La Stampa 21.2.14
La macchina della saliva
di Massimo Gramellini
Non è vero che gli italiani adulano il potente di turno solo per necessità. A volte lo fanno per propensione naturale. Il settimanale «Oggi» ha raccolto i pareri dei compaesani di Rignano su Matteo Renzi. Un compagno delle elementari ne rammenta «l’intelligenza superiore» mentre una vicina di banco delle medie si avventura in metafore primaverili: «E’ come i mandorli: sempre il primo a fiorire. Mi creda, tra Papa Francesco e Matteo siamo in buone mani». Il parroco non conferma né smentisce, ma perdona: «L’ambizione smisurata è un peccatuccio da cui lo assolvo: anche i padri costituenti erano smisuratamente ambiziosi». Smisurata è la pagella calcistica stilata dall’allenatore della squadra locale: «L’era un bel mediano, Matteo: aveva i piedi grezzi ma suppliva con il carisma, Un Pogba in miniatura». E il suocero: «Padre Pio a 5 anni ha visto l’angelo custode, Pelè a 15 giocava in nazionale. Matteo l’ho conosciuto che ne aveva 16 e ho capito subito che aveva quella stoffa lì». Un po’ padre Pio e un po’ Pelè (per tacere del Papa e di Pogba). «Quel figliolo è una benedizione». Santo subito, allora. Il pizzaiolo ostenta già il primo miracolo: «Viene qui anche alle due di notte e si spazzola due Margherite. L’è un prodigio». Infine, immancabile, il mito dell’insonne, coltivato dall’amico scout: «Io se non sto a letto sette ore sono uno zombie, ma a lui ne bastano quattro».
Matteo stai sereno. Se tra un anno dovessi cadere in disgrazia, si dirà che a scuola copiavi dai vicini, che a calcio eri un brocco e che in fondo sei sempre stato solo un debosciato che mangiava alle due di notte senza mai andare a dormire.
l’Unità 21.2.14
Berlusconi punta al voto in un anno «Renzi non è comunista, con lui dialogo
Il Cav rema contro Alfano al Viminale: «Serve discontinuità»
«E alla Giustizia niente nomi ostili»
di Federica Fantozzi
Riforme e voto tra un anno. Con Alfano divorato e digerito. Silvio Berlusconi lo aveva caldamente consigliato al suo interlocutore nella sala Aldo Moro, al primo piano di Montecitorio: «Metti in squadra uomini nuovi e di cui ti puoi fidare». Non che Matteo Renzi, leader scaltro e di «ambizione smisurata» avesse bisogno di suggerimenti. Ma l’offensiva che il premier incaricato ha scatenato contro il vicepremier uscente al grido di «serve discontinuità, stai fuori dal governo» ha rallegrato l’umore del Cavaliere.
Ormai il disamore per “Angelino” è tale, che la battaglia per ridimensionare il Nuovo Centrodestra rappresenta una parte rilevante della sua strategia. Anche perché, ieri pomeriggio alla riunione dei gruppi parlamentari azzurri, il leader ha ribadito il suo orizzonte temporale: «Preparatevi, vedrete che tra un anno al massimo si vota». Salvo poi smentire con i giornalisti: «Non ho fatto previsioni, ho detto che dobbiamo essere sempre pronti, che sia tra un anno, due o tre». Certo sarà guerra all’ultimo consenso: «Ora basta, non accettate più polemiche con Ncd. I nostri sondaggi danno il Pd in calo e Forza Italia in crescita. E il 67% degli italiani appoggia la linea dell’opposizione responsabile ». Non solo: «Quando l’economia va male, chi sta all’opposizione vince». Dunque, l’Italicum prima di tutto, e senza modificare l’impianto, né abbassare le soglie o introdurre le preferenze come vorrebbe il Ncd. Da cugini, potenziali alleati di coalizione, a nemici: «La gente ha capito di che pasta sono fatti questi signori, sono moralmente indegni».
Berlusconi vorrebbe mangiarsi gli «ingrati», prima cointestandosi con Renzi una serie di riforme (lavoro, fisco, pensioni, giustizia, abolizione del Senato) e poi sbranandoli nelle urne. Per farlo, però, i tempi non possono allungarsi a dismisura. Altro che scadenza naturale della legislatura, nel 2018. La road map resta quella illustrata l’altroieri al prossimo inquilino di Palazzo Chigi: 12-18 mesi al massimo per fare le riforme istituzionali, ma poi «è altamente probabile che finiremo alle urne ». Quando il Cavaliere avrà scontato i dieci mesi di pena per la sentenza Mediaset, ristrutturato il partito (che, fuori dai riflettori, è ancora privo di un gruppo dirigente e dilaniato dalla faida tra falchi e sostenitori del nuovo corso di Giovanni Toti) e magari trovato un erede politico.
Il leader azzurro, insomma, va avanti nel suo «innamoramento politico» per quel “Matteo” che ha la metà dei suoi anni. Nonostante dentro Forza Italia le resistenze non manchino, e più di uno gli abbia fatto notare che «come Renzi ha cambiato scenario con la staffetta, può farlo anche sulle riforme». Berlusconi da quest’orecchio, vuoi per autostima vuoi per convenienza, non ci sente: «Renzi non è comunista. Rappresenta una nuova opportunità per il bipolarismo in Italia e per il dialogo sulle riforme necessarie per modernizzare il Paese». Unico neo, il confronto con Grillo: «Non doveva accettare lo streaming, ha fatto un errore».
IL MODERNIZZATORE. Ovvio che Berlusconi non si muova senza una prospettiva di tornaconto. E lo scenario delle «larghe intese sulle riforme » gliene offre diverse. In primo luogo, la rilegittimazione politica – il Cav è già tornato alla ribalta ufficiale al Quirinale e in Parlamento, con tanto di comizio davanti alle telecamere – e la possibilità di «passare alla storia come uno dei modernizzatori dell’Italia». Ma sullo sfondo, il Cavaliere non trascura benefit più concreti. In primo luogo mettere bocca sull’inquilino di via Arenula. Chiaro che Fi non ha diritto di parola sui ministri, ma ha trovato i canali adatti per far sapere che un Guardasigilli considerato «ostile» non sarebbe un bel viatico per il percorso riformatore. Pollice verso per Vietti e la Pomodoro, pare anche per Franceschini. Mentre Andrea Orlando, su cui continua il pressing renziano, avrebbe un’apertura di credito. Ma altri nomi che girano in queste ore sono il magistrato Raffaele Cantone e Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Reggio Calabria. Così come Berlusconi ha fatto capire al premier che la sua opposizione «responsabile» sarebbe incompatibile con un governo «animato da ostilità pregiudiziale nei suoi confronti ».E considererebbe una dichiarazione di guerra se tra i primi atti ci fosse un disegno di legge sul conflitto di interesse. «Le mie aziende sono un bene da tutelare nell’interesse non mio ma di tutti gli italiani» è la tesi dell’ex premier. Che considerando Renzi un uomo pragmatico confida che questi argomenti facciano breccia. Sarà importante anche il titolare delle deleghe sulla Comunicazione: Antonio Catricalà, indicato dal Cavaliere, si è chiamato fuori.
In parallelo al patto sulle riforme, Berlusconi è concentrato sul partito. Giovedì ha arringato gli europarlamentari, ieri è stata la volta di deputati e senatori: «Dobbiamo radicarci sul territorio, non c’è tempo da perdere». Weekend obbligatori nei collegi, a contatto con gli elettori. Il leader punta molto sui club Forza Silvio, ormai 8mila secondo Marcello Fiori, e sulla campagna porta a porta. Oggi a piazza in Lucina lancerà Missione Azzurra, la campagna multitasking dei club, tra Caf, centri ascolto e kit dell’elettore. Mentre il Cavaliere, in cerca di volti nuovi e suggestioni programmatiche, incontra professionisti e imprenditori. Dietro le quinte, però, è cominciata la guerra per le euro-liste. Sarà una competizione durissima, dove contano le preferenze personali. E c’è la fila per mettersi al secondo posto nella circoscrizione Nord Ovest dietro Toti, il nuovo delfino: favorita Lara Comi.
il Fatto 21.2.14
Michaela Biancofiore La “berlusconiana viscerale”
“Silvio si rivede molto in Matteo È rivoluzionario”
di Fabrizio d’Esposito
Nella cerchia berlusconiana, la valchiria Michaela Biancofiore è accreditata di un potere non indifferente. Qualcuno parla addirittura di transfert con il Condannato. Insomma, la Biancofiore anticipa, proietta i desideri più profondi di Silvio Berlusconi. Un esempio per tutti. Il ritorno di Forza Italia. La deputata azzurra lo diceva già tre anni fa.
Lei voterebbe Renzi da subito, dica la verità.
Mi è sempre piaciuto perché è un rivoluzionario come me e non nascondo che Berlusconi si rivede in lui.
Detto questo.
Sono convinta che sarebbe stato molto meglio fare subito un governo di Grosse Koalition, questa però è la mia posizione personale.
Lei anticipa, come al solito.
Forse sì. Ma il problema non siamo noi.
È Renzi?
Parliamoci chiaro: Renzi è molto più avanti del suo partito e del suo gruppo parlamentare. Per il momento è coraggioso fino a un certo punto, deve fare i conti al suo interno.
In ogni caso la doppia maggioranza non è un mistero per nessuno.
Però consente a quelli di sinistra di attaccarci ancora. È incredibile quello che mi succede. In tv io parlo a favore di Renzi e quelli mi danno addosso comunque.
La colpa forse è di Renzi stesso. Ribattendo a Grillo, gli ha detto che lui è un incrocio tra
Gasparri e la Biancofiore.
Non mi sono sentita offesa. Anzi. Vuol dire che nell’immaginario collettivo sono nota e percepita come una berlusconiana viscerale.
È la verità.
Appunto. Semmai è stata una caduta di stile e lui mi ha fatto avere le sue scuse tramite un messaggio del ministro Delrio.
Lei a Renzi perdona tutto.
Ci sono due cose che non mi sono piaciute.
La prima.
Andare a Palazzo Chigi senza il voto.
La seconda.
La processione di sigle al vertice di maggioranza, ben undici, mi ha fatto molta tristezza. Renzi sarà prigioniero di una maggioranza frastagliata, fatta di questuanti alla ribalta.
Al momento opportuno ci sarà il vostro soccorso.
Noi abbiamo un patto sulle riforme , questo è noto. Poi si vedrà, la mia posizione personale gliel’ho già detta.
Berlusconi è tornato in forma, in ogni caso.
Lo vedo finalmente sereno. L’ha detto lui stesso all’assemblea dei parlamentari: “Dopo tanto tempo sono finalmente sereno”.
Prima era depresso.
Il presidente vede crescere il consenso intorno a sé e la gente capisce che è stato vittima di persecuzioni e complotti.
Silviostaisereno può portare sfortuna però. Renzi l’a veva detto a Letta.
Non credo che accadrà. Tra Renzi e Berlusconi c’è una grandissima empatia. I due si prendono molto e, ripeto, il presidente si rivede molto in lui, per la grandi capacità rivoluzionarie.
Hanno avuto bisogno di appartarsi l’altro giorno.
Non ci sono segreti.
Qualcuno rosica.
Alfano.
È facile da indovinare.
Alfano annaspa, galleggia, scommetto che non entrerà nel governo. E tutti quelli che stanno con lui ci mandano segnali per tornare. Se potesse, Alfano, lo farebbe anche lui.
B. vi ha detto che si va a votare tra un anno.
Ha detto di tenerci pronti. Non ha dato una scadenza.
Vi manca uno come Renzi alle elezioni.
Abbiamo quello ante litteram, Berlusconi.
Ma non è candidabile.
Chi le dice che in futuro non potremo adottare lo stesso Renzi?
Il governo dovrà passare per le forche caudine del Colle.
Napolitano è stato l’artefice principale del fallimento di Monti e Letta. Ed è dietro le scissioni di Fini e Alfano. Lo dico con rispetto.
Ma lo dice.
Renzi non si deve far commissariare dal Quirinale, che potrebbe raccomandare anche la Lorenzin e Quagliariello per farli rimanere.
il Fatto 21.2.14
Il regista Roberto andò racconta Renzi
A metà tra fascinazione
“Ha fretta e insegue il potere. Ma in fondo Matteo è un insicuro”
di Antonello Caporale
“I due veri partiti che si lottano sono quella dei “Contadini” e dei “Luigini”. Sono “Contadini” tutti quelli che fanno le cose (...) che non vivono di protezioni, di sussidi, di mance governative. E i “Luigini” chi sono? Sono la grande maggioranza (...) quelli che dipendono e comandano, e amano e odiano le gerarchie. E servono e imperano.”
(da L’orologio di Carlo Levi)
La sinistra vinse finalmente e si legittimò, e conobbe il piacere delle folle osannanti quando scambiò il depresso leader navigato e impomatato con il suo fratello gemello, dai tratti invero singolari ma effervescente, sorridente, ottimista, anticonformista. Uno scambio di persona, letteralmente una truffa. Ma risolutiva, palingenetica. L’idea dello scambio è di Roberto Andò, che prima l’ha scritta nel suo romanzo Il trono vuoto e poi l’ha portata al cinema. Viva la libertà non è solo una grande illustrazione della politica come commedia, ma è un magnifico film. Renzi un po’ assomiglia a Giovanni Errani, il filosofo eccentrico interpretato da Toni Servillo che veste i panni dell’improvvisato leader. “Io non vedo molte somiglianze invece. Errani recita, non desidera il potere, fa puro teatro. Renzi invece lo vuole il potere, e fa di tutto per conquistarlo”. L’opposto del suo politico di centrosinistra: “Quello depresso? Sì, portava dentro di sé l’inconscio desiderio di non vincere le elezioni, di non cambiare le cose. Devo dirle che sono curioso di ciò che Renzi farà, perché il fenomeno non è totalmente svelato. Finora ha creato le condizioni per andare a Palazzo, ma non si è espresso nel potere”. Le condizioni le ha create nel peggiore dei modi. Un po’ come quei borseggiatori sui bus: si è fregato il portafoglio del vicino grazie alla calca. “La forma con cui ci è arrivato mi impensierisce. Lui aspirava a vedersi legittimato, pensava che si potesse finalmente uscire dalle trame e dagli intrighi. C’è in effetti un alito tragico dietro alle spalle di Renzi, però malgrado tutto sono curioso di vedere cosa farà. Sono stato uno di quelli che alle altre primarie votò Bersani. Mi sembrava che dopo il ventennio berlusconiano avessimo bisogno di un amministratore discreto, un balsamo per i nostri nervi scossi. Era la discrezione la qualità che più mi spinse verso di lui. Poi però l’ho visto farfugliare, non riuscire a stare al passo con la realtà, con questa Italia. E mi sono ricreduto, ci ho ripensato e ho ritenuto che invece andasse sostenuto Matteo, la sua vitalità, quella voglia enorme di stupire e rifondare”.
NEANCHE la impensierisce la serie di promesse che fa, così enormi da apparire di plastica? “Alza molto l’asticella della sua prestazione perchè in fondo è un insicuro . Teme che se non le spara grosse si affievolisce l’adesione, il bisogno di lui, della sua verve, della capacità di non essere come gli altri”. Ma Renzi non è un mago, e questa non è la Ruota della fortuna! “Concordo. Esagera e conduce il rischio fino al suo grado estremo, alimenta il messaggio di una sua temerarietà immersa nella irresponsabilità. Renzi è insieme volto e maschera della politica. La sua entrata in scena contribuisce a irrobustire l’idea che sia un romanzo, e dentro il teatro del potere la sua agilità attrae. Ma le chiedo: cosa possiamo fare se non sperare che riesca?”. Lei davvero pensa che riusciranno i giochi di prestigio? “Ma non ha compreso che nei suoi confronti c’è una proiezione del tutto fantastica? Solo nei suoi confronti si hanno aspettative al di sopra delle sue stesse possibilità. La ragione sta nel fatto che Renzi rompe una continuità ammorbante, la linea orizzontale della conservazione. Abbatte la sinistra e la sua soporifera rappresentazione del cambiamento ma svuota la destra di ogni vitalità, le nega il senso di stare in campo, l’annienta nella capacità di reggere il confronto . La destra è divenuta improvvisamente inutile, e Berlusconi un potente quasi pensionato. Il suo grande merito sta in quel che è successo già. Enrico Letta aveva il volto della depressione, oggettivamente incuteva il senso della impotenza. Renzi è l’enfasi. Ha questa percezione esplosiva della realtà e anima quella parte degli italiani che Carlo Levi ne L’orologio definiva “contadini”: quelli che lavoravano, operai, artigiani, borghesi. Quelli che creavano valore, producevano, rischiavano. Gli altri erano i “luigini”: coloro che vivevano di rendita. Ha capito subito e ha occupato il presidio scoperto. Ora riesce a incanalare simpatie straordinarie. Poi certo al governo, specialmente se sarà attorniato da una orchestra di second’ordine, avrà bisogno di riti magici”. Incrociamo le dita. “Cos’altro potremmo fare?”.
il Fatto 21.2.14
Quando Ubs tifava per Renzi: “Senza di lui poco spazio di manovra con l’Ue”
Un mese e mezzo prima di diventare presidente, il sindaco di Firenze incassava l'appoggio della banca svizzera, secondo cui l'attuale segretario del Pd era in grado di "modificare in modo sostanziale il percorso di riforme" per fare ripartire l'Italia
qui
l’Unità 21.2.14
Renzi si tiene il partito Civati: così non voto
Il premier resterà segretario, affiancato da Lotti, Guerini o Serracchiani
Chiesta l’adesione al Pse
di Vladimiro Frulletti
«Ora l’importante è non spegnere il motore, lasciarlo acceso, in funzione, e non solo perché davanti ci sono le amministrative e le elezioni europee, ma perché questa macchina servirà al governo ». Nel gruppo, oramai assai ampio, dei renziani che stanno al Nazareno non c’è nessuna intenzione di spegnere le luci, chiudere le stanze e trasferirsi in massa a Palazzo Chigi. Dal passato, soprattutto, dagli errori si impara. E Renzi ha imparato. Lo ha capito dalla brutta sconfitta contro Bersani alle primarie del 2012 che doveva cambiare verso al Pd se voleva davvero provare a cambiare verso all’Italia, che non poteva ri-fare il generale senza esercito come Prodi. Ma adesso che a Palazzo Chigi (quasi) c’è, non vuole ripetere nemmeno l’errore di D’Alema. L’allora segretario dei Ds è stato vittima del «riformismo senza popolo». Non ha funzionato allora, non funzionerebbe oggi neppure con Renzi. Indispensabile quindi che a fianco dell’azione del governo ci sia il popolo del Pd. «Abbiamo capito che senza un partito vero che ti sostiene, che incalza l’esecutivo e i parlamentari, non hai la possibilità di cambiare il Paese» è il ragionamento dei renziani. Concretamente significa che Renzi farà il premier, ma rimarrà segretario, anche per simboleggiare il pieno coinvolgimento del Pd nell’azione di governo, e quindi non abbandonerà a se stesso il partito. È vero che la macchina democratica è assai meno oliata e potente di quanto venga raccontato, ma resta, appunto indispensabile. E Renzi ha dalla sua una presenza assai diffusa nel territorio: 13 segretari regionali sui 16 scelti domenica. Per questo non ha intenzione di ri-metterla in garage, ma semmai di rivederla utilizzando i suoi uomini più collaudati e aprendo alle minoranze. Coi cuperliani il lavoro è ben avviato anche se ancora al proprio interno non tutti sono concordi per un ingresso immediato in segreteria. C’è chi preferirebbe aspettare qualche mese. Certo è che nel momento in cui si arrivasse a una gestione unitaria la minoranza chiederebbe un ruolo di peso: o l’organizzazione o gli enti locali. Resta invece netta l’opposizione di Pippo Civati che a Repubblica Tv spiega di essere pronto a non votare la fiducia al governo Renzi pur ammettendo che sarebbe il là alla scissione. Civati lamenta la mancanza di coinvolgimento del partito e dei suoi militanti in questa fase e per domenica annuncia un summit «ulivista » a Bologna: «Siccome non vi consulta nessuno - spiega nel suo blog - noi, nel nostro piccolo, lo facciamo. Non solo on line». Una posizione che nel Pd renziano preoccupa e irrita perché viene letta come un oggettivo tentativo di indebolire il Pd e Renzi in una fase particolarmente delicata. Difficile quindi oggi pensare che la futura gestione unitaria del partito possa coinvolgere i civatiani. Anche perché del partito Renzi ha deciso di occuparsi una volta sistema tutta la partita Palazzo Chigi.
Ma alcune indicazioni stanno emergendo. Per prima cosa ieri Renzi ha chiesto ufficialmente l’iscrizione del Pd al Pse che a fine mese terrà il proprio congresso a Roma per candidare del presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, alla presidenza della Commissione Ue e per cambiare il proprio logo aggiungendo la parola “democratici”. Quanto alla segreteria sarà in buona parte rivista anche come conseguenza delle nomine nel governo (farà il ministro certamente la responsabile riforme Maria Elena Boschi) e Renzi sceglierà non un vice, ma una persona di fiducia che guidi il Pd. Potrebbe toccare al portavoce della segreteria Lorenzo Guerini (che s’è guadagnato i galloni nella commissione per il congresso) e che è diventato il braccio sinistro del segretario nelle trattative per il governo (quello desto è Graziano Delrio) o al responsabile organizzazione Luca Lotti che sta a fianco di Renzi fin dai tempi della Provincia di Firenze, e che ha scalato parecchie posizione affiancando Epifani nella traghettamento del Pd postBersani. Guerini o Lotti (o entrambi) però potrebbero anche spostarsi Palazzo Chigi. Nel caso, il ruolo di plenipotenziario sarebbe o per la presidente del Friuli Debora Serracchiani o per l’attuale responsabile enti locali Stefano Bonaccini che come segretario uscente del Pd emiliano e responsabile delle primarie di Renzi ha dalla sua una conoscenza diffusa e approfondita della macchina partito al centro e in periferia. Tanto che se Lotti emigrerà al governo per lui è già pronto il delicato ruolo dell’organizzazione. Ma non va dimenticato Matteo Richetti, deputato e già presidente del consiglio regionale emiliano. Al momento sicuro della riconferma è il tesoriere del partito, il deputato Francesco Bonifazi.
Avvocato tributarista, Bonifazi ha in mano la partita più delicata per il futuro del Pd, quella dei soldi. Intanto dal prossimo mese per il personale del Nazareno compariranno i tornelli e i badge da strisciare per certificare le presenze
Corriere 21.2.14
Civati: valuterò se votare la fiducia all’esecutivo
La minoranza interna del Partito democratico non ci sta. Peggio: minaccia di far mancare il sostegno al governo Renzi. O persino di abbandonare il Partito democratico. Lo ha detto ieri Giuseppe Civati, interpellato sulla possibilità di votare la fiducia all’esecutivo in gestazione: «Al momento no, ma valuteremo insieme agli altri parlamentari cosa sia meglio fare per rispettare un mandato elettorale che è stato così bistrattato». Ma, appunto, se la decisione dovesse essere quella di non votare la fiducia, la possibilità di un addio ai democratici si fa concreta: «E’ un po’ difficile restare nel Pd se non si vota la fiducia. Non tanto dal punto di vista del regolamento, ma dal punto di vista della coerenza». E dunque, «stiamo valutando con molta attenzione. Se dovessimo uscire con un voto di sfiducia sarebbe un fatto politico di estrema gravità».
La Stampa 21.2.14
Civati raduna i dissidenti
“Difficile restare nel Pd”
Il deputato ha convocato i suoi a Bologna per discutere di un nuovo progetto politico. Contatti con gli “eretici” M5S
di Andrea Malaguti
qui
Repubblica 21.2.134
Civati, raduno per valutare la sfiducia
di Tommaso Ciriaco
ROMA. È Beppe Grillo in persona ad allestire la gogna. Sul suo blog il Fondatore pubblica le foto dei quattro senatori dissidenti, poi incolla un duro post di un militante e titola: «Fuoco amico?». Ecco il segnale. In un attimo si scatena la rincorsa all’insulto sul web. L’obiettivo è costringere i dialoganti a un passo indietro, ma nel dubbio la procedura d’espulsione è già pronta per l’uso. Potrebbe attivarsi un minuto dopo il voto di fiducia al nuovo governo.
La scomunica di Grillo ridà fiato ai falchi. Muto durante lo streaming con Matteo Renzi, torna a proferire parola anche il capogruppo Federico D’Incà: «Chi non si trova in linea con la maggioranza del M5S, può decidere di dimettersi». È solo l’inizio di un pressing fortissimo che si abbatte su Lorenzo Battista, Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella e Luis Alberto Orellana. La colpa? Un comunicato sgradito al Capo: «Chi sono questi 4 senatori? - si domanda nel post - Quanto consenso hanno portato al M5S tutti insieme? Le televisioni di stato riportano lo streaming con tagli mirati ad oscurare la pietosa difficoltà in cui si è trovato Renzi».
Apriti cielo. «Gentaglia!!», attaccano infuriati gli attivisti, «siete personaggi ridicoli che non caga più nessuno». Orellana, poi, è bollato come «una carriola di letame di porco». I quattro, però, non arretrano. «Caro Grillo - scrive Battista - pensi di risolvere così i problemi? Mi aspettavo qualcosa di più». E ancora: «il post l'avrà scritto qualcuno della Casaleggio Associati o del nostro ufficio Comunicazione. Io comunque non me ne vado». Resta anche Orellana: «Stiamo esercitando il nostro pensiero critico».
Dentro i gruppi, poi, i toni salgono parecchio. Nella chat interna parecchi ortodossi chiedono l’espulsione. L’idea è mettere la cacciata all’ordine del giorno della prima riunione utile. Gianroberto Casaleggio - che preferirebbe evitare l’escalation - è pronto a dare il via libera alle espulsioni per evitare il logoramento. La resa dei conti potrebbe concretizzarsi tra martedì e mercoledì, subito la fiducia al nuovo governo.
È una guerra di nervi, ormai. Soprattutto a Palazzo Madama i rapporti sono irrimediabilmente deteriorati. E i falchi non nascondono un esito giudicato ineluttabile. «Preferirei che se ne andassero loro, ormai hanno scocciato - ragiona Paola Taverna - Espulsione o loro abbandono? Comunque una delle due strade». E Nicola Morra: «Sono stanco di dover andare in tv e dover rispondere delle loro critiche...». Lapidaria, poi, è Barbara Lezzi: «Nei fatti sono già fuori dal Movimento».
I dissidenti, però, non sono ancora convinti dell’approdo. Non basta il corteggiamento di Pippo Civati. Ieri, per caso, si è imbattuto in alcuni di loro e si è fermato a illustrare il progetto dell’ala sinistra del Pd. «Se non votiamo la fiducia è difficile restare nel Pd - sostiene - Stiamo valutando con molta attenzione». Tutto sarà più chiaro domenica, quando a Bologna i sei senatori civatiani si ritroveranno in assemblea per decidere come muoversi. I più critici, Walter Tocci e Lucrezia Ricchiuti, potrebbero scegliere un compromesso, disertando il voto.
I cinquestelle, però, restano cauti. «So che da parte loro c’è una forte critica rispetto a questa fase - dice Campanella - Io osservo incuriosito ». Corradino Mineo, invece, descrive un quadro in rapida evoluzione: «Se domenica si decide di non partecipare al voto, seguendo la prospettiva del nuovo centrosinistra, non mi straccio le vesti. Ma penso che i tempi non siano ancora maturi».
Dovessero consumarsi nuovi strappi, potrebbero ritrovarsi tutti nel gruppo Misto. Lì dove già siedono i sette senatori di Sel. Non per dare subito la fiducia a Renzi - sognano gli architetti di un’operazione quasi impossibile - ma per costruire una casa comune pronta a sostituire il Nuovocentrodestra appena l’occasione dovesse presentarsi.
La Stampa 21.2.14
Casson: “Inaccettabile l’allargamento a destra”
Il senatore del Pd: la fiducia? Non so come andrà a finire
intervista di Francesco Grignetti
Ma davvero, Felice Casson, voi senatori del Pd di area civatiana siete pronti a non votare la fiducia al governo Renzi? Civati è sempre più minaccioso e da ieri non esclude più una scissione.
«Sinceramente parlando, non lo so mica come finisce. Due giorni fa abbiamo fatto quel pranzo in pubblico per segnalare la nostra posizione. Ieri mattina ci siamo visti di nuovo tra noi e abbiamo predisposto un documento in più punti con le nostre richieste. L’abbiamo dato a Renzi. E ora aspettiamo di vedere che risposte ci saranno».
Anche lei si sente tanto a disagio, al punto da non escludere un voto contro e di andare via dal Pd?
«Per me qualsiasi anticipazione è prematura. Se dico che non so come finirà, è così. E non mi piace nemmeno la definizione di “civatiano”. Lui è lui, io sono io».
Siete in sei dissidenti. Se mancherete all’appello, il governo non nasce proprio.
«La questione è chiara innanzitutto a Renzi. Ma qui c’è un problema politico di fondo. E cioè che la maggioranza che si va profilando, non è affatto quella indicata dal documento della direzione del Pd. Non era previsto l’ingresso nel perimetro della maggioranza del Gal, gli uomini di Cosentino e di Miccichè».
Per la verità Renzi ha precisato che la maggioranza è la stessa di prima: Pd, più Ncd, più i centristi. Niente di più e niente di meno.
«Ma Renzi l’ha allargata, la maggioranza... E l’ha fatto a destra con il Gal, non a sinistra... Comunque io torno alla questione del programma, che è quanto mi preme di più. Noi abbiamo fatto le nostre proposte e su quelle attendiamo la risposta del presidente del Consiglio incaricato. E mi rendo conto quanto sia difficile far convivere gli opposti. Perché se devo parlare di sicurezza del lavoro e mi trovo a dovermi confrontare con Sacconi che la pensa all’opposto di me, oppure se affronto i diritti civili e il mio interlocutore è Giovanardi, che è un altro che la pensa all’opposto, e sullo “ius soli” lo sanno tutti quanto siamo distanti da Alfano, insomma, se mettiamo in fila tutti questi problemi, era già un parto difficile».
Scusi, quando scioglierete la vostra riserva?
«Domenica ci vediamo a Bologna, per una riunione di rilievo nazionale con i referenti dell’area. Ragioneremo assieme e vedremo il da farsi».
Repubblica 21.2.14
Lettera dell’ex presidente del partito a 150 parlamentari: “Nell’incontro con Renzi non ho avanzato richieste”. Ma poi ammette: sui nomi tratto io
Minoranza Pd in subbuglio: “Cuperlo non ci consulta”
di Concetto Vecchio
ROMA - Da una lettera di Gianni Cuperlo ai 150 parlamentari della sua corrente: «Nell’incontro con Matteo Renzi non ho avanzato né richieste né proposte». E allora, si chiedono i suoi da giorni con crescente insofferenza, i nomi per il governo dati in quota alla minoranza - il giovane turco Andrea Orlando, il bersaniano Maurizio Martina - chi li sta suggerendo? In altre parole: c’è chi sta trattando per conto di Cuperlo?
Nell’opposizione interna del Pd, travolta dalla furia renziana, frazionata in un pulviscolo di sottocorrenti, sembra vigere ormai la regola del tutti contro tutti. Scambi di email infuocate, accuse di verticismo, riunioni disertate per ripicca: all’ultima, ieri sera, convocata da Cuperlo per un chiarimento, si sono presentati in una ventina. Equi, messo alle strette, l’ex presidente del partito a un certo punto avrebbe battuto i pugni sul tavolo: «Tratto io, i nomi li decido io», aggiungendo così confusione a confusione.
Sono quattro i capi d’imputazione contro l’ex rivale di Renzi: il primo, il più rilevante, è di partecipare al toto-ministri senza un vero mandato politico. È un’accusa che il deputato Giuseppe Lauricella - quello del lodo riforma del Senato e poi l’Italicum - ha riassunto così: «Prima di individuare chi debba andare al governo andrebbe valutato se andare al governo». La sensazione è che ogni microfrazione - Cuperlo, i bersaniani di FarePd, Giovani Turchi - stia trattando per sé gli assetti nel futuro esecutivo. «In alcuni casi - ha denunciato il deputato siciliano - rappresentano unicamente coloro che a questi incontri partecipano».
C’è poi una seconda imputazione, che viene da chi ha smesso di riconoscersi nella leadership di Cuperlo. È il caso della deputata lombarda Eleonora Cimbro, che ha espresso il suo dissenso pubblicamente. Anche Alessandra Moretti, che sostenne “Gianni” alle primarie, non partecipa da tempo alle riunioni d’area. Il terzo fronte di malcontento, il più vasto e trasversale, rimprovera a Cuperlo di prendere le decisioni consultandosi solo con pochi gruppi ristretti. «Un po’ come faceva Bersani», fa notare un esponente dalemiano. Due esempi, per capire: quando la minoranza il 13 febbraio decise in Direzione di togliere il sostegno a Enrico Letta la mossa venne concordata con i soli membri cuperliani presenti in Direzione, riunendo tutti gli altri a cose fatte, all’indomani. I più marinarono con la seguente motivazione: «Quel che è successo lo abbiamo già visto in streaming».
L’insofferenza è riesplosa l’altro giorno dopo la presentazione del documento della minoranza “Fuori dalla crisi”. Un’elaborazione programmatica per il governo che sarebbe gemmata tra pochi. Carlo Galli, che avrebbe voluto inserire un capitolo sull’abolizione degli F35, se ne è lamentato per iscritto. Di fronte a queste critiche Cuperlo ha sentito il bisogno mercoledì scorso di scrivere una mail nella quale si dice dispiaciuto per i malumori, spiegando di aver consultato i colleghi più addentro alle tematiche Europa, Lavoro, Riforme», e promettendo in futuro di affinare il metodo, allargando il ventaglio dei contributi «alle colleghe e colleghi nelle commissioni di merito». Basterà?
l’Unità 21.2.14
Maggioranza in stallo Alfano alza il prezzo
Flop del vertice di maggioranza sul programma
Il nodo della legge elettorale
Tre condizioni imprescindibili per far nascere il governo
Il capo Ncd non molla l’Interno e rilancia
di Claudia Fusani
L’atteso vertice di maggioranza sul programma convocato nel pomeriggio è stato un flop. Anzichè uscire con il mitico foglio Excel con il cronoprogramma delle cose da fare, i 21 presenti, capigruppo e delegati di nove partiti, portano con sè un foglietto a quadretti con appunti sparsi presi a penna. Alle sette di sera lo stato maggiore di Ncd è riunito in un consiglio di guerra. Fabrizio Cicchitto avverte: «Siamo ai materassi, se così restano le cose noi non ci stiamo e salta tutto». Pochi minuti dopo qualche collaboratore di Renzi fa uscire la notizia che «in serata (ieri, ndr) ci sarà un incontro tra il premier incaricato e lo stesso Alfano». Peccato che allo staff del leader di Ncd non risulti alcun tipo di incontro.
Questa è la situazione a 36 ore dalla nascita del governo Renzi: il caos, un misto di diffidenze, bugie, bluff, rilanci e sfide una appresso all’altra. Un tavolo da poker dove le carte restano scoperte mail tempo è quasi scaduto. Poi magari andrà tutto miracolosamente a posto e in tempo per domattina quando il premier incaricato ha promesso di salire al Colle con la lista dei ministri e il relativo programma di governo. Ma per ora il giocatore più importante, Ncd e i suoi 31 senatori senza i quali Renzi non ha i numeri per nascere, si tiene le carte in mano e non vuole giocare la partita. Che il premier incaricato considera invece in qualche modo già vinta.
La giornata, ieri mattina, comincia malissimo. La notte aveva chiarito che quei sette minuti di faccia e faccia tra Renzi e Berlusconi nella sala del Cavaliere che ospita le consultazioni erano la prova di un accordo tra i due: facciamo la legge elettorale, Matteo solca la passerella del semestre Ue e poi si va a votare a maggio 2015. Quando Silvio avrà concluso i dieci mesi di pena. Matteo e Silvio uniti nell’obiettivo di annientare politicamente Angelino e gli ex azzurri.
Così alla riunione dei gruppi convocata ieri mattina al Senato alle 8 e 30 Alfano, Quagliariello e Cicchitto dettano «le tre condizioni non più negoziabili » per entrare nel governo: la clausola di salvaguardia che vincola l’entrata in vigore della legge elettorale alla riforma del Senato («sarebbe l’assicurazione per il programma di legislatura fino al 2018 promesso da Renzi, non si capisce perchè non lo vuole»); i contenuti dettagliati del programma; i ministri Ncd e la squadra di governo. Si tratta di antidoti per un veleno specifico e antico che si chiama “politica dei due forni”, cavallo di battaglia della prima repubblica quando le maggioranze nascevano variabili. Con tutte quello che ne conseguiva.
Tre nodi complicatissimi. E poco tempo per scioglierli. Tra scetticismo e malumori, lo stato maggiore di Ncd attende la convocazione della riunione di maggioranza sul programma. Alfano l’aveva chiesta e lanciata due giorni prima come segnale distensivo. È con vocata per le 12 e 30, nella grande sala del Ministero per gli affari regionali, la stessa che per mesi ha ospitato i 40 saggi che avrebbero dovuto scrivere le regole di una nuova Costituzione. Solo che Renzi non c’è in quanto «allergico ai tavoli di maggioranza». Lo sostituisce Delrio. Un’assenza che, nei fatti, squalifica l’incontro. Che infatti risolve poco. Anzi, nulla. «Ci sono molte criticità nel programma di governo» twitta a un certo punto il capogruppo di Ncd Maurizio Sacconi presente al tavolo con Gaetano Quagliariello e Renato Schifani.
Equivale a una fumata nera. Il capogruppo dei Popolari Lorenzo Dellai parla di «momento di grande delicatezza»: «La cosa più importante da chiarire è il rapporto fra legge elettorale, riforme e questo programma di governo. Serve una sola maggioranza e non è positivo che ce ne siano due, una sul governo, una sulle riforme». Pino Pisicchio e Bruno Tabacci (Centro democratico) insistono anche loro sulla necessità di dare garanzie a tutto il percorso delle riforme «che altrimenti non avrebbe senso ». Marianna Madia e Filippo Taddei (Pd) abbozzano un «va tutto bene». Delrio, padrone di casa, cerca di rassicurare: «Nessuno ha mai parlato di doppie maggioranze. Cerchiamo solo di fare le riforme con tutti».
Sono le tre del pomeriggio. Negli appunti a penna restano alcune parole chiave del programma: «Credito alle imprese; lavoro, più apprendistato, meno Irap e meno Ires; fisco; ricerca e innovazione; burocrazia; infrastrutture; mezzogiorno ». Dice sconfortato uno dei presenti: «Siamo appena ai titoli». Alla riunione neppure un’idea sulla squadra di governo.
Avanza il pomeriggio, si fa sera. Qualcuno cerca di ridurre la resistenza di Ncd ad una faccenda di poltrone. Renzi sarebbe disponbile a dare anche quattro ministeri, ovviamente minori, a Ncd pur di non avere più Alfano tra i piedi. «Cerca di capirmi» gli ha detto, «come faccio a parlare di discontinuità se ci sei tu?». Dal suo punto di vista Renzi ha certamente ragione. Peccato che il governo o lo fa con Berlusconi o lo fa con Alfano. Questione di matematica. Ma la presenza di Alfano al governo è ormai una questione di bandiera. Quindi Lupi e Lorenzin confermati. Angelino non ha fatto gli scatoloni al Viminale. Ea questo punto rilancia anche su palazzo Chigi. Saranno le 36 ore più difficili di sempre.
il Fatto 21.2.14
Renzi: AAA Ministri cercansi
Rischio governo balneare
Il vertice Ncd finisce male, Alfano insiste: “Lasciatemi al Viminale”
Ma il premier incaricato: “Io sono io, non faccio il Letta”
di Wanda Marra
Poche ore e chiudiamo tutto”. Sono le 18 e 30 quando Matteo Renzi esce a passo spedito dal Nazareno, dove ha passato l’ennesima giornata a compilare liste, telefonare, mandare sms. Trattare. Va a incontrare Luca Cordero di Montezemolo. In maniera indiretta, come sta facendo da una settimana (quello di ieri è già il terzo incontro) gli va a chiedere di accettare un ministero. L’idea iniziale era quella di una sorta di Made in Italy, poi, dopo il no di Andrea Guerra, è entrato nella rosa per lo Sviluppo economico. Ieri, ambienti vicini al presidente della Ferrari raccontavano che gli avrebbe offerto addirittura la guida del ministero dell’Economia. Mentre invece da ambienti renziani si spiegava: “Curerà alcuni progetti con il commercio estero”. Quel che è certo è che anche Luca di Montezemolo ha detto “no” a un ministero.
CHE IL GOVERNO si chiuda nessuno (o quasi nessuno) lo mette davvero in dubbio, sul come e su quanto potrà durare aumentano i punti interrogativi. Raccontano che al Quirinale le preoccupazioni di un governicchio balneare crescano. Anche l’altra sera al Colle hanno dovuto spiegare al premier incaricato le prossime scadenze da rispettare in Europa, il funzionamento dei vincoli, la difficoltà di non rispettarli, al di là della volontà politica. Napolitano, spiegano, in questa fase da una parte “sta cercando di dare una mano”. Dall’altra, si tira fuori: quello che sta per nascere non è un governo del presidente, non viene fuori da una sua precisa volontà, come gli esecutivi di Monti e Letta. È un tentativo che si intesta Matteo. D’altra parte, sono due mondi che si incontrano poco: Renzi non è abituato a fare lo slalom tra i gangli del potere, quello vero, non conosce fino in fondo le regole del gioco della diplomazia internazionale e dell’economia nazionale. E, dunque, per il Quirinale è un punto interrogativo. Per altri, una certezza: mentre molti funzionari di Stato facevano la fila per entrare nei precedenti governi, in questi giorni molti stanno facendo gli scatoloni per uscirne. Intanto, i confini e i contenuti della maggioranza e dell’esecutivo sono ancora indefiniti. Per l’Economia, Renzi non si è ancora piegato a Guido Tabellini. La sua vera alternativa politica, ovvero Graziano Delrio (che ieri ha ricevuto il gradimento di Squinzi, il presidente di Confindustria), con due vice indicati da Draghi non ha convinto né Bankitalia né il Colle. E allora potrebbe toccare all’economista Piercarlo Padoan. Oggi ci sarà l’ultimo incontro al Colle, prima di sabato (scadenza che il presidente del Consiglio incaricato si è dato per presentare la lista) per sciogliere questa e le altre questioni aperte . Se è per l’Interno, infatti, è ancora in corso il più classico braccio di ferro con Angelino Alfano. Renzi lo vorrebbe fuori dal governo, quanto meno per marcare il più possibile la discontinuità dall’esecutivo precedente. “Devo fare il Renzi, non il Letta”, spiegava ai suoi stretti collaboratori in serata. Tant’è vero che se potesse lascerebbe fuori pure Lupi e Lorenzin (a favore di altri del Ncd). E anche Dario Franceschini. Operazione quasi impossibile, visto il potere nel Pd del ministro per i Rapporti con il Parlamento uscente.
DIFFICILE pure gestire il puzzle, facendo lo slalom tra le richieste di Forza Italia (il vero perno su cui si regge l’operazione Renzi 1) e quelle di Ncd (il principale alleato di maggioranza), che si fanno la guerra tra loro. Ieri, il vertice di maggioranza degli alfaniani con Delrio (Renzi si è ben guardato dall’andarci) è fallito. “Molte criticità sul programma”, twittava Sacconi. Mentre qualche dirigente di peso si sfogava: “Renzi è di un’arroganza, un’arroganza...”. “Chiediamo che le riforme partano dalla maggioranza, che l’Italicum entri in vigore solo dopo la riforma del Senato e una serie di assicurazioni sul programma”, spiega Gaetano Quagliariello. Esattamente l’opposto di quello che manda a dire Berlusconi: “La legge elettorale va votata quanto prima”. E “siamo pronti al voto, che potrebbe esserci tra un anno”. Difficile pensare che Ncd possa puntare i piedi più di tanto e non entrare al governo. E oggi Alfano e Renzi dovrebbero incontrarsi. Insomma, che alla fine il Renzi 1 si riveli un governo di breve respiro, pronto a portare il Paese alle elezioni in pochi mesi, è una sensazione che comincia a circolare in vari ambienti, dal Colle in giù.
La Stampa 21.2.14
Paesi e buoi
di Mattia Feltri
Siccome si è già perso tempo, fra consultazioni e vertici vari, si comincia a dire che questo governo sarà come gli altri: impantanato, macchinoso, indeciso a tutto. Quel che è peggio è che se ne attribuisce la responsabilità al Ncd e in particolare ad Alfano. Sostenere che Alfano è un politico lento è ignobile e contro ogni evidenza. Se non ci credete, fate la prova: «Angelino, la vedi quella laggiù? È la poltrona da ministro dell’Interno... ». Avete visto che scatto?
La Stampa 21.2.14
Premier, se ci sei batti un colpo
di Marcello Sorgi
Anche se nella storia di tutte le crisi c’è sempre un momento di stallo, forse è venuto il momento di dire a Renzi: Matteo, se ci sei batti un colpo! Per intendersi, qualcosa di più delle battute con cui ieri sera ha liquidato una giornata segnata da evidenti difficoltà e da resistenze dei suoi alleati, che a cominciare da Ncd sono arrivati a mettere in discussione la possibilità stessa di formare il governo.
Renzi è ovviamente libero di considerare pura tattica i mugugni e le espressioni tese dipinte sui volti dei partecipanti al vertice di maggioranza sul programma un vertice, per inciso, concluso senza risultati -, e di scommettere che oggi si sciolgano i dubbi di Alfano e degli altri suoi partners, con cui ha comunque dovuto trattare fino a tarda sera: più il tempo stringe, infatti, e più la paura delle elezioni anticipate dovrebbe spingerli verso la resa. Ma se anche questa dovesse essere la conclusione, un esecutivo nato per costrizione, piuttosto che per convinzione, non è di sicuro destinato a vita serena.
Certo, nessuno può aspettarsi che Renzi faccia un governo che non gli somigli, e non si imponga, da subito, per il tasso di novità connaturato
alla personalità del leader del Pd. E tuttavia emerge la necessità che il presidente incaricato risolva le questioni che ha davanti con un metodo diverso da quello, fin qui efficace, con cui ha affrontato la corsa vittoriosa delle primarie e la difficile scelta del cambio di governo.
Prendiamo il nodo del ministro dell’Economia: che sia meglio continui a essere un tecnico, perché altrimenti l’Europa e i mercati finanziari non si sentirebbero abbastanza rassicurati, è senz’altro logico, non può però essere vincolante. D’altra parte, se Renzi vuole davvero che sia un politico, il suo programma europeo non può essere limitato allo slogan «allentiamo il vincolo del 3 per cento»: perché proprio Renzi dovrebbe essere il primo a sapere che si tratta, al momento, di un obiettivo difficilmente realizzabile, ed enunciarlo o ripeterlo serve solo a mettere in allarme le autorità di Bruxelles con cui l’Italia dovrà sempre fare i conti. Diverso, e in un certo senso sorprendente, sarebbe se l’incaricato, prima ancora di leggere in Parlamento il suo discorso programmatico, spiegasse con il suo linguaggio fresco e immediato quali riforme economiche effettivamente intende fare, non soltanto quali titoli ha in mente, nei settori in cui l’Europa ci considera in ritardo e incapaci. Monti, per dire, si presentò ai partners dell’Unione con la riforma delle pensioni approvata per decreto. E sebbene quella legge, in Italia, pur risolvendo un problema, doveva malauguratamente crearne altri, come biglietto da visita funzionava, e consentì ai severi commissari della Ue di allentare i cordoni della Borsa e mettere in condizione il successivo governo Letta di distribuire un po’ di soldi alle imprese.
Allo stesso modo, se Renzi, alla vigilia del semestre italiano di presidenza europea, fosse in grado, tanto per fare un esempio, di mettere sul tavolo la riforma dei contratti di lavoro e quella del cuneo fiscale, che soffocano il mercato del lavoro, non sarebbe solo un colpo di immagine. La sua credibilità in Europa si rafforzerebbe molto e i vantaggi per l’Italia sarebbero conseguenti. In fondo, è esattamente questo l’auspicio venuto ieri dall’Eurogruppo di Bruxelles.
Analogamente la questione del rapporto con gli alleati prenderebbe una piega diversa. Se la sfida è realmente quella di un governo riformatore, animato da «grandissima ambizione» come ha detto Renzi all’atto di proporsi al suo partito come candidato a Palazzo Chigi -, Ncd, Scelta civica, Popolari e tutti gli altri alleati non potranno che condividerla. E se Berlusconi e le altre opposizioni, sulla legge elettorale o sulle riforme istituzionali, volessero dare il proprio contributo, anche questo, in presenza di patti chiari, non dovrebbe rappresentare un problema. Perché le riforme più urgenti non sono di sinistra o di destra, sono solo necessarie. E governare l’Italia, almeno per i prossimi anni, sarà far quel che si deve, e non ciò che si vuole.
È invece l’incertezza, la genericità delle proposte, a rendere gli interlocutori nervosi e a fargli avanzare pretese dif-
ficili da capire, e soprattutto da spiegare in Europa: impegni scritti a non andare ad elezioni anticipate prima di una certa data, o a cambiare i termini dell’accordo sulla legge elettorale già in discussione alla Camera, o sospenderne l’efficacia almeno fino all’approvazione di tutte le altre riforme; richieste di conferme negli incarichi, negli stessi ministeri, con le stesse persone; rifiuto di accantonare questioni spinose, ma non cancellabili, come quelle dei diritti civili. Ostacoli, questi, che possono servire più a non far nascere il governo, o a renderlo più debole, che non a costruire un nuovo accordo di maggioranza.
In altre parole, gli alleati non possono chiedere a Renzi di non essere Renzi. Ma pretendere che, smessi i panni del sindaco, si cali fino in fondo in quelli del premier, questo sì.
La Stampa 21.2.14
Muro contro muro
Renzi e Alfano già ai ferri corti
“Poche ore e chiudiamo”. Schifani: siamo solo ai titoli
di Amedeo La Mattina
Renzi vuole evitare in tutti i modi che passi l’idea di un remake, del Letta bis dopo avere maciullato Enrico, mettendosi accanto Alfano come comprimario assoluto. Vuole libertà di scelta nella formazione della squadra (anche per la poltrona dell’Economia) e non dà garanzie sulla durata del governo. Si rifiuta di scrivere come premessa al programma quella clausola di salvaguardia che consenta di mettere nel freezer la legge elettorale in attesa della riforma costituzionale del bicameralismo. Il premier incaricato giura che il suo sarà un governo di legislatura, scadenza nel 2018, ma il Nuovo Centrodestra non si fida e attende un faccia a faccia chiarificatore tra Matteo e Angelino che molti davano per certo nel pomeriggio di ieri. Invece l’incontro non c’è stato. Forse si vedono in tarda serata, sussurravano a largo del Nazareno sede del Pd, magari non se ne fa niente. Intanto il leader del Pd si negava ad Alfano e incontrava Montezemolo. Ma per «parlare di Alitalia» non di incarichi di governo. Una cosa è certa, spiegavano infastiditi i renziani: la riunione sul programma è andata bene, si sono cominciati a scrivere i contenuti, ma un tweet di Sacconi ha rovinato tutto. «Ci sono molte criticità nel programma di governo», scriveva il presidente dei senatori di Ncd dal bunker. A quel punto, Delrio l’ha presa proprio male e ha chiuso la riunione. Corda tesissima, alimentata da Berlusconi che dice ai suoi parlamentari di tenersi pronti alle elezioni (il prossimo anno?). Anche Renzi ci mette del suo per innervosire Alfano. Uscendo dal partito ha fatto capire che non ha tempo per i riti della Prima Repubblica, riunioni maggioranza, vertici segreti con i leader alleati, trattative sui ministri. «Questioni di ore e chiudiamo tutto», dice ai cronisti lasciando il partito. Come poche ore? E l’aut aut di Alfano sul programma che non è stato scritto? «Sì spiega Schifani siamo ancora ai titoli, non siamo entrati nel merito. Io ho chiesto a Delrio di approfondire e integrare le proposte programmatiche ma mi è stato detto che bastava quello che era stato fatto. Delrio mi ha poi detto che quello non era il tavolo per parlare di clausola di salvaguardia. Invece deve chiaro che la legge elettorale non può essere approvata prima della riforma del Senato».
Insomma, un vertice di maggioranza fallito. «Ma non è vero ha precisato Delrio, l’uomo ombra di Renzi è andato benissimo: abbiamo fatto una sintesi dei documenti portati da ogni singolo partito». E le criticità di cui ha parlato Sacconi nel suo tweet? «Non ce ne sono. Non vorrei che avesse scritto quel messaggio per altre ragioni»», liquida la faccenda la responsabile Lavoro del Pd Madia. Ovvero per i Democratici l’Ncd ha in testa solo poltrone. Gli accusati di poltronismo rifiutano sdegnati questa insinuazione. Ma fonti del Pd parlano di un braccio di ferro dovuto al fatto che Alfano rischia di perdere il Viminale. Anzi, Renzi non lo vorrebbe nel governo per poter segnare la forte discontinuità con Letta. «Senza accordo di programma non parliamo di ministri», dice il capogruppo Ncd Enrico Costa. «E poi avverte Cicchitto se non c’è Alfano nel governo non c’è nemmeno il Nuovo Centrodestra». «A queste condizioni si sbilancia Pizzolante di Ncd siamo fuori. Renzi vuole un governo a tempo e portarci al voto nel 2015 con l’accordo di Berlusconi». Ncd rompe? «Se Alfano si fila dal governo io mi faccio monaca», promette Daniela Santanchè con sconfinato sarcasmo.
La Stampa 21.2.14
E con il Quirinale continua lo stallo sul ministro del Tesoro
di Antonella Rampino
Matteo Renzi potrebbe salire al Colle stasera, e poi sciogliere la riserva il mattino dopo in modo da avere tempo per la composizione del governo e arrivare al giuramento dei ministri entro domani sera. Se sarà così, ci sarà un bis dell’incontro di due ore di mercoledì che alcune «ricostruzioni giornalistiche» hanno tratteggiato come teso, mentre invece «si è trattato di uno scambio di opinioni svoltosi su richiesta del presidente incaricato e in un clima di serena collaborazione istituzionale», si legge in una nota del Quirinale emessa poi ieri sera.
Il fatto è che Renzi, uscito dal colloquio con Napolitano avrebbe dato a un quotidiano la propria versione virgolettata e alla quale evidente mente tiene perché da lui non è arrivata alcuna smentita. Si narra di una dicotomia con il capo dello Stato sul profilo del ministro dell’Economia e non solo che per Napolitano dovrebbe essere in grado di colloquiare con l’Europa e per Renzi, «non ci piove» il punto è «deve collaborare con me». Dichiarazioni tranchant, con tono sfrontato, come se Napolitano volesse mettere il naso in qualcosa che non gli compete, insomma. Che il Quirinale abbia precisato, la dice lunga trattandosi di un potere, quello di nomina dei ministri, che a termine di Costituzione vigente non è in capo al presidente del Consiglio, ma condivi-
so con il presidente della Repubblica. La nascita del gabinetto Renzi è dunque ben più tortuosa di altre, Napolitano è pienamente consapevole che non si tratta come con Monti e con Letta di «governi del presidente», e con quella nota segnala che ci tiene a mantenere un atteggiamento di distacco, avendo ricevuto il premier in pectore su sua espressa richiesta. E chissà, forse, un premier incaricato a 39 anni, che non ha mai nemmeno fatto il parlamentare e né esordito sulla scena internazionale farebbe bene ad ascoltarle, almeno, le osservazioni di un uomo esperto come Giorgio Napolitano.
Al Quirinale poi al momento l’attenzione è concentrata sul profilo complessivo del governo, che dovrà rispondere alle aspettative del sistema Europeo, e con personalità in grado di colloquiare da pari a pari con gli altri leader, se non si vuol buttare nel cestino quanto faticosamente conquistato sin qui dai predecessori di Renzi. A Roma ieri sono circolate voci di un incontro lo scorso week-end a Castelporziano tra Napolitano ed Enrico Letta. E all’attenzione del Quirinale è anche la tenuta politica e parlamentare del nascente esecutivo. Ieri, pessime notizie: avvitamento sul nome per l’Economia, e vertice di maggioranza di esito negativo. Senza contare la doppia maggioranza, di governo con Alfano e per le riforme con Berlusconi. Se Renzi si presentasse da Napolitano con l’accordo sottoscritto da tutti gli alleati, come chiedeva Alfano, tutto filerebbe liscio (e però la bozza di programma che circola è un elenco di titoli). Ma adesso il Pd fa sapere «nessun accordo scritto». Tutti sanno, a Roma, quel che Renzi va dicendo: al governo volti giovani, tutti quarantenni. Fosse per lui, Del Rio sarebbe a Via XX Settembre, e il già city manager di Reggio Emilia sottosegretario a Palazzo Chigi. E al Colle si percepisce una certa incredulità, possibile non si renda conto della differenza tra una piccola città e il governo del Paese, fosse solo per la complessità delle procedure? Ce ne sarebbe di che immaginarsi che si voglia allestire un esecutivo che porti alle elezioni a breve giro...
Corriere 21.2.14
Retroscena. L’incontro fra i due leader. Ncd: su Fisco, diritti e lavoro non torniamo indietro
Il difficile confronto nella notte
Il primo scoglio è il programma
Alfano: ci sono colonne d’Ercole che non possiamo superare. Il nodo dell’Italicum
di Francesco Verderami
qui
l’Unità 21.2.14
Quel vuoto a sinistra
Il partito, le storie e le culture: quel vuoto da colmare a sinistra
di Claudio Sardo
La nascita del governo Renzi, ancor più dell’esito delle primarie di dicembre, rischia di allargare il vuoto a sinistra, e di acuire quel senso di estraniazione, o di spaesamento, che oggi colpisce parti non marginali del popolo democratico. Renzi farebbe bene ad affrontare il tema con serietà.
Tenendosi alla larga dalle sirene che lo invitano a tagliare di netto con storie e culture, che lo spingono a cementare (contro i suoi stessi alleati di governo) un rapporto preferenziale con Berlusconi, che lo descrivono (impropriamente) come un democristiano sperando così che rottami anche quella cultura e soprattutto il suo legame inscindibile con i principi della Costituzione.
A questo punto, il nodo più intricato non è il rinnovamento generazionale. Il ricambio della classe dirigente del Pd è stata indubbiamente la più consapevole delle scelte compiute con le primarie. Non è da questa che Renzi deve retrocedere. Ma sarebbe per lui un errore grave trasformare il passaggio di testimone nella rimozione di una storia, di una radice sociale e culturale, di un punto di vista sulle ingiustizie provocate dalle crisi. Sarebbe un errore ancor più grave oggi che le ricette dell’austerità, che la deriva individualista della società, che il trasferimento di poteri reali a favore di oligarchie e tecnocrazie esterne al circuito democratico, hanno spinto l’Occidente sull’orlo del fallimento. La destra ha fallito e sarebbe inconcepibile che la sinistra non rivendicasse il proprio tentativo di cambiare le cose. È vero, anche la sinistra ha sbagliato, e molto, nel trentennio trascorso. Ma compito di chi vuole rinnovare è ricostruire quelle ragioni, dando ad esse risposte nuove per tempi nuovi (a partire dall’alleanza tra lavoro, ricerca, impresa contro rendite e corporazioni). Un governo comunque da solo non basta - e non basteranno neppure gli «effetti speciali» - senza un’ambizione più grande della gestione ordinaria. Il duello con Grillo da un lato e le lusinghe del Cavaliere dall’altro danno l’idea dei rischi che corre Renzi e di quanti ostacoli sarà disseminato il suo percorso. «Senza sinistra né destra» è l’ideologia autoritaria di Grillo e Casaleggio, che favoleggia di iper-democrazie del web ma intanto riduce i cittadini sempre più a monadi isolate. Cerca di lusingare l’Io (avvilito dalla crisi) per impedire il Noi, i corpi intermedi, i partiti, la solidarietà umana (che richiede l’incontro, il tenersi per mano, e che non ha nulla a che vedere con il consenso devozionale al guru). La sua è l’ideologia più funzionale alle oligarchie che finge di contrastare. Ma anche Berlusconi vuole cancellare la destra e la sinistra per far dimenticare la sua catastrofica esperienza di governo. Vuole che quello di Renzi diventi nei fatti un governo Renzi-Berlusconi, cementato da riforme istituzionali di segno presidenzialista. Ci auguriamo che il segretario del Pd dia un taglio netto a questi disegni. Può farlo. Ed è una sua evidente convenienza.
I modi con i quali è stato rimosso Enrico Letta, il deficit di spiegazioni che ancora perdura, le incognite programmatiche, la sensazione che la logica del potere prevalga sul merito, ecco tutto questo deve preoccupare il presidente del Consiglio. E spingerlo a un confronto aperto, non diplomatico, con coloro che lo hanno votato, con chi ha partecipato alle primarie senza votarlo, con chi a sinistra ha maturato diffidenza e sospetto. Un governo nasce per l’Italia, certo non soltanto per la sinistra. Ma Renzi sarà il primo segretario del Pd a ricoprire la carica di presidente del consiglio, nonostante la strana maggioranza di cui fanno parte anche forze di centrodestra. La squadra di governo è importante: non ascolti solo voci esterne. In ogni caso, non ascolti chi declama la sua leadership come se fosse isolata dal contesto, come se il partito fosse un’impaccio al suo carisma: questa lusinga prelude al logoramento e alla rottamazione futura. Solo rinnovando e ricostruendo le radici sociali del Pd, Renzi potrà sviluppare una politica. Peraltro il vuoto a sinistra, può anche produrre fratture, disimpegni, spinte minoritarie e suicide. Le elezione regionali in Sardegna hanno ulteriormente dimostrato che il voto a Grillo non è riconducibile ad un progetto di sinistra, per quante dosi di radicalismo si possano immettere. Il 60% degli elettori grillini di febbraio 2013 è rimasto a casa. Il risultato di Michela Murgia è stato negativo. Più del 20% dei consensi di Grillo sono finiti alla destra e una quota appena inferiore è stata distribuita tra Pigliaru e Murgia. Sono invece andati meglio delle previsioni, e hanno contribuito al successo del centrosinistra, le forza di sinistre che si sono alleate con il Pd. Insomma, il futuro della sinistra passa ancora oggi anzitutto dal Pd. Dalle politiche, dalla cultura, dalla rete sociale che sarà in grado di mobilitare per il cambiamento. È una responsabilità storica. Le grandi speranze che Renzi ha suscitato, non devono essere disperse. Fra pochi giorni, subito dopo la nascita del governo Renzi, il Pd entrerà nella famiglia socialista europea. È una grande occasione. La sinistra, socialista e democratica, è alla prova decisiva della svolta europea. O si cambia, o si muore. Il Pd deve giocare bene la partita. Cambiare non è un verbo neutro che indica modifiche purchessia. Cambiare ha un senso se vuol dire creare lavoro attraverso investimenti, offrire opportunità a giovani e donne, integrare l’Europa anziché abbandonarla alla logica intergovernativa (che sta portando al crac dell’euro). La candidatura unitaria di Martin Schulz è un perno di questa battaglia. La stessa ipotesi di Tsipras può avere un segno positivo solo se, alla fine, confluirà nel sostegno a Schulz. Se non sarà europea, la sinistra è destinata a essere inghiottita dalle diseguaglianze e dalle indignazioni nazionali. E il tentativo di Renzi non può essere estraneo a questa battaglia democratica.
l’Unità 21.2.14
Tronti: «Dopo la crisi offensiva anti Keynes»
di R. G.
Il paradigma con cui la sinistra italiana, ma anche quella di Hollande, guarda alle politiche neoliberiste è vecchio e sbagliato. Ed è per questo che spesso ne è contaminata, non riuscendo ad esprimere politiche e simbologie alternative. È questo l’assunto da cui partono Pierre Dardot e Christian Laval, filosofo l’uno e sociologo l’altro, che ieri hanno presentato a Palazzo Giustiniani la loro analisi contenuta nel libro “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista”, tradotto da Derive/Approdi.
I due professori francesi, che animano il gruppo Question Marx, hanno presentato la loro opera di decostruzione del vecchio mito del neoliberismo, inteso come lassez faire e ritorno alla giungla selvaggia del mercato, nel 2009 in Francia, assolutamente in controtendenza rispetto alle tesi dominanti. Allora, sulla scia di ciò che scriveva Joseph Stiglitz, si dava per scontato che con la crisi anche le ricette del neoliberismo sarebbero andate in soffitta. «Invece c’è stata una controrivoluzione antikeynesiana» ha chiosato Mario Tronti. Non si è neanche affermato, dunque, un paradigma differente. Il motivo, per i due studiosi, sta in un errore di lettura del fenomeno. La loro tesi di fondo è che il neoliberismo, o meglio il neoliberalesimo, non va confuso con il vecchio adagio classico di «meno Stato più mercato», al contrario la versione aggiornata e adattata alla concorrenza planetaria trova proprio nello Stato il suo agente principale di trasformazione e allargamento capillare. È chiaro che in questo processo anche lo Stato, la cosa pubblica, non resta uguale ma viene permeato esso stesso dall’imprinting neolib. La trasformazione di cui parlano, mutuando strumenti da Foucault e Lacan, si è fatta anche antropologica: è arrivata a plasmare non solo la società, con i suoi corpi intermedi, ma l’individuo nel suo approccio alla vita, lavorativa, economica, politica e personale. L’uomo si deve concepire come imprenditore di sè stesso, come capitale umano, mentre la managerialità diventa il metro neutro della gestione dei servizi. Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi e deputato Pd, è stato l’unico tra gli oratori - gli altri erano Mario Tronti e Claudio Martini, senatori Pd - a non rimanere affascinato dall’analisi contenuta nel saggio. «La managerialità -ha detto Gutgeld - che i due autori vedono in ottica critica, io la ritengo invece un elemento importante dello Stato moderno, lo Stato sociale, che ha molti più compiti della sua versione precedente, lo Stato-esercito».
Per lui in ogni caso la concorrenza non è una panacea e «va limitata e gestita anche quando serve». Può essere improduttiva, e fa l’esempio della sanità Usa, dove un ricovero può costare anche 5mila, contro mille da noi. Il mercato concorrenziale da solo – dice - «non risolve i problemi di efficienza e benessere». I suoi tre valori di fondo sono equità - «non eguaglianza», precisa - libertà e sviluppo. Il dibattito teorico non è andato oltre, una volta contestata l’impostazione di Dardot e Laval come ideologica, assumendo come riferimento il pragmatismo di William James e Charles Sanders Pierce, teorici che però Dardote Laval inseriscono a pieno titolo nell’ideologia neolib.
Dardot e Laval nella loro ricerca di soggettività non competitive in serata sono andati al Valle Occupato. La loro prossima opera, che uscirà a settembre, si baserà sul concetto di beni comuni.
Corriere 21.2.14
L’abolizione del finanziamento pubblico
Soldi ai partiti, attenti al trucco
Tutti i dubbi di una (quasi) svolta
di Gian Antonio Stella
qui
Corriere 21.2.14
Quarant’anni dopo la ricerca della verità su piazza della Loggia
di Giovanni Bianconi
«Io mi rendo conto che siamo a quarant’anni di distanza dai fatti», esordisce e conclude il pubblico ministero dell’undicesimo processo per la strage di Brescia, 28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti. «Ormai di questa vicenda dovrebbe occuparsi la storia, ma anziché all’archivio di Stato ne stiamo ancora discutendo in un’aula di giustizia», spiega con malcelata frustrazione il sostituto procuratore generale Vito D’Ambrosio. Dopo tanti tentativi non ci sono colpevoli condannati. Il verdetto d’appello del 2012 ha assolto gli imputati residui — tre ex estremisti di destra (uno, Carlo Maria Maggi, che il pm continua a indicare come mandante dell’attentato, ha compiuto 79 anni) e un carabiniere in pensione — con una sentenza che il pm definisce «illogica e contraddittoria». Ecco perché chiede alla Corte di cassazione di annullare quel verdetto: «Una decisione segnata da così gravi carenze e lacune non può rimanere l’ultimo atto di ricerca della verità. Nemmeno dopo quarant’anni». È la stessa aspettativa dei familiari delle vittime. Il presidente dell’Associazione, Manlio Milani, il 28 maggio ‘74 era in piazza della Loggia per manifestare contro il terrorismo nero insieme alla moglie, uccisa dalla bomba. Ieri era in aula, come sempre da quarant’anni. «È vero che è passato tanto tempo — dice — ma noi ne chiediamo ancora un po’ per avere una verità che si presenti come tale. Con il tempo la verità storica e quella processuale si stanno avvicinando, ormai i depistaggi e la responsabilità dell’area della destra sono assodati». Tra oggi e domani la Cassazione deciderà se concedere un’altra possibilità, oppure no. Se dichiarare la resa della giustizia e la vittoria finale dei depistaggi — quelli sì, accertati, a differenza dei colpevoli — attivati da subito per occultare le trame nascoste dietro la strage, o insistere nella ricerca di quella prova che finora, secondo i giudici, non è emersa dagli indizi raccolti. È uno dei paradossi italiani: apparati dello Stato si sono adoperati per proteggere i responsabili delle bombe (a Brescia e altrove, da piazza Fontana in poi), riuscendoci al punto che quarant’anni dopo altri rappresentanti dello stesso Stato si ostinano a chiedere un nuovo processo. Per piazza della Loggia sarebbe il dodicesimo. Comunque andrà, per lo Stato sarà una sconfitta. Anche se c’è modo e modo di perdere.
il Fatto 21.2.14
Italia violenta
Il giudice inglese salva i migranti
di Andrea Valdambrini
Pericolo di “trattamento disumano” in Italia. Con questa precisa motivazione la Corte suprema del Regno Unito ha riaperto il caso di quattro migranti che chiedono asilo politico a Londra e soprattutto non vogliono non essere riportati in Italia, Paese da cui provengono – come moltissimi altri nelle loro condizioni – e in cui, secondo le regole europee, dovrebbero tornare come per chiedere asilo se espulsi da un altro Stato dell’Unione europea. Si tratta di 4 rifugiati, un iraniano e 3 eritrei di cui due donne, che hanno denunciato violenze e maltrattamenti da parte delle autorità italiane. Secondo la Bbc, la denuncia più grave sarebbe quella delle due donne, che hanno affermato di aver subito ripetutamente violenza. Una di loro ha espresso volontà suicide al pensiero di essere riconsegnata all’Italia, mentre l’iraniano ha sostenuto che nel nostro Paese mancherebbero e cure necessarie per chi, come lui, ha subito più volte torture nel suo Paese. Alle testimonianze ha dato credito Lord Kerr, uno degli alti magistrati che compongono la giuria della Corte di Londra. Il giudice argomenta che non si può respingere nessuno in un altro Stato se c’è il rischio che un richiedente asilo possa subire un trattamento “disumano e degradante”, come specificano le regole della Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. A dire il vero il caso non è chiuso. I 4 rifugiati avevano fatto ricorso contro il ministro degli Interni, la conservatrice Theresa May, che li avrebbe rispediti volentieri a Roma, sostenendo che l’Italia non viola le convinzioni internazionali sul diritto d’asilo.
Il ricorso contro il ministro era stato perso in appello, ma poi i 4 si erano rivolti alla Corte suprema. L’ultima parola spetta ora a un altro organo giuridico, l’Alta Corte, che sarà chiamata a stabilire se esiste un reale rischio di violazione dei diritti umani in Italia. E se dunque i 2 uomini e le 2 donne arrivati in Inghilterra attraverso l’Italia hanno motivi fondati per non voler tornare.
l’Unità 21.2.14
Legge 40: ricominciamo
di Carlo Flamigni e Maurizio Mori
L’idea di scrivere un secondo libro sulla legge 40 del 2004, quella che si proponeva di regolamentare le tecniche di fecondazione assistita, l’avevamo in testa da tempo. Tra altro eravamo infastiditi dall’idea che la riflessione sui problemi della bioetica fosse stata fatta tacere d’autorità (non si dimentichi la “moratoria” chiesta sui temi etici, considerati “divisivi” e quindi inutili e dannosi nel momento in cui il Paese è sull’orlo della bancarotta).
Il nostro primo libro («La legge sulla fecondazione assistita o Le ragioni dei quattro sì», pubblicato nel gennaio 2005), era stato un inutile tentativo di dimostrare ai cittadini quanto fosse importante andare a votare al referendum che si proponeva di eliminare almeno i punti più “ideologici” e incivili della nuova normativa: ricorderete che al referendum andò a votare solo il 25% degli italiani, molti cittadini furono trattenuti dall’idea che i referendum erano una istituzione molesta e inutile, altri dal fatto di non aver assolutamente capito di cosa si trattava (ma l’embrione non era un pesce tropicale?), altri, troppi, impressionati, convinti o semplicemente spaventati dal divieto vescovile di partecipare al voto. Ricordiamo, con qualche imbarazzo, di esserci limitati a scrivere che si trattava di una interferenza inaccettabile e che ci fu risposto che di interferenza certamente si trattava ma inaccettabile no, anzi era una interferenza doverosa e sacrosanta.
Un secondo libro, poi, l’abbiamo scritto: si intitola «La fecondazione assistita dopo dieci anni di legge 40. Meglio ricominciare da capo!» (Ananke, Torino, 2014): sarà nelle librerie dalla prossima settimana e lo presenteremo lunedì a Roma a un convegno della Sifes dedicato alla legge 40 il 24 febbraio, giorno del decimo anniversario della Legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 24 febbraio 2004. L’abbiamo scritto soprattutto perché ci è sembrata l’occasione di dire cosa pensiamo di un fatto importante che ci riguarda tutti e che non può passare inosservato: il Paese è cambiato e oggi quel clima di sbigottimento generale che avallò l’approvazione della legge più stupida della quale esista memoria in Italia, quella rassegnazione, quella incapacità di sdegnarsi, quella beota soggezione alla metafisica della superstizione non sarebbero più possibili. È un Paese un po’ più laico, un po’ più responsabile, un po’ più desideroso di usare la propria testa per decidere i propri destini.
La legge 40 è stata sgretolata dal buon senso e questa demolizione è stata avallata dai magistrati. Del tutto recentemente, poi, la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha mandato un messaggio di straordinario rilievo, che i nostri rappresentanti politici non potranno in alcun modo ignorare: su questi temi è indispensabile legiferare con cautela e leggerezza, tenendo sempre conto dei continui progressi della scienza e delle modificazioni della morale di senso comune, che reagisce alle sollecitazioni che le derivano dalla capacità di intuire i vantaggi offerti dall’avanzamento delle conoscenze.
Che poi il Paese non sia più lo stesso lo dicono molti fatti, quasi tutti recenti. Il rapporto sulla secolarizzazione pubblicato da Critica Liberale dimostra che i cittadini continuano ad allontanarsi dalla Chiesa e che i segnali di una significativa diminuzione del potere religioso aumentano; il Comitato dell’Onu che si occupa dei diritti dei fanciulli ha detto papale papale che il Vaticano ha protetto in vari modi i preti pedofili; un’inchiesta fatta tra i cattolici in Italia e nel mondo ha dimostrato che i cosiddetti fedeli proprio fedeli non lo sono più e che si è completato lo “scisma sommerso” teorizzato molti anni or sono da Pietro Prini (solo per quanto riguarda l’aborto volontario il 15 per cento degli interrogati italiani si sono dichiarati favorevoli in ogni circostanza e il 68% hanno dichiarato di esserlo in alcuni casi specifici, percentuali che nel mondo diventano rispettivamente pari al 57 e all’8 per cento). È una tendenza, le cose cambieranno ancora. In ogni caso è indiscutibile che quasi tutte le tesi sulla fecondazione assistita che nel 2004 grazie alla tempesta mediatica berlusconiana sembravano (sembravano) plausibili si sono rivelate un bluff: a rivedere oggi la lunga querelle parlamentare che accompagnò l’approvazione della legge 40 appare quello che realmente fu, una lite di condominio. È il momento di ricominciare da capo.
Se abbiamo ragione nel ritenere che in Italia nell’ultimo decennio le circostanze storiche siano radicalmente cambiate, allora il problema con il quale ci confrontiamo è quello di decidere di impostare una nuova normativa sulla terapia della sterilità che abbia queste caratteristiche: sia laica e rispettosa dei diritti di tutti i cittadini; sappia interpretare e acquisire i progressi che la ricerca scientifica ci offre con grande velocità e costanza; tenga conto di quanto rapidamente può cambiare la morale quando alle persone è consentito di intuire i possibili vantaggi che possono derivare dallo sviluppo delle conoscenze; accetti il principio che le leggi debbono ispirarsi a questa morale e non debbono mai piegarsi alle sollecitazioni delle ideologie e delle religioni; tenga conto dei messaggi, dei suggerimenti e delle critiche che ci sono giunti da numerose Istituzioni e soprattutto dalla nostra Corte costituzionale e dalla Corte europea per i diritti dell’uomo.
Il primo aspetto da considerare riguarda la necessità di promuovere una nuova prospettiva della scienza, un compito non facile, considerato il fatto che il dibattito che ha accompagnato l’approvazione della legge 40/2004 è parso a molti una fotocopia del processo che costrinse Galileo all’abiura. A parole, nessuno è contrario alla scienza, per la quale tutti riescono a trovare qualche espressione di elogio, altrettanto rituale quanto ipocrita. In realtà la scienza è temuta, e lo è per molte ragioni, nessuna delle quali è confessabile: perché l’aumento delle conoscenze entra in conflitto con i nostri più antichi pregiudizi e ci costringe a faticosi cambiamenti; perché le nuove tecniche scientifiche cambiano le circostanze storiche e mandano all’aria le nostre più ossificate superstizioni e i nostri convincimenti più radicati, quelli che si sono formati a seguito di una educazione basata su una mitologia nobilitata ametafisica e circondata da un’aura di mistero misto a sacralità. In linea puramente ipotetica, la nebbia che ci circonda dovrebbe poter essere cacciata dal vento della razionalità, ma molti pregiudizi e molte superstizioni, probabilmente per la loro ovvietà, riescono ancora a prevalere sul messaggio scientifico.
La Stampa 21.2.14
Vaticano record per il consumo di vino
74 litri a persona, il doppio dell’Italia
La classifica mondiale stilata dal California Wine Institute
di Luigi Grassia
qui
il Fatto 21.2.14
Salva Roma, per Renzi è già una grana
Il Senato da l’Ok, ma il tempo stringe
A Montecitorio il nuovo governo sarà costretto a porre subito la fiducia
di Sara Nicoli
Potrebbe essere la prima richiesta di fiducia del governo Renzi su un decreto voluto dal governo Letta. Ieri, dopo due giorni di percorso accidentato e colpi di scena, al Senato è stato approvato, con diverse modifiche, il decreto “salva Roma”, con 135 sì, 23 no e 45 astensioni. Ora il provvedimento torna alla Camera, in terza e sicuramente ultima lettura; c’è tempo fino al 28 febbraio per evitare la decadenza, ma è evidente che in caso di approvazione di ulteriori modifiche, anche solo in commissione Bilancio di Montecitorio, dove arriverà lunedì, la sua sorte sarebbe segnata. Con conseguenze gravi sul bilancio della Capitale e possibile commissariamento del Comune. Ecco perché non si tratta solo di una corsa contro il tempo, ma anche di trattenere tutti quegli appetiti che vorrebbero affossare il ‘salva Roma’ per affondare di conseguenza la giunta di Ignazio Marino. Nel Pd, però, sarebbe già pronto un piano B. Alcuni deputati avrebbero già consultato insigni giuristi per capire i possibili effetti della decadenza del decreto sui bilanci di Roma. Il rendiconto del 2013 – è la risposta – non subirebbe conseguenze, mentre problemi seri ci sarebbero sui conti del 2014. Ma anche in questo caso la soluzione sarebbe già pronta: un disegno di legge da approvare con una corsia preferenziale con le norme del decreto decaduto. Ragionamenti, tuttavia, fatti in un vuoto di governo e dunque senza interlocutori. Ieri il campanello d’allarme è scattato anche tra i renziani che, basiti, si sarebbero attaccati al telefono per capire cosa sta succedendo.
PERCHÉ RENZI non vuol firmare in alcun modo il “fallimento” di Roma Capitale, ma nel contempo sa quanto potrebbe essere a rischio la richiesta di una fiducia su un provvedimento tanto controverso da aver creato, anche ieri al Senato, momenti di forte tensione in Aula. Soprattutto quando, con inatteso zelo, il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha cassato d’imperio 16 dei 25 emendamenti approvati dalla commissione Bilancio di palazzo Madama perché “non attinenti alla materia del decreto”. Tra gli emendamenti saltati c’è anche quello sul patto di stabilità del Comune di Venezia, soprannominato “salva Venezia”, che riguardava esplicitamente la materia degli Enti locali. Un disastro, insomma. Con qualche lato positivo, però . Come l’approvazione della modifica a firma di Barbara Lezzi (M5S) che ha riscritto la norma per il recesso delle Amministrazioni pubbliche e degli Organi costituzionali (come Camera e Senato) dai cosiddetti “affitti d’oro”; con la nuova misura si prevede che questi Enti possano comunicare entro il prossimo 30 giugno “il preavviso di recesso” dai contratti di locazione e che “il recesso è perfezionato decorsi 180 giorni”. Sempre che il decreto non decada.
Nel caso, salterebbe anche la modifica più delicata, quella a firma del Pd Giorgio Santini, che toglie al debito del Comune di Roma 485 milioni di euro facendoli confluire nei conti della gestione commissariale: 350 milioni sul bilancio 2013 (già approvato), circa 180 relativi alla manovra dell’anno in corso. Bocciato, invece, l’emendamento della senatrice di Scelta Civica, Linda Lanzillotta, che vincolava il Comune di Roma a rientrare dal debito attraverso la vendita di quote di Acea (scendendo così sotto la soglia del 51 per cento), la privatizzazione di trasporti, raccolta dei rifiuti e pulizia delle strade e il licenziamento dei dipendenti delle società comunali in perdita.
il Fatto 21.2.14
L’occupy dei legali: “Altro che studio! Ora lavoro da casa”
Gli avvocati contro i governi: Letta
di Irene Buscemi
Gli avvocati in piazza con giacca e cravatta è di per sé una notizia. Il clima da occupy wall street è una novità. Dopo le piccole medie imprese, ieri a Roma era il turno della categoria forense che ha sfilato per le strade del centro storico, da piazza della Repubblica fino a Santi apostoli. Gli avvocati avevano manifestato anche nel 2012, durante il governo Monti, contro il riordino dei tribunali. ma ieri era diverso: facce coperte dalle maschere di “V per vendetta”, cori da stadio contro il governo e i poteri forti, strimpellate ironiche sullo Stato, banche e assicurazioni. Gli avvocati hanno abbandonato il tipico aplomb da liberi professionisti per per dare vita ad una protesta dal sapore operaio.
“CI VEDONO COME una casta, una corporazione, ma siamo come dei lavoratori che protestano contro Sergio Marchionne, oggi scendiamo in piazza per tutelare i diritti dei cittadini” affermano i tanti manifestanti venuti da ogni parte d'Italia. Parlano di giustizia elitaria a cui potranno accedere soltanto i più ricchi. Sono le riforme avviate in questi ultimi anni, dai diversi governi, ad essere sotto accusa.
“Il costo per l'azione legale è cresciuto del 55,6 per cento per il primo grado, del 119 per cento per l'appello e del 182,7 per la Cassazione. Questo dice tutto”, afferma Mauro Vaglio, presidente dell'ordine degli avvocati di Roma. Ma c'è molto altro, lo ricorda Nicola Mariano dell'Oua, Organismo unitario degli avvocati italiani: “Marche da bollo per le pratiche che passato da 8 euro a 27 euro, nell'era della pec, cioè dell'email digitale, sentenze a pagamento per l'appello, un provvedimento assurdo oggi in discussione alla Camera”. È il governo italiano, per gli avvocati, il vampiro che sta distruggendo lo Stato di diritto, violando l'art. 24 della Costituzione che garantisce a tutti i cittadini di rivolgersi alla magistratura. “Vogliono privatizzare la giustizia, ma così danno spago alla criminalità organizzata e alla giustizia fai-da-te”, afferma un avvocato di Caltanisetta, Salvatore Dagostini.
La crisi. “Gli italiani dovrebbero unirsi alla nostra protesta, la democrazia è in pericolo” dice Alessandro Biamonte, un avvocato di Napoli. La crisi colpisce molto la categoria e i cittadini, ci raccontano i manifestanti. “Io mi occupo di diritto amministrativo, le imprese non fanno più causa - racconta ancora l'avvocato di Napoli – spesso molti clienti non pagano le parcelle, e devi lavorare a titolo gratuito”.
Quello che raccontano i giovani professionisti è un precariato diffuso tra le nuove leve. “Tanti avvocati guadagnano meno di 10 mila euro, spesso chiudono lo studio e lavorano da casa” è la realtà spiazzante descritta da Stefania Marchese. Vincenzo Barbato del Foro di Napoli, toga d'onore per l'alto punteggio ottenuto all'esame di Stato svolto nel 2006 ma oggi precario. “Ho chiuso lo studio il 31 agosto, non riuscivo più a coprire i costi. Ora lavoro da casa. E se devo ricevere un cliente chiedo a un collega se posso appoggiarmi da lui”. Per loro è assurdo il contributo obbligatorio per la Cassa forense pena la cancellazione dall'albo, entrato in vigore con la legge sul riordino delle professioni. “Non siamo stipendiati, non possiamo ammalarci, non possiamo permetterci di versare 800 euro di contributi perché molti di noi non li guadagnano, così potranno fare gli avvocati soltanto i ricchi, tutto ciò è incostituzionale” aggiunge Edoardo Pinto. Gli avvocati in Italia sono tanti: 250 mila. “Vogliono eliminarci così, ma la selezione andava fatta a monte non a valle, dopo aver lucrato su di noi all'università - afferma con amarezza Manuela Turchiarelli - ci hanno fatto mandare avanti baroni, professori, editoria, libri, abbiamo fatto sacrifici enormi per laurearci ed elevarci dal nostro status familiare e poi sei condannato ad uscire dall'albo?”.
AGIF E L'AGIA, due associazioni di giovani avvocati, hanno già impugnato il provvedimento. È quanto ci dice l'avvocato del foro romano Gaetano Lauro Grotto. Tra i manifestanti c'è anche l'ex presidente della Cassa Forense e dell'Oua Maurizio De Tilla. “Non avrei mai fatto approvare un provvedimento del genere”. E poi aggiunge: “Non deve stupire se oggi l'avvocato si sente vicino all'operaio, all'artigiano, ai commercianti, facciamo parte di una categoria sociale di 9 milioni di cittadini che oggi sono vessati da un governo, quello sì, elitario, Monti, Letta e Renzi sono guidati da poteri forti”.
Repubblica 21.2.14
“Una laurea ad hoc per diventare prof” così il Pd di Renzi vuole cambiare la scuola
Il piano: docenti selezionati dai presidi e deroghe alla legge Fornero sulle pensioni
di Salvo Intravaia
STABILIZZAZIONE del precariato in pochissimi anni, nuove assunzioni con concorsi gestiti dalle scuole, revisione della legge Fornero per i docenti e una laurea ad hoc per insegnare. Il Pd di Renzi inizia dagli insegnanti. Ed è una mezza rivoluzione che punta sul merito per fare uscire dalle secche di una crisi economica senza fine il Paese. Il documento su cui sta lavorando il responsabile Scuola e Welfare della segreteria del Pd, Davide Faraone, che
Repubblica
è in grado di anticipare, è pieno di importanti novità che, stando alle intenzioni del premier incaricato, dovrebbero trovare attuazione in tempi brevi. Merito e non solo anzianità, ecco le parole d’ordine per gli insegnanti del terzo millennio. Per colmare la casella lasciata vuota dalla Gelmini - che riuscì a varare la riforma della cosiddetta Formazione iniziale degli insegnanti – il Partito democratico ha già messo a punto un piano che verrà sottoposto al nuovo esecutivo e al nuovo inquilino di Palazzo della Minerva.
In primis, il Pd intende dare soluzione all’annoso problema del precariato della scuola. Secondo i calcoli effettuati dai tecnici di viale Trastevere, a partire dal 2017 i pensionamenti viaggeranno al ritmo di 40mila unità all’anno. Per sbloccare il turn-over, il nuovo governo in-tende modificare i paletti della legge Fornero, che non tengono conto della specificità del lavoro degli insegnanti, rendendo più facile l’uscita di maestri e prof dalla scuola. Ad agevolare il tutto, l’età dei docenti italiani, che con una media di 50 anni sono tra i più vecchi d’Europa. Nell’arco di una sola legislatura, i 185mila precari inseriti nelle graduatorie provinciali ad esaurimento dovrebbero trovare una cattedra fissa. Ci sono poi i 90mila che si abiliteranno con i Percorsi abilitanti speciali e gli 11mila che hanno ottenuto il lasciapassare per l’insegnamento attraverso i Tirocini formativi attivi, previsti dalla riforma Gelmini.
Una fetta di questi precari, “di serie B” perché non potranno avere accesso alle graduatorie provinciali ad esaurimento, potranno invece ottenere un contratto a tempo determinato di durata triennale. Una novità assoluta che ha l’obiettivo di garantire una maggiore continuità didattica all’interno delle scuole dopo il disastro della riforma degli ordinamenti messa a segno dalla coppia Tremonti/ Gelmini. Ma servirà anche a gestire le supplenze annuali e quelle di lunga durata e per rendere finalmente attuativo il cosiddetto organico dell’autonomia previsto dall’ex ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo. In questo modo, le scuole avranno a disposizione le risorse di personale per le supplenze e per rendere realmente flessibile il curriculum scolastico e adattarlo al Piano dell’offerta formativa.
Per smaltire prima possibile il precariato storico, con l’accordo dei sindacati, nei primi anni la quota di assunzioni dalle liste dei precari sarà maggiore - si vorrebbe partire dal 75 per cento - per ridursi man mano che il popolo dei supplenti si assottiglierà. Di contro, le assunzioni secondo la nuova procedura concorsuale in cantiere dovrebbe prevedere una quota iniziale del 25 per cento che aumenterà fino ad arrivare al cento per cento nel 2018. Ai nuovi concorsi potranno partecipare soltanto gli abilitati che usciranno da facoltà create ad hoc per l’insegnamento e inseriti in albi territoriali a numero chiuso. «Va introdotta - si legge nel documento - la possibilità per le scuole di valutare i docenti che lavoreranno con loro e selezionarli in base alla propria offerta formativa». Attualmente, la riforma Gelmini varata nel 2011, prevede un percorso universitario abilitante quinquennale per gli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, che diventa di sei anni - cinque di formazione e uno di tirocinio - per i futuri docenti di scuola media e superiore. Ma il reclutamento viene ancora effettuato secondo le vecchie regole: concorsi per esami e titoli. In via Sant’Andrea delle Fratte si medita di rivisitare il tirocinio formativo attivo, sia nelle modalità di accesso sia in quelle di svolgimento, che verrà retribuito dando ai giovani insegnanti la prima possibilità di guadagno. Gradualmente le graduatorie d’istituto verranno abolite e fra qualche anno nessun docente non abilitato potrà più insegnare.
il Fatto 21.2.14
Orario dei medici
Italia davanti alla Corte Ue
La Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di Giustizia europea per non aver applicato correttamente la Direttiva sull'orario di lavoro ai medici operanti nel servizio sanitario pubblico. Attualmente, la normativa italiana priva questi medici del loro diritto a un limite nell’orario lavorativo settimanale e a un minimo di periodi di riposo giornalieri. In forza della normativa italiana diversi dei diritti fondamentali contenuti nella direttiva sull’orario di lavoro, come il limite di 48 ore, orario settimanale medio e il diritto a periodi minimi giornalieri di riposo di 11 ore consecutive, non si applicano ai "dirigenti" operanti nel Servizio sanitario nazionale. La direttiva non consente agli Stati membri di escludere "i dirigenti o le altre persone aventi potere di decisione autonomo" dal godimento di tali diritti. Tuttavia, i medici attivi nel servizio sanitario pubblico italiano sono formalmente classificati quali "dirigenti", senza necessariamente godere delle prerogative o dell’autonomia dirigenziali durante il loro orario di lavoro.
La Stampa 21.2.14
Gli psichiatri dell’uxoricida indagati
per omicidio
PADOVA Per un omicidio-suicidio che il 4 febbraio vide protagonista un 81enne di Montagnana (provincia di Padova) e vittima la moglie, due psichiatri sono ora accusati di omicidio.
Si tratta di medici dell’Ulss 17 ai quali la procura di Rovigo contesta la decisione di aver lasciato l’uomo uscire dall’ospedale di Monselice (Padova) dov’era ricoverato.
L’inchiesta,cerca di far luce sull’operato dei medici che avevano in cura l’anziano e che lo dimisero dopo 22 giorni di degenza. Il giorno dopo, probabilmente in crisi depressiva, l’anziano accoltellò a morte la moglie e, dopo aver avvisato la polizia, che a sua volta allertò i carabinieri, si tolse la vita impiccandosi nel garage di casa.
Furono i militari a scoprire così la tragedia. L’azienda sanitaria non ha commentato gli sviluppi della vicenda ,ma in una nota ha preso le difese dell’operato dei propri medici.
La Stampa 21.2.14
La psicanalista francese Ginette Raimbault, specialista delle malattie psicologiche dei bambini, è morta a Parigi a 89 anni
Da tempo era malata di Alzheimer. Tra i suoi libri tradotti da noi figurano Pediatri e psicoanalisti: esperienze cliniche (Boringhieri 1976), Il bambino e la morte (La Nuova Italia 1978) e Le indomabili: figure dell’anoressia (Leonardo 1989). Nata ad Algeri il 28 aprile 1924, Raimbault era allieva di Jenny Aubry e fu analizzata da Lacan. Seguì gli insegnamenti dell’inglese Michael Balint di cui ha introdotto il metodo in Francia.
La Stampa 21.2.14
Rubano le ossa nei cimiteri per le messe nere
Furti in tutta la provincia di Torino, la procura indaga
di Gianni Giacomino
Ossa di morti che potrebbero essere state usate per delle messe nere. O per altri
rituali esoterici. È una storia carica di mistero quella che ha convinto la Procura ad allargare un’inchiesta, partita in seguito al ritrovamento di una scatola piena di ossa e di teschi abbandonata davanti al cimitero monumentale di Torino. L’indagine è coordinata dal pm Paolo Scafi. Tra qualche giorno partiranno dei controlli da parte degli investigatori per capire dove si sono verificate razzie e furti di resti umani nei cimiteri del Torinese.
L’inchiesta
È partita lo scorso ottobre quando, su una panchina davanti al cimitero monumentale di Torino, in corso Novara, un passante nota una scatola. La apre e fa una macabra scoperta. All’interno sono contenute delle ossa umane. La scatola è avvolta con la carta di una pasticceria di via Lagrange che non esiste più. Un vecchio negozio di cui si ricordano solo le persone anziane, perché la serranda è stata abbassata anni fa. Oltre a quella carta, c’è un pezzo di un giornale, dove è riportata la cronaca di due delitti avvenuti molto tempo fa a Roma. Uno scherzo ? Non si sa. Il pm affida l’analisi delle ossa a Chantal Milani, una delle poche antropologhe forensi in Italia in grado di risalire all’identità delle persone partendo dai frammenti ossei e dai denti di un cadavere. Da quel momento la Procura decide di allargare le indagini. Le ossa trovate nella scatola abbandonata a Torino appartengono ad almeno cinque persone. Due uomini, due donne e un bambino morto in tenerissima età, quando aveva meno di cinque anni. Anche una delle due donne era molto giovane. Ha un’età compresa tra i 15 e i 20 anni. Dei due uomini, uno è un adolescente. L’altro uomo e l’altra donna invece sono di età adulta. È molto probabile che, tutte queste ossa, siano state rubate da una tomba di famiglia.
Inquietanti sospetti
Nascono dal fatto che, sulle ossa, sono rimaste tracce molto abbondanti di cera colata. Secondo gli investigatori potrebbe essere un tipico segno che riporta a dei riti satanici. Un cranio inoltre, presenta segni di «spazzolatura». Un intervento di tipo meccanico, sempre tipico dei satanisti che levigano il teschio per poi usarlo durante le funzioni. Altre ossa della scatola poi sono collegate da un filo, e presentano incise delle scritte. Ma su questo particolare gli inquirenti mantengono un riserbo molto stretto.
Razzie misteriose
Avvenuti nei cimiteri del Torinese in questi anni, ce ne sono stati parecchi. E non è detto che le razzie siano tutte riconducibili ad adepti di Satana. Qualche anno fa, a Lombardore, venne profanata la tomba di un uomo deceduto negli anni ’50. A Mazzè vennero invece scoperchiate una serie di bare. Una decina di anni fa a Chivasso, sopra una lapide fu ritrovato un teschio. Era chiuso all’interno di uno scatolone. Anche nelle Vaude, nel-
l’immensa area demaniale del Poligono militare, erano stati scoperti i resti di ossa che potevano ricondurre a riti esoterici. C’è poi la vicenda di Giuseppe Drò, l’ex sindaco di Chialamberto che, una sera, tornando a casa, si trovò un teschio con un proiettile conficcato nella parte posteriore. Ma questa è un’altra storia.
Il fai da te dell’occulto
È quello che sostiene il professor Massimo Introvigne, direttore del Cesnur, il Centro
Studi delle Nuove Religioni, quando sente parlare di teschi e ossa ritrovate. «Credo che i possibili autori di furti nei cimiteri allo scopo di allestire messe nere o cose del genere siano bande di ragazzotti senza un’organizzazione – riflette Introvigne – Sono giovani suggestionati dall’occulto che agiscono, di solito, nei camposanti di campagna, lontani dai centri abitati, difficili da sorvegliare». Poi evidenzia che: «I veri satanisti si muovono in modo più felpato, sono organizzati e preferiscono compiere i riti in salotto invece di profanare cimiteri e abbandonare le ossa».
Corriere 21.2.14
Sprechi e conflitti di interesse tra i templi di Paestum
Ecco come sono andati in fumo 25 milioni di euro in una delle più importanti aree archeologiche del mondo
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Corriere 21.2.14
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l’Unità 21.2.14
«La più grave crisi europea, in gioco gli interessi di Mosca»
di Umberto De Giovannangeli
«In Ucraina di fatto è già in corso una guerra civile che rischia di precipitare ulteriormente nel caso, tutt’altro che remoto, di un intervento diretto dell’esercito. Siamo di fronte alla più grave crisi europea, anche rispetto a quella, già drammatica, del Kosovo, perché, stavolta, in gioco sono gli interessi diretti della Russia».
A parlare è uno dei più autorevoli studiosi del «pianeta russo» e dell’ex Urss: Vittorio Strada. Le notizie che giungono dall’Ucraina si fanno sempre più drammatiche. Il numero dei morti negli scontri fra dimostranti e polizia cresce di ora in ora. Come leggere questi avvenimenti? «È una situazione catastrofica, destinata, purtroppo, a precipitare ulteriormente. Di fatto è già una guerra civile che potrebbe sfociare in una possibile, traumatica, divisione del Paese, una ipotesi che se fino a qualche tempo fa era solo astratta, oggi invece è contemplata come una possibilità realistica, ancor che inquietante».
Perché inquietante? «Questa possibile divisione del Paese non sarebbe del tipo jugoslavo o cecoslovacco, in quanto inciderebbe nella carne viva di una stessa nazione, anche perché è sì giustificato parlare di una Ucraina occidentale e di una Ucraina orientale, tuttavia questa divisione non va neanche estremizzata come si trattasse di due entità diverse. Va peraltro sottolineato che questa insurrezione è trasversale, attraversa cioè tutto il Paese e investe certamente anche una parte dell’Ucraina russofona che non è favorevole ad una unione stretta, asfissiante, con la Federazione Russa. Sta in questo, a ben vedere, la grande novità di questa rivolta, non è solo un dato quantitativo, ma qualitativo. Per di più il centro dell’insurrezione non è l’Ucraina occidentale ma il suo cuore è nella parte centrale del Paese, a Kiev. La rivolta sembra aver provocato le prime incrinature nel regime, come dimostrano le dimissioni del sindaco di Kiev, ed esponente dello stesso partito di Yanukovich, Volodymir Makeienko. Nello scenario di una divisione del Paese, si porrebbero problemi estremamente gravi e l’unica possibile via pacifica sarebbe legata ad un mutato atteggiamento da parte di Mosca, passaggio ineludibile per arrivare ad una soluzione di compromesso e di collaborazione. Una tale soluzione presupporrebbe, però, un cambiamento interno di regime in Ucraina. Una possibilità che sembra sempre più essere travolta dai sanguinosi avvenimenti di questi giorni e di queste ore. In gioco ormai non sono solo i destini collettivi ma anche quelli personali».
A cosa si riferisce in particolare, professor Strada?
«Al presidente in carica. Ormai Viktor Yanukovich difende anche se stesso, in un certo senso soprattutto se stesso. Difende la sua posizione, perché se il regime cedesse, il suo posto finirebbe per essere in un tribunale, sul banco degli imputati. E non solo per rispondere delle vittime della repressione di piazza, ma anche per la corruzione diffusa del suo regime: non va dimenticato, in proposito, che assieme all’indipendenza da Mosca, declinata in chiave europea, l’altra leva della rivolta in atto, l’altro comune denominatore di una piazza altrimenti eterogenea, è la denuncia della corruzione del regime di Yanukovich. D’altro canto, il movimento di Piazza Maidan prova a guardare al futuro e cerca di contenere le spinte revansciste. Ma è indubbio che il muro contro muro alimenta e rafforza le posizioni più radicali, e forse è proprio questo a cui punta Yanukovich: trasformare un problema politico in una questione di ordine pubblico, di sicurezza nazionale. Mi lasci aggiungere che, guardando ancora alle dinamiche interne al variegato movimento di rivolta, quello che sembra emergere come limite è un deficit di leadership forte, come lo era stata quella di Viktor Yushchenko e Yulia Tymoshenko al tempo della rivoluzione arancione. Con tutti i loro limiti, si presero sulle spalle la piazza. A Kiev, oggi, non c’è ancora nessuno che abbia la loro statura».
In precedenza, lei ha parlato di una situazione catastrofica che potrebbe precipitare ulteriormente. In che modo?
«Con un intervento diretto, minacciato già da Yanukovich, dell’esercito. In questo caso, la catastrofe sarebbe ancor più devastante, non solo a livello interno all’Ucraina ma sul piano internazionale, e in primo luogo europeo ».
L’Europa, per l’appunto. Da più parti, e dalle più influenti cancellerie europee, si prospettano sanzioni per i responsabili della violenza in Ucraina, a partire dal regime al potere.
«Le sanzioni potrebbero essere un primo passo per andare oltre le dichiarazioni verbali della Ue adottando misure concrete che potrebbero influire sul regime ucraino e soprattutto su Mosca. Ma le sanzioni non possono surrogare l’assenza di una strategia politica. Insisto su quello che ritengo il punto cruciale: in gioco, nella partita ucraina, ci sono anche gli equilibri internazionali. Siamo di fronte alla più grave crisi europea, ancor più grave di quella del Kosovo, perché in questo caso sul tavolo ci sono gli interessi diretti della Russia e nella politica di potenza dell’attuale leadership putiniana, la questione-Ucraina ha un grandissimo valore. Un valore irrinunciabile».
Corriere 21.2.14
Ucraina, cosa sta succedendo?
Tre mesi di proteste in 9 punti
Punti chiave per ricostruire il filo della crisi. Dal no all’Europa di Yanukovich agli ultimi scontri a Kiev
di Federica Seneghini
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l’Unità 21.2.14
«Sottovalutata la forza di Putin»
di Marco Mongiello
BRUXELLES. Sanzioni mirate che non pesino sulla popolazione ucraina. Per Hannes Swoboda, leader del gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo è questa la strada giusta, mentre si cerca un compromesso per evitare il bagno di sangue e si riflette sui passi falsi della Ue.
Pensa che sia ancora possibile trovare un accordo con Yanukovich?
«Una cosa è quello che dovrebbe essere fatto, che è ovviamente far dimettere Yanukovich. Un’altra cosa è vedere se possiamo trovare un’alternativa praticabile, e ovviamente ci deve essere un’alternativa perché il bagno di sangue non è mai accettabile. Sappiamo che lui ha ancora potere e persone che lo seguono, forse anche persone che lo controllano più di quanto lui controlli loro. Certo, per Yanukovich è difficile restare al potere con le mani sporche di sangue, ma se fosse possibile un compromesso dovremmo provarci».
Come siamo arrivati a questo punto? L’Unione europea ha commesso errori?
«Forse non ci aspettavamo la reazione di Putin. Forse abbiamo sottovalutato la sua volontà di evitare che l’Ucraina prenda la direzione dell’Europa, ma d’altra parte questo tipo di reazione non era così prevedibile. Ora dobbiamo riconoscere che alcune cose devono essere discusse con Mosca, avendo allo stesso tempo una posizione europea forte e la necessaria flessibilità per parlare con la Russia dei nostri vicini comuni».
Significa che un accordo di associazione con l’Ucraina doveva prima essere concordato con la Russia?
«Forse avremmo dovuto trovare un’intesa tenendo insieme l’accordo di associazione, ma anche progetti comuni con la Russia. Almeno offrire dei progetti sul gas, sulle infrastrutture energetiche, forse delle garanzie reciproche sui cosiddetti interessi russi nell’area. Per il momento questo non è in agenda, ma fra un po’ si dovrà tornare a parlare di partenariato strategico. Non è facile con la Russia di Putin, ma dobbiamo constatare che lui è più forte di quello che pensavamo».
Il problema non è anche che ogni Paese Ue agisce autonomamente nei confronti della Russia?
«Certamente. Ognuno fa accordi per conto suo. Arriva Orban e fa un accordo con la Russia, poi Basescu e gli altri e fanno lo stesso. Quindi si, è vero che questo tipo di posizioni diverse di alcuni degli Stati membri sono disastrose».
Cosa si attende dai ministri europei degli Affari esteri?
«Bisognerà concordare delle sanzioni molto mirate, molto specifiche e con una base giuridica. Quindi senza reazioni scomposte, dovremmo discutere e fare in modo di non sanzionare la popolazione e cercare un modo per far dialogare le due parti».
Pensa che nel futuro l’Ucraina dovrà entrare nella Ue?
«In questo momento non penso che questo aiuti. Non possiamo fare promesse se non sappiamo quando e se potremo mantenerle. Al momento penso che sia meglio dire che vogliamo aiutare l’Ucraina a restare indipendente e a mantenere la sua integrità territoriale. Il Paese deve decidere da solo. Ci vorrebbe un referendum».
l’Unità 21.2.14
Il silenzio dell’Europa davanti al sangue di Kiev
di Rocco Cangelosi
LA SITUAZIONE IN UCRAINA STA PRECIPITANDO E SI PROSPETTA ORMAI UNA GUERRA CIVILE ALLE PORTE DELL’EUROPA. Un’Europa divisa e titubante sul da farsi, priva di mezzi di pressione veramente efficaci, quasi impotente fino a far sbottare la diplomatica americana Victoria Nuland, sposata al noto politologo Robert Kagan, in un «fuck the Ue» gridato al telefono con l’ambasciatore Usa a Kiev.
«La Ue risponderà rapidamente al deterioramento della situazione, anche attraverso sanzioni mirate», garantisce il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, rispondendo a una richiesta del presidente della Commissione, José Manuel Barroso. Quest’ultimo ha telefonato al presidente ucraino per comunicare «lo shock e lo sgomento», per «chiedere l’immediato stop della violenza». Per il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz l’Europa deve intervenire il prima possibile, perché «un ulteriore spargimento di sangue deve essere evitato ad ogni costo». Intanto la Ashton ha convocato una riunione straordinaria del Comitato Politico e di Sicurezza della Ue. Ma la messa a punto di misure mirate contro i responsabili della violenza non sembrano tuttavia idonee a spostare i rapporti di forza che si sono determinati all’interno delle fazioni in campo né ad arrestare la dinamica degli scontri che ormai fanno registrare più di cento morti e migliaia di feriti, non solo a Kiev, ma anche in altre città dell’Ucraina. Anche il tentativo di mediazione dei ministri degli Esteri di Francia, Germania, Polonia costretti a un rocambolesco viaggio a Kiev per incontrare Il presidente Yanukovitch, non sembra aver dato grandi risultati.
La vera partita in realtà si gioca ancora una volta tra Russia e Stati Uniti in un’area dal cui controllo sembra essere esclusa l’influenza dell’Unione Europea. Putin mira a includere l’Ucraina nel suo progetto di integrazione euroasiatica per dare maggior peso alla posizione geopolitica della Russia in un contesto di grande rilevanza strategica per le grandi risorse di cui dispone: gas, petrolio, materie prime e terre rare che stimolano gli appetiti delle grandi potenze e soprattutto di Usa e Cina. Putin da parte sua ha deciso di inviare un suo mediatore a Kiev, nel tentativo di promuovere un accordo tra le varie fazioni in campo ed il governo di Yanukovitch. Per il momento non sembra intenzionato ad andare oltre, ma è verosimile che una volta calato il sipario sulle olimpiadi di Sochi la pressione russa si faccia più forte fino a immaginare interventi di natura militare o paramilitare in aiuto al governo di Kiev.
Questo appare lo snodo più delicato e sensibile che pone l’Unione Europea di fronte a scelte radicali. Non possono infatti bastare le sanzioni mirate, che il più delle volte si ritorcono contro la popolazione civile o nelle azioni di carattere umanitario, per quanto encomiabili. Il braccio di ferro e il vero confronto avverrà sul tipo di offerta politica che la Ue sarà pronta a fare all’Ucraina. Un’offerta che oltre un percorso credibile di adesione alla Ue deve comportare un pacchetto di misure economiche idonee e a controbilanciare il peso degli aiuti ingenti posti sul piatto della bilancia da Putin. Né si può dimenticare che l’Ucraina è un Paese diviso a metà che nella parte nord occidentale guarda verso Bruxelles e gli Stati Uniti, mentre nella parte sud orientale ha il cuore che batte verso Mosca. Barroso ricorda che «la Ue ha offerto la sua sincera assistenza per facilitare il dialogo» e continua a credere che «l’unica soluzione è una riforma costituzionale», la formazione di «un nuovo governo» e «la creazione delle condizioni per elezioni democratiche». Ma il sentiero appare stretto perché la Ue con il suo bilancio asfittico non è in grado di mobilitare risorse sufficienti. Dovrebbero intervenire bilateralmente i singoli Paesi membri, mai condizionamenti di politica interna e le restrizioni imposte ai bilanci nazionali non lasciano intravvedere grandi prospettive da questo punto di vista.
È evidente che se la mediazione russa avrà successo, si riprodurrà una situazione analoga a quella siriana, dalla quale Putin emerge come il peace maker e l’Unione europea appare marginale e destinata solo a operazioni di supporto umanitario.
L’Europa rischia ancora una volta di subire un forte colpo alla credibilità della sua politica estera, poiché non saranno sufficienti le sanzioni mirate oggi decise in linea di principio a far tacere le armi, ma solo un’azione internazionale concertata, dalla quale difficilmente potrà essere esclusa Mosca, se non saranno messe sul tavolo misure di sostegno concrete e consistenti.
Repubblica 21.2.14
Lo scenario Quel Paese sull’orlo dell’abisso sempre in bilico tra Russia e Europa
L’incertezza dell’Occidente di fronte al dramma dell’Ucraina
di Bernardo Valli
RIVOLUZIONARI. Le tante anime della rivolta ucraina: dall’alto, il lancio dei sampietrini in Piazza dell’Indipendenza a Kiev. Un attivista si protegge alla meglio dai fumogeni. Una giovane borghese a una veglia in piazza. Un ultrà della destra
SOTTO Piazza Indipendenza, a Kiev, c’è un centro commerciale che un tempo serviva da rifugio ai nottambuli quando fuori il vento gelido tagliava la faccia. Forse adesso i rivoltosi barricati scendono in quello spazio sotterraneo.
PER proteggersi dai proiettili della polizia di Viktor Yanukovich. Era una tarda sera dell’89, l’Unione Sovietica stava liberalizzandosi e quindi era sul punto di sciogliersi, di implodere, e in quel sottosuolo si accese una polemica che degenerò in rissa. Una mischia politico-letteraria alimentata dalla vodka ma non per questo meno significativa. Da un lato i sostenitori di un Gogol russo, dall’altro quelli di un Gogol ucraino. Tutto era cominciato quando un uomo attempato ed eccitato aveva interpellato due stranieri (uno dei quali ero io) per denunciare il fatto che i russi si erano appropriati di Gogol. L’avevano rubato. Sequestrato. Si riferiva proprio a Nikolai Vasilievich Gogol, autore di Le Anime Morte (1842), ucraino di nascita e grande romanziere russo.
L’affermazione gridata e ripetuta come uno slogan aveva attirato altri passanti, anch’essi sotto l’evidente effetto della vodka, ansiosi di contestare la denuncia dell’uomo attempato. Per loro i russi non si erano appropriati di Gogol. Era un’assurdità. L’ucraino Gogol aveva scritto nella loro lingua e quindi apparteneva alla loro letteratura. Non era forse accaduto un secolo dopo anche a Michail Afanasievich Bulgakov, nato a Kiev, di scrivere in russo il suo capolavoro, Il Maestro e Margherita?
Fu un’insolita polemica letteraria tra ubriachi che si protrasse a lungo, coinvolgendo altre persone, in quel sotterraneo, oggi al centro di scontri sanguinosi.
Per me l’episodio, oltre che inatteso, calzava alla perfezione con quanto si pensava allora, mentre l’Unione Sovietica si stava decomponendo, ed era sul punto di perdere le sue repubbliche. L’Ucraina indipendente, si diceva con insistenza, sarebbe rimasta in bilico tra Europa e Russia, attratta dalla Comunità democratica e abbiente a Ovest e a Est dalla Russia al momento non più imperiale ma elemento essenziale, dominante di una comune storia plurisecolare. La disputa nella galleria sotterranea di Kiev su Gogol ucraino di lingua russa riassumeva a suo modo la divergenza. Si evocava anche la linea zigzagante che spaccava la società, divisa in ortodossi e in cattolici, sia pure in modo discontinuo. Non era forse un casus belli posato come una mina nel cuore del Vecchio continente?
La storia, per nostra fortuna, non è solita ripetersi, ma gli eventi che la scandiscono spesso si assomigliano. Un secolo esatto fa, nel 1914, la Grande Guerra cominciò in Europa per conflitti di influenza di cui i governanti (e i rispettivi cugini, lo zar russo, il kaiser tedesco e il re inglese) non riuscivano sempre a precisare la natura. Cent’anni dopo al centro dell’Europa c’è un grande paese (secondo per la superficie nel continente e con poco meno di cinquanta milioni di abitanti) dilaniato da una lotta tra filo russi e filo europei. Ma la crisi, che potrebbe degenerare in qualcosa di più serio, in una vera guerra civile, suscita al massimo inquietudine, muove qualche diplomatico, eccezionalmente dei ministri, spinge a minacciare sanzioni più o meno efficaci, e i consolati americani si apprestano a negare i visti ai dirigenti ucraini colpevoli della repressione.
La storia, appunto, non si ripete, e per noi europei, ripeto, è una fortuna. Il nostro continente, che si dice sia in continuo declino economico, politico e demografico, è più ricco in saggezza. Non ha più i mezzi, è vero, per accendere conflitti, ma non ne ha neppure la voglia. Non l’avrebbe neppure se avesse la forza militare. Gli avvenimenti che scandiscono la storia assomigliano tuttavia a quelli di un tempo e creano perplessità, indignazione, o perlomeno inquietudine. Come comportarsi dunque di fronte a un dramma come quello ucraino nell’attuale situazione morale, politica ed economica? C’è chi pensa che un ritorno alla diplomazia ottocentesca del Concerto europeo possa essere una soluzione. Ma in un mondo globalizzato, dove tanti sono gli attori e gli interessi, bisogna agire su una scala diversa. L’Ucraina non si limita ad essere una storia europea. Né l’Europa lo pretende.
Al di là dell’emozione suscitata dalla repressione, i responsabili della Ue non sanno con esattezza come influenzare il corso degli avvenimenti con gli strumenti a loro disposizione. La condanna dell’uso dell’esercito contro i civili è inevitabile, è dovuta da parte di una comunità di paesi democratici. Ed è altresì giusto esprimere comprensione per il carattere della rivolta contro il gruppo degli oligarchi impossessatisi dei beni privatizzati alla caduta del comunismo, e sostanzialmente corrotti. E in quanto tali legati alla Russia di Putin. Ma l’opposizione non presenta un fronte unito ed è animata anche da gruppi estremisti, marginali rispetto alla principali aspirazioni della protesta. Non è facile scegliere gli interlocutori.
Ma soprattutto la Ue non è in grado di offrire all’Ucraina quel che chiede o spera l’opposizione. La discussione su un accordo di associazione tra Bruxelles e Kiev, interrotta da Kiev (decisione all’origine della rivolta, perché interpretata come un rifiuto dell’Europa), non era in alcun modo il preludio a un’adesione. Quest’ultima sarebbe troppo costosa nel futuro scrutabile, vista la situazione economica dell’Ucraina e della Ue. Né quest’ultima può o desidera far concorrenza a Vladimir Putin che ha offerto quindici miliardi di dollari all’Ucraina, dei quali una parte sono già stati versati, e un’altra dovrebbe esserlo tra una settimana. La diplomazia europea può quindi contare sulla prudenza del Cremlino, per il quale il rapporto privilegiato o esclusivo con l’Ucraina non vale una guerra civile. Le sanzioni possono avere un certo effetto. Più sul piano formale, politico, che in concreto. Le sole efficaci sarebbero quelle riguardanti i depositi bancari in Occidente degli oligarchi ucraini, o perlomeno dei responsabili della repressione. E naturalmente resta la messa in quarantena del governo ucraino, se i morti dovessero aumentare.
Repubblica 21.2.14
Il fantasma dei Balcani
di Lucio Caracciolo
è più vicina a Trieste di quanto la città giuliana sia prossima a Reggio Calabria, sta piombando nella guerra civile.
Etutto ciò sotto gli occhi negligenti o impotenti dell’Occidente. L’Unione Europea, più che mai incerta e divisa, alterna la retorica della pacificazione alla patetica minaccia di sanzioni che ormai non avrebbero alcun effetto sugli equilibri geopolitici del Paese - 45 milioni di abitanti per oltre 600 mila chilometri quadrati (il doppio dell’Italia) - dalle cui condotte energetiche, sempre bramate da Mosca, dipende per una quota decisiva il nostro approvvigionamento di idrocarburi.
Come ammette uno dei leader dell’opposizione, il pugilatore Vitali Klitschko, la crisi è fuori controllo. Lo dimostrano il tributo di sangue già pagato dagli ucraini - decine di morti e centinaia di feriti - e soprattutto il fatto che intere città e territori non sono più in mano al governo. Il quale è sotto assedio, barricato nei suoi palazzi. Al punto di sconsigliare i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia dal trattenersi a Kiev per facilitare un estremo negoziato fra il presidente Yanukovich e i capi del variegato cartello delle opposizioni, alcune delle quali dotate di proprie milizie. A Leopoli e in altre città dell’Ucraina occidentale marcate dall’influenza polacca e asburgica spuntano comitati rivoluzionari che si proclamano potere di fatto, dopo aver arrestato i rappresentanti del potere legale, alcuni dei quali stanno riconvertendosi alla causa degli insorti. Le ali estreme della protesta sognano un’Ucraina finalmente derussificata, centrata sul “genotipo nazionale”. Vacilla anche la Transcarpazia - parte della Rutenia subcarpatica, crocevia di culture, lingue e pretese geopolitiche rivali. Nella Crimea “regalata” sessant’anni fa dal Cremlino all’Ucraina sovietica, con la flotta russa del Mar Nero alla fonda nel porto di Sebastopoli, si alza invece la voce di chi vuole tornare sotto Mosca. Nel Donbass, epicentro dell’Ucraina orientale russofona e russofila, tendenzialmente schierata con Yanukovich (ma non a qualsiasi prezzo), ci si prepara alla possibilità di separarsi da Kiev.
Lo sfaldamento della Repubblica Ucraina difficilmente avverrebbe lungo una nitida linea Est-Ovest, produrrebbe semmai una pletora di Ucraine maggiori e minori, divise da confini porosi. Mine vaganti allimes eurorusso. Con Kiev estrema posta in gioco. Se la sanguinosa deriva centripeta, accelerata da una recessione devastante, non sarà presto arrestata, la capitale rischia di diventare il palcoscenico finale di una guerra civile combattuta alla frontiera fra Federazione Russa e Unione Europea. Forse la più grave e pericolosa crisi mondiale dalla (presunta) fine della guerra fredda. Il rischio è una super-Jugoslavia che può riportare i rapporti euro-russo- americani alla glaciazione e incidere financo sulla tenuta dello stesso impero di Putin. Tornano alla mente le ultime parole famose del ministro degli Esteri lussemburghese Jacques Poos, che nel maggio 1991, agli albori delle guerre di successione jugoslava, proclamò essere «scoccata l’ora dell’Europa ». Ci vollero decine di migliaia di morti e l’intervento americano per almeno provvisoriamente sedare i Balcani adriatici. Non vogliamo immaginare che cosa accadrebbe se non riuscissimo a fermare la decomposizione dei Balcani profondi.
La radicalizzazione delle fazioni ucraine non promette bene. Il presidente Yanukovich, espressione di un potere inetto e totalmente corrotto eppure battezzato legittimo dall’Unione Europea, disprezzato tanto dalle opposizioni quanto dal suo riluttantementore Putin, non sembra conoscere via altra dalla repressione, nell’intento di guadagnare tempo. Dunque perdendolo. Gli oligarchi alla Akhmetov o alla Firtash, ossia gli ex esponenti della nomenklatura comunista che hanno saccheggiato il Paese nell’ultimo ventennio, manovrando i politici d’ogni colore come marionette - anche perché non hanno trovato a Kiev un Putin che li mettesse in riga - temono che il caos segni la fine del loro regime criminale, magari a favore di altri criminali opportunamente ridipinti. A meno che non riescano essi stessi a riciclarsi per tempo.
Nelle ultime settimane, buona parte della piazza è passata dalla pacifica protesta contro la corruzione e per l’integrazione all’Unione Europea - peraltro mai offerta da Bruxelles - alla rivolta violenta. A scontrarsi con la polizia provvedono formazioni paramilitari bene addestrate, afferenti agli ultranazionalisti di Svoboda, del Pravy Sektor o di Spilna Sprava, fautori della “Ucraina agli ucraini”, segnati dai miti razziali otto-novecenteschi distillati dai teorici locali dello Stato etnico, profondamente russofobi, polonofobi e antisemiti. Sotto la pelle della piazza s’infiltrano provocatori di regime (titushki) e agenti più o meno collegati ai servizi segreti russi od occidentali, come si conviene nelle aree di crisi particolarmente strategiche.
A questo punto solo un negoziato fra tutte le forze interne ed esterne che partecipano alla battaglia d’Ucraina può impedire una prolungata guerra civile, che cambierebbe comunque il volto della Russia e dell’Europa. È tempo che Washington e Mosca scendano in campo non per sostenere i loro campioni locali, ma per salvare gli ucraini da se stessi e dagli europei che pretendono di salvarli. Obama e Putin hanno dimostrato di sapersi intendere, quando le alternative al compromesso sono disastrose. Il tempo stringe, nella speranza che non sia già tardi.
Corriere 21.2.14
Una Tienanmen che non vediamo
di Franco Venturini
Piazza Maidan è diventata una Tienanmen nel bel mezzo dell’Europa, come potevano non reagire i governi della Ue? Davanti al loro collettivo silenzio l’Europa comunitaria avrebbe definitivamente rinunciato a essere soggetto politico, avrebbe tradito i suoi valori, avrebbe aperto una pericolosa frattura con Washington. Eppure
ieri a Bruxelles i criteri dominanti sono stati quelli della misura e della gradualità.
Sono stati decisi il blocco dei visti e il congelamento delle disponibilità finanziarie all’estero per i responsabili della repressione (si saprà nei prossimi giorni se tra i colpiti c’è anche Yanukovich), oltre a un simbolico embargo sugli strumenti di coercizione ma non sulle armi. Rispetto alla ben maggiore severità che alcuni predicavano risulta chiaro che la maggioranza dell’Unione, guidata ancora una volta dalla Germania, vuole sì sanzionare la violenza ma tenta ancora di mediare, continua a puntare sul dialogo con Kiev e, se l’intransigenza di Putin lo renderà possibile, anche su quello con Mosca.
È lecito esprimere qualche perplessità nei confronti di questo approccio prudente mentre in Ucraina la polizia viene autorizzata a sparare (cosa che ha già abbondantemente fatto) e molti temono uno stato d’assedio che potrebbe sfociare nella guerra civile. Ma in aggiunta allo scontato scetticismo sull’efficacia delle sanzioni, è la permanente complessità della questione ucraina a mettere alla prova gli strateghi occidentali e i loro governi. Le spaventose immagini di violenza rimbalzate da Kiev nel mondo intero ci ricordano l’antica spaccatura dell’Ucraina tra filo-occidentalisti e filo-russi, e ci fanno tornare ai tempi di quelle conferenze (Yalta, ma anche Teheran e Potsdam) che regolarono la divisione dell’Europa post-bellica. L’Ucraina si trovò beninteso nel blocco sovietico, Stalin non avrebbe digerito nulla di diverso. Ma quando nell’89 il cosiddetto «ordine di Yalta» fu spazzato via dalla caduta del Muro e poi da quella dell’Urss, l’Ucraina, con 60 milioni di abitanti e grande quanto la Francia, si scoprì abbandonata nel suo ruolo di cuscinetto Est-Ovest. L’Europa sbagliò, malgrado il tardivo appoggio alla Rivoluzione arancione guidata dalla Tymoshenko nel 2004. E poi, a peggiorare le cose, giunse il revanscismo di Putin con i suoi progetti di unione euro-asiatica. Lo scorso novembre la Ue sbagliò di nuovo, mettendo sul tavolo per Yanukovich seicento milioni di euro contro i miliardi del Cremlino: inevitabilmente il presidente ucraino scelse denaro e petrolio a buon prezzo, dimenticando che la metà, e forse ben più della metà del suo popolo voleva l’accordo con l’Europa per garantirsi un futuro migliore. Così è nata la contrapposizione in piazza, così è nata la violenza, così al braccio di ferro geopolitico tra Occidente e Russia per attirare l’Ucraina si è affiancata una estesa rivolta popolare.
Putin accusa l’Ovest di interferenza, lui che ne ha fatte più di tutti. L’America «scandalizzata» non vuole dargliela per vinta, e certe ripercussioni su Sochi probabilmente non le dispiacciono. L’Europa cerca una via di mezzo che forse ormai non esiste più, perché è davvero difficile immaginare un accordo tra Yanukovich e la piazza mentre a Kiev continua a scorrere il sangue. E mentre, sarebbe disonesto non ricordarlo, nel campo dei rivoltosi cresce a scapito dei più moderati l’iniziativa non certo pacifica dell’estrema destra del «pravi sektor», formata da antisemiti esplicitamente nostalgici del nazismo.
Quali che siano le promesse di Yanukovich agli inviati europei che ieri lo hanno incontrato a Kiev mentre in piazza Maidan scorreva altro sangue, prevedere il futuro prossimo dell’Ucraina è un esercizio ad alto rischio. Il partito del presidente non è più compatto, alcuni degli oligarchi più influenti non lo appoggiano più, e se intervenissero i militari non è detto che i soldati accetterebbero di sparare sul popolo. Isolato e influenzato dai falchi sia ucraini sia russi, Yanukovich sembra con le spalle al muro. Anche i rivoltosi, come abbiamo detto, dovrebbero fare pulizia. E poi c’è Putin: sarà disposto a lavorare con l’Europa per tenere a galla insieme un Paese sull’orlo del default e della miseria collettiva? Angela Merkel lo spera. Ma i segnali che giungono da Mosca, compreso l’invito a Yanukovich a «non fare lo zerbino», vanno nella direzione opposta.
l’Unità 21.2.14
Morti in piazza in Venezuela Maduro: «Tentato golpe»
La protesta anti-governativa partita dagli studenti, una miss tra le vittime
Espulsi tre funzionari Usa, il presidente parla di «insurrezione nazifascista»
di Fabrizio Lorusso
chiamava Génesis Carmona, miss Turismo dello Stato di Carabobo nel 2013, 22 anni appena, centrata alla testa da un proiettile sparato da sconosciuti in moto mentre era ad una manifestazione anti-governativa. Proprio come era accaduto il 12 febbraio scorso, alla manifestazione contro le politiche del presidente Nicolás Maduro e la repressione governativa organizzata dagli studenti in diverse città. A Caracas alla fine di una giornata pacifica, uomini armati in motocicletta hanno aperto il fuoco contro la folla che stava tornando a casa, facendo decine di feriti e tre vittime: due studenti attivisti e un sostenitore del governo.
È stata la scintilla che ha innescato la reazione del governo. Il Ministro degli Interni, Miguel Rodríguez, ha parlato di una trentina di arresti, i manifestanti ne hanno contati un centinaio e la ong Foro Penal dà la cifra di 155. La stessa ong parla di 16 feriti da arma da fuoco e 22 in totale in una settimana nello Stato di Lara, ma in tutto il Venezuela sarebbero un centinaio.
È un balletto di cifre che descrive la confusione che si vive in queste ore e che ha preso le prime mosse dalla protesta degli studenti. «Le proteste si sono intensificate perché hanno arrestato studenti che manifestavano pacificamente - spiega Daniel Martínez, della Federazione Studenti dell’Università Simon Bolivar -. Così c’è stata una catena di nuove proteste in altre zone come Mérida e Caracas».
Alcuni gruppi ed esponenti dell’opposizione, ma non l’ex candidato presidenziale Henrique Capriles, si sono uniti alle manifestazioni invitando la gente a scendere in piazza contro la violenza e l’impunità, ma anche contro l’inflazione galoppante ormai arrivata al 56,2%, il mercato finanziario «nero», i costanti black out, la scarsità di beni essenziali come latte, zucchero e medicine, e contro le politiche chaviste di Maduro.
Il presidente ha condannato gli incidenti del 12 febbraio e li ha attribuiti a «un’insurrezione nazifascista» che cerca di attuare un colpo di stato, mentre gli studenti accusano il governo di provocare le violenze. «Non ci sarà il golpe in Venezuela, siatene certi, che lo sappia il mondo», ha dichiarato Maduro. Il presidente venezuelano ha accusato Washington di aver promosso le proteste antigovernative nel Paese. E nei giorni scorsi ha disposto l’espulsione di tre funzionari dell’ambasciata Usa a Caracas.
ACCUSE A WASHINGTON. Il governo ha invitato alla pace e alla calma, ma ha anche fatto emettere un ordine di arresto contro il leader oppositore Leopoldo López, ex sindaco di Chacao, comune vicino a Caracas e bastione antigovernativo. Il leader quarantaduenne dell’organizzazione anti-chavista Volontà Popolare affronterà un processo per la sua presunta responsabilità nelle violenze e le morti del 12 febbraio. È accusato di «terrorismo e omicidio», lui si è dichiarato perseguitato politico.
Carlos Vecchio, un dirigente del partito di López, sostiene che «l’ordine di arresto è parte di un piano per criminalizzare la protesta». Malgrado l’adesione di vari gruppi d’opposizione e leader studenteschi, la risposta delle piazze è stata relativamente contenuta, anche perché la stessa opposizione è divisa e Capriles ha addirittura criticato gli appelli dei manifestanti che hanno chiesto le dimissioni del governo. «Questa lotta è una resistenza, ma questa non cresce se ci prefissiamo scappatoie che non portano da nessuna parte», ha dichiarato.
Le piazze sono ancora incandescenti, ci sono scioperi e occupazioni universitarie, mala situazione sembra tornare lentamente sotto controllo. Ciononostante le reti sociali non sembrano stare con Capriles, tacciato di «tradimento», mentre aumentano gli elogi per López che, intanto, s’è consegnato spontaneamente alle autorità ed è agli arresti in una prigione militare dal 18 febbraio. Un centinaio di suoi sostenitori ha cominciato un picchetto fuori dal palazzo di giustizia della capitale in attesa di sue notizie. «Potrebbe essere addirittura beneficiato dall’arresto in termini d’immagine e di popolarità», dice il politologo Carlos Hernández, com’era successo a Hugo Chávez e allo stesso Capriles in passato. López ha dei trascorsi golpisti e ha ricevuto una grazia da Chávez nel 2007 per aver tentato il golpe contro di lui nel 2002 e per aver occupato, insieme a Capriles, la sede dell’Ambasciata Cubana a Caracas.
Indipendentemente dall’evoluzione delle proteste di questi giorni il Venezuela si trova in un momento critico e la stabilizzazione è lontana, la polarizzazione politica è a livelli estremi, l’economia langue e le diverse anime dell’opposizione competono per riempire i vuoti politici e capitalizzare lo scontento popolare.
Repubblica 21.2.14
Fumetti
Batman o Superman scegli un supereroe per guarire dalle paure
È la nuova tendenza della psicoterapia Usa
Attribuirsi poteri straordinari fa vincere l’ansia
di Elisa Manisco
Sdraiarsi sul lettino e invece di parlare, leggere un fumetto di Batman, Superman o l’Uomo Ragno. Succede negli Stati Uniti e da un po’ anche in Italia. Sono sempre di più infatti gli psicoterapeuti convinti che la cultura pop, e in particolare i fumetti, possano aiutare i pazienti ad affrontare e vincere ansie e paure di tutti i giorni. Proprio come un supereroe. Ne è convinto il Dr. Patrick O’Connor, psicologo americano che ha avuto l’idea della “superhero therapy” nel 2010, quando lavorava in una casa famiglia di Chicago. «Amo i fumetti da sempre», racconta. «E lavorando con bambini e ragazzi in affidamento mi è venuto subito in mente il rapporto tra Bruce Wayne e Dick Grayson, ovvero Batman e Robin. Quest’ultimo viene affidato a Wayne dopo la morte dei suoi genitori, per cui ho pensato che i miei piccoli assistiti avrebbero potuto identificarsi con lui». A quel punto O’Connor ha cominciato a far leggere ai suoi pazienti albi DC e Marvel nelle sedute. Non solo, ad alcuni ha anche chiesto di inventare un personaggio e immaginare di avere dei superpoteri con cui reagire alle sfide quotidiane. Il risultato è stato esaltante: «I pazienti esprimevano le proprie emozioni come non avevano mai fatto prima».Nulla di strano, in fondo i teorici del fumetto vedono da anni i supereroi come una versione moderna e pop degli archetipi junghiani, in grado di mettere in luce valori e forze primarie, come il bene e il male. «Vedersi come un supereroe aiuta a prendere coscienza di se stessi», conferma Elisa Rocchi, presidente dell’associazione Barbablù di Cesena, che riunisce educatori e pedagoghi. «Nei nostri laboratori spingiamo i ragazzi a creare anche una propria nemesi, un supernemico che rappresenta il lato oscuro. Il cosiddetto “villain” che permette di capire punti di forza e le debolezze». Eppure non tutti sono convinti. L’American Psychological Association non riconosce la “superhero therapy”, perché mancano prove scientifiche della sua efficacia. Almeno per ora. Intanto O’Connor ha iniziato a tenere un corso a Chicago per gli aspiranti terapeuti a fumetti, oltre ad aver creato Comicspedia, un sito dove ad ogni supereroe viene associato un (super) problema: così Batman ci parla della perdita di qualcuno che amiamo, i Fantastici Quattro gettano una nuova luce sulle dinamiche familiari e gli X-Men, mutanti ed emarginati, possono far comprendere meglio la diversità, anche sessuale. Ma la terapia a fumetti non funziona solo con i più piccoli. «Gli adulti reagiscono positivamente alle sedute », continua lo psicoterapeuta. «Soprattutto quelli delusi da forme classiche di terapia. E poi quasi tutti conoscono queste storie». Gli fa eco il counselor americano Josué Cardona: «Non è necessario essere un fan dei comics. Anche mia nonna di 85 anni sa chi è Superman e cosa rappresenta: forza, giustizia e bontà». Cardona ha creato il sito Geektherapy. com ed è convinto che il mondo sarà salvato dalla cultura geek, la cultura pop amata dai nerd. Non solo supereroi, dunque. Ma anche
Star Wars, i videogame o Il signore degli anelli vanno bene per curarsi. O magari Harry Potter. A quanto pare non c’è niente di meglio del maghetto creato da J. K. Rowling per elaborare un lutto. O anche solo per calmare l’ansia. Un esempio? Nel suo blog O’Connor consiglia di provare a creare un incantesimo per proteggersi dai cattivi pensieri. Come dire che per sentirsi meglio, più che di poteri magici o superpoteri, c’è bisogno del potere dell’immaginazione. In fondo, basta poco per essere (super) eroi, anche solo per un giorno.
Repubblica 21.2.14
Il primo conflitto mondiale visto dai manicomi
Il grande esercito dei quarantamila matti di guerra
di Simonetta Fiori
Sono migliaia le storie dimenticate raccolte con sensibilità e intelligenza dalla Valeriano, assegnista di ricerca dell’Università di Teramo, che in realtà indaga la storia italiana ben oltre la grande guerra. «Un grande racconto del dolore», lo definisce Crainz, che «è anche storia aspra della società italiana tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo». Prima le sofferenze dell’emigrazione, in chi parte e chi resta. Poi la leva obbligatoria, con l’ingresso prepotente dello Stato nelle vite private. Ed ancora un confuso istinto di liberazione femminile che viene liquidato sotto l’infamante etichetta dell’isteria. Nei cinquemila fascicoli personali del manicomio abruzzese sono narrati i sommovimenti interiori dell’Italia rurale, messa a dura prova dai processi di modernizzazione. In questa storia nazionale, filtrata attraverso le mura di un’istituzione totale, un posto centrale è occupato dal conflitto. Abisso di sangue e di tenebre, la guerra ebbe l’effetto di allargare l’orizzonte psichico in quella «terra di nessuno» indagata da J. Leed. L’ossessione di un nemico invisibile, l’improvviso abbagliare di luci e di scoppi devastanti, la normalità della morte anonima e di massa: in molti riuscirono a salvarsi grazie a un’estraniazione costante, a un ottundimento del senso della vita che li avrebbe segnati per sempre. Grazie ai duecentosessanta militari accolti nel manicomio di Teramo, possiamo seguirne deliri, allucinazioni, arresti psichici, ossessioni ipocondriache. Nuove e sconosciute patologie con cui la medicina fu costretta a misurarsi, spesso riconducendole «in un terreno costituzionalmente predisposto», senza capire l’importanza dell’emozione scatenante. Il trauma della guerra.
La «sindrome isterica», così venne definita, era anche il modo inconsapevole con cui questi uomini tentarono di ribellarsi alla vita in trincea. Una sorta di dispositivo di sicurezza. «Se attraverso le esagerazioni del corpo isterico le donne erano riuscite a esternare il rifiuto contro ruoli, regole e modelli percepiti come costrittivi», annota la Valeriano, «per i soldati il rifugio nell’isteria divenne un modo per manifestare la propria opposizione». Una rivolta accolta dalla classe psichiatrica con riprovazione, perché contraddiceva il modello di virilità imperante nel discorso pubblico. All’interno dei manicomi franava tragicamente «la retorica del combattente», come ci hanno raccontato sia Isnenghi che Gibelli. E franava la psiche di molte mogli e madri che, trascinate a ruoli di responsabilità fuori dei confini domestici, non riuscirono a sopportarne il peso. Ma anche con loro la medicina si rivelò feroce, riferendo le nevrosi a uno squilibrio d’origine.
Oltre le cartelle cliniche, parlano le «corrispondenze negate», le lettere degli internati mai arrivate a casa per la censura dei medici. Missive, cartoline, biglietti conservati dentro i fascicoli personali, perché ritenuti «mezzi diagnostici supplementari» per accertare la follia dei pazienti. Un libro, questo della Valeriano, sulla disperazione degli esclusi e sull’arrogante inadeguatezza dei ceti dirigenti, incapaci di rapportarsi a un mondo che tumultuosamente cambiava.
Repubblica 21.2.14
La voce degli Dei
Quando l’Assoluto parla con l’uomo
Le risposte dei filosofi agli interrogativi sul mistero della comunicazione divina
di Maurizio Bettini
«E Dio disse, la luce sia. E la luce fu». Così recita la Genesi. Ma come bisogna intendere quel «disse»? O meglio, con quale “voce” Dio avrebbe pronunziato quella fatidica frase? Il problema non era sfuggito ad Agostino, che commentando il testo biblico si premurava di spiegare quanto segue: «Non dobbiamo intendere che Dio avesse detto “fiat lux” con una voce che proveniva dai polmoni, e neppure tramite la lingua e i denti». Evidentemente rifiutava che si attribuissero a Dio capacità linguistiche di tipo umano, proponendo così una visione antropomorfica della divinità. Non si poteva accettare che Dio fosse dotato di “voce” come un qualsiasi mortale. D’altra parte, però, la Genesi affermava esplicitamente che Dio “disse” la fatidica frase, il Creatore aveva effettivamente “pronunziato” quelle parole. Come se la cavava dunque Agostino? Da esperto conoscitore della retorica, ossia ricorrendo a un brillante ossimoro: in quella circostanza, spiegava, Dio aveva parlato ineffabiliter, cioè letteralmente “senza dire”. Potenza di un avverbio, capace di attribuire a Dio la virtù del dire senza parlare. La voce divina è una voce / non voce, ineffabile.
Il problema che si era posto Agostino, comunque, era ben più antico di lui, e riguardava non solo il Dio di Ebrei e Cristiani, ma anche gli dèi dei cosiddetti pagani. La divinità, qualunque essa sia, parla? E se parla, che voce ha? E ancora: ammesso che la divinità abbia una voce, qual è la lingua in cui si esprime? Dato però che, a fronte di simili ricorrenti domande, sta una divinità che si ostina a restare muta, oltre che invisibile, potremmo riformulare la questione in questo modo: quale voce, o meglio quali voci, sono state “prestate” alla divinità nel mondo antico? Se Agostino gliene dava una sottilmente ineffabilis, come se la sono cavata altri di fronte allo stesso dilemma?
Restiamo in compagnia dei filosofi, per primi gli epicurei. Costoro avevano una visione decisamente antropomorfica degli dèi, li volevano in tutto e per tutto di forma umana. La qual cosa suscitava le ironie degli scettici («questo implica forse che fra gli dèi qualcuno ha il nasone, qualcun altro ha un neo sulla guancia, qualcun altro è strabico?»); ma implicava anche una risposta positiva alla domanda sulla voce divina. Non v’è dubbio, diceva infatti l’epicureo Filodemo nel Primo secolo a. C., non solo gli dèi hanno una voce, ma dialogano anche fra loro. Infatti, argomentava, non potremmo pensare che essi fossero felici e incorruttibili, come in effetti sono, se non parlassero e non comunicassero gli uni con gli altri, ma fossero invece simili a uomini muti. E anzi, continuava, per Zeus! Bisogna anche ritenere che gli dèi non solo parlano, ma parlano greco, e che emettono suoni forniti di significato, ben articolati, i più corretti, così come usano in Grecia le persone colte. Nella formulazione di Filodemo il problema della voce degli dèi assumeva dunque un’inattesa inflessione etnocentrica - o forse, trattandosi di Greci, c’era da aspettarselo. Quale altra lingua avrebbero mai potuto parlare gli dèi, infatti, se non quella dell’Ellade? Di sicuro non le lingue dei barbari, i quali non a caso si chiamano così proprio perché “balbettano”. E certo un greco non poteva concepire di onorare una divinità che balbettava il greco o parlava comunque una lingua che, alle sue orecchie, assomigliava troppo a un balbettio.
Sul versante opposto rispetto agli epicurei, però, stavano i filosofi scettici, che sul problema della voce degli dèi argomentavano in tutt’altro modo. D’accordo, dicevano, sostenere che il dio sia afono è assurdo e ripugna alle opinioni correnti. Però, se il dio è dotato della capacità di parlare, allora dispone anche di voce e di organi fonatori, come polmoni trachea lingua e bocca - ma questo sì che è assurdo! Se così fosse, infatti, non sarebbe più dio. E comunque, anche ammettendo che il dio disponga di voce, allora si esprime per forza in qualche lingua - già, ma quale? La lingua greca o una lingua barbara? La greca. Ma se è la greca, quale precisamente? Quella ionica, quella eolica, quella dorica, o quale mai altra? Certo non le userà tutte. Dunque il dio non ne usa nessuna. La conclusione che gli scettici traevano da loro argomentare sulla voce degli dèi era dunque la seguente: si tratta di una questione priva di fondamento.
Della voce della divinità, o meglio del modo in cui gli dèi comunicano, si era però occupato anche Platone, ovviamente con ben altra fantasia. Nel Simposio, per esempio, Diotima aveva sostenuto che fra gli dèi e gli uomini agiva un daimon, un demone. Era lui che permetteva il dialogo fra questi interlocutori che non potevano entrare in relazione: gli dèi infatti non si “mescolano” con i mortali. Fra dèi e uomini starebbe dunque una sorta di interprete soprannaturale, capace di mediare, o meglio di tradurre, il parlare degli uni in quello degli altri. Ecco spiegato, per esempio, perché nei sogni gli umani odono talora la voce degli dèi che li ammoniscono. È il daimon che interpreta per loro la voce degli dèi, così com’è ancora il daimon che trasmette agli dèi le preghiere che gli umani formulano nel loro linguaggio.
Fin qui i filosofi. Ma a parte loro, che cosa pensava della voce degli dèi la gente comune? Probabilmente non si poneva neppure il problema. O perlomeno, dava per scontato che gli dèi una qualche voce l’avessero, visto che a volte essi parlavano nei sogni, così come si narrava di voci misteriose che erano state udite da qualcuno. Ma soprattutto gli dèi parlavano, eccome, nelle invenzione della poesia e del teatro. Tanto poteva bastare a un greco che non fosse stato filosofo. Neppure Omero, del resto, si preoccupa di definire con quali modalità si realizza il parlare delle varie divinità nei poemi. Atena, Zeus, Afrodite, Poseidone parlano, e basta, alla maniera di tutti gli altri personaggi. Come sanno i lettori dell’Iliade e dell’Odissea, gli dèi dell’Olimpo interloquiscono tranquillamente fra loro, a volte anche in modo molto animato, senza che mai venga sottolineato l’eventuale carattere speciale del loro dialogo. E anche quando le divinità interagiscono con gli uomini, il loro parlare non esce mai dalle normali modalità del discorso omerico, esse si esprimono alla maniera di tutti gli altri. Il fatto è che il problema della verosimiglianza linguistica non stava particolarmente a cuore alla letteratura antica. Lo stesso Omero, per esempio, si preoccupa forse che i Troiani, di per sé, dovrebbero parlare una lingua diversa da quella degli Achei? Omero non fa ingiustizie: a tutti, Greci e Troiani, uomini e dèi, egli “presta” la stessa parola, senza barriere di linguaggio. Sono le meraviglie della poesia.
Repubblica 21.2.14
Futurismo in Usa
L’avanguardia italiana alla conquista di New York
Al Guggenheim la prima rassegna completa negli Stati Uniti dedicata al movimento che rivoluzionò i linguaggi e l’estetica del Novecento
di Lea Mattarella
Il Futurismo conquista l’America in una sfavillante mostra aperta al Guggenheim di New York (da oggi al primo settembre), pronto a trasformarsi in una grande opera d’arte totale. «Abbiamo voluto giocare con l’architettura del museo – spiega la curatrice Vivien Greene che lavora a questo progetto da cinque anni – chi entra trova subito raccolti nella Rotonda ideata da Frank Lloyd Wright i temi fondamentali del movimento futurista: la simultaneità, il dinamismo, lo spettatore al centro del quadro. Le opere avvolgono il visitatore in una dichiarata cacofonia visiva e uditiva». Perché, come si legge nel Manifesto Tecnico della Pittura Futurista firmato da Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini nel 1910 «le nostre sensazioni pittoriche non possono essere mormorate. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali».
L’immersione nel Futurismo è totalizzante. La mostra (resa possibile dalla sponsorizzazione di Lavazza) infatti, oltre a esporre i più straordinari capolavori di pittura e scultura dei suoi protagonisti raccoglie oggetti, abiti, fotografie, film, scenografie, suoni, scritti, stoffe, libri, architettura, giocattoli, ceramiche, mobili, pubblicità. Tutto declinato in termini di esaltazione della modernità, del cambiamento. Non a caso il sottotitolo della rassegna si rifà alla Ricostruzione futurista dell’universo,
auspicata in un manifesto da Balla e Depero del 1915 in cui si afferma di voler «ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente».
«Abbiamo voluto realizzare una vera e propria introduzione al movimento – prosegue la Greene – perché negli Stati Uniti questo non è conosciuto in tutta la sua complessità». La mostra aperta al Museum of Modern Art di New York nel 1961, infatti, era molto concentrata sulla pittura e sulla fase iniziale di questa avanguardia che si considerava chiusa con la morte di Boccioni, avvenuta nel1916, quando l’artista aveva appena 34 anni. L’odierna kermesse si muove invece tra il 1909, anno del Manifesto redatto da Filippo Tommaso Marinetti, e il 1944, data della sua morte. Inserendo anche tutti gli artisti che partecipano a quello che viene comunemente chiamato il “secondo Futurismo”, secondo una definizione resa celebre da Enrico Crispolti che comprende i protagonisti dell’aeropittura, affermatisi dopo la prima guerra mondiale, da Gerardo Dottori a Tato fino a Tullio Crali. Ed è molto affascinante in questa sezione il rapporto tra i loro dipinti e gli scatti di Roma vista dall’alto di Filippo Masoero dove persino la cupola di San Pietro appare un idolo della modernità. Altrettanto interessante è il rapporto strettissimo che si rintraccia tra le sperimentazioni fotografiche di Anton Giulio Bragaglia e gli studi sulla velocità di Giacomo Balla, come succede nelle loro raffigurazioni di mani in movimento: rapide sulla macchina da scrivere per il primo e imprendibili sul violino per il secondo. Per Balla è così che si racconta il dinamismo, attraverso la ripetizione, come succede nei celebri quadri in cui astrattizza il volo di una rondine o un’automobile sulla strada. Per Boccioni tutto si muove nel segno della simultaneità, di un più vasto dinamismo universale in cui tutto, e non soltanto l’oggetto inquadrato dal pittore, si muove, modificando la percezione dello spazio e del tempo. Opere come Visioni simultanee e Elasticità mostrano un mondo sfaccettato, vorticoso che rivela un’energia sotterranea, potente, uno slancio vitale derivante dall’interesse dell’artista nei confronti delle teorie di Henri Bergson e del suo universo irrazionalista. «L’epoca in cui viviamo – dichiarava Boccioni – inaugura una nuova era che fa di noi i primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata». E, nel manifesto della scultura futurista, propone la “scultura di ambiente” capace di “modellare l’atmosfera”. Il suo imperativo “Spalanchiamo la figura e mettiamo in essa l’ambiente” lo si vede diventare immaginare nelle sculture come Antigrazioso, Sviluppo di una bottiglia nello spazio, Forme uniche nella continuità dello spazio, la cui fonte rivisitata, è proprio quella Nike citata nel manifesto di Marinetti dove si legge che «un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia ».
«Mi interessa molto l’idea del paradosso presente non soltanto nel Futurismo ma in tutto il Modernismo italiano. I futuristi sono proiettai in avanti ma, seppure in maniera inconsapevole, devono fare i conti con il passato. Per esempio l’idea stessa della “ricostruzione” ha radici nell’Ottocento, nel Gesamtkunstwerk, (l’opera d’arte totale) di Wagner, nel movimento Nabis, in Whistler. Nello stesso tempo si assiste alla creazione delle “serate” che sono davvero qualcosa di assolutamente innovativo, spazi in cui succede di tutto».
Il clima delle “serate futuriste”, la gioiosa invenzione delle “parole in libertà”, l’idea che tutto il mondo fosse da cambiare a colpi di manifesto (della pittura, della scultura, dell’architettura della danza, del teatro, della cucina, della donna, della lussuria...) emerge dalla mostra e dal catalodinarigo che la accompagna, ricchissimo di interventi, anche di studiosi italiani come Claudia Salaris, Enrico Crispolti, Fabio Benzi e molti altri, grazie al lavoro di documentazione e alla qualità del prestiti. Ci sono i capolavori di Carlo Carrà, come Manifestazione interventista oIl funerale dell’anarchico Gallida lui stesso definito un «ribollimento o turbine di forme e di luci sonore, rumorose, odoranti», accanto a quelli di Gino Severini come la Danzatrice blu con il suo ritmo forsennato a colpi di paillette. Ci sono le cornici dipinte perché l’arte deve invadere la vita. E infatti la conquista allegramente, reinventando la parola come accade nelle opere di Francesco Cangiullo, ripensando l’architettura con le visioni di Antonio Sant’Elia (scomparso nello stesso anno di Boccioni) e di Mario Chiattone con i progetti di edifici che hanno perso il «senso del monumentale, del pesante, dello statico» in favore del «gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce». E poi c’è il teatro con i Balli Plastici di Fortunato Depero dove scompare l’attore sostituito dal burattino, o dall’uomo meccanico di Pannaggi. Oppure i progetti di Balla per Fuoco d’artificio
di Stravinsky ideato per i Balletti Russi che pare il «paesaggio astratto a coni, piramidi, poliedri, spirali di monti, fiumi, luci, ombre » richiamato nel manifesto della Ricostruzione futurista di cui questa mostra è un nuovo, entusiasmante capitolo.
Repubblica 21.2.14
Lo storico dell’arte Enrico Crispolti
“Ma Marinetti non era artista del Regime”
di Dario Pappalardo
Riscoperto, celebrato e riprodotto oggi come non mai, il Futurismo gode ancora in parte di una fama sinistra per i suoi contatti con il fascismo. Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del movimento, era amico di vecchia data di Benito Mussolini. E questo è noto. Ma quale fu la vera relazione tra l’avanguardia e il regime? Lo storico dell’arte Enrico Crispolti, che al Futurismo ha dedicato buona parte dei suoi lunghi studi, nel saggio compreso all’interno del catalogo della mostra Italian Futurism del Guggenheim di New York, ridimensiona il senso di questorapporto.
Professor Crispolti, quale fu la natura autentica della relazione tra Futurismo e fascismo?
«Intanto, bisogna precisare che il Futurismo, nato nel 1909, precede il fascismo di dieci anni esatti. Fu una relazione altalenante, che nacque nel 1919, si ruppe nel ’21 per poi riprendere nel ’24. Ma quello dei futuristi verso il fascismo fu soprattutto un rapporto nostalgico».
In che senso?
«I futuristi avevano nostalgia del fascismo “rivoluzionario” del 1919, il “diciannovismo”, che, almeno in parte, sembrava voler realizzare il loro programma politico, ma non erano interessati a quello di regime. Anzi, il Futurismo venne emarginato dalle mostre ufficiali del tempo: fu presente con le sue opere soltanto alla Biennale di Roma del ’25 e poi a quella di Venezia del ’26. Il razionalismo ebbe rapporti ben più stretti con lo Stato fascista. Lo dimostra il fatto che le maggiori committenze del tempo erano per Piacentini, Terragni e Sironi, non certo per Marinetti e gli altri».
Marinetti, però, nel 1929, diventa accademico d’Italia e poi aderirà a Salò...
«Ma era inevitabile che diventasse accademico: anche Guglielmo Marconi lo era. Marinetti era amico del duce ben prima del fascismo, gli risolveva di tanto in tanto qualche problema di carattere culturale, ma non condivideva davvero la sua politica, cercava solo un terreno fertile per la sua arte».
Non ci fu mai un rifiuto però...
«L’Italia degli anni Venti, Trenta e Quaranta non poteva fare a meno di confrontarsi con il potere. I futuristi non erano certo dei partigiani, ma rappresentavano, in qualche modo, un’alternativa extraparlamentare. Nel 1938, Marinetti si oppose in prima persona all’“Operazione arte degenerata” con cui il regime, sulla scia di quanto accadeva nella Germania di Hitler, intendeva fare piazza pulita delle avanguardie, cancellando di fatto la nuova arte del Novecento, Futurismo compreso. Organizzò con successo una manifestazione di protesta al Teatro delle Arti di Roma, in via Sicilia».
Cosa rimane oggi del Futurismo?
«Tante intuizioni, a partire dall’architettura: Frank Gehry, per esempio, ha sintetizzato tutta la cultura della plastica futurista. E poi il rapporto strettissimo tra arte e vita: la dimensione esistenziale dell’arte, che oggi è scontata per ogni autore contemporaneo, deriva direttamente dall’esperienza futurista. Noto un grande interesse verso il Futurismo, soprattutto da parte degli artisti più giovani, quelli tra i 25 e i 30 anni».
Come lo spiega?
«C’è una nuova generazione che si muove al di là del mercato, che, in controtendenza rispetto alla mancanza di immaginazione di questi tempi, cerca forme e avventure nuove. E i futuristi le avventure le hanno inseguite tanto».
Corriere 21.2.14
Futurismo, l’America scopre il sogno italiano
Un secolo dopo, il movimento artistico di Marinetti va in mostra a New York
di Massimo Gaggi
L’aeropittura, dai voli transatlantici di Italo Balbo (Giacomo Balla) al paracadutista lanciato nel vuoto (Tullio Crali). Ma anche la ricostruzione dell’atelier di scultura dinamica di Umberto Boccioni e un ricchissimo percorso che attraversa quasi tutte le altre forme d’arte: letteratura, cinema, teatro, musica, fotografia, design. Anche l’architettura e perfino la gastronomia (la messa al bando della pastasciutta decretata da Marinetti nel Manifesto della cucina Futurista ) e la moda: il Vestito Antineutrale proposto nel 1914 dallo stesso Balla come divisa del futurista deciso a spingere per l’intervento italiano nel conflitto mondiale.
Da oggi e per più di sei mesi la grande spirale del Guggenheim, il celebre museo d’arte contemporanea affacciato su Central Park a New York, si trasforma in un percorso mozzafiato attraverso le esplosioni dell’arte d’avanguardia, le intuizioni geniali, i deliri, la fascinazione per la velocità e il fanatismo bellicista del futurismo italiano: un movimento artistico e culturale che, a lungo trascurato nel Dopoguerra per la sua stretta associazione col fascismo, da noi è stato riscoperto e ha acquistato notorietà soprattutto grazie a due grandi mostre organizzate qualche decennio fa a Torino e a Venezia.
Ma negli Stati Uniti (e negli altri Paesi europei) non c’è mai stato nulla di simile: un’esposizione che farà molto discutere e che è di grande interesse anche per l’Italia. Perché l’ultima esposizione, quella veneziana di Palazzo Grassi, risale a quasi trent’anni fa (1986) e perché alcune delle 360 opere di 80 artisti esposte a New York sono sconosciute anche in Italia. Vivien Greene, la curatrice della mostra, ti racconta con entusiasmo e orgoglio, per fare un esempio, come è riuscita a ottenere dal ministero delle Poste di poter trasportare in America ed esporre i cinque murales dipinti nel 1934 da Benedetta, la moglie di Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore di questo movimento culturale: opere che rappresentano in un trionfo di luce e colori il volo, la navigazione, il trasporto su strada, la rivoluzione del telegrafo e quella delle onde radio. Queste gigantesche rappresentazioni sono rimaste chiuse per ottant’anni nella sala delle riunioni (non aperta al pubblico) dell’ufficio postale di Palermo.
Ha aiutato certamente il fatto che Vivien — un padre diplomatico che fu console americano a Palermo, madre italiana che vive tuttora nella città siciliana — parli perfettamente la nostra lingua, sia di casa a Palermo e faccia la spola tra l’Italia e New York, dove, al Guggenheim, è responsabile per le collezioni d’arte dell’Ottocento e della prima parte del Novecento.
La mostra, che segue lo sviluppo cronologico, parte con l’edizione originale del quotidiano francese «Le Figaro» del 20 febbraio 1909 sul quale Marinetti pubblicò il suo Manifesto del Futurismo . È un’esposizione ricchissima e interdisciplinare, che è stata completata con la realizzazione di tre documentari e l’organizzazione di una serie di eventi pubblici che si svolgeranno nei prossimi mesi. «Compresa — racconta divertita la Greene — una serata culinaria in calendario a luglio: l’abbiamo battezzata Anti Pasta Evening. Ai fornelli ci sarà mia madre che è una chef».
La Greene, spalleggiata da un comitato di trenta dei maggiori esperti mondiali d’arte moderna, ha scelto con cura le opere da esporre con l’obiettivo di rendere al meglio l’ambizione di questa avanguardia culturale di sovvertire il mondo in tutte le sue manifestazioni. Un obiettivo chiaro fin dal titolo dell’esposizione: Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing the Universe .
Così si passa dalle cupe ambizioni di un’avanguardia che voleva ripartire da zero cancellando il passato, bruciando musei e biblioteche, all’opera poetica di Marinetti dall’agghiacciante titolo Guerra sola igiene del mondo , alle geniali intuizioni dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia. Il quale nei suoi disegni del 1914 intitolati Stazione per treni ed aeroplani immaginava quello che allo Charles de Gaulle di Parigi (grande aeroporto in superficie, treni ad alta velocità Tgv nel sottosuolo) è stato realizzato quasi un secolo dopo: una stazione ferroviaria con una pista di decollo sul tetto. Certo, i disegni di Sant’Elia ricordano molto la stazione centrale di Milano: per dare spazio al trasporto aereo sarebbe stato necessario spianare via Vittor Pisani. Ma per i futuristi anche le città dovevano essere provvisorie, demolite e ricostruite da ogni generazione in base alle esigenze del momento.
Salendo lungo la spirale della «rotunda», il visitatore esplora i primi, incerti, esperimenti pittorici: le influenze del divisionismo e del cubismo, poi pian piano cresce la fascinazione per la rappresentazione della velocità. Dalla distorsione delle forme in movimento di Boccioni ai lampi di Balla, ai labirinti geometrici di Carlo Carrà, al Gino Severini di Memorie di un viaggio che, per rompere le barriere spazio-tempo getta tutto in aria in una composizione incoerente di locomotive, case, pozzi e montagne, tra le quali spunta la basilica parigina del Sacré-Coeur a Montmartre.
E proprio sull’incoerenza e le contraddizioni della straordinaria vicenda del futurismo la mostra insiste molto: «Abbiamo esplorato — racconta ancora Vivien Greene — i rapporti sempre più stretti del movimento col fascismo, ma anche la determinazione con la quale Mussolini si rifiutò sempre di accettare il futurismo come arte di Stato».
Realizzata senza un patrocinio diretto dello Stato italiano (che ha comunque dato un contributo coi molti quadri prestati da musei pubblici come il Mart, il museo d’arte contemporanea di Rovereto, oltre che coi murales di Palermo), l’esposizione ha potuto contare sulla disponibilità di molti collezionisti privati che hanno offerto le loro opere. Venti quelle concesse dalla sola Laura Mattioli, che a Soho ha creato il Cima (Center for Italian Modern Art) dove in questi giorni verranno esposte opere di un altro celebre futurista italiano, Fortunato Depero.
Oltre che sull’aiuto di alcune fondazioni private, la manifestazione del Guggenheim, che ha come sponsor principale la Lavazza, ha potuto contare sugli importanti contributi del Moma, il museo d’arte moderna di New York e del Metropolitan. Dal quale vengono alcuni piccoli fotogrammi sbiaditi che a chi ha poca conoscenza della materia (come chi scrive queste note) dicono poco. «Eppure — si entusiasma Vivien — sono forse la cosa più preziosa di questa esposizione: la testimonianza di come i futuristi cercarono di cimentarsi anche con forme nuove e più nitide di rappresentazione artistica della realtà. Ma di questi fotogrammi futuristi in giro ce ne sono pochi. E chi li ha li espone il meno possibile perché la luce li deteriora. Il Metropolitan ci ha dato un permesso speciale per sei mesi».
Corriere 21.2.14
Adorno e il segreto della musica: piacere (anche) senza conoscenza
La tecnica è per gli esperti ma il pubblico non rimane escluso
di Gillo Dorfles
La vasta opera critica ed esegetica rivolta da Adorno alla musica e ai suoi rapporti con le altre arti costituisce certamente un esempio di analisi non solo storica e umanistica ma anche tecnica e linguistica di questa arte: un’arte, la musica, che troppo spesso viene seguita da chi non ne possiede i segreti del linguaggio o da chi non ne riconosce l’aspetto tecnico e scientifico e fruisce soltanto quello «patetico» o addirittura sentimentale.
Ecco perché il problema dell’ascolto è quello dove Adorno compie uno studio accurato circa i segreti non sempre evidenti di questa arte, puntando soprattutto su quella che è la sua fruizione da parte di un pubblico che molto spesso finisce per lasciarsi «addormentare» dai suoni che ascolta sprofondando (il ché non è purtroppo insolito) in un dolce sonnellino. Adorno mette in rilievo la scarsa attenzione con cui viene seguita una composizione musicale anche nel caso dei più rigorosi concerti. Ma, senza volere esagerare, dobbiamo riconoscere che molto spesso la presenza di un pubblico non preparato o soprattutto disattento, finisce per condurre al disappunto e alla noia, anziché alla esaltazione delle composizioni musicali. Naturalmente il problema della musica e della sua composizione è da sempre molto diverso da quello delle altri arti perché anche un ascolto «aleatorio» e non del tutto cosciente può essere sufficiente a provocare una «piacevole sensazione sensoriale» e magari una partecipazione sentimentale da parte dell’ascoltatore. Non c’è dubbio d’altra parte che una autentica e profonda comprensione del testo musicale non è possibile senza un bagaglio di conoscenze tecniche e di una educazione specialistica; ecco perché quando parliamo di «ascolto disattento» (da cui Adorno mette in guardia), ci riferiamo non a un modo di ascoltare rigido ed esclusivamente scientifico, ma a quello che unisce sia i dati linguistici che quelli sentimentali.
La situazione di un ascolto disattento è indubbiamente caratteristica della musica, e in un certo senso è legata proprio a una questione acustica oltre che patetica (che ovviamente non si verifica in nessun’altra produzione artistica), soprattutto se si tiene conto del grado di percezione specialistico del brano musicale che appare molto diverso da quello di un’opera visiva proprio per una diversità del senso corporeo, dell’udito rispetto alla vista. Ecco allora quanto è importante e addirittura necessario saper distinguere in un brano musicale alcune peculiarità, non solo acustiche, ma ritmiche e sintattiche per poter giudicare la diversità tra i vari intervalli, ritmi e la presenza di molti «accidenti» che concorrono a rendere più completa la composizione in parola: ecco perché, ad esempio, accade spesso che un ascoltatore sufficientemente educato all’ascolto attento di un’opera musicale sia in grado immediatamente di distinguere tra i diversi intervalli e i diversi accordi che il brano sta offrendo, non solo, ma potrà apprezzare la presenza di alcuni «stratagemmi» indispensabili. Si pensi al fatto di riconoscere la presenza delle dodici note in un brano dodecafonico, oppure la presenza di uno di quei particolari ritornelli che Wagner aveva composto per identificare i diversi personaggi delle sue opere.
Ecco ad esempio, come ascoltando un’opera quale il Parsifal , l’ascoltatore riconoscerà immediatamente il motivo di Amfortas e del Graal allo stesso modo come riconoscerà quello di Brunilde, di Wotan, o del Walhalla nell’opera l’Oro del Reno. Certamente la preparazione tecnica del nostro uditorio allarga a dismisura anche la nostra capacità fruitiva come del resto avviene per tutte le arti, ma in maniera diversa, in funzione della sensorialità investita. Tuttavia, oltre alla presenza di una coerenza armonica e melodica che permette di individuare a fondo la strutturazione del brano musicale è anche indispensabile riconoscere il fatto che l’attenzione dovrà essere alla base di ogni percezione e che l’ascolto non accompagnato dall’intensa analisi acustica e tecnica non permetterà mai una comprensione effettiva di quanto viene ascoltato.
In un recente e molto articolato saggio di Giacomo Fronzi (Theodor Wiesengrund Adorno. Pensiero critico e musica , prefazione di Paolo Pellegrino) l’autore ripercorre tutta l’opera di Adorno sia nell’aspetto specificatamente estetico che filosofico, che in quello più tecnico e si sofferma soprattutto sui saggi «adorniani» dedicati ai diversi musicisti contemporanei, le cui composizioni hanno avuto una maggiore interpretazione da parte dell’analisi di Adorno. Fronzi ha compiuto delle esemplari ricerche attorno al pensiero di Adorno, interpretando le molte considerazioni dello stesso, come del resto anticipa l’ottima introduzione di Paolo Pellegrini.
Non mi è possibile riferire tutte le precisazioni tecniche e didattiche compiute dall’autore a proposito di un ascolto critico e coscienzioso come non è possibile cogliere sempre le sottigliezza della tecnica in un’opera visiva. Credo che non si possa parlare di un amore per l’arte senza questa attenzione e volontà di raggiungere un’effettiva comprensione dei vari linguaggi artistici. A questo proposito dobbiamo ancora una volta riconoscere quanto sia giusto e auspicabile che l’ascoltatore sottostia a questo genere di audizione critica, affrontando le difficoltà di un brano mai ascoltato per non cadere nell’equivoco della non comprensione, dovuto alla propria ignoranza.
Corriere 21.2.14
Vento del Nord
Nell’universo dell’inconsci
Così l’arte dell’altra Europa affascinò l’Italia di inizi ‘900
di Francesca Montorfano
Veniva dai paesaggi innevati, dai fiordi, dalle foreste, da quegli spazi reali e fantastici popolati di miti e di simboli che si aprivano al sogno e al mistero dell’esistenza, l’ondata di arte e pittura che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento avrebbe segnato profondamente l’esperienza culturale italiana. Ossessione nordica, l’aveva definita nel 1901 il grande critico Vittorio Pica, sintetizzando con straordinaria efficacia quel fenomeno, quasi una malia, che stava caratterizzando le prime Biennali veneziane, con largo spazio riservato a Böcklin, indiscusso maestro che aveva introdotto questo nuovo filone artistico in atmosfere mediterranee, o a Klimt, a cui nel 1910 verrà dedicata addirittura una personale. Se fino a quel momento a svolgere il ruolo da protagonista nel panorama europeo era stata la Francia, ecco che adesso l’asse si spostava e proprio gli artisti nordici apparivano più svincolati da seduzioni ottocentesche e ingessature accademiche, liberi di esplorare i territori della modernità, di sperimentare soluzioni tra le più avanzate e dirompenti.
Sarà oggi la mostra di Palazzo Roverella, curata da Giandomenico Romanelli, a raccontare attraverso più di 150 opere tra dipinti, incisioni, manifesti delle prime Biennali, fotografie, illustrazioni, tutta l’importanza di questo momento della grande arte europea, ricco di infinite sfaccettature e di reciproche corrispondenze. «Furono scelte, quelle veneziane, fatte a ragion veduta, che determinarono orientamenti critici e di gusto, che seppero evitare le secche del tardo impressionismo e guardare al di là delle Alpi, ripercorrendo la linea culturale delle Secessioni, di Vienna e di Monaco, di Lipsia e di Darmstadt fino al Grande Nord, al mondo scandinavo, al filone simbolista esoterico dei fiamminghi, agli scozzesi della scuola di Glasgow e agli italiani che con sensibilità e linguaggi diversi ne hanno subito la fascinazione e condiviso le ricerche, De Chirico e De Carolis, Sartorio e Laurenti, Tito e Casorati, Tosi, De Maria o Wolf Ferrari tra i tanti. Né va dimenticato che l’Italia, da poco unificata, sentiva forte il richiamo di esperienze artistiche di carattere nazionale, come quelle nordiche, che avevano saputo recuperare un’identità comune attraverso gli antichi miti, le saghe popolari, le radici culturali», sottolinea Romanelli.
Ad aprire il percorso della mostra, a far entrare la dimensione onirica sulla scena, sarà Arnold Böcklin, con quei suoi paesaggi notturni avvolti dal silenzio, con quella «Rovina sul mare» così inquietante e misteriosa e quell’immaginario popolato di satiri e ninfe, di tritoni e nereidi appartenenti a un’età dell’oro ancora primigenia, densa di valenze e suggestioni. Una lezione che fruttificherà in Max Klinger, in Diefenbach con i suoi universi allucinati e visionari, negli ambienti esoterici di Khnopff, nelle isole dell’italiano Wolf Ferrari, artista raffinato attento anche a citazioni klimtiane o nella celebre «Lotta di centauri» di un De Chirico non ancora metafisico.
Da interpretazione simbolica o verista adesso il paesaggio cambia, si fa trascrizione dell’interiorità, di stati d’animo e di sentimenti, mentre la pittura appare più sintetica, essenziale, seguendo il richiamo di Pont-Aven, dei nabis e dei fauves, come in Akseli Gallen- Kallela, cui la Biennale del 1914 dedicherà una monografica, in Leo Putz, in Cuno Amiet, in Tullio Garbari o Gino Rossi. Se anche gli interni domestici mutano, diventando fiaba del quotidiano, poesia del silenzio fatta di luci e atmosfere sommesse, sarà l’immagine femminile a denotare il rinnovamento più radicale, uscendo dai ristretti confini dell’atelier per immergersi nella natura o per dar voce a ciò che la parola non riesce ancora, ai desideri, alle pulsioni più nascoste e inconfessabili dell’inconscio, prendendo le sembianze di quella femme fatale di provocante sensualità che rivolge lo sguardo allo spettatore nel celeberrimo «Peccato» di von Stuck.
Ancora capolavori carichi di pathos, virtuosismi dai forti contrasti luminosi e i neri profondi degli inchiostri, sono le opere che chiudono il percorso, il ciclo del «Guanto» di Klinger e quello dei «Misteri» di Alberto Martini, le incisioni di Luigi Bonazza e gli altissimi esiti di Munch, che esordirà in Biennale proprio attraverso la grafica, anch’essa teatro dei suoi incubi e delle sue lacerazioni interiori.
Corriere 21.2.14
Quelli che la verità sta nel bianco e nero
Klinger, Kubin, Martini: il disegno che dialoga con il soprannaturale
A ben guardare, l’ossessione nordica che secondo il critico Vittorio Pica aveva travolto gli artisti italiani, sedotti dalle avanguardie di matrice germanica, andava letta al contrario. La vera ossessione nordica fu infatti la passione travolgente che prese i popoli germanici per il mondo antico. Un’ossessione, appunto, fu per esempio quella di Heinrich Schliemann per Troia, che portò l’antiquario tedesco a investire la vita e i propri beni nella ricerca dell’antica città cantata da Omero. Le scoperte archeologiche, gli studi di filologia, i repertori sulle genealogie degli dei e dei miti, tutto questo materiale di conoscenze sul mondo greco fu messo insieme proprio da studiosi di area germanica, tanto che ancora oggi il tedesco è lingua imprescindibile per chi studia l’antichità. Dunque fu la Grecia, attraverso la Germania, a produrre quel nuovo e perturbante repertorio di misteri, dimensioni ignote, mostri e inquietudini che poi affascinò, di ritorno, i nostri artisti italiani.
I centauri e le sirene di Arnold Böcklin nonché le sue isole con i cipressi che crescono in Grecia e in Italia; le Meduse, le Arpie e i Sileni di Franz von Stuck; i boschi e i fiumi coperti di neve di Akseli Gallen Kallela trovavano un’eco nel panteismo greco di fauni e ninfe. Tale mondo di simboli e di creature ibride non solo univa per affinità elettive il Nord al Sud, ma attraverso la Germania si calava senza dissonanze nella contemporaneità e infine compiva il suo viaggio di ritorno del «grand tour europeo» con i nostri De Chirico o Alberto Martini. Un’ossessione circolare, insomma, che passava dall’uno all’altro di questi artisti che fra il sentimento della modernità e il culto del passato sentivano un legame indissolubile.
I più immaginifici fra questi spiriti inquieti prediligeranno il disegno e l’incisione, il bianco e nero, come è stata appunto intitolata una sezione della mostra di Rovigo. Secondo Fernand Khnopff, per esempio, l’artista era un vate, un eletto, e proprio per questo al medium artistico della pittura preferiva il disegno, privo com’era di mediazione con le forze soprannaturali e in diretto contatto con la dimensione onirica e mentale.
Lo stesso rapporto che intratteneva col disegno Alfred Kubin, uno dei più geniali disegnatori del fantastico, il quale riusciva a liberarsi delle allucinazioni che lo tormentavano solo fissandole con la matita. Max Klinger, la cui produzione grafica gli ha dato maggior gloria di quella come pittore o scultore (fu lui a realizzare il monumento a Beethoven per la XIV mostra della Secessione per la quale Klimt creò invece il celebre «fregio di Beethoven») scrisse addirittura un trattato teorico in lode del bianco e nero. «Griffelkunst» (L’arte dello stilo), questo il titolo del saggio, analizza tutte le tecniche su carta che non fanno ricorso alla tavolozza. La pittura e il colore, secondo Klinger, esaltano il regno del visibile, la bellezza, la vita, la luce, lo splendore della natura. Il disegno, invece, dà forma agli aspetti oscuri dell’esistenza, ai suoi misteri e agli incubi interiori. Il disegnatore, infatti, non riproduce la realtà vista dall’occhio, ma quella della fantasia, che non esiste se non nella propria testa. Ecco perché i lavori con lo stilo sono per lo più visioni notturne o allegoriche come il sogno raccontato nel ciclo di dieci disegni (tre anni dopo eseguiti anche a incisione) intitolato «Fantasie di un guanto trovato, dedicate alla donna che lo perse». Si tratta di una narrazione illogica e surreale del ritrovamento di un guanto femminile da parte di Klinger su una pista di pattinaggio a Berlino; nel terzo foglio il protagonista si addentra nel regno dei sogni e il guanto, di volta in volta piccolo, esageratamente grande, attivo o passivo, diventa il protagonista di avventurosi episodi notturni che terminano al mattino, quando il guanto viene ritrovato su un tavolino.
Anche uno dei nostri disegnatori più visionari, Alberto Martini, grande ammiratore di Klinger, usò la china per illustrare i racconti di Edgar Allan Poe o l’«Amleto» di Shakespeare, ovvero testi che aprono al regno del noir e della follia. «La penna — scriveva Martini — è il bisturi dell’arte del disegno, è uno strumento acuto difficile come il violino». Ciò che legava questi amanti del bianco e nero era, infatti, il culto per il virtuosismo e coloro che lo praticavano in grande solitudine si sentivano una confraternita di eletti connessa nei secoli da sentimenti di filiazione.
Non affermava forse Eraclito, uno dei sacerdoti dell’ossessione nordica, che «Il Sovrano che si rivela nell’oracolo di Delfi non dice e non nasconde, ma fa uso di segni»?
Corriere 21.2.14
L’altrove mediterraneo di Böcklin (che amava litigare con Wagner)
E Savinio fu «arbitro» tra le isole dei morti e la campagna romana
di Emanuele Trevi
Sono in grado di testimoniare su un episodio tardivo di «ossessione nordica». Era la fine degli anni Settanta, il fondo più buio del pozzo degli Anni di piombo, quando alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma venne allestita una piccola mostra con la celebre serie del Guanto di Max Klinger. In tantissimi abbiamo visitato quella saletta come se fosse stata la strabiliante porta d’accesso al sogno di un altro, che però poteva anche essere, catturato chissà come dalla mano di quell’infallibile disegnatore, uno degli infiniti sogni che, pur fatti da noi stessi, si dissolvono senza rimedio al risveglio. Tra le vittime del sortilegio, va ricordato almeno Francesco De Gregori, che alle avventure del più celebre guanto della storia dell’arte dedicò addirittura una delle sue canzoni.
Se erano stati capaci di ossessionare a varie riprese i diffidenti pubblici meridionali, questi grandi maestri del Nord erano stati a loro volta ossessionati irrimediabilmente dal Sud. È questa reciprocità il segreto della storia di Klinger e anche di quella del più grande di tutti, Arnold Böcklin, che a Roma trovò anche moglie e finì i suoi giorni nella campagna di Firenze, dopo aver reinventato, a colpi di tempera all’uovo e resina di ciliegio, tutta una mitologia pagana intesa come suprema sintesi dell’umano e del bestiale — non a caso, il centro propulsivo dell’immaginazione del maestro svizzero è il centauro. In virtù di uno di quei semplici casi che danno ai posteri l’occasione di ricamarci un po’ sopra con la fantasia, Böcklin (nato nel 1827) veniva da Basilea come il grandissimo Johann Jakob Bachofen, l’autore del Matriarcato , labirintica e geniale ricostruzione del mondo antico pareggiata solo, per l’energia della visione e la profondità delle intuizioni, dalla Nascita della tragedia di Nietzsche.
Cresciuti in un severo ambiente luterano, nel quale la stessa parola «mitologia» poteva suonare come un sinonimo di «peccato», sia il pittore che il filosofo trovarono probabilmente la loro felicità nello staccarsi dalle origini, proiettandosi con tanto slancio nell’altrove mediterraneo da farne qualcosa di completamente estraneo ai classicismi consolidati, portassero pure la firma di Goethe e Winckelmann. Furono in pochi a capire la portata dell’esperimento. In Francia si discuteva molto delle sproporzioni anatomiche del busto dei centauri (ma Böcklin affermò con fierezza: «io non dipingo per i francesi!»). Come Böcklin, anche Bachofen, più vecchio di una decina d’anni, amava la campagna romana più della stessa Roma, e se il primo sembra scrivere poemi mentre dipinge, il secondo dà l’impressione di utilizzare la sua sterminata erudizione come i pennelli e i colori di uno strabiliante affresco. Niente a che vedere, però, con la fusione delle arti predicata da Wagner. Alberto Savinio ha profuso tutta la sua inimitabile ironia nel racconto dei tre disastrosi incontri avvenuti tra il musicista e il pittore.
Una volta Böcklin venne invitato da Wagner ad assistere a un’esecuzione per piano del Crepuscolo degli dei. Suonava Rubinstein, ma Wagner capì subito che lo svizzero si annoiava a morte, e saltò su esclamandogli in faccia: «Vedo che non vi intendete affatto di musica!». E Böcklin, di rimando: «Più di quanto voi v’intendete di pittura». Bisogna leggere la biografia che Savinio ha dedicato a Böcklin gustandone ogni singola frase. Apparve nel 1943, come secondo capitolo di una raccolta intitolata Narrate, uomini, la vostra storia .
Nel 1943 gli uomini di lingua tedesca che si aggiravano per l’Italia erano nient’altro che orde di assassini e depredatori. Savinio guarda alla moda di Böcklin con nostalgia per il tempo dei nonni, quando la vita poteva ancora sembrare un bel gioco. Nelle loro cornici liberty, le riproduzioni dell’«Isola dei morti» figuravano immancabilmente nei salotti accanto al pianoforte e al busto di Beethoven. Cercando le ultime tracce di quel mondo scomparso, Savinio bussa alla porta della casa romana di un certo professor Pallemberg, genero di Böcklin. Nel salotto del villino sulla via Nomentana è appesa una testa di bambino. Non è un’opera del maestro, ma di uno dei suoi tanti figli, anch’esso pittore. La vicinanza di un prosaico termosifone ha sconciato il quadro di brutte macchie. Sembra di essere arrivati davvero, in quella sera di guerra, a un capolinea della memoria e del gusto. Poi inizia la storia dell’arte, che è tutta un’altra storia.