IN PROVA. Viene portato da tre a quattro anni il limite di pena (anche residua) che consente l’affidamento ai servizi sociali. “Peccato che non vengano ampliate le risorse professionali e finanziarie indispensabili all’implementazione delle misure alternative”, fa sapere il Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali.
GARANTE dei detenuti. La legge istituisce l’ufficio del Garante presso il ministero di via Arenula: tre componenti in carica per cinque anni. Ci saranno molte più denunce, ma le celle invivibili continueranno a essere tali. Perchè fino a quando non si ripenserà da un punto di vista culturale all’intero “sistema carcere”, le risposte all’emergenza saranno i soliti rimedi all’italiana.
Corriere 20.2.14
Il decreto non svuota le carceri
Fuori dalle celle solo 1.300 detenuti
Ieri l’approvazione definitiva. Proteste di grillini e Lega: evasione di Stato
di Virginia Piccolillo
ROMA — Nessuna modifica accolta. A due giorni dalla scadenza, con 147 sì e 95 no, il Senato ha convertito in legge il cosiddetto decreto «svuotacarceri». Quello che stabilisce, tra l’altro, un ulteriore sconto di pena per i detenuti in via definitiva (dagli attuali 45 a 75 giorni di liberazione anticipata). Tra le proteste dei Cinquestelle, già protagonisti di un duro ostruzionismo alla Camera e della Lega che ha agitato in aula uno striscione con su scritto: «Evasione di Stato. Otto milioni di delinquenti fuori dal carcere grazie al Governo», subito ritirato dai commessi. Il governo, con il sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta invece parla di «deciso passo in avanti per risolvere l’emergenza carceraria e per rimettere al centro del sistema la dignità delle persone detenute».
Ma quanti detenuti riguarda? I numeri su questo provvedimento il Dap li ha forniti solo in questi giorni. E mostrano che dall’entrata in vigore del decreto, lo scorso 31 dicembre, sono usciti dalle celle solo 1.311 detenuti, 749 dei quali stranieri. Al 18 febbraio scorso infatti il numero totale dei detenuti era di 61.225. Certo il provvedimento continuerà ad avere effetti anche nei prossimi 2 anni, via via che la liberazione anticipata verrà applicata. Ma certo è che i dati lasciano aperti molti spazi al dubbio che il provvedimento, contestato per motivi di sicurezza, non sia neanche utile a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario che ci espone a una possibile condanna europea nel prossimo maggio. Come hanno sempre sostenuto i radicali, favorevoli all’amnistia. Analogo destino, del resto, avevano avuto i provvedimenti precedenti. L’effetto del cosiddetto «porte girevoli», varato nel 2011, dopo oltre un anno, fece passare la popolazione carceraria da 66.897 a 66.695. Il primo svuotacarceri varato nello scorso giugno la fece scendere in tre mesi da 66.028 a 64.758. Ma ebbe effetto anche la stretta sulla custodia cautelare (non più applicabile ai reati fino a 4 anni, ma a fino a 5). «Così per evitare condanne saremo costretti a fare comunque indulto o amnistia, con il sistema alterato — fa notare il presidente della Commissione giustizia del Senato, Nitto Palma (Fi) — eravamo d’accordo per modificare alcuni punti, ma il governo era contrario e la calendarizzazione non ha permesso il nuovo passaggio alla Camera. Ma ci sono errori. Sui tossicodipendenti che non resteranno in carcere nemmeno dopo un secondo reato grave (se poi uno esce, si mette alla guida e uccide qualcuno, non prendetevela con il giudice di sorveglianza). O sull’espulsione degli stranieri prevista anche dopo rapina a mano armata o estorsione grave (così alla camorra converrà utilizzarli come riscossori del pizzo)».
Ma se la prende anche con Forza Italia il Movimento 5 Stelle che denuncia come «Fi e Pd, con l’aiuto del vergognoso voto segreto richiesto dai berlusconiani, hanno votato contro il nostro emendamento che prevedeva di non estendere il beneficio dello sconto del 40% di pena ai condannati per corruzione e concussione».
«Chi ha votato lo svuotacarceri avrà sulla coscienza migliaia di nuovi delitti», twitta Matteo Salvini, segretario della Lega. «Lo Stato getta la spugna», aggiunge Giorgia Meloni (FdI). «Resa dello Stato rincara Antonio Di Pietro.
Mentre l’Unione delle Camere penali lamenta che l’iter di conversione in legge ha «ridotto drasticamente l’ambito di applicazione della liberazione anticipata estesa, esponendola alla quasi certa declaratoria di incostituzionalità».
il Fatto 20.2.14
Salva-Roma oggi al Senato. Marino col fiato sospeso
OGGI il “Salva Roma” approda in aula al Senato, dopo un’estenuante mediazione tra i partiti in commissione Affari Bilancio. Sul piatto ci sono quasi 500 milioni di euro decisivi per far quadrare il disastrato bilancio della Capitale. I tempi sono piuttosto stretti: il decreto scade il 28 febbraio. Dopo una serie di modifiche che rischiavano di far saltare il banco, la quadra sembrerebbe essere stata trovata sulla base dell’emendamento del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giovanni Legnini. Quest’ultimo ha riformulato la norma con un riferimento alla legge finanziaria del 2007, un codicillo che permetterebbe di salvare dalla liquidazione tutte le società “in house” del Comune. Risparmiando così la chiusura o la vendita di aziende come Zetema, Risorse per Roma e Assicurazioni. Il blitz di Legnini ha mandato su tutte le furie Linda Lanzillotta, rappresentante di Scelta Civica decisiva per i numeri in commissione, anche se ieri l’aula ha bocciato gli emendamenti della montiana. La parola ora spetta al Senato. Ignazio Marino, intanto, ringrazia: “L’ultima riformulazione dell’emendamento proposto dal governo è una soluzione soddisfacente”.
l’Unità 20.2.14
Una patrimoniale per avvicinare le due Italie
di Nicola Cacace
«Siamo pronti a sostenere Renzi se avrà il coraggio di sfidare la rendita», ha scritto Bonanni della Cisl su l’Unità del 18 febbraio. «Se facessi una patrimoniale da 40 miliardi andrebbe bene?», ha detto Fabrizio Barca al finto Vendola. Non sono voci dal sen fuggite ma affermazioni che rimettono alla ribalta il dramma delle due Italie, quella dei poveri e quella dei ricchi.
Bankitalia ci ricorda da anni che l’Italia ha una ricchezza privata di 9mila miliardi, 6 volte il Pil, elevata ma concentrata in poche mani, il 10% ne possiede il 46%, quasi 2 milioni di euro a famiglia, E c’è in fondo il blocco dei poveri, l’ultimo 50% delle famiglie, che possiede il 9%, meno di 60mila euro a famiglia.
Da queste parti, se si perde il lavoro, si sopravvive qualche mese con i risparmi di una vita, poi dopo è la fine. Malgrado la grave crisi in atto da anni, nessuno degli ultimi governi, Berlusconi, Monti e, spiace dirlo neanche Letta, ha mai preso in considerazione, nei provvedimenti, l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze. Perché, di fronte ad un Paese sempre più spaccato, ad un debito pubblico crescente e ad una tagliola, il Fiscal Compact che ci imporrà presto di ridurlo di alcune decine di miliardi l’anno, ad una ricchezza privata consistente di 2,4 milioni di famiglie, nessun governo ha avuto il coraggio di rivolgersi a questi privilegiati e chiedere loro un contributo straordinario per recuperare risorse e rimettere in moto il Paese? Eppure, da anni, proposte per un contributo patrimoniale straordinario, sono state avanzate, oltre che da sinistra, da autorevoli borghesi come il banchiere cattolico Pellegrino Capaldo, il presidente Bnl Luigi Abete, il presidente di Nomisma Pietro Modiano, Carlo De Benedetti, Vito Gamberale . Perché, per iniziare a salvare il Paese, non si può chiedere un contributo a quel 10% di famiglie che posseggono 4mila miliardi di patrimonio netto?
Monti aveva obiettato che non ci sono dati certi ma non è vero, c’è il catasto per gli immobili e c’è la banca dati della Finanza per i beni mobili. Un contributo straordinario dello 0,5% del patrimonio del 10% delle famiglie più ricche, da 2 milioni di patrimonio in su, darebbe 20 miliardi di entrate e costerebbe una media di 8mila euro a ciascuna delle famiglie più brave e fortunate. Nessuno fallirebbe, qualcuno si avvicinerebbe al Paradiso, l’Italia avrebbe qualche possibilità di uscire dal buco nero della crisi.
Repubblica 20.2.14
Bundesbank: “Fate la patrimoniale”
L’istituto tedesco: i Paesi in crisi si tassino prima di chiedere aiuto
di Andrea Tarquini
BERLINO. Per uno Stato in emergenza a rischio default, l’introduzione di una tassa patrimoniale è il male minore. Insomma potrebbe essere una soluzione necessaria. È quanto ha detto il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, con un’allusione indiretta al dibattito italiano. In una lunga intervista uscita ieri sulla Frankfurter Allgemeine. Weidmann rilancia le critiche alla linea scelta da Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea (Bce), affermando con forza i suoi dubbi sulle Outright monetary transactions, gli acquisti in quantità illimitata di titoli sovrani di Paesi dell’eurozona in difficoltà. Così la Bce, a suo giudizio, rischia di diventare ostaggio dei poteri politici.
L’intervista di Weidmann è tanto più importante in quanto è uscita proprio in contemporanea con il vertice intergovernativo tedesco-francese a Parigi, e appare quindi un monito alla cancelliera Angela Merkel e al presidente François Hollande. Nel summit, Francia e Germania hanno annunciato che intendono raggiungere a maggio (quindi nello stesso periodo delle elezioni europee) un accordo sulla tassazione finanziaria. Quanto a Weidmann, le sue dichiarazioni alla
Faz,pur non menzionando i Paesi, sembrano un riferimento chiaro al dibattito italiano. «In una situazione d’emergenza, per uno Stato nazionale che rischi il fallimento, una tassa patrimoniale può essere il male minore, e prima di chiedere aiuto ad altri paesi e alla Bce il contributo una tantum dei contribuenti non dovrebbe essere escluso», egli afferma.
I suoi giudizi sulla Bce intanto rilanciano lo scontro al vertice dell’Eurotower, poco dopo che la Corte costituzionale tedesca ha espresso riserve sulle Omt chiedendo un responso della Corte europea di giustizia ma riservandosi di emettere poi sue proprie sentenze restrittive. «I miei dubbi dal punto di vista economico sulle Omt persistono», egli afferma, e continua, riferendosi alla scelta della Consulta tedesca: «É chiaro che il procedimento non è ancora chiuso e che la sentenza deve ancora arrivare; un programma del genere può comportare che la Banca centrale diventi prigioniera della politica». In tal caso, egli ammonisce, «diverrebbe difficile per l’eurosistema tutelare la stabilità dei prezzi, e queste per me sono ragioni sufficienti per rifiutare il programma». E ancora: «L’indipendenza dalle banche centrali è un privilegio da cui però nasce anche un obbligo. Quanto più ci si avvicina ai confini del mandato della politica monetaria, tanto più si pone una questione di indipendenza, e tanto più diventa difficile rispondere alla domanda di stabilità. Fondamentalmente, abbiamo un mandato ben diverso da quello della Federal reserve o della Bank of England».
Corriere 20.2.14
Cosa è cambiato e potrebbe cambiare della procreazione assistita
Il decennio dei nati in provetta
Quegli ottantamila figli della Legge 40
Dalla fecondazione eterologa alla donazione degli embrioni crioconservati per la ricerca: i fronti ancora aperti
il Decennio dei Nati in Provetta
di Margherita De Bac
ROMA — Diverse centinaia di embrioni sono conservate da oltre dieci anni nei congelatori dei centri di procreazione medicalmente assistita (Pma) e non possono essere più utilizzate per tentare la nascita di un bimbo. Il destino è che restino al freddo per sempre. In Italia è infatti vietato donarli alla ricerca, come invece è previsto in molti Paesi. Una donna, rimasta vedova, non ha voluto accettare quella che ritiene la violazione di un suo diritto. E si è appellata alla Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo hanno fissato l’udienza per il 18 giugno, ore 9,15.
Se il nostro governo fosse condannato il testo che dal febbraio 2004 regola l’attività della Pma potrebbe ricevere l’ennesima, poderosa spallata. Anche la nostra Corte Costituzionale si appresta (8 aprile) a esaminare il carattere di legittimità dello stop alla sperimentazione sugli embrioni in sovrannumero. E non è l’unico attacco alla legge approvata sotto il governo di Berlusconi, subito criticata come oscurantista, «madre» di 79 mila bambini dal 2005 al 2012: due ogni cento nati. Il secondo fronte aperto riguarda le tecniche eterologhe cioè la possibilità di tentare il concepimento in provetta attraverso la donazione di un gamete, ovocita o spermatozoo, appartenente a un donatore (in realtà si tratta di una donazione non gratuita).
La Corte Costituzionale su ricorso dei tribunali di Firenze, Milano e Catania si riunirà l’8 aprile. Mentre non è stata ancora fissata dalla Consulta la data per la discussione sul cosiddetto «accesso alle cure» delle coppie fertili. Oggi ai centri possono rivolgersi solo gli aspiranti genitori con sterilità e non coloro che, a causa di patologie, non riescono a mantenere la gravidanza.
Se anche questi ultimi tre puntelli saltassero la contestatissima «Quaranta», dal numero che porta, risulterebbe completamente stravolta. Nel tempo i suoi assi portanti sono stati sgretolati dalle sentenze di Cassazione e tribunali. Via il divieto di fecondare più di tre ovociti insieme, dunque di creare più di tre embrioni. Via l’obbligo di trasferirli in un’unica soluzione nel grembo della donna per evitare la conservazione sottozero di quelli in sovrannumero. Caduto questo muro i centri hanno ripreso a congelare.
E infine la sentenza del tribunale di Cagliari che nel 2012 ha obbligato un centro pubblico a effettuare la diagnosi preimpianto sugli embrioni, tecnica che permette di individuare la presenza di patologie gravi di cui i genitori sono portatori. Di fatto però questa metodica è quasi del tutto assente dagli ospedali e viene garantita solo dai privati.
Battaglie sostenute dalle associazioni (Cerco un Bimbo,l’Altra Cicogna e Amica Cicogna), in prima fila da Filomena Gallo, segretario della «Luca Coscioni», l’uomo che si è battuto per la libertà di ricerca, oggi l’anniversario della morte: «La legge così come è stata rimodellata rispetta finalmente i diritti della coppia ed è più applicabile. Nel testo del 2004 c’era una volontà di fondo. Non si volevano far nascere bambini e famiglie». Per Andrea Borini, presidente Sifes (Società italiana di fertilità e sterilità, lunedì un convegno a Roma sull’anniversario) «È stata incentivata la fuga all’estero delle nostre coppie che hanno cercato altrove soluzioni qui erano negate».
Però anche i più indefessi nemici riconoscono all’impianto originario alcune norme pregevoli che infatti non sono mai state attaccate. A cominciare dalla creazione presso l’Istituto Superiore di Sanità del Registro nazionale per la procreazione medicalmente assistita, affidato alla dottoressa Giulia Scaravelli, che se ne occupa con grande competenza e passione. Sulla base dei dati analitici comunicati dai 358 centri italiani ogni anno viene inviata al Parlamento una relazione che permette nel dettaglio di avere la fotografia di un’attività definita prima del 2004 da «Far west» proprio perché mancava il controllo. Un po’ per i limiti iniziali della legge un po’ per questo monitoraggio stretto le cliniche della fertilità hanno dovuto puntare sulla qualità e affinare le tecniche. Chi legge le tabelle della Scaravelli e le percentuali di successo capisce chi lavora bene e chi no.
La prossima relazione, relativa al 2012, verrà mandata al ministro della Salute a fine mese. Conterrà risultati in parte sovrapponibili a quelli precedenti. I bambini nati con le varie tecniche sono stati circa 12 mila, numero che si discosta di poco da quello del 2011 e che si presume resterà costante. Aumentata ancora l’età media delle donne, circa 36,7 anni, fattore che riduce la percentuale di successo.
Continuano a calare fortunatamente le gravidanze trigemine, segno di maggiore attenzione nel trasferimento di embrioni e nella stimolazione delle pazienti. Resta vivace il fenomeno della migrazione interregionale legata al divario dell’offerta. Toscana, Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Emilia Romagna sono le mete più battute secondo un rapporto dell’associazione Cittadinanzattiva.
Repubblica 20.2.14
L’appello di Veronesi, liberalizzare la cannabis
di Umberto Veronesi
VORREI che si riaprisse anche in Italia il dibattito per la liberalizzazione delle droghe leggere. È arrivato il momento di superare le barriere ideologiche e ammettere che proibire non serve a ridurre il consumo. La sentenza della Consulta, che dichiara incostituzionale la legge Fini-Giovanardi, dimostra, ancora una volta, la visione civilmente più avanzata dei nostri giudici rispetto al Parlamento.
Con la bocciatura della legge, che equiparava droghe pesanti e leggere e prevedeva pene fino ad 20 anni di reclusione, si è calcolato che le condanne dovranno essere riviste per 10.000 detenuti, perché connesse all’uso di droghe leggere, dunque per reati di lieve entità. È un numero enorme, che corrisponde quasi alla metà di tutti i reclusi per droga, complessivamente circa il 40% dei carcerati. Ora, si stima che circa il 50% dei nostri giovani faccia uso di cannabis, oltre a molti adulti. Significa che metà dei giovani italiani è criminale? Se fosse così, ci sarebbe un motivo in più per ritenere la Fini-Giovanardi un totale fallimento. Mettere sullo stesso piano droghe leggere e pesanti è antiscientifico.
Lo spinello è considerato dai giovani una droga “ludica” ed innocua e vietarlo serve solo a stimolare la loro propensione alla trasgressione. Ben diverso è il contesto di chi affonda nell’eroina fino a rischiare la vita. E se anche pensiamo che la cannabis sia l’anticamera di sostanze più pericolose, davvero crediamo che penalizzando il possesso di una dose possiamo interrompere la spirale di angoscia esistenziale che porta al baratro mortale della droga pesante? I dati ci dicono di no. Se fosse vero, le statistiche non mostrerebbero circa 200mila dipendenti da droghe pesanti in Italia, più o meno come 10 anni fa. Rendere la cannabis un tabù o un piccolo crimine non serve affatto ad affrontare il problema.
Se si deve ricorrere alla proibizione, significa che abbiamo fallito nella nostra azione educativa. La droga è un problema più sociale e culturale, che penale e una legge che impone sanzioni pesanti o addirittura la prigione non può risolverlo. Dobbiamo renderci conto che se rendiamo criminali i consumatori di droga, li obblighiamo soltanto ad uscire dalla legalità e dal controllo, senza che smettano di drogarsi.
Del resto le esperienze di paesi europei come la Svizzera, l’Olanda e recentemente il Portogallo, che hanno adottato politiche di liberalizzazione nei confronti della droga, parlano chiaro: se liberalizziamo la droga, non ne aumentiamo l’uso, riduciamo invece la mortalità da overdose e la criminalità collegato alla produzione e allo spaccio. Secondo molti esperti la liberalizzazione estesa metterebbe in ginocchio i grandi trafficanti e le economie che si basano sul narcotraffico come quella talebana in Afganistan e quella colombiana in Sud America. Da noi, la mafia. Sono nato nel 1925, a Milano, non ho mai vissuto altrove. Posso quindi testimoniare che sin dal secondo dopo guerra sento parlare di lotta alla mafia da parte di tutti i governi, senza aver mai visto un minimo risultato. Io credo che per togliere potere alla mafia bisogna “tagliarle gli alimenti” e il suo sostentamento principale è senza dubbio il traffico illegale di droga. Cito sempre l’esperienza americana degli anni ‘20: in soli tredici anni di divieto di consumo di alcol fiorirono in maniera esponenziale il consumo clandestino, il mercato nero gestito da bande criminali e il costo dell’alcol che faceva da volano alla criminalità. Si calcola che la mafia incassi per la droga circa 60 miliardi di euro ogni anno. Un giovane che cade nella “dipendenza”, se non è ricco, ha solo tre possibilità per procurarsi una dose: rubare, prostituirsi o spacciare. In ogni caso diventa un fuori legge.
Ma se proibire è deleterio, legalizzare non basta. Bisogna educare e trasmettere il principio non che la droga è illegale, ma che ha un valore socialmente e individualmente negativo, informando tutti, a partire dalle scuole, sui rischi reali per la salute. Basta con le demonizzazioni quindi. È anche il momento per ridare alla cannabis lo spazio che merita nella cura del dolore. Già molte regioni hanno reso accessibile la cannabis ad uso terapeutico. È assurdo, per il resto del Paese, rinunciare ad un potente antidolorifico solo perché ha la “colpa” di essere anche una sostanza stupefacente. Il dolore è il più grande nemico dei malati, annienta la loro dignità, spegne le loro energia e la volontà di combattere. Il dolore va affrontato con ogni mezzo a nostra disposizione. Anche con la cannabis.
l’Unità 20.2.14
Ucraina. L’allarme dell’Europa
In Ucraina è ormai guerra civile
L’esercito contro i manifestanti
Kiev in fiamme: 26 morti e 240 feriti assalto a piazza Maidan
Notte di scontri in tutto il Paese: rubate le armi nei depositi
di Marco Mongiello
BRUXELLES. Parla l’ambasciatore italiano a Kiev, Fabrizio Romano: «In Ucraina la situazione precipita. L’unica strada è far cessare le armi e riprendere il negoziato tra governo e opposizione. L’uso della forza non riporterà la normalità».
Dopo quasi due mesi di tensione crescente, occupazioni e il braccio di ferro diplomatici la situazione in Ucraina è precipitata. Il bagno si sangue più volte paventato dalle opposizioni e dalle cancellerie internazionali si è concretizzato nella notte tra martedì e mercoledì, lasciando a terra 26 morti, molti a causa di colpi di armi da fuoco, e 241 feriti. Tra le vittime ci sarebbero nove agenti e un giornalista ucraino, secondo le informazioni ufficiali. Ora si teme l’intervento delle forze armate per l’annunciata «operazione antiterrorismo». A Kiev piazza Maidan, centro e simbolo delle proteste dalla mancata firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea lo scorso 29 novembre, è oramai trasformata in un campo di battaglia, con le tende dei dimostranti in fiamme, il lastricato divelto per lanciare pietre, ospedali da campo improvvisati per curare i feriti e una parte dello spazio occupata dagli agenti. Per tutta la giornata di ieri gli scontri sono continuati, anche se più sporadici, mentre migliaia di persone hanno cercato di raggiungere la piazza superando i posti di blocco della polizia. Il resto della città è completamente fermo, con la metro chiusa e le strade sbarrate. Molti dimostranti girano con i passamontagna sul volto e bastoni in mano, mentre su dei tavolini allestiti in piazza altri riempono di liquidi infiammabili le bottiglie per fare bombe molotov. La protesta è tornata a infiammarsi anche nelle altre città dell’Ucraina dove sono state prese nuovamente d’assalto le sedi dell’amministrazione.
GLI SCONTRI. La scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta è arrivata martedì mattina quando il presidente Viktor Yanuovich, dopo una telefonata con il presidente russo Vladimir Putin, ha deciso di affossare la riforma costituzionale che veniva discussa in Parlamento. Gli scontri con le forze dell’ordine sono iniziati fuori dall’edificio della Verchvna Rada e sono continuati tutta la giornata di martedì. Il ministero dell’Interno ha chiesto di sgombrare la piazza entro le 18, e dopo il rifiuto dei manifestanti di abbandonare i presidi, la polizia ha attaccato nella notte facendosi largo con un blindato, lanciando granate assordanti e utilizzando i cannoni ad acqua. Dall’altra parte i manifestanti hanno resistito fino all’ultimo e lo scontro è stato violentissimo. Alcune tende degli accampamenti sono state date alle fiamme ed è stato incendiata anche la vicina sede dei sindacati, utilizzata come base operativa della protesta. Ieri i dimostranti hanno occupato la sede dell’ufficio postale su piazza Maidan per utilizzarlo come nuova base.
Nella notte l’ex pugile Vitali Klitschko, leader di uno dei tre partiti dell’opposizione, è tornato ad incontrarsi con il presidente Yanukovich nel tentativo di fermare le violenze, ma è stato l’ennesimo fallimento. Yanukovich si rifiuta di fermare l’assalto, ha detto Klitschko, invitando i manifestanti a difendere piazza Maidan, che in ucraino significa «indipendenza», perché è dove nel 1991 è stata dichiarata l’indipendenza da Mosca. «Questa è un’isola di indipendenza e noi la difenderemo», ha arringato la folla l’ex campione del mondo dei pesi massimi. Mercoledì mattina Yanukovich ha gridato al colpo di Stato, accusando le opposizioni di aver «superato il limite invitando la popolazione a prendere le armi».
ALL’OVEST. Le immagini apocalittiche degli scontri a Kiev hanno immediatamente scatenato la protesta anche fuori dalla capitale, soprattutto nell’ovest del Paese più ostile all’influenza russa.
Nella notte sono stati presi d’assalto diversi edifici pubblici a Leopoli, tra cui la sede della polizia, dei servizi speciali e un deposito militare di armi. Nella regione di Ternopil i dimostranti hanno dato fuoco a un commissariato di polizia lanciando bottiglie molotov. A Ivano-Frankivsk una cinquantina di manifestanti incappucciati hanno occupato il palazzo della regione e, secondo i servizi di sicurezza, sono state rubate armi e munizioni. A Lutsk il governatore regionale, nominato da Yanukovich, è stato ammanettato al palco della piazza centrale dalla folla per essersi rifiutato di dare la dimissioni.
Nel tardo pomeriggio di ieri il capo dei servizi di sicurezza, Oleksandr Yakimenko, ha diffuso un comunicato per annunciare «un’operazione antiterrorismo su tutto il territorio ucraino». Nella nota Yakimenko denuncia che «in molte regioni del Paese gli edifici municipali, gli uffici del ministero dell’Interno, della sicurezza e del procuratore generale, gli edifici e i depositi dell’esercito sono stati occupati». I tribunali, continua il comunicato, «sono stati bruciati e dei vandali stanno distruggendo gli appartamenti privati uccidendo dei cittadini innocenti». Nelle ultime 24 ore, è la conclusione, c’è stata «una crescente escalation di scontri violenti e l’uso diffuso di armi da parte di gruppi estremisti ». È il segnale che ormai la protesta sta sfociando in una vera e propria guerra civile e il confronto si sta spostando sempre di più dal piano politico a quello militare. Tra le file dell’opposizione diversi gruppi radicali non rispondo più ai leader dell’opposizione, che sperano ancora in un compromesso, e duemila veterani della guerra in Afghanistan, che facevano parte dell’esercito sovietico, stanno formando militarmente i manifestanti. In Ucraina ci sono oltre 20 mila veterani e si sono dati 24 ore per incontrarsi a Kiev.
l’Unità 20.2.14
L’ambasciatore Fabrizio Romano
«Serve dialogo non l’esercito»«Per ritrovare la normalità
a Kiev non serve un intervento militare»
di Umberto De Giovannangeli
«Francamente non riesco a vedere nessuna alternativa alla ripresa del dialogo ». La sua è, insieme, una valutazione politico-diplomatica e una testimonianza diretta di una drammatica crisi che, per usare le parole della ministra degli esteri, Emma Bonino, può portare la guerra civile nel cuore dell’Europa. La crisi ucraina vista dall’ambasciatore italiano a Kiev, Fabrizio Romano. Quanto ai caratteri della rivolta, l’ambasciatore Romano annota: «Nel corso di questi mesi, la piazza si è evoluta, modificata, trasformandosi sempre più in un soggetto politico. Nella rivolta di piazza Maidan convivono varie anime, il cui minimo comun denominatore è la richiesta delle dimissioni dei vertici dello Stato e nuove elezioni presidenziali ». L’Unità ha raggiunto telefonicamente l’ambasciatore Romano nel primo pomeriggio. Quanto alla situazione dei nostri connazionali, il numero uno della sede diplomatica in Ucraina, ribadisce che «noi siamo in contatto costante con l’Unità di Crisi della Farnesina, sin dal momento in cui il livello di tensione si è alzato in modo vertiginoso, ma soprattutto negli ultimi giorni abbiamo intensificato la nostra azione nei confronti dei connazionali».
Ambasciatore Romano, le notizie che giungono da Kiev sono sempre più drammatiche. Cosa ci può dire in proposito?
«La situazione nel momento in cui parliamo è estremamente preoccupante perché gli scontri proseguono alternando da ieri mattina (martedì per chi legge, ndr) momenti di maggiore intensità con altri meno devastanti. Per il momento, a Kiev gli scontri sono limitati ad un’area centrale che è quella che corrisponde all’area “occupata” dai manifestanti. Per settimane abbiamo assistito ad una sorta di guerra di trincea fra manifestanti e forze dell’ordine, a cui sono seguiti momenti, anche lunghi, di tregua. Ma da martedì la situazione è precipitata e tutti i segnali di queste ore non inducono certo all’ottimismo. Purtroppo i dati sono preoccupanti: il bilancio degli scontri fra dimostranti e forze dell’ordine cresce di ora in ora, i morti sono 25 i feriti oltre 400, e sono state rioccupate le amministrazioni di alcune regioni dell’ovest del Paese». C’è ancora uno spazio per evitare il peggio?
«La situazione è così fluida e confusa che, nel momento in cui parlo, non è facile capire quali siano gli spazi per la ripresa del processo politico di soluzione della crisi; un processo che si è interrotto bruscamente con gli scontri sanguinosi che sono iniziati martedì mattina. L’auspicio che accomuna gli osservatori internazionali è che si arrivi ad una cessazione assoluta degli scontri che sia subito seguita dalla ripresa del processo negoziale tra il governo e le opposizioni. Francamente non riesco a vedere nessuna alternativa alla ripresa del dialogo. Non è con la forza né scorciatoie militari che l’Ucraina può ritrovare la sua normalità».
Tra le voci che si alzano da piazza Maidan, cuore della rivolta contro il presidente Yanukovich, molte affermano che «stiamo combattendo, e morendo per l’Europa».
«A mio avviso, la composizione della piazza si è evoluta e modificata nel corso di questi mesi. “Piazza Maidan” è diventata un soggetto politico, ma un soggetto piuttosto eterogeneo. Condivido la lettura che di questa Piazza, della sua unicità in Europa, è stata data dai giornalisti italiani che hanno passato diversi giorni qui a Kiev, dopo gli scontri di gennaio. Articoli approfonditi che, al di là dei diversi orientamenti, coglievano tutti la profondità e l’articolazione di un movimento che sta segnando il presente e orientando il futuro dell’Ucraina».
L’Europa si sta orientando verso sanzioni mirate contro i responsabili di questa escalation di violenza, mentre la Russia grida ad un colpo di Stato messo in atto contro il «legittimo potere» del presidente Yanukovich. Signor Ambasciatore, c’è il rischio che in Ucraina si sviluppi uno scontro dalle conseguenze incalcolabili fra l’Europa e Mosca?
«È ciò che il governo italiano, in piena sintonia con quanto affermato dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Catherine Ashton. Quello che si vuole evitare è che l’Ucraina diventi un terreno di confronto tra l’Europa e la Federazione Russa, quasi che dovessimo ancora soggiacere a logiche di contrapposizione Est-Ovest che sembravano essere in gran parte superate. Non vanno lesinati sforzi per evitare il peggio. I leader europei sono consapevoli della gravità del momento e delle ricadute che una ulteriore escalation della violenza potrebbe determinare».
L’attenzione internazionale è rivolta a ciò che sta avvenendo a Piazza Maidan. Lei in precedenza ha fatto riferimento ad una piazza eterogenea e trasformata nel corso dei mesi. Le chiedo; qual è il tratto prevalente di questa piazza sul piano politico e identitario?
«Vede, in quella piazza io ci sono stato moltissime volte, anche nelle zone più problematiche e nei momenti più caldi. Del suo carattere eterogeneo abbiamo già parlato, quanto al tratto caratterizzante direi che è l’antagonismo nei confronti degli attuali vertici di potere. Le dimissioni del presidente Yanukovich e l’indizione di elezioni anticipate: questo è il minimo comun denominatore della piazza in rivolta».
Repubblica 20.2.14
La carne danese fa infuriare ebrei e musulmani
Copenaghen dice“ no” alla macellazione kosher e halal
In nome dei diritti degli animali
di Paolo G. Brera
È SENSIBILE ai diritti degli animali, la Danimarca: una settimana dopo avere scioccato il mondo con il giraffino Marius-ucciso e squartato davanti ai bambini nello zoo di Copenaghen perché ormai di lui non sapevano più che farsene-fa infuriare insieme musulmani e ebrei impedendo loro la macellazione rituale. «I diritti degli animali vengono prima di quelli religiosi», ha detto in televisione il ministro dell’Agricoltura e dell’alimentazione, Dan Jorgensen, provando a spiegare perché abbia imposto ai suoi concittadini delle altre due grandi religioni monoteiste regole vietate dai loro credo. Dovranno diventare vegetariani? Puro «antisemitismo», gli hanno risposto le autorità ebraiche all’unisono con “Danish Halal”, l’organizzazione islamica no-profit che denuncia la «chiara interferenza nella libertà di credo».
Il nuovo regolamento, annunciato la settimana scorsa e appeto entrato in vigore, naturalmente non vieta espressamente la macellazione rituale: impone che il bestiame venga stordito prima o appena dopo essere stazione sgozzato, pratiche non ammesse sia dal metodo kosher degli ebrei che da quello halal dei musulmani. Entrambi prevedono che gli animali siano coscienti, quando vengono abbattuti, in modo che la carcassa possa essere completamente dissanguata. È un sistema che ha insieme ragioni confessionali e sanitarie, ma si scontra con i metodi moderni occidentali che antepongono il benessere animale. Per questo, in quasi tutti i paesi europei le macellerie halal e kosher godono di un’eccezione alla regola in vigore nei macelli. In Italia, per esempio, la macellazione rituale «secondo i riti religiosi ebraico e islamico» è stata espressamente autorizzata da un decreto del 1980.
Tant’è, il viceministro israeliano ai Servizi religiosi, Rabbi Eli Ben Dahan, parlando al Jewish Daily Forward arriva a sostenere che «l’antisemitismo europeo sta mostrando la sua vera natura, e si sta intensificando persino nelle istituzioni governative». In effetti, la Danimarca si allinea di fatto alle regole già vigenti in Polonia, Islanda, Norvegia, Svezia e Svizzera; ma non lo fa certo di fronte a una reale emergenza: in tutto il paese non esiste nemmeno una macelleria kosher certificata, e i seimila ebrei che da sempre si fanno arrivare la carne dall’estero temono ora che la nuova legge apra la porta a limitazioni, improntate al benessere degli animali, anche nelle importazioni. Finn Schwartz, leader della comunità ebraica danese, frena però le polemiche: i rapporti con il governo sono normalmente «perfetti», spiega al Jerusalem Post, e «ne stiamo parlando insieme alle organizzazioni musulmane». In ogni caso, le certezze espresse dal ministro Jorgensen sono davvero una buona domanda: chi viene prima, tra il diritto degli animali e il rispetto del credo?
l’Unità 20.2.14
I giorni della Volante Rossa
Nell’estate del ’45 a Milano il fascismo rialzò la testa
Un capitolo dal libro «La guerra non era finita»:
si racconta la storia del gruppo di giovanissimi partigiani che sotto la guida del «tenente Alvaro» riprese le armi
di Francesco Trento
DOPO UNA PRIMA FASE DI “RODAGGIO”, FUNESTATA DA UNA LUNGA CATENA DIARRESTI, IL NEOFASCISMO ESCE ALLO SCOPERTO CON UNA SERIE DI ATTENTATI, che si infittiscono quanto più ci si avvicina al 2 giugno, data in cui gli italiani sono chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica. Nel mirino sono spesso esponenti di spicco del Pci: il 6 marzo Emilio Sereni sfugge a un agguato da parte di gruppi monarchici, e il 5 aprile è il turno di Giuseppe Di Vittorio, che scampa a un attentato qualunquista.
Per impedire il regolare svolgimento del referendum e la probabile sconfitta della monarchia, i fascisti mettono dunque in atto “una sorta di «strategia della tensione». Milano è uno dei punti nodali di tale strategia. L’11 aprile il mitico comandante «Visone», Giovanni Pesce, mette in guardia da possibili trappole, segnalando manifesti di «sedicenti partigiani» che invitano a riprendere le armi creando «situazioni incresciose, che andrebbero a discapito di tutto il popolo ». Ma le provocazioni sono molte: il 20 aprile, armati dall’esterno, detenuti fascisti guidano una rivolta nel carcere di San Vittore. Un commissario e alcuni secondini vengono tenuti in ostaggio. Forse in appoggio alla ribellione, un’auto in corsa esplode alcuni colpi d’arma da fuoco che feriscono due passanti: un ragazzo che sta giocando a pallone e una ragazza che aspetta il fidanzato. La rivolta si protrae per cinque giorni, con numerosi morti e feriti. L’esercito è costretto a intervenire con blindati ed esplosivo.
Nella notte tra il 22 e il 23 viene portata a termine la cosiddetta «Operazione Italia»: cinque aderenti al Partito democratico fascista, guidati dall’ex repubblichino Domenico Leccisi, trafugano la salma di Mussolini dal cimitero di Musocco. La sera del 23 è la Camera del Lavoro ad essere assaltata durante una riunione. Secondo Alberganti, testimone diretto dell’episodio, sono in tre a sparare dalle macerie attigue all’edificio, ferendo gravemente Stella Zuccoletti, membro del Comitato direttivo della Lega Portinai. Altri tre colpi vanno a vuoto. Alberganti, uscito prontamente dall’edificio, insegue gli attentatori che si danno alla fuga. Fatta ricoverare la donna, il dirigente del Pci telefona al prefetto, avvertendo che la Camera del Lavoro, nella notte, verrà difesa da 200 lavoratori. Stella Zuccoletti muore in ospedale il 26 aprile, dopo tre giorni di sofferenze33. L’indignazione e la rabbia sono incontenibili: l’Unità rintraccia un unico filo conduttore che lega il trafugamento dei resti di Mussolini, la rivolta di San Vittore e l’attentato alla Camera del Lavoro con la lotta politica condotta dai gruppi monarchici e neofascisti per impedire la consultazione popolare. Secondo il giornale del Pci, la colpa dell’attuale situazione è del questore di Milano, che non agisce con la dovuta energia nei confronti dei fascisti. Dello stesso parere sembra essere Alberganti.
Il giorno successivo all’attentato, si riunisce infatti la Commissione esecutiva della CdL, e il dirigente propone di organizzare la difesa del palazzo «con armi all’interno stesso della Camera del Lavoro, che gli operai possano usare al momento opportuno» . Viene inoltre richiesta al prefetto l’autorizzazione per la «costituzione di squadre di operai che siano pronte ad ogni chiamata per la difesa della città da attacchi fascisti »: una sorta, insomma, di «Volante operaia». L’attività degli estremisti neri non conosce soste. Il 10 maggio l’Unità dà notizia di un nuovo attentato: due giovanissimi ex partigiani, il giorno precedente, sono scampati per miracolo a un agguato a colpi di pistola e raffiche di mitra. Il giornale deplora l’atteggiamento della polizia che, chiamata per telefono, ha ritenuto «inutile mandar fuori gli agenti poiché certo non sarebbe stato più possibile agguantare i criminali». Intanto, Vittorio Emanuele III ha abdicato in favore del figlio Umberto II, rompendo in qualche modo la tregua istituzionale e tentando di dare nuove chance alla monarchia.
Mancano solo tre settimane al referendum, e la tensione sale: dalla metà del mese, gli attentati sono all’ordine del giorno. Il 17 maggio, dopo l’ennesima bomba fascista, la Squadra politica della Questura di Milano arresta i componenti del comitato esecutivo del Pdf (tra cui Ferruccio Mortari, di cui parleremo ancora). Alcuni giorni dopo, una retata della polizia, infiltratasi all’interno di squadre paramilitari raccolte dietro il partito chiamato Schieramento nazionale, riesce a mandare all’aria un piano antireferendum la cui attuazione era prevista per il 26 maggio. Dagli interrogatori dei circa quaranta arrestati emergono collusioni tra neofascismo e monarchia: il piano prevedeva una grande manifestazione a favore del re, per provocare le forze di sinistra. I neofascisti avrebbero in seguito aperto il fuoco su eventuali cortei di protesta, per riparare infine nelle caserme. Dove, secondo l’Unità «sarebbero stati equipaggiati e armati per poi uscire per le strade insieme alle forze regolari a tutela dell’ordine pubblico, da essi stessi sconvolto».
Era inoltre previsto un falso attacco a un giornale monarchico da parte di militanti travestiti da comunisti, muniti di «fazzoletti rossi, distintivi e magari tessere false da lasciar per strada» , e un assalto a una sezione del Pci. (...)
In un contesto come questo, segnato dai continui attentati fascisti, dai piani eversivi dei monarchici e dalla scarsa vigilanza da parte delle forze dell’ordine, è più che probabile che Alberganti e altri pensino di utilizzare la Volante Rossa in funzione difensiva (con ronde e guardie notturne per vigilare Case del Popolo e sedi di partito) e ancor più probabile che guardino ad essa con simpatia. Secondo Leonardo Banfi, infatti, è proprio nel 1946 che iniziano i primi contatti per un rapporto continuativo con la Federazione milanese del Pci. Contatti che grazie agli «ufficiali di collegamento» Lamprati e Vergani si faranno sempre più fitti.
La Stampa 20.2.14
L’altra faccia di Benjamin
folle per il gioco e le donne
In America una biografia scritta dai curatori delle sue opere svela un profilo dalle molte ombre
di Mario Baudino
Walter Benjamin nacque a Berlino nel 1892 da una famiglia ebrea
Il suo angelo della storia continua a contemplare rovine, a influenzare filosofi contemporanei, a costruire il mito di un pensatore spesso più citato che letto, in molti casi santificato. Walter Benjamin è uno dei maestri del Novecento, avvolto dall’aura (aura, insieme a choc, è una delle sue parole chiave) di un mito non certo incontrastato ma per molti versi irresistibile. La morte da intellettuale ebreo in fuga dai nazisti che vede svanire tutte le speranze quando gli spagnoli, nel ’40, lo fermano alla frontiera con la Francia, e si suicida senza poter immaginare che il mattino dopo sarebbe stato rilasciato e accolto come avvenne per tutti i suoi compagni, morte tragica e beffarda, non fa che aggiungere rilevanza anche simbolica al suo nome.
Benjamin ha agito profondamente nel tempo, fino a oggi; è stato certamente un martire, che ha sacrificato tutto alla sua opera, e infine la vita. Ma nello stesso tempo, come accade talvolta alle persone di genio, scontava e rappresentava qualcos’altro, concretamente, nell’esistenza quotidiana. Il Benjamin privato era un uomo devastato e terribile, inaffidabile, persino crudele. Il successo postumo ha spinto questa doppia personalità ai margini estremi della grande luce accesa nel tempo su di lui. Ora due studiosi americani, Howard Eiland e Michael W. Jennings (curatori e traduttori delle sue opere in inglese), l’hanno rimessa a fuoco, assieme a molto altro beninteso, in una biografia uscita per la Harvard University Press: Walter Benjamin: a Critical Life.
Scrivere dell’«uomo invisibile», come lo definì Gershom Scholem, il grande studioso di mistica ebraica che gli fu amico e qualche volta protettore, non è un’impresa facile. I due autori non puntano però al Benjamin segreto, e tanto meno vogliono distruggerlo attraverso i fatti della vita. Al contrario, la loro ammirazione per il filosofo è indiscussa. Semplicemente mettono insieme in una nuova cornice un puzzle di frammenti in parte noti, e soprattutto non nascondono nulla. Il risultato è quello di un ritratto per molti aspetti nuovo, persino sconcertante: quello di un narcisista assoluto, e passi; ma anche un giocatore, compulsivo, schiavo del tavolo verde – non solo teorico del gioco –, uno che nella vita quotidiana barava spesso, un padre come si dice nei romanzi piuttosto snaturato, un compagno inaffidabile.
Molto del materiale viene dalle lettere che Dora Kellner, la prima moglie (sposata nel 1917) scrive proprio a Scholem, a partire da una tumultuosa separazione, e per diversi anni. Nel ’18 era nato il figlio Stefan, quando la coppia viveva a Berna, nel ’24 il matrimonio entrò in crisi durante un lungo soggiorno a Capri, quando il filosofo conobbe Asja Lacis, rivoluzionaria lettone, che lo indusse ad avvicinarsi al marxismo. Se ne innamorò, e fin qui, si direbbe, tutto suona abbastanza normale. Esplode però un groviglio di sentimenti, egoismi, debolezze; una sorta di devastazione psichica. Il Benjamin che emerge dalla lettere di Dora non è lo studioso gentile, indifeso, ferito, che la memoria ha tramandato fino a noi. Sa mentire, e soprattutto sa essere spietato. In una lettera del ’29 la moglie lo descrive come «tutto cervello e sesso – il resto ha smesso di funzionare» .
Spuntano, come in ogni affare di famiglia, sordidi problemi di denaro. «Non ha mai messo un soldo da parte per Stefan o per me; e ora mi chiede di prestargli metà della mia futura eredità, quella che mi verrà da mia zia». Forse Dora, ferita, esacerbata, esagera. Forse il suo livore è eccessivo. Ma ha tenuto i conti, e li presenta con una certa determinazione. «Quest’inverno ha vissuto con me quattro mesi, mi è costato un sacco e non ha mai messo, di suo, un soldo. Mentre spendeva e spandeva con Asja». È solo insofferenza di un ménage a tre considerato inaccettabile da una almeno delle parti in causa? «Negli ultimi otto anni ci siamo restituiti, di comune accordo, la nostra libertà. Mi diceva tutto dei suoi loschi affari, e anzi mi invitata a “trovarmi un amico”. Negli ultimi sei abbiamo vissuto separati. E ora mi accusa!».
In quel momento, il filosofo era alla disperata ricerca di denaro, e non andava per il sottile. Perso il sostegno economico della ricca famiglia berlinese da cui proveniva, chiedeva prestiti un po’ a tutti. I due biografi ritengono che uno dei motivi fossero pesanti debiti di gioco: i suoi averi, salvo una piccola parte impiegata nell’acquisto di libri rari, finivano inevitabilmente sui tavoli verdi. Dora forse esagera. Né ha pietà per il marito dal punto di vista intellettuale. Lo considera una sorta di truffatore, per esempio nel rapporto col sionismo, caro a Scholem. Benjamin lo sostiene, sì, ma solo quando gli fa comodo, visto che per lui «la patria è il posto dove uno può spendere i propri soldi». Il filosofo se ne vergogna invece, col grande amico Franz Hessel e, secondo la moglie, perfino «con le ragazzine che Hessel gli presenta durante le pause dell’amore con Asja». Hessel, com’è noto, insieme con la moglie Helen Grund ha ispirato il romanzo autobiografico di Henri-Pierre Roché da cui Truffaut ha tratto il film Jules et Jim. La storia di un celebre triangolo amoroso. Ma in quel caso, almeno, di un triangolo felice.
Il suo angelo della storia continua a contemplare rovine, a influenzare filosofi contemporanei, a costruire il mito di un pensatore spesso più citato che letto, in molti casi santificato. Walter Benjamin è uno dei maestri del Novecento, avvolto dall’aura (aura, insieme a choc, è una delle sue parole chiave) di un mito non certo incontrastato ma per molti versi irresistibile. La morte da intellettuale ebreo in fuga dai nazisti che vede svanire tutte le speranze quando gli spagnoli, nel ’40, lo fermano alla frontiera con la Francia, e si suicida senza poter immaginare che il mattino dopo sarebbe stato rilasciato e accolto come avvenne per tutti i suoi compagni, morte tragica e beffarda, non fa che aggiungere rilevanza anche simbolica al suo nome.
Benjamin ha agito profondamente nel tempo, fino a oggi; è stato certamente un martire, che ha sacrificato tutto alla sua opera, e infine la vita. Ma nello stesso tempo, come accade talvolta alle persone di genio, scontava e rappresentava qualcos’altro, concretamente, nell’esistenza quotidiana. Il Benjamin privato era un uomo devastato e terribile, inaffidabile, persino crudele. Il successo postumo ha spinto questa doppia personalità ai margini estremi della grande luce accesa nel tempo su di lui. Ora due studiosi americani, Howard Eiland e Michael W. Jennings (curatori e traduttori delle sue opere in inglese), l’hanno rimessa a fuoco, assieme a molto altro beninteso, in una biografia uscita per la Harvard University Press: Walter Benjamin: a Critical Life.
Scrivere dell’«uomo invisibile», come lo definì Gershom Scholem, il grande studioso di mistica ebraica che gli fu amico e qualche volta protettore, non è un’impresa facile. I due autori non puntano però al Benjamin segreto, e tanto meno vogliono distruggerlo attraverso i fatti della vita. Al contrario, la loro ammirazione per il filosofo è indiscussa. Semplicemente mettono insieme in una nuova cornice un puzzle di frammenti in parte noti, e soprattutto non nascondono nulla. Il risultato è quello di un ritratto per molti aspetti nuovo, persino sconcertante: quello di un narcisista assoluto, e passi; ma anche un giocatore, compulsivo, schiavo del tavolo verde – non solo teorico del gioco –, uno che nella vita quotidiana barava spesso, un padre come si dice nei romanzi piuttosto snaturato, un compagno inaffidabile.
Molto del materiale viene dalle lettere che Dora Kellner, la prima moglie (sposata nel 1917) scrive proprio a Scholem, a partire da una tumultuosa separazione, e per diversi anni. Nel ’18 era nato il figlio Stefan, quando la coppia viveva a Berna, nel ’24 il matrimonio entrò in crisi durante un lungo soggiorno a Capri, quando il filosofo conobbe Asja Lacis, rivoluzionaria lettone, che lo indusse ad avvicinarsi al marxismo. Se ne innamorò, e fin qui, si direbbe, tutto suona abbastanza normale. Esplode però un groviglio di sentimenti, egoismi, debolezze; una sorta di devastazione psichica. Il Benjamin che emerge dalla lettere di Dora non è lo studioso gentile, indifeso, ferito, che la memoria ha tramandato fino a noi. Sa mentire, e soprattutto sa essere spietato. In una lettera del ’29 la moglie lo descrive come «tutto cervello e sesso – il resto ha smesso di funzionare» .
Spuntano, come in ogni affare di famiglia, sordidi problemi di denaro. «Non ha mai messo un soldo da parte per Stefan o per me; e ora mi chiede di prestargli metà della mia futura eredità, quella che mi verrà da mia zia». Forse Dora, ferita, esacerbata, esagera. Forse il suo livore è eccessivo. Ma ha tenuto i conti, e li presenta con una certa determinazione. «Quest’inverno ha vissuto con me quattro mesi, mi è costato un sacco e non ha mai messo, di suo, un soldo. Mentre spendeva e spandeva con Asja». È solo insofferenza di un ménage a tre considerato inaccettabile da una almeno delle parti in causa? «Negli ultimi otto anni ci siamo restituiti, di comune accordo, la nostra libertà. Mi diceva tutto dei suoi loschi affari, e anzi mi invitata a “trovarmi un amico”. Negli ultimi sei abbiamo vissuto separati. E ora mi accusa!».
In quel momento, il filosofo era alla disperata ricerca di denaro, e non andava per il sottile. Perso il sostegno economico della ricca famiglia berlinese da cui proveniva, chiedeva prestiti un po’ a tutti. I due biografi ritengono che uno dei motivi fossero pesanti debiti di gioco: i suoi averi, salvo una piccola parte impiegata nell’acquisto di libri rari, finivano inevitabilmente sui tavoli verdi. Dora forse esagera. Né ha pietà per il marito dal punto di vista intellettuale. Lo considera una sorta di truffatore, per esempio nel rapporto col sionismo, caro a Scholem. Benjamin lo sostiene, sì, ma solo quando gli fa comodo, visto che per lui «la patria è il posto dove uno può spendere i propri soldi». Il filosofo se ne vergogna invece, col grande amico Franz Hessel e, secondo la moglie, perfino «con le ragazzine che Hessel gli presenta durante le pause dell’amore con Asja». Hessel, com’è noto, insieme con la moglie Helen Grund ha ispirato il romanzo autobiografico di Henri-Pierre Roché da cui Truffaut ha tratto il film Jules et Jim. La storia di un celebre triangolo amoroso. Ma in quel caso, almeno, di un triangolo felice.
Il suo angelo della storia continua a contemplare rovine, a influenzare filosofi contemporanei, a costruire il mito di un pensatore spesso più citato che letto, in molti casi santificato. Walter Benjamin è uno dei maestri del Novecento, avvolto dall’aura (aura, insieme a choc, è una delle sue parole chiave) di un mito non certo incontrastato ma per molti versi irresistibile. La morte da intellettuale ebreo in fuga dai nazisti che vede svanire tutte le speranze quando gli spagnoli, nel ’40, lo fermano alla frontiera con la Francia, e si suicida senza poter immaginare che il mattino dopo sarebbe stato rilasciato e accolto come avvenne per tutti i suoi compagni, morte tragica e beffarda, non fa che aggiungere rilevanza anche simbolica al suo nome.
Benjamin ha agito profondamente nel tempo, fino a oggi; è stato certamente un martire, che ha sacrificato tutto alla sua opera, e infine la vita. Ma nello stesso tempo, come accade talvolta alle persone di genio, scontava e rappresentava qualcos’altro, concretamente, nell’esistenza quotidiana. Il Benjamin privato era un uomo devastato e terribile, inaffidabile, persino crudele. Il successo postumo ha spinto questa doppia personalità ai margini estremi della grande luce accesa nel tempo su di lui. Ora due studiosi americani, Howard Eiland e Michael W. Jennings (curatori e traduttori delle sue opere in inglese), l’hanno rimessa a fuoco, assieme a molto altro beninteso, in una biografia uscita per la Harvard University Press: Walter Benjamin: a Critical Life.
Scrivere dell’«uomo invisibile», come lo definì Gershom Scholem, il grande studioso di mistica ebraica che gli fu amico e qualche volta protettore, non è un’impresa facile. I due autori non puntano però al Benjamin segreto, e tanto meno vogliono distruggerlo attraverso i fatti della vita. Al contrario, la loro ammirazione per il filosofo è indiscussa. Semplicemente mettono insieme in una nuova cornice un puzzle di frammenti in parte noti, e soprattutto non nascondono nulla. Il risultato è quello di un ritratto per molti aspetti nuovo, persino sconcertante: quello di un narcisista assoluto, e passi; ma anche un giocatore, compulsivo, schiavo del tavolo verde – non solo teorico del gioco –, uno che nella vita quotidiana barava spesso, un padre come si dice nei romanzi piuttosto snaturato, un compagno inaffidabile.
Molto del materiale viene dalle lettere che Dora Kellner, la prima moglie (sposata nel 1917) scrive proprio a Scholem, a partire da una tumultuosa separazione, e per diversi anni. Nel ’18 era nato il figlio Stefan, quando la coppia viveva a Berna, nel ’24 il matrimonio entrò in crisi durante un lungo soggiorno a Capri, quando il filosofo conobbe Asja Lacis, rivoluzionaria lettone, che lo indusse ad avvicinarsi al marxismo. Se ne innamorò, e fin qui, si direbbe, tutto suona abbastanza normale. Esplode però un groviglio di sentimenti, egoismi, debolezze; una sorta di devastazione psichica. Il Benjamin che emerge dalla lettere di Dora non è lo studioso gentile, indifeso, ferito, che la memoria ha tramandato fino a noi. Sa mentire, e soprattutto sa essere spietato. In una lettera del ’29 la moglie lo descrive come «tutto cervello e sesso – il resto ha smesso di funzionare» .
Spuntano, come in ogni affare di famiglia, sordidi problemi di denaro. «Non ha mai messo un soldo da parte per Stefan o per me; e ora mi chiede di prestargli metà della mia futura eredità, quella che mi verrà da mia zia». Forse Dora, ferita, esacerbata, esagera. Forse il suo livore è eccessivo. Ma ha tenuto i conti, e li presenta con una certa determinazione. «Quest’inverno ha vissuto con me quattro mesi, mi è costato un sacco e non ha mai messo, di suo, un soldo. Mentre spendeva e spandeva con Asja». È solo insofferenza di un ménage a tre considerato inaccettabile da una almeno delle parti in causa? «Negli ultimi otto anni ci siamo restituiti, di comune accordo, la nostra libertà. Mi diceva tutto dei suoi loschi affari, e anzi mi invitata a “trovarmi un amico”. Negli ultimi sei abbiamo vissuto separati. E ora mi accusa!».
In quel momento, il filosofo era alla disperata ricerca di denaro, e non andava per il sottile. Perso il sostegno economico della ricca famiglia berlinese da cui proveniva, chiedeva prestiti un po’ a tutti. I due biografi ritengono che uno dei motivi fossero pesanti debiti di gioco: i suoi averi, salvo una piccola parte impiegata nell’acquisto di libri rari, finivano inevitabilmente sui tavoli verdi. Dora forse esagera. Né ha pietà per il marito dal punto di vista intellettuale. Lo considera una sorta di truffatore, per esempio nel rapporto col sionismo, caro a Scholem. Benjamin lo sostiene, sì, ma solo quando gli fa comodo, visto che per lui «la patria è il posto dove uno può spendere i propri soldi». Il filosofo se ne vergogna invece, col grande amico Franz Hessel e, secondo la moglie, perfino «con le ragazzine che Hessel gli presenta durante le pause dell’amore con Asja». Hessel, com’è noto, insieme con la moglie Helen Grund ha ispirato il romanzo autobiografico di Henri-Pierre Roché da cui Truffaut ha tratto il film Jules et Jim. La storia di un celebre triangolo amoroso. Ma in quel caso, almeno, di un triangolo felice.
Il suo angelo della storia continua a contemplare rovine, a influenzare filosofi contemporanei, a costruire il mito di un pensatore spesso più citato che letto, in molti casi santificato. Walter Benjamin è uno dei maestri del Novecento, avvolto dall’aura (aura, insieme a choc, è una delle sue parole chiave) di un mito non certo incontrastato ma per molti versi irresistibile. La morte da intellettuale ebreo in fuga dai nazisti che vede svanire tutte le speranze quando gli spagnoli, nel ’40, lo fermano alla frontiera con la Francia, e si suicida senza poter immaginare che il mattino dopo sarebbe stato rilasciato e accolto come avvenne per tutti i suoi compagni, morte tragica e beffarda, non fa che aggiungere rilevanza anche simbolica al suo nome.
Benjamin ha agito profondamente nel tempo, fino a oggi; è stato certamente un martire, che ha sacrificato tutto alla sua opera, e infine la vita. Ma nello stesso tempo, come accade talvolta alle persone di genio, scontava e rappresentava qualcos’altro, concretamente, nell’esistenza quotidiana. Il Benjamin privato era un uomo devastato e terribile, inaffidabile, persino crudele. Il successo postumo ha spinto questa doppia personalità ai margini estremi della grande luce accesa nel tempo su di lui. Ora due studiosi americani, Howard Eiland e Michael W. Jennings (curatori e traduttori delle sue opere in inglese), l’hanno rimessa a fuoco, assieme a molto altro beninteso, in una biografia uscita per la Harvard University Press: Walter Benjamin: a Critical Life.
Scrivere dell’«uomo invisibile», come lo definì Gershom Scholem, il grande studioso di mistica ebraica che gli fu amico e qualche volta protettore, non è un’impresa facile. I due autori non puntano però al Benjamin segreto, e tanto meno vogliono distruggerlo attraverso i fatti della vita. Al contrario, la loro ammirazione per il filosofo è indiscussa. Semplicemente mettono insieme in una nuova cornice un puzzle di frammenti in parte noti, e soprattutto non nascondono nulla. Il risultato è quello di un ritratto per molti aspetti nuovo, persino sconcertante: quello di un narcisista assoluto, e passi; ma anche un giocatore, compulsivo, schiavo del tavolo verde – non solo teorico del gioco –, uno che nella vita quotidiana barava spesso, un padre come si dice nei romanzi piuttosto snaturato, un compagno inaffidabile.
Molto del materiale viene dalle lettere che Dora Kellner, la prima moglie (sposata nel 1917) scrive proprio a Scholem, a partire da una tumultuosa separazione, e per diversi anni. Nel ’18 era nato il figlio Stefan, quando la coppia viveva a Berna, nel ’24 il matrimonio entrò in crisi durante un lungo soggiorno a Capri, quando il filosofo conobbe Asja Lacis, rivoluzionaria lettone, che lo indusse ad avvicinarsi al marxismo. Se ne innamorò, e fin qui, si direbbe, tutto suona abbastanza normale. Esplode però un groviglio di sentimenti, egoismi, debolezze; una sorta di devastazione psichica. Il Benjamin che emerge dalla lettere di Dora non è lo studioso gentile, indifeso, ferito, che la memoria ha tramandato fino a noi. Sa mentire, e soprattutto sa essere spietato. In una lettera del ’29 la moglie lo descrive come «tutto cervello e sesso – il resto ha smesso di funzionare» .
Spuntano, come in ogni affare di famiglia, sordidi problemi di denaro. «Non ha mai messo un soldo da parte per Stefan o per me; e ora mi chiede di prestargli metà della mia futura eredità, quella che mi verrà da mia zia». Forse Dora, ferita, esacerbata, esagera. Forse il suo livore è eccessivo. Ma ha tenuto i conti, e li presenta con una certa determinazione. «Quest’inverno ha vissuto con me quattro mesi, mi è costato un sacco e non ha mai messo, di suo, un soldo. Mentre spendeva e spandeva con Asja». È solo insofferenza di un ménage a tre considerato inaccettabile da una almeno delle parti in causa? «Negli ultimi otto anni ci siamo restituiti, di comune accordo, la nostra libertà. Mi diceva tutto dei suoi loschi affari, e anzi mi invitata a “trovarmi un amico”. Negli ultimi sei abbiamo vissuto separati. E ora mi accusa!».
In quel momento, il filosofo era alla disperata ricerca di denaro, e non andava per il sottile. Perso il sostegno economico della ricca famiglia berlinese da cui proveniva, chiedeva prestiti un po’ a tutti. I due biografi ritengono che uno dei motivi fossero pesanti debiti di gioco: i suoi averi, salvo una piccola parte impiegata nell’acquisto di libri rari, finivano inevitabilmente sui tavoli verdi. Dora forse esagera. Né ha pietà per il marito dal punto di vista intellettuale. Lo considera una sorta di truffatore, per esempio nel rapporto col sionismo, caro a Scholem. Benjamin lo sostiene, sì, ma solo quando gli fa comodo, visto che per lui «la patria è il posto dove uno può spendere i propri soldi». Il filosofo se ne vergogna invece, col grande amico Franz Hessel e, secondo la moglie, perfino «con le ragazzine che Hessel gli presenta durante le pause dell’amore con Asja». Hessel, com’è noto, insieme con la moglie Helen Grund ha ispirato il romanzo autobiografico di Henri-Pierre Roché da cui Truffaut ha tratto il film Jules et Jim. La storia di un celebre triangolo amoroso. Ma in quel caso, almeno, di un triangolo felice.
Corriere 20.2.14
Chiesa e razzismo negli anni più bui
di Francesco Margiotta Broglio
Il convegno che si apre oggi in Vaticano, sul tema dell’atteggiamento assunto dalla Santa Sede verso il razzismo nel periodo tra le due guerre mondiali, ha lo scopo di verificare la «partecipazione della Curia al dibattito razziale» negli anni Venti e Trenta, in riferimento sia alla realizzazione di quelle teorie, sia al ruolo di primo pianto assunto dall’eugenetica quasi ovunque, con posizioni antitetiche ai presupposti cristiani che tuttavia non impedirono ad alcuni «pontieri ecclesiastici» di impegnarsi in tal senso e di «promuovere, addirittura, una sterilizzazione obbligatoria per le vite inferiori». Particolare attenzione verrà riservata alle acquisizioni più recenti sulle divergenze tra Roma e le istituzioni «razziste» e sulle presenze di «persone orbitanti intorno alla Curia relativamente alle teorie e alle leggi razziali».
Al di là del molto discusso atteggiamento del papato di fronte all’antisemitismo e alla Shoah, al centro del dibattito si collocano il razzismo cattolico, lo studio delle razze, l’eugenetica cattolica (con riferimento in primo luogo alla Casti connubii di Pio XI del 1930), l’atteggiamento dei protestanti tedeschi di fronte al nazismo, il confronto di posizioni nella Curia romana sulle ideologie razziste.
In quest’ultimo contesto ci si interrogherà sui gesuiti, su padre Gemelli, sulla problematica razziale vista dal Sant’Uffizio, sul difficile rapporto tra Eugenio Pacelli e il filonazista monsignor Hudal, rettore del Collegio dell’Anima in Roma. Si concluderà su temi molto studiati: Pio XI e la Curia di fronte all’antisemitismo fascista, il siamo «spiritualmente semiti» di papa Ratti, la sua enciclica Mit brennender Sorge e quella cosiddetta «nascosta» da Pacelli.
L’incontro si chiuderà con una tavola rotonda sulle prospettive della futura ricerca, cui parteciperanno anche gli italiani Massimiliano Valente e Paolo Valvo, autore, quest’ultimo, di un rilevante volume, in corso di stampa, sulla Santa Sede e la rivoluzione messicana.
Proprio il Messico, insieme alla Russia e alla Spagna (il «triangolo dolente»), fu oggetto del primo incontro che Mussolini ebbe con Pio XI dopo la Conciliazione, l’11 febbraio 1932. Un colloquio del quale il Duce fece un dettagliato resoconto al re, pubblicato nel 1968 da Angelo Corsetti, sul quale ora torna Giorgio Fabre nel saggio Pio XI e gli ebrei, 1932-33 , che sta per uscire nei «Quaderni di Storia» diretti da Luciano Canfora, grazie ad una larga messe di eloquenti documenti inediti tratti dai principali archivi italiani e vaticani e dalle carte di padre Tacchi Venturi — a lungo tramite tra Mussolini e papa Ratti — conservate dalla Compagnia di Gesù.
Si tratta di un momento meno studiato dei successivi, ma essenziale per leggere la fase 1937-40 e comprendere la «via di mezzo» che il cattolicesimo adottò verso l’ebraismo negli anni Venti. Fabre ricorda lo scioglimento nel 1928 della associazione cattolica «Amici d’Israele» da parte del Sant’Uffizio, il quale però condannava «l’antisemitismo persecutorio», mentre «La Civiltà Cattolica» coglieva l’occasione per sviluppare la «teoria del complotto ebraico e della responsabilità ebraica nella rivoluzione russa»: una teoria che riaffiorerà nell’incontro di Pio XI con il Duce.
Nel 1930, del resto, Pio XI, che era stato nunzio in Polonia, disse a Pacelli: «Varsavia è ora un covo di ebrei e di massoni». Anche sui protestanti italiani, «favoriti» dalla legge sui culti ammessi del 1929, il Papa non esitò ad esprimere nel colloquio con Mussolini vivissime recriminazioni, preoccupato per le dichiarazioni del Duce alla «Jewish Agency» del luglio 1929 (in Italia «tutte le Chiese godono degli stessi diritti»). Certo nel 1933 così Pacelli, segretario di Stato, annoterà la «mente» del Papa che voleva richiamare l’attenzione del nunzio a Berlino sui primi eccessi antisemiti tedeschi: «Può venire il giorno in cui si potrà dire che è stata fatta qualche cosa. È cosa che sta nella buona tradizione della S. Sede».
Il relatore della causa di beatificazione di Pio XII, il gesuita padre Gumpel, nella prefazione al volume di Michael Hesemann Pio XII. Il Papa che si oppose a Hitler (Paoline, 2009), ha scritto che le bugie di alcuni storici «hanno le gambe corte». Altri storici, però, e spesso di… curia, le hanno così lunghe da riuscire a fuggire lontano dalla documentazione eloquente, come quella selezionata da Fabre, che ormai anche gli archivi «segreti» del Vaticano mettono a disposizione di tutti.
Corriere 20.2.14
I cattolici di fronte al mito ariano
Un convegno di studi a Roma
S’intitola «Vaticano e razzismo nel periodo tra le due guerre mondiali» il convegno internazionale di studi che si apre oggi a Roma, presso la sede del Camposanto Teutonico in Vaticano, promosso dalla veneranda Associazione Görres e dall’Università di Potsdam. L’incontro, che prosegue fino a sabato 22 febbraio, è coordinato dai professori Thomas Brechenmacher e Peter Rohrbacher. La discussione affronterà non solo il tema dell’atteggiamento tenuto dalla Santa Sede verso l’antisemitismo nazista e fascista, ma più in generale la questione della posizione assunta dalla Chiesa cattolica di fronte alle dottrine eugenetiche e alle ideologie razziste, assai diffuse in quel periodo storico.
Corriere 20.2.14
E John Kennedy scrisse dall’Europa: «Bene il fascismo, giusto il nazismo»
C’era una volta l’America che andava pazza per Mussolini e il fascismo. Ci fu a lungo, anzi, anche apertamente, fino a poco prima che i soldati Usa cominciassero a sbarcare (e morire) sulle spiagge da questa parte dell’Atlantico.
La storia del rapporto proibito fra la prima dittatura totalitaria di destra nel «secolo breve» europeo e la «più grande democrazia d’Occidente» viene sviscerata in un saggio di Ennio Caretto pubblicato dagli Editori Internazionali Riuniti col titolo Quando l’America s’innamorò di Mussolini(pp. 350, e 22) . Emerge un quadro sconcertante, ricco di aspetti di colore ma anche di legami e sinergie profonde. I primi spaziano dalla giovanile infatuazione per Duce e Führer di John Fitzgerald Kennedy, registrata nei suoi diari durante un viaggio europeo nel 1937 («Sono giunto alla conclusione che il fascismo sia giusto per l’Italia così come il nazionalsocialismo sia giusto per la Germania…») agli adulatori exploit canori di Cole Porter («Tu sei il massimo, tu sei Mussolini», dichiara in una canzone del 1934) o quelli cinematografici della Columbia Pictures che, l’anno precedente, produsse un film a dir poco agiografico, Mussolini parla , accolto da incassi record nelle sale americane.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, viene ricostruita la lunga consuetudine di Mussolini con gli Stati Uniti (battezzata nel 1903 da un suo articolo su «Il Proletario», periodico socialista dell’emigrazione: ma il segno politico cambierà inesorabilmente), rapporto che si giova di notevoli inclinazioni destrorse negli ambienti politici, industriali e finanziari americani, coi numerosi aiuti ricevuti dal Duce nel corso del tempo. Da quelli, involontari, del presidente Wilson che, dopo la fine della Prima guerra mondiale, rifiuta il patto di Londra, negando parte delle rivendicazioni territoriali all’Italia e alimentando il mito della «vittoria mutilata», a quelli pienamente consapevoli come il placet dell’ambasciatore Richard Child che incontra Mussolini alla vigilia della marcia su Roma, oppure il prestito di 100 milioni di dollari accordato all’Italia, nel 1925, dalla banca J.P. Morgan a condizioni particolarmente vantaggiose.
«La maggioranza dell’America degli anni Venti e della prima metà degli anni Trenta s’innamorò di Mussolini perché ravvisò nel fascismo principi e obiettivi politici che essa allora condivideva», nota Caretto. Non pochi storici, del resto, hanno individuato forti analogie fra il New Deal roosveltiano e le politiche stataliste delle dittature europee.
Trascurando un po’ la pagina più nota nei rapporti fra Stati Uniti e Italia fascista (quella della trasvolata atlantica di Italo Balbo), il saggio tocca anche i punti più critici, come la campagna per la creazione di Fasci di combattimento fra gli italoamericani. Un progetto dapprima sposato con entusiasmo da Mussolini (a organizzare quello di San Francisco fu inviato, sotto incarico diplomatico, quello che Indro Montanelli chiamava «l’amico italiano di Hitler», ovvero Giuseppe Renzetti, complessa figura di collegamento fra i due regimi), poi abbandonato per non urtare le suscettibilità americane. Per finire con la decisione di entrare in guerra a fianco della Germania hitleriana, un passo che gli americani avevano sperato fino all’ultimo di esorcizzare: «Mussolini sprecò in un’impresa suicida il patrimonio accumulato negli Usa in quindici anni».
Oltreché sconcertante, il quadro non è di ottimo auspicio in proiezione futura, perché il saggio si dilata a prima e, soprattutto, a dopo il ventennio mussoliniano, sottolineando le analogie a cavallo di un secolo: «C’è qualcosa di mussoliniano nei banchieri di Wall Street che si proclamano master of the universe », nota Caretto preoccupato dall’eventuale indifferenza statunitense davanti a un’Italia che scivolasse verso un regime autoritario, di destra o di sinistra, «in nome della stabilità sociale e della crescita economica».
Repubblica 20.2.14
Da Gengis Khan a Marco Polo, conquistatori, commercianti e migratori hanno rimescolato il nostro patrimonio Lo rivela uno studio dell’Università di Oxford e dello Ucl di Londra su 95 popoli differenti diffuso da “Science”
Il Dna scritto dalla Storia così guerre e invasioni hanno segnato i nostri geni
di Enrico Franceschini
LONDRA. Siamo tutti figli di Gengis Khan. O di Marco Polo. O dei califfi d’Arabia. Insomma per dirla in modo politicamente scorretto ma chiaro: siamo tutti almeno un po’ bastardi. Una brutta notizia per chi vorrebbe (ancora!) difendere la propria razza e chiudere le frontiere agli immigrati che ne minaccerebbero la purezza. Una buona notizia per chi pensa che la globalizzazione non sia solo un rimescolamento di merci, ma pure di uomini (e donne), e duri da un bel pezzo. Che i grandi imperi e i grandi commerci del passato avessero contribuito a mischiare (in camera da letto) i popoli, era cosa nota agli storici e a chi ha occhi per vedere. Adesso giunge un’autorevole conferma scientifica: uno studio dell’Università di Oxford e dello University College London (Ucl) sulla composizione genetica di 95 popolazioni differenti. Da cui risulta in modo inoppugnabile l’impatto dell’orda d’oro di Genghis Khan, del colonialismo europeo, dei commerci lungo la via della Seta e di quelli di schiavi condotti dai califfi arabi, sul Dna delle genti odierne da un capo all’altro della terra.
La ricerca rivela dimostrazioni concrete che il codice genetico dell’esercito del grande condottiero mongolo, il cui impero nel 13esimo secolo si stendeva dall’Europa alle steppe asiatiche, è oggi riscontrabile in almeno sette popoli in varie regioni del nostro pianeta, dagli Hazara del Pakistan agli Uiguri della Cina, dagli uzbeki ai turchi. Ma usando nuove tecniche che gli autori hanno ribattezzato “metodo globetrotter”, il rapporto non si limita a stabilire chi ha lasciato tracce nel Dna di chi: è anche in grado di precisare in che periodo è avvenuto il passaggio e in quale percentuale ha pesato sulla composizione genetica. Per esempio, nel caso di Gengis Khan e dei suoi guerrieri, ci sono prove che il Dna dei mongoli è entrato in quello degli Hazara pachistani nel 1306, cento anni dopo che il Khan fu proclamato imperatore dei mongoli, ed è ancora oggi l’elemento preponderante. Gli Uiguri cinesi hanno una proporzione del 50 per cento di sangue mongolo nelle vene; gli abitanti dell’ex-repubblica sovietica dell’Uzbekistan del 39 per cento; i turchi dell’8 per cento. Più ci si allontana dal cuore dell’impero mongolo, dunque (e ragionevolmente), più diminuisce l’influenza genetica.
Discorso analogo si può fare per le tracce lasciate nei Tu della Cina, attorno all’anno 1200, da europei simili ai moderni greci o altri popoli mediterranei: il lascito che Marco Polo e i suoi seguaci lungo la via della Seta diedero alle regioni (o meglio alle donne) che incontrarono lungo il loro cammino. E lo stesso si può dire per l’espansione del colonialismo occidentale nei paesi in via di sviluppo, o per quella del califfato arabo in Europa. In base alle stime dei ricercatori di Oxford e della Ucl, ci sono perfino 6 milioni di Maya che vivono oggi in America Latina, in Europa, in Russia, finanche nel lontano Giappone. Grazie a una mappa interattiva, il rapporto (pubblicato dalla rivista Science e anticipato dal quotidiano Independent di Londra) permette così per la prima volta di identificare, datare e caratterizzare il cocktail genetico tra le popolazioni del mondo.
«Tutti i popoli della nostra indagine mostrano influenze straniere nel proprio Dna, è la caratteristica più comune come risultato di conquiste e migrazioni. Si può dire che il Dna è stato scritto dalla storia», osserva il professor Garrett Hellenthal, docente di genetica della Ucl e uno degli autori dello studio. Siamo, insomma, tutti figli di Genghis Khan e Marco Polo. A conferma della vecchia massima di Albert Einstein, che all’ingresso negli Usa, fuggendo dalle persecuzioni naziste contro gli ebrei, richiesto da un solerte funzionario americano di specificare su un questionario a quale razza appartenesse, si limitò a scrivere: «Razza umana».
Repubblica 20.2.14
La filosofia di Eco
Lo scrittore e semiologo ha curato un libro per le scuole con Riccardo Fedriga
“Sognavo un testo che agganciasse la storia delle idee al resto della cultura”
La filosofia di Eco
“Il pensiero è un manuale senza confini”
intervista di Antonio Gnoli
«Certamente e, oltre al fatto che è disponibile anche in forma digitale, contiene numerosi richiami a una informazione additiva che lo studente potrebbe trovare online. Il manuale vorrebbe essere un buon esempio di collaborazione tra cartaceo e digitale. Non è vero che, come diceva il personaggio di Hugo, “questo ucciderà quello”».
Una storia della filosofia destinata agli studenti liceali ma anche a chi voglia accostarvisi senza eccessivi timori reverenziali. Duemila e cinquecento anni di saperi filosofici - dai presocratici al Novecento - che Umberto Eco e Riccardo Fedriga hanno disegnato con ricchezza di dettagli. Dei tre volumi (Storia della filosofia, editori Laterza e Encyclomedia Publishers), di cui l’opera si compone, per ora è apparso il primo: Dall’antichità al medioevo (euro 25,90). Ne parliamo conEco.
Che cosa ha di diverso, o di più, questo manuale rispetto non solo ai vecchi classici (tipo Lamanna) ma anche ai più recenti (Abbagnano- Fornero)?
«Ho rischiato, al liceo, di dover studiare sull’orrendo e incomprensibile Lamanna, ma per fortuna ho avuto uno splendido professore di filosofia che ci aveva fatto comprendere come la filosofia si sviluppasse in un più vasto ambiente culturale – per cui, anche se i programmi non lo prevedevano, ci spiegava persino chi fosse Freud. Ho sempre sognato un manuale di filosofia che legasse la filosofia al suo ambiente culturale. All’università, poi, ho avuto la fortuna di avere come professore Abbagnano e sono cresciuto sulla sua storia della filosofia (all’Abbagnano-Fornero ho poi anche collaborato) ».
E non era sufficiente?
«Diciamo che ho avuto sempre voglia di fare un manuale più interdisciplinare. E un autore solo non basta. Con Riccardo Fedriga abbiamo riunito una squadra di specialisti di alto livello, in modo che ogni filosofo o corrente fossero visti da chi li conosceva a fondo. Il lavoro di noi due curatori (oltre che di collegare e unificare gli interventi, di scrivere certi capitoli in proprio) è stato quello di inserire approfondimenti e raccordi interdisciplinari. Ecco perché, per esempio, nel primo volume c’è un’ampia scheda sui pretesi terrori dell’Anno Mille, o si parla del Corpus Hermeticum e dello gnosticismo: si tratta di aspetti della cultura che influenzavano anche i filosofi. E inoltre non ha funzione esornativa l’apparato iconografico, perché dovrebbe servire a capire meglio in che ambiente culturale si muovevano i filosofi.
Qual è il pregio e i limiti del sapere manualistico?
«Nessuno al mondo può aver letto a fondo tutti i testi della storia del pensiero, dai presocratici agli analitici anglosassoni. I manuali suppliscono a questa situazione inevitabile. Ma i manuali devono essere integrati dal professore (che si spera bravo). Il nostro manuale, con le sue schede, le sue esplorazioni a latere, i suoi approfondimenti, permette al professore di fare delle scelte e di attirare l’attenzione dello studente sui punti che gli paiono più rilevanti. Voglio dire che il manuale non prende per mano il lettore facendogli fare un percorso obbligato, ma permette all’insegnante (o allo studente molto autonomo) di disegnarsi dei percorsi più personalizzati».
Sulla filosofia ci sono diverse definizioni e lei stesso le richiama nel testo introduttivo. Ma la filosofia necessita di una definizione?
«Senta, o invito a leggere tutto il manuale o la finiamo lì: diciamo che il fascino di una storia della filosofia è di mostrare quante definizioni di filosofia potrebbero esserci e ci sono state, e quella a cui pensava Aristotele non è la stessa a cui pensava, che so, Russell. Inoltre bisogna considerare che la figura del filosofo accademico nasce solo nell’Ottocento, e prima ad occuparsi di filosofia erano persone che si interessavano anche alle scienze naturali (Aristotele), alla teologia (san Tommaso), alla geometria (Cartesio), al calcolo differenziale (Leibniz) e così via. Un manuale di storia della filosofia deve aiutare a scoprire che si è fatta filosofia anche quando ci si occupava di tante altre cose ».
La domanda filosofica più drammatica, lei scrive, è «perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?». Non le sembra che sia forse la più oziosa tra le domande?
«Visto che se la sono posta grandi pensatori che non avevano tempo da perdere, non dovrebbe essere oziosa. Il problema è perché qualcuno se la sia posta (o forse senza rendersene conto se la pone ciascuno di noi). Non è una domanda a cui possiamo dare risposta, ovvero la cui risposta è il fatto stesso che ce la possiamo porre. Voglio dire che se la pone solo qualcuno che in qualche modo c’è. Per dirla con parole grosse, noi viviamo nell’Essere e possiamo porci la domanda perché ci sia dell’essere solo perché c’è dell’essere. Se ci fosse solo il nulla non potremmo porci la domanda, ma la questione è che il nulla non esiste».
Perciò è irrilevante.
«No. Il fatto che ci sia dell’essere è la ragione per cui siamo portati a porre la domanda e pertanto la domanda ha una sola risposta: “Perché sì”, perché se non ci fosse qualcosa non potremmo neppure pensare che non potrebbe esserci. Poi le varie filosofie hanno proposto risposte indirette, per esempio postulando all’origine Dio come l’Essere per eccellenza, o pensando che il mondo fosse eterno. Nel primo caso la risposta si trasforma nella domanda successiva, perché c’è Dio piuttosto di niente (e questa sarebbe davvero una domanda oziosa). Nel secondo caso, se il mondo è eterno, non puoi chiederti perché c’è. C’è, e basta».
La filosofia nasce in Grecia. La sua peculiarità è dunque di essere un sapere pienamente occidentale?
«Così come la conosciamo noi, sì. Certo sarebbe ideale un manuale che spiegasse anche come pensavano gli indiani, o i cinesi, e persino certe tribù dette primitive. Esistono aspetti che noi diremmo filosofici in molte tradizioni religiose, esiste certamente una filosofia cinese. Ma, a parte il fatto che nessuno avrebbe tempo e competenza per occuparsi di tutte queste cose, noi viviamo nella cultura occidentale e questa nasce in Grecia e di lì si sviluppa. E con questa tradizione occidentale fanno i conti anche gli appartenenti ad altre civiltà, specie in un’era di globalizzazione. Sarebbe bello conoscere tutte le forme di pensiero non europee, ma oltretutto un manuale di filosofia deve seguire le linee dettate dai programmi ministeriali, e non sarebbe adottabile un manuale che parli solo dei miti Bororo o dello Zen. Peraltro faccio osservare che il nostro manuale, come ormai avviene in tutte le buone storie della filosofia, tiene conto per esempio della filosofia araba e di quella ebraica, senza le quali non si potrebbe capire lo sviluppo della filosofia occidentale».
La convince che le due linee maestre della filosofia greca furono Platone e Aristotele?
«È stato detto che tutta la storia della nostra filosofia altro non è che un commento a Platone ma io direi che è anche un commento ad Aristotele. Quindi stiamo parlando di due linee maestre di tutta la storia della filosofia occidentale».
Perché i romani, a differenza dei greci, svilupparono poco il pensiero filosofico?
«Potrei rispondere paradossalmente che erano interessati a conquistare e a organizzare il mondo piuttosto che a capirlo. Erano bravi a fare leggi, acquedotti e guerre e non erano gran che portati alla metafisica. E per il resto erano stati conquistati dal pensiero greco. Tuttavia non si devono trascurare pensatori come Seneca, o Lucrezio (nel suo caso vedi come, per la storia del pensiero, sia fondamentale conoscere anche un poeta)».
Questo primo volume del manuale abbraccia l’epoca antica e quella medievale. La filosofia medievale, di cui lei si è occupato in maniera approfondita, è più un salto o una continuità con l’antico?
«Pensiamo all’avvento del cristianesimo come a un salto, ed è vero, ma il pensiero cristiano ha sempre cercato di presentarsi come continuazione e sviluppo della filosofia greca. Difficile pensare a san Tommaso senza coinvolgere Aristotele, per non dire del peso del neoplatonismo nel pensiero medievale. E nel secondo volume si parlerà dell’influenza di Platone nel Rinascimento».
C’è un’epoca del mondo antico – a me verrebbe da pensare all’Ellenismo – che somiglia alla nostra (la crisi la transizione, eccetera)?
«Sì, ma (sia pure scherzando) le dirò che per una piccola somma potrei dimostrare paralleli con ogni epoca. Una storia della filosofia serve anche a suggerire questi paralleli. Il lettore del manuale dovrebbe sovente esplodere in atti di meraviglia, “sembra proprio che quei signori così lontani da noi si occupassero di problemi che sono anche i nostri!”».
Come spiega il perdurante successo di pubblico (soprattutto di piazza) della filosofia rispetto ad altri saperi?
«C’è persino una commercializzazione della filosofia, coi caffè filosofici parigini, e un tentativo di “vendere” la filosofia come strumento terapeutico. Un mio giovane maestro, immaturamente scomparso quando ero ancora studente, Giovanni Cairola, aveva scritto un saggio che si intitolava La filosofia non consola. Ma in definitiva è proprio in un periodo di moltiplicazione e frammentazione dei saperi che si cercano risposte unitarie, ed è questo che fa ancora e sempre la filosofia. Si è detto paradossalmente che la filosofia pone solo domande per cui non c’è risposta, ma direi meglio che è una forma di pensiero critico che cerca di dare risposte là dove le scienze non arrivano e giustamente si fermano. Ed è un buon esercizio per la nostra mente, persino quando le risposte sono sbagliate ».
Mi pare che il manuale tenga conto che lo studente vive nell’epoca del web.
l’Unità 20.2.14
Appello
La crisi non cancelli le cattedre di Filosofia
QUESTO, PER LA FILOSOFIA E PER LA CULTURA UMANISTICA IN GENERALE, È UNMOMENTO NON FACILE. Prevale un’ideologia tecnocratica, per la quale ogni conoscenza dev’essere finalizzata a una prestazione, le scienze di base sono subordinate alle discipline applicative e tutto, alla fine, dev’essere orientato all’utile. Lo stesso sapere si riduce a una procedura, e procedurali e organizzative rischiano di essere anche le modalità della sua costruzione e valutazione. Un conoscere è valido solo se raggiunge specifici risultati. Efficacia ed efficienza sono ciò che viene chiesto agli studiosi: anche nell’ambito delle discipline umanistiche.
In questo quadro non stupiscono, per restare nell’ambito filosofico, l’eliminazione della Filosofia teoretica da molti corsi universitari di Scienze dell’educazione, nonché, per quanto riguarda le scuole secondarie, l’idea di ridurre a due anni la formazione filosofica, a seguito del progetto per ora sperimentale di abbreviare il ciclo a quattro anni. Allo stesso modo non sorprende il fatto che, nonostante il diffondersi negli ultimi decenni delle etiche applicate (come la bioetica, l’etica ambientale, l’etica economica, l’etica della comunicazione) a tutt’oggi la bioetica è considerata nelle declaratorie una disciplina che rientra ufficialmente nei settori disciplinari della medicina e del diritto piuttosto che della filosofia. Con la conseguenza che viene privilegiato per questa materia un insegnamento di carattere procedurale, piuttosto che una formazione volta a fare chiarezza sui motivi di certe scelte per aiutare a prendere decisioni responsabili.
Ma tutto questo è la punta di un iceberg. È il segno che, privilegiando un pensiero unico modellato sulle procedure tecnologiche, abbiamo rinunciato alla nostra tradizione, alle molteplici espressioni della nostra umanità, e siamo diventati tutti più poveri nella riflessione e nella capacità critica. Si tratta di un problema che interessa anzitutto la dimensione educativa. Ma più in generale ne va del ruolo che, nel nostro Paese, può giocare la dimensione della cultura.
È necessario cambiare rotta. È necessario contrastare questa deriva. Lo si può fare anzitutto bloccando i progetti che riducono o addirittura eliminano lo spazio della filosofia nell’istruzione secondaria e nell’insegnamento universitario. Lo si può fare chiedendo al nuovo governo impegni precisi: non solo per l’ammodernamento delle strutture scolastiche e universitarie, ma anzitutto per il sostegno e il rilancio di una cultura autenticamente umanistica, come sfondo all’interno del quale anche la ricerca scientifica e tecnologica acquista significato.
È questo il modo in cui può trovare rilancio anche un’azione politica intesa come responsabilità del pensiero nei confronti della dimensione pubblica e del mondo. È questo il modo in cui il nostro paese può essere fedele al suo passato. È questo il modo in cui esso può trovare una vera collocazione nel presente e nel futuro dell’Europa. Promotori: Roberto Esposito, Adriano Fabris, Giovanni Reale Primi firmatari: Massimo Adinolfi, Luigi Alici, Dario Antiseri, Luisella Battaglia, Franco Biasutti, Remo Bodei, Laura Boella, Francesco Botturi, Giuseppe Cantillo, Dino Cofrancesco, Raimondo Cubeddu, Fulvio De Giorgi, Maurizio Ferraris, Mariapaola Fimiani, Piergiorgio Grassi, Enrica Lisciani Petrini, Eugenio Mazzarella, Salvatore Natoli, Giuseppe Nicolaci, Luigi Papi, Luciano Pazzaglia, Paola Ricci Sindoni, Giuseppe Riconda, Leonardo Samonà, Emanuele Severino, Giusi Strummiello, Gianni Vattimo, Carmelo Vigna. Il testo dell’appello può essere sottoscritto sul sito www.lascuola.it
Repubblica 20.2.14
La super pastiglia. Vado al massimo
Il Viagra ha aperto la strada. Ma i farmacologi avvertono: attenti agli abusi, creano dipendenza
di Michele Bocci
Manager, studenti, uomini che non vogliono invecchiare: caccia alla pillola magica, che promette lucidità, concentrazione ed eccitazione Insomma, super prestazioni fisiche e mentali. È boom di vendite di psicostimolanti e antidepressivi per doparsi in una vita che va sempre di corsa. Il Viagra ha aperto la strada. Ma i farmacologi avvertono: attenti agli abusi, creano dipendenza.
A caccia della pillola magica. Quella che fa stare meglio i sani, rende più facile la vita, regala concentrazione, sicurezza di sé, eccitazione. Lo studente che cerca lucidità per imparare di più e più velocemente, il manager che vuole battere la concorrenza, l'operaio che deve stare sveglio tutta la notte, il cinquantenne che ha paura di invecchiare e scordarsi le cose: magari non lo sanno ma consumando farmaci psicostimolanti e antidepressivi stanno dando materiale a uno dei dibattiti più vivaci della ricerca medica contemporanea, quello sul neuro enhancement, cioè sul potenziamento neurologico. È giusto migliorare le prestazioni del cervello con la chimica? Quali sono i limiti etici e i pericoli? Mentre l'accademia discute, l'uso di queste molecole cresce, un po’ grazie ai canali ufficiali, tantissimo grazie a quelli clandestini, in particolare su Internet. L'Agenzia del farmaco mette in guardia sui pericoli per i consumatori e sottolinea la necessità di un lavoro scientifico serio in un campo così delicato. Antidepressivi, derivati vari delle amfetamine, benzodiazepine ma anche molecole create di recente e usate per gravi malattie neurologiche come il Parkinson, ecco cosa viene preso per avere un cervello più in forma. «È solo doping della vita quotidiana», riflette Roberta Pacifici, che si occupa per l’Istituto superiore di sanità degli sportivi che imboccano la scorciatoia di anabolizzanti e altro. Tutto nasce da una rivoluzione nel concetto di farmaco. Scordatevi il binomio malattia-cura, qui si entra nel campo delle medicine per chi è sano. Un esempio? Il Viagra. Una ventina di anni fa ha rivoluzionato la vita sessuale di molte persone. Ma non solo: il suo utilizzo di massa ha aperto una crepa nel modo di intendere i trattamenti farmacologici, perché salvo casi di patologie importanti ma fortunatamente poco diffuse, la maggior parte delle persone che lo acquistano vogliono solo migliorare la performance a letto.
Stessa cosa vale per il doping, su cui esiste ormai una letteratura sconfinata ma il cui schema è semplice: amanti dello sport si caricano di ormoni, integratori, antinfiammatori per andare più forte. Ma non bisogna scordare l’abuso di testosterone che si sta registrando negli Usa. Il farmaco, la cui efficacia tra l’altro deve ancora ottenere l’avallo scientifico definitivo, è usato soprattutto da chi si avvicina alla terza età, per restare pimpante come un ventenne. O almeno provarci. Poi c’è il versante antidolorifici e antinfiammatori, farmaci usati in modo preoccupante da chi ha solo fini “ricreativi”. E qui si apre un altro capitolo sull’uso improprio dei medicinali. Basta vedere The Wolf of Wall Street per fare un’immersione piuttosto eloquente nella storia dello sballo e della dipendenza da farmaci, in molti casi sovrapponibile a quella dalla droga.
«Prendere medicinali per migliorare le performance, a vari livelli, è un processo quasi inevitabile. La specie umana ha sempre cercato il modo di stare meglio, si è sempre potenziata, ad esempio quando c’è da fare la guerra». A parlare è Gilberto Corbellini, ordinario di Storia della medicina alla Sapienza di Roma. «Già alle Olimpiadi classiche, nell’antichità, ci si dopava, mangiando erbe e proteine. Oggi viviamo nella società della conoscenza equindi, oltre agli aspetti legati ad attività fisica e sesso, potenziamo le azioni cognitive». È a questo “passo avanti” che si sta assistendo in questi anni.
Pone vari problemi, segnalati di recente dal direttore dell’Aifa Luca Pani in un editoriale sul sito dell’Agenzia. «Il neuroenhancement-scrive Pani-riguarda persone sane che decidono di esporsi a rischi di effetti collaterali e dipendenze, prescindendo dal classico concetto di cura. Ciò apre problemi di natura etica, scientifica e regolatoria, Per ora, l’efficacia nelle persone sane è stata dimostrata solo in situazioni sperimentali estremamente controllate. Si tratta dunque di valutare, in base allo stato attuale delle conoscenze, quale sia il reale profilo beneficio-rischio e quale il vero valore aggiunto». Siccome la pillola magica, quella che migliora la vita senza recare alcun danno a chi la prende, non esiste ancora, molti finiscono male. Come minimo hanno bisogno dell’aiuto di un medico. Michele Sforza è uno psichiatra e psicoterapeuta molto esperto di dipendenze che dirige la clinica Le Betulle di Appiano Gentile. «Da noi arrivano tantissime persone con problemi legati ai medicinali-spiega-Alcuni li usano come le droghe, altri iniziano con la prescrizione del medico e poi perdono il controllo. Altri ancora partono con l’intenzione esclusiva di essere più lucidi, così si prendono, ad esempio, i derivati dell’amfetamina. All’inizio pensano di stare meglio ma alla lunga si scoprono dipendenti. Possono avere percorsi simili anche gli ansiolitici e gli antidepressivi». Alcuni di questi medicinali sono molto sofisticati. «Fanno azioni ben precise nel cervello-spiega Giovanni Biggio, ordinario di neurofarmacologia a Cagliari-Ad esempio gli antidepressivi, provocano modifiche e alla fine i neuroni pagano il prezzo. Possono essere molto efficaci ma solo in certi casi». Questa categoria di medicinali vede una crescita delle vendite costante, negli ultimi10 anni è stata di quasi il 5 per cento.
Le case farmaceutiche ovviamente approfittano della voglia di uomini e donne di avere a disposizione qualcosa in grado di migliorare le loro capacità. «L’aspirazione di chi vende i medicinali è stata fondamentale in questo fenomeno, ma c’è di più-spiega Silvio Garattini del Mario Negri di Milano-La vita moderna spinge all’ambizione, al desiderio di denaro e molti cercano il modo di poter lavorare di più e più lucidamente. Poi c’è l’idea che debba esserci un farmaco per qualunque cosa». Anche il Comitato nazionale di bioetica, di cui Garattini fa parte, si è occupato del potenziamento neurologico. Ha espresso un parere concludendo che ad oggi bisogna continuare a mantenere vincoli molto rigidi quando si tratta di prescrivere farmaci con effetti neurostimolatori.
Ma nel documento ci sono anche alcune aperture. «Il ricorso a sostanze di vario genere (Caffeina, nicotina, amfetamine, eccetera) per migliorare la resistenza alla fatica e alle prestazioni intellettuali ha, come è noto, una lunga storia; la novità odierna sta piuttosto nella disponibilità di una farmacopea più sofisticata, sviluppata per il trattamento di sindromi e patologie psichiatriche e neurologiche (Alzheimer, Parkinson, demenza, sindrome da deficit di attenzione, narcolessia, autismo, eccetera), il cui utilizzo da parte di soggetti “sani” sembrerebbe incrementarne in qualche misura, sebbene con risultati contraddittori, la memoria a breve termine, le capacità di concentrazione e apprendimento, il controllo cognitivo».
La scoperta della pillola magica non sembra però dietro l’angolo. «In futuro, un impiego saggio e adeguatamente regolato di potenzianti cognitivi di tipo farmacologico, accertata la loro non nocività ed efficacia, non è in linea di principio di per sé moralmente condannabile ». Ma ci potrebbero esser problemi legati ad esempio all’equità, cioè alla possibilità riservata ai più ricchi di accedere a questa “pillola”. «Va anche considerato-scrive il Comitato nazionale di bioetica-che le funzioni cognitive possono essere migliorate in maniera più duratura dall’istruzione, dall’educazione e dalla formazione continua, da una vita sociale e di relazioni ricca, dallo studio, dall’apprendimento da una stimolazione continua dell’interesse, da stili di vita sani».
Facile a dirsi. Ma in un mondo che corre sempre più veloce e diventa sempre più difficile da affrontare, in tanti sono disposti a prendere la scorciatoia. Una pillola e via.
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Repubblica 20.2.14
Quel rifiuto dei nostri limiti che ci trasforma in schiavi
di Massimo Recalcati
La natura tradizionale del farmaco è quella di essere un rimedio. Dove la vita manifesta un disfunzionamento (nel corpo come nel pensiero) la promessa del farmaco è quella di ripristinare il livello normale di efficienza guastato dall’irruzione della malattia. Nel nostro tempo, all’estensione inflattiva di questa promessa che tende sempre più a medicalizzare la vita (i rimedi si sono moltiplicati grazie ai progressi della medicina, ma anche agli interessi dell’industria farmaceutica), dobbiamo aggiungere qualcosa di inedito: una versione del farmaco non più come rimedio ma come potenziamento della vita.
Se la versione tradizionale, ippocratica, del farmaco-rimedio rimane nel solco classico della filosofia della medicina poiché il farmaco dovrebbe curare la causa della malattia che il paziente percepisce nella sofferenza sintomatica, questa nuova versione del farmaco come potenziamento scavalca decisamente quella filosofia. Non si tratta più di curare la malattia che ci affligge, ma di offrire alla vita l’illusione di una sua espansione e di un suo rafforzamento artificiale. La cura lascia qui il posto ad un doping indotto che esalta le funzioni del corpo e del pensiero: dal Viagra all’uso degli psicostimolanti, dal testosterone all’abuso di antidolorifici, l’industria del farmaco offre sul mercato provvedimenti chimici che hanno come obbiettivo l’enfatizzazione delle risorse dell’organismo più che la cura tradizionale delle sue malattie. Al fondo di questo cambiamento di paradigma troviamo un mito ideologico del nostro tempo: l’esaltazione di quello che già Marcuse alla fine degli anni Cinquanta in Eros e Civiltà battezzava come principio di prestazione.
Di cosa si tratta? Di una forma inedita di sfruttamento. Non solo quello dell’uomo sull’uomo analizzato da Marx, ma quello che impone ad ogni uomo di vincere su se stesso, di imporsi su se stesso come macchina efficiente, capace di prestazioni senza difetto. Un falso ideale di grande salute sembra così inondare la nostra vita. Rifiuto del senso del limite, esorcismo dell’irreversibilità del tempo, cancellazione di ogni forma di mancanza, autoaffermazione di se stessi.
Questo ideale performativo accompagna il valore ideologico attribuito dal nostro tempo alla crescita economica, all’espansione illimitata dei mercati, alla rincorsa folle del profitto. Nel suo ultimo film titolato The Wolf of Wall Street, Martin Scorsese offre un ritratto preciso e sconcertante di questo mito mostrando la sua tendenza a collassare su se stesso. L’ideale cinico del potenziamento del proprio Ego viene perseguito in una modalità predatoria e perennemente insoddisfatta.
Il consumo compulsivo di sostanze chimiche di ogni genere sembra coltivare una efficienza della macchina-uomo ridotta ad una macchina di godimento acefala. Come presi in una corsa impazzita verso una meta che non esiste, i personaggi di questo film offrono la rappresentazione di una volontà di potenza ormai priva di ogni senso di responsabilità che non può non evocare il Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
La versione ascetica del capitalismo weberiano che costruisce il suo successo sulla rinuncia al godimento immediato, sull’ideale del lavoro come “freno dell’appetito”, lascia il posto ad un capitalismo che odia ogni forma di rinuncia e che consuma se stesso manifestandosi come una pura volontà di godimento.
È in questa spirale mortifera dobbiamo inserire le nuove illusioni dei farmaci finalizzati a potenziare il principio di prestazione. Si tratta di una nuova forma di schiavitù: la vita viene sottoposta ad un doping permanente che s’intreccia con l’esibizione di una avidità pulsionale totalmente sregolata. Risultato: la caduta di ogni dimensione solidale dell’esistenza, il cinismo narcisistico, la vacuità, la sconfitta dell’amore, la distruzione della vita.