il Fatto 22.2.14
L’antropologa: Renzi? Fate attenzione, è un baby Berlusconi
La professoressa Amalia Signorelli spiega il paragone con il Cavaliere
"Vorrebbe farti sentire che è uno dei tuoi. Ma purtroppo dietro c'è il vuoto
intervista di Antonello Caporale
“Di fronte a profezie che si rivelavano errate, gli Azande mettevano in gioco una serie di meccanismi di giustificazione che impedivano di contraddire l’oracolo, rinvenendo l’errore nella mancata comprensione della profezia” (dagli scritti di Evans Pritchard sul popolo degli Azande)
Te ne accorgi che è nuovissimo da come ti dà la mano. Matteo Renzi usa appiopparla a cinque dita, col palmo aderente sull’altro. “L’ho natato anch’io, dà il cinque. In verità è un costume giovanile, lo vedo fare ai miei nipoti ventenni e lui sarebbe anzianotto per questa pratica. Rientra nella sua linea di estraneità ai rituali istituzionali. Come sa il corpo del Sovrano è sacro, riassume la potenza salvifica, sintesi della società. Poco tempo fa ho visto in tv una scena da un comizio di Berlusconi in Sardegna: una bimbetta che urlava “l’ho toccato, l’ho toccato”. Era riuscita ad arrivare al suo corpo. Invece Renzi ti agguanta con quel contatto così amichevole e familiare. Rompe lo schema classico, è vicino a te, anzi è proprio come te. Cerca il contatto, tocca, spinge, s’allarga, fraternizza, sorride”. Agli occhi di una antropologa del valore di Amalia Signorelli la postura contribuisce a irrobustire l’indagine sul leader. Serve partire dalla stretta di mano, passare dal giubbotto tipo Fonzie, proseguire con la bici e poi giungere al punto centrale: quella foto che lo ritrae davanti a palazzo Vecchio mentre Enrico Letta, il suo predecessore pugnalato, appena insediato a palazzo Chigi gli fa visita di cortesia. Enrico è lì che saluta, Matteo ha lo sguardo già rivolto altrove.
“E’ DEL TUTTO LOGICO: una persona così egocentrata cosa vuole che lo leghi a una persona come Letta se non un rapporto strumentale? E infatti si è visto”. La professoressa Signorelli ha insegnato per una vita antropologia culturale alla Federico II di Napoli, e osserva il corso del nuovo mondo con una dose robusta di diffidenza. “Comprendo che sia venuto il momento di imboccare una via d’uscita, tentare almeno di intravederla. L’analisi dei disastri italiani conta una grandissima bibliografia e non se ne può più. Siamo stanchi dei nostri difetti, della nostra precaria etica pubblica, dei nostri scandali. Ed è anche vero che specialmente noi intellettuali subiamo il costante pessimismo, l’insoddisfazione perenne. E sto zitta quando mi dicono: finalmente questo Renzi è un portatore sano di energia, è giovane, ha la linfa vitale e ci prospetta un futuro senza i vincoli, i retaggi del passato. E’ un fenomeno politico da osservare con attenzione, non c’è dubbio”. Da quel che intuisco adesso arriva la mazzata che lo annienta. “Ah ah! Il fatto, semplice e insieme straordinario, è che ancora non abbiamo capito nulla dei programmi. Queste riforme mensili oggettivamente fanno ridere per la loro banalità, la superficialità e anche l’inadeguatezza di un tempo di gestazione così modesto. E la squadra di governo che ha formato non appare affatto monumentale. E se tutto questo è vero affidiamo a lui la salvezza in virtù di cosa?”. E’ il governo del Ghe Renzi mì, un po’ come successe con Berlusconi. E ci sono modalità espressive di una personalità straripante che lo fanno assurgere almeno come un “vice unto del Signore”. “Concordo col suo pensiero. E mi pare che Renzi abbia subìto così densamente l’egemonia culturale berlusconiana da vederlo nutrito prevalentemente di quella”. E’ andato alla Ruota della Fortuna, ha gareggiato con Mike di fronte! “Uno che va alla Ruota della fortuna conferma la sua attrazione per quel modello di successo, che passa dalla televisione, e che si fa modello di vita”. Il ventennio berlusconiano non si chiude mai. Davvero siamo a un clone? “Mi faccia fare un passo indietro. Non mi è piaciuta neanche un po’ la conduzione della crisi da parte del presidente Napolitano. Perchè tenerla fuori dalle aule del Parlamento? Perchè farla gestire nei sotterranei di un partito? Perchè dare a lui ciò che non si è concesso agli altri?. Ora vengo alla sua domanda. Mi dicono che Renzi innova, e cosa innova?”. Non le sembra già tanto che abbia rotto gli schemi, abbia prosciugato la palude, abbia disarticolato un potere immobile: “Non contesto, però riduciamo la portata della dimensione della rottura. Finora ha contrattato i posti con Alfano e Schifani. Ha inchiodato Berlusconi a una profonda sintonia. Mi dia ancora qualche giorno di dubbio sull’annunciata palingenesi, credo proprio di meritarlo”.
NON LE GARBA IL NUOVO presidente del Consiglio. “Bah! Diciamo che Renzi ha ottenuto una primazia conquistata con le armi tipiche delle società post-moderne: alla visibilità è corrisposto il successo, al successo il consenso. I fattori dovrebbero invece avere un ordine diverso: illustro le mie idee, guadagno il consenso e poi ottengo il successo. Prima c’era l’ideale come carattere collettivo. Si stava col Pci, non con Togliatti. E si poteva cambiare l’Italia solo stando in quel partito. Oggi esiste l’unica proiezione individuale: non c’è gruppo, comunità, partito. Ieri si combatteva per una causa oggi per una persona. E così siamo giunti alla fine senza conoscere l’inizio, abbiamo applaudito il film senza averlo visto. Ci è bastata una suggestione, una promessa, una intuizione”.
l’Unità 22.2.14
Addio al ministero per l’Integrazione La Lega esulta
Nel governo Renzi sparisce il Ministero per l’Integrazione, che Enrico Letta aveva affidato a Cécile Kyenge. Ed esce così di scena, senza neanche lasciare un dicastero dietro di sè, la prima ministra di colore della storia italiana, di origini congolesi, divenuta oggetto di una scandalosa campagna di insulti e offese da parte della Lega. Nel corso del 2013, contro la ministra Kyenge si scagliano in particolare, con reiterati insulti razzisti, Roberto Calderoli e Mario Borghezio, che proprio per questo viene espulso dal suo eurogruppo. E proprio il Carroccio ha esultato ieri alla notizia. «Unica nota positiva di questa farsa è la scomparsa della Kyenge, ministro inutile come sempre denunciato dalla Lega», ha dichiarato il segretario Matteo Salvini a proposito della lista dei ministri.
l’Unità 22.2.14
M. Carmela Lanzetta
L’ex sindaca anti ’ndrangheta: «Non me lo aspettavo. Delrio mi ha chiamata cinque minuti prima e ha detto: ti va bene se ti cedo il mio posto?»
«Un riconoscimento per chi opera in mezzo alla gente»
di Federica Fantozzi
Pronto, ministro Maria Carmela Lanzetta?
«Sì, scusi, è bene che mi sieda... Ancora non credo che sia vero. L’ho saputo cinque minuti fa».
Dica la verità. Impossibile che Matteo Renzi o Graziano Delrio non l’avessero chiamata per avvertirla...
«Delrio mi ha telefonato proprio pochi minuti fa: “Ti va bene se ti cedo il mio posto? Bene, allora accendi la televisione” mi ha detto».
È più contenta o preoccupata?
«Guardi, sono in farmacia (Lanzetta è farmacista, il suo esercizio è stato anche bruciato dalla ‘drangheta nel 2011) circondata dagli amici più cari che sono arrivati appena hanno saputo la notizia. Stiamo condividendo questa cosa nuova, enorme. Se fossi sola devo ammettere che avrei una paura terribile, ma con loro devo soprattutto dire: grazie Monasterace».
Monasterace, il comune della Locride in cui vive e di cui è stata sindaco per il Pd dal 2006 al novembre 2013. Si è dimessa due volte, la prima Bersani la convinse a cambiare idea, l’ultima è stata definitiva. Lanciando un durissimo j’accuse alla politica, compreso il suo partito, che ha lasciato sola lei, il territorio, i problemi del Paese: «Basta, sono stanca, schiacciata tra politica e criminalità» Questo gesto lenisce la sua delusione?
«È un gesto molto importante. Un riconoscimento per tutti quelli che lavorano in mezzo alla gente e la ascoltano. Non servono proclami e comizi, per risolvere i problemi basta viverci in mezzo».
Sul fronte della legalità, non le sono mancati. Minacce, auto bruciata, pressioni. Il suo background la aiuterà anche a capire le regioni del Nord?
«Sì, questo microcosmo è molto difficile. Le assicuro che vivere qui serve a capire non soltanto la Locride, ma tutto il Paese. Che vive una difficoltà principale e drammatica: la mancanza di lavoro. Per i giovani, ma anche per chi a cinquant’anni lo ha perso e non sa dove andare».
Ministro degli Affari Regionali è un ruolo complicato. Molti sostengono persino che le Regioni andrebbero abolite perché hanno troppi poteri e diventano veicoli di sprechi. È prematuro parlare di programma, ma ha in mente qualche idea?
«Noi ragioneremo anche sugli sprechi e su tutto quello che ne consegue. Faremo un programma ampio e completo. Ma ne parleremo domani (oggi, ndr). Adesso non sono molto lucida...».
Lei è stata eletta con Civati. Come sarà lavorare gomito a gomito con Renzi?
«E pensare che gli ho anche votato contro in direzione. Sono stata una dei 16 no». Adesso è uno dei 16 ministri. «Resto civatiana, porteremo avanti le nostre istanze. Ma lavoreremo insieme per un programma rigoroso. In gioco c’è il futuro dell’Italia e non abbiamo tempo da perdere».
l’Unità 22.2.14
Ok di Cuperlo a Renzi Ma Civati strappa
Fiducia in bilico da parte dei civatiani, malgrado la nomina della ministra Lanzetta Domani incontro di area Il leader della minoranza soddisfatto per la scelta di Padoan
di Maria Zegarelli
Il fuoco amico parte un attimo dopo che Matteo Renzi rende nota la lista dei ministri. Per Pippo Civati è una sorta di affronto personale: dopo aver chiamato in segreteria il «suo» economista, Filippo Taddei, il premier nomina ministra Maria Carmela Lanzetta, l’ex sindaca di Monasterace, civatiana, che in direzione aveva votato contro il documento del segretario.
«Non sapevo nulla della nomina del ministro Lanzetta. Renzi si dimostra molto disinvolto, ma non è una novità. Del resto, è il suo metodo, già sperimentato - scrive a caldo Civati sul suo blog-. Lanzetta aveva votato contro il governo in direzione nazionale. Ora entra nel nuovo esecutivo come ministro. Le faccio gli auguri, ma non ne sapevo nulla. Né da Renzi, né da lei. Nessuno ha ovviamente inteso avvisare me o i componenti della delegazione civatiana in direzione nazionale. Renzi sta facendo di tutto per farsi votare contro - affonda -. Per il resto, non sapevo che dopo Gianni e Enrico ci fosse anche un Matteo Letta. Bis. Il rimpasto mi fa venire le bolle».
Domani incontrerà i suoi, come spiega Corradino Mineo, per «far esplodere il dibattito dentro M5s» e capire quanto possa essere percorribile il sentiero - irto di incognite -che potrebbe far nascere un gruppo al Senato con Sel e i dissidenti grillini: «Se ci fosse la possibilità di una iniziativa politica troverei la cosa molto interessante, ma non c’è ancora nessun accordo. Il dibattito nel M5s deve esplodere, sono molto preoccupato della deriva autoritaria di Grillo». Ma per Civati la questione non è così semplice: lui si è candidato alla segreteria del Pd, non votare la fiducia al governo del segretario-premier equivale a uscire dal partito, questo è il vero nodo politico che dovranno sciogliere domani i civatiani. E questa mossa di Renzi, nominando Lanzetta ministra, tende a rendergli più difficile dire «no». Civati, tuttavia, spiega che «se uno non è d’accordo con il governo Renzi non assomiglia affatto a Bertinotti e Turigliatto Bertinotti fece cadere il governo Prodi che era stato votato dagli elettori e per me rimane il miglior governo della storia repubblicana. Poi si fece un governo simile a quello che stiamo costituendo ora, senza la sinistra e con la destra di Cossiga nel posto dove ora sta Alfano. Per dire». Diverso il giudizio di Gianni Cuperlo, che rappresenta quella minoranza che invece ha scelto di entrare nel governo, che contribuirà non soltanto con i ministri (Maurizio Martina, alla cui nomina ha lavorato il capogruppo Pd Roberto Speranza, quando ha incontrato Renzi, e Andrea Orlando, il giovane turco che in realtà è molto apprezzato dallo stesso premier tanto da avergli assegnato un ministero chiave, anche in considerazione dei rapporti con Fi, come quello della Giustizia) ma anche con i sottosegretari e, in seguito, in segreteria.
«Fare. E fare presto e bene. L’Italia ha bisogno di riforme, giustizia, equità, diritti. La sfida da vincere è creare lavoro. Renzi ha scelto una squadra a cui rivolgo gli auguri sinceri di buon lavoro. Adesso servono i risultati perché il tempo delle parole si è consumato», commenta quando la riserva è stata sciolta. Cuperlo è soddisfatto soprattutto per la nomina all’Economia di Padoan, di cui aveva parlato durante il suo faccia a faccia con Renzi: «Se devi scegliere tra Padoan e Tabellini, io credo che è sul primo che dobbiamo puntare». Padoan, d’altra parte, è vicino all’ex premier Massimo D’Alema, di cui è stato consigliere economico, oltre al fatto che dirige la Fondazione Italiani europei.
Il fronte che apre, invece, riguarda il doppio incarico: «Sul futuro del Pd dobbiamo aprire una riflessione molto seria. Non solo su chi lo guiderà ma anche su che cosa intendiamo per partito della sinistra nel Paese - dice - . Nel Pd in effetti ora viviamo una anomalia. Abbiamo fatto due mesi fa le primarie e io ho insistito nel dire che si faceva un congresso per eleggere il segretario e non l’inquilino di Palazzo Chigi. Ora il nuovo segretario diventa presidente del Consiglio. Io credo che dovremo discutere di questo ». A voler ripercorrere la storia del Pd Walter Veltroni segretario fu candidato premier, idem Pier Luigi Bersani. Difficile immaginare che la maggioranza sia disposta a riaprire una querelle sul doppio incarico proprio ora, a due mesi dalla chiusura del congresso e con un governo proprio in carica.
Ma l’area Cuperlo è divisa tra chi gli rimprovera di aver stabilito con pochi intimi la linea da seguire sia in direzione sia dopo, quando si è trattato di decidere se entrare nel governo oppure no e chi lo difende. È Nico Stumpo a rispondere alla critiche: «Trovo pazzesco che a fronte di diverse riunioni, durate tra l`altro molte ore, si accusi Gianni Cuperlo di non avere costruito insieme ogni proposta. Se non si partecipa alle riunioni difficilmente poi ci si sente rappresentati». Renzi non si spaventa e tira dritto: sa di avere dalla sua la maggioranza del Pd.
il Fatto 22.2.14
Maggioranza già a rischio: “Questi non li votiamo”
I popolari di Mauro minacciano ripensamenti al Senato
Civati ci pensa
Cuperlo vuole aprire "una riflessione" sul futuro del Pd
di Tommaso Rodano
Matteo Renzi ha concluso da pochi secondi l’annuncio della sua squadra. La prima reazione è anche la più clamorosa. Su La7, Enrico Mentana legge in diretta e un sms di Pippo Civati: “Maria Carmela Lanzetta (nuovo ministro degli Affari regionali, ndr) è una ‘civatiana’. Non sapevo nulla della sua nomina. Nessuno mi ha avvertito: né lei, né Renzi”. Il terzo classificato alle primarie del Pd (sempre sul punto di preparare le valigie e lasciare il Nazareno) conferma l’amarezza qualche minuto più tardi, su Facebook. E aggiunge: “Non sapevo che dopo Gianni e Enrico ci fosse anche un Matteo Letta. Bis”. L’appoggio al governo della sua piccola pattuglia parlamentare (i senatori sono 6) è sempre più in bilico: “Renzi sta facendo di tutto per farsi votare contro”.
Civati non è l’unico a sottolineare la continuità tra il nuovo governo Renzi e l’esecutivo “rottamato” proprio dal premier in pectore.
Angelino Alfano, tra le righe, esprime lo stesso concetto. Ovviamente con spirito opposto. Il confermatissimo ministro degli Interni non nasconde nemmeno un briciolo della sua soddisfazione. Il commento arriva via Twitter: “Molto bene la squadra. Il Nuovo Centrodestra non poteva chiedere o desiderare di più. Per l'Italia. #avantitutta”. Altrettanto enfatica la dichiarazione di un’altra “diversamente berlusconiana” rimasta nella squadra di governo: a sentire Beatrice Lorenzin non sembrerebbe cambiato nulla: “Portiamo avanti il lavoro cominciato in questi mesi - scrive il ministro della Salute - con entusiasmo, impegno e determinazione. Per cambiare l’Italia”. Come dire: almeno gli alfaniani sono sistemati.
LE SPINE per Renzi, sono soprattutto dentro al suo partito. Non c’è solo il battitore libero Civati. Prima ancora dell’annuncio dei ministri, Gianni Cuperlo aveva mandato un messaggio poco distensivo: “Sul futuro del Pd – ha detto il leader della minoranza a Sky – dobbiamo aprire una riflessione molto seria. Nel nostro partito ora viviamo un’anomalia. Abbiamo fatto due mesi fa le primarie: si faceva un congresso per eleggere il segretario e non l’inquilino di Palazzo Chigi. Ora il nuovo segretario diventa presidente del Consiglio. Io credo che dovremo discutere di questo”. La minoranza democratica, insomma , tira la corda: il cambio del segretario è utopia, ma nelle stanze alte del Nazareno servirà (già) per lo meno un bel rimpasto.
Tace per ora Beppe Grillo, che d’altro canto la sua opinione sul nascente governo Renzi l’ha espressa in maniera non equivocabile l’altro giorno al Quirinale, senza aver bisogno di conoscerne i nomi. Per lui parlano i parlamentari del M5s, che ironizzano sul governo del Presidente. Della Repubblica: “Questo non è un Renzi I ma un Napolitano III – si legge in una nota del gruppo di Montecitorio –. Ricatti e veti incrociati di partiti e partitini ne sanciscono la morte in culla. Il rottamatore ora deve governare con i rottamati in un esecutivo di coalizione in stile Prima Repubblica”.
Berlusconi intanto rimane alla finestra. Da una parte, durante il colloquio di ieri pomeriggio con i giovani di “Missione Azzurra”, non risparmia qualche stoccata: “Dopo Monti, Letta e Renzi si può dire che la sinistra si è data ai giochi di palazzo”, ha detto il Cavaliere, come riporta il profilo twitter di Forza Italia. Dall’altra conferma la disponibilita dei suoi a collaborare alle riforme, come ribadisce in serata al Tg 1 il fido Giovanni Toti: “Forza Italia farà un’opposizione responsabile, ma ora si proceda con l’Italicum, in modo che in qualsiasi momento si vada alle urne possa essere garantita la governabilità”.
Anche perché i numeri in Parlamento del nuovo governo sono stretti. Specie al Senato, Renzi dovrà fare i conti della serva. Vendola conferma l’opposizione. I Popolari per l’Italia (che hanno perso il ministero di Mario Mauro e a palazzo Madama sono ben 12) si dicono incerti: “Valuteremo lunedì – annunciano in una nota – se concedere la fiducia al governo”. Magari un sottosegretario o due potrebbero schiarire le loro idee.
Repubblica 22.2.14
La maggioranza è a quota 176, ma dopo l’esclusione di Mauro dal governo gli ex montiani minacciano di non votare la fiducia
Al Senato scatta l’allarme Popolari e civatiani
di Silvio Buzzanca
«Renzi ha la maggioranza nel suo partito, ma non in Parlamento. Molti deputati Pd sono bersaniani e dalemiani». La profezia di Silvio Berlusconi sembra esprimere più il desiderio di una spaccatura fra i democratici che un reale pericolo per il voto di fiducia al nuovo governo di lunedì prossimo. Ma un esame dei numeri del Senato e delle dinamiche della formazione dell’esecutivo fanno pensare che il Cavaliere ha fiutato qualcosa nell’aria.
Renzi, infatti, dovrebbe contare a Palazzo Madama su 176 voti, molti di più dei 161 necessari. Ma dopo che si sono conosciuti i nomi dei ministri sorge spontanea la domanda: che faranno i 12 senatori di “Popolari per l’Italia”, il gruppo che raggruppa i centristi di Casini, 3 senatori, e i 9 ex montiani di Mario Mauro? Proprio Mauro ha perso la sua poltrona di ministro della Difesa, mentre Casini ha conservato quella del suo gruppo: è uscito Gianpiero D’Alia, ministro della Pubblica amministrazione ed è entrato Gian Luca Galletti, neo ministro dell’Ambiente. Il maldipancia e l’irritazione dei popolari è molto evidente. Già ieri mattina, il senatore Tito Di Maggio, aveva avvertito: «L'unica certezza è che il presidente incaricato non ha la maggioranza al Senato ». Dichiarazione perentoria un po’ sfumata in un «i nostri voti non sono scontati».
Il dibattito interno al gruppo si è così spostato al congresso dell’Udc, dove il segretario uscente Lorenzo Cesa dal palco ha definito la frase di Tito una «dichiarazione fuori dalle righe ». Ma intanto si facevano i conti con il pallottoliere. Il risultato è che Casini, Mauro, Di Biagio e De Poli voteranno per Renzi. Forse lo farà anche Luigi Marino. Gli altri sette, Albertini, Merloni, Olivero, Rossi, D’Onghia, Di Maggio e il capogruppo Lucio Romano non si bene cosa faranno. E a sciogliere il dubbio non è servita una riunione ieri sera. Si è deciso che il gruppo deciderà dopo avere ascoltato Renzi. A questa incognita si aggiunge a Palazzo Madama quella sul comportamento dei civatiani, Renzi ha spiazzato l’ex alleato nella rottamazione con la nomina a ministro del sindaco antimafia Maria Carmela Lanzetta. Ma questo non assicura che Mineo, Tocci, Ricchiuti, Albano, Casson e Lo Giudice, votino la fiducia al governo.
Repubblica 22.2.14
Civati: “Decideremo domani, io mi sento già all’opposizione ma mi dispiacerebbe uscire dal partito”
“Matteo ha rimpastato il governo Letta ma se non lo votiamo ci cacciano dal Pd”
di Tommaso Ciriaco
ROMA - Matteo Renzi legge la lista dei ministri del nuovo governo. Nome dopo nome, cresce la delusione di Pippo Civati. E si traduce in un’escalation di sms e insofferenza: «Dal rimpasto al rimpiastro ». Peggio: «Mi sembra un governo straordinario - digita - mi spiace solo che non ci sia Verdini... ». Fino all’ironica citazione delle recenti uscite pubbliche del nuovo premier. «Il rimpasto mi fa venire le bolle (cit.)».
Onorevole Civati, questo governo proprio non le piace?
«Ehm... (silenzio, ndr)».
Ecco la lista. È il momento di tirare le conclusioni.
«Dopo Gianni ed Enrico, direi che c’è il Matteo Letta...».
Non coglie elementi di discontinuità, dunque?
«È cambiato Letta. Tre sottosegretari sono diventati ministri. Due ministri del Pd hanno cambiato posto...».
Nell’esecutivo c’è posto per Angelino Alfano.
«Alfano è il vero vincitore morale della partita. Ha ottenuto per il Nuovo centrodestra tre ministri. Ed è di fatto vicepremier, pur non essendolo formalmente».
Lei avrebbe arruolato una squadra diversa?
«Dei tanti nomi altisonanti, mi aspettavo che qualcuno alla fine rimanesse per diventare ministro ».
Un esempio?
«Tito Boeri sarebbe stato un bel segnale. E poi Gratteri alla Giustizia.E comunque sono contrario aquesto schema politico».
Troppo Ncd, ha detto negli ultimi giorni.
«Ovvio che sarebbe finita così. Ma almeno mi aspettavo qualche colpo di Renzi. Questo, invece, mi sembra un rimpasto del precedente governo».
Almeno Lanzetta, che lei conosce bene, è diventata ministro.
«Non ne sapevo nulla. Non sento Renzi da una quindicina di giorni. Mi fa piacere che ci sia un ministro che conosco e al quale voglio bene, ma non l'ho indicato io».
Andiamo al punto: voterà la fiducia?
«Domani c’è l’assemblea del nostro popolo. Decideremo insieme a quelli che si riconoscono in noi. Ma se uno non è d'accordo con il governo Renzi, non assomiglia affatto a Bertinotti e Turigliatto. Quest’ultimo si oppose in una posizione in cui era decisivo per la caduta dell’esecutivo. Oggi non è così».
Insisto: voterà la fiducia, onorevole?
«A questo punto la fiducia è un fatto tecnico, perché sono contrarioa questo governo».
Di fatto, quindi, si sentirebbe all’opposizione anche votando la fiducia?
«Beh, sì. D’altra parte io ho già votato contro in direzione. Ora dobbiamo valutare cosa fare in Aula, perché non votando la fiducia sarebbe difficile restare nel partito. E poi...».
Dica.
«A questo punto si tratta soprattutto di un voto sul Pd. Dobbiamo valutare se rompere con il nostro partito. E ci dispiacerebbe farlo».
Potreste non partecipare al voto.
«Qualche amico mi ha già fatto capire che se non voto la fiducia mi buttano fuori dal gruppo. Non vorrei trasformare la questione in un problema “giudiziario”...».
Non esageri.
«(Sorride, ndr) Civati di fronte al Tribunale dell’Inquisizione fiorentinano, eh...».
Lei immagina un “Nuovo centrosinistra”. Ma cosa significa?
«Se al governo torniamo a dialogare con Alfano e, via Verdini, con Berlusconi, nella società dobbiamo farlo guardando alla ricostruzione del centrosinistra. Lo spazio, a sinistra del Pd, si allarga pericolosamente».
E lei è in bilico.
«E a me, che mi sento di sinistra, dispiace. Se questo sentimento riusciremo a riportarlo in Parlamento, non lo so: è difficile, con il Pd tutto schierato verso destra. Ci proverò».
Repubblica 22.2.14
Il Partito democratico Cuperlo avverte il premier: no al doppio incarico
La minoranza all’attacco: “ Stop a reggenza Guerini, scegliere un altro segretario”
di Giovanna Casadio
ROMA - Per Renzi si apre il fronte- partito. Non ha ancora completato la squadra di governo, e già il leader della minoranza Gianni Cuperlo lo incalza: «Bisogna avviare una riflessione seria sul Pd e su chi lo guiderà». Il doppio incarico di premier e segretario - avverte Cuperlo - è «un’anomalia ». Quello che sembrava pacifico, la reggenza cioè affidata al fedelissimo Lorenzo Guerini con un ruolo di portavoce per Debora Serracchiani, non è affatto scontato. Il piano di Renzi deve fare i conti con le due minoranze dem, i cuperliani e Pippo Civati.
D’altra parte per il Pd si apre una fase delicata e nuova: mai il leader del partito era stato anche il premier. Massimo D’Alema, quando il sindaco di Firenze decise per la seconda volta (nel 2012 era stato battuto da Bersani) di presentarsi alle primarie per la segreteria, l’aveva dissuaso: «Per Matteo vedo bene Palazzo Chigi, ma lasci il partito ad altri». Ora Renzi a Palazzo Chigi c’è. Ma non intende affatto lasciare la segreteria. Cuperlo lo invita a farlo. O comunque a un riassetto profondo e radicale del Pd. «Dobbiamo chiederci cosa intendiamo per partito di sinistra nel paese - dice il leader del “correntino” - Abbiamo tenuto un congresso, concluso due mesi fa, con le primarie e io avevo fatto una campagna congressuale in cui dicevo che le primarie servivano a eleggere il segretario del partito e non l'inquilino di Palazzo Chigi. Oggi ci troviamo con un segretario che si trasferisce a Palazzo Chigi».
A questo punto il destino del Pd è legato a doppia mandata con quello del governo Renzi. Tuttavia quali margini ha il partito - ragionano i cuperliani - per battere un colpo quando occorre? Cosa sarà la sinistra italiana nell’era dell’esecutivo del “rottamatore” che dovrà quotidianamente mediare con il Nuovo centro destra di Alfano? I venti di scissione soffiano sempre forte tra i Democratici: Civati ne ha parlato esplicitamente. I lettiani sono furibondi. Il crash tra Letta e Renzi nella staffetta a Palazzo Chigi resta una lacerazione. Francesco Boccia, lettiano, incalza a sua volta sul ruolo del Pd: «Prima della fiducia al governo si sarebbe dovuta convocare una direzione sul programma e sulle priorità degli italiani. Altrimenti passa l’idea che si tiene la direzione solo quando serve. E comunque sono fiducioso che - ironizza - terminato il casting di queste ore, un regista o un aiutoregista provi a convocare una direzione sulle cose da fare».
Renzi ha annunciato che allargherà alla minoranza la segreteria. Per Cuperlo non è sufficiente.Gli stessi “giovani turchi” sostengono che «un avvicendamento non basta». Se nel governo sono state coinvolte tutte le correnti democratiche - è il ragionamento - deve avvenire anche nel partito. Oltretutto perché l’esecutivo navighi in acque il più possibile tranquille, c’è bisogno di una solidità nella gestione del Pd. Francesco Verducci, portavoce dei “turchi”, parla di una fase strategica per i dem: «Si apre oggi, e c’è bisogno di grande compattezza e coinvolgimento sulversante governo e sul versante partito: il Pd in questi mesi si gioca tutto».
Con Federica Mogherini ministro degli Esteri, Marianna Madia alla Pubblica amministrazione e Maria Elena Boschi alle Riforme e ai Rapporti con il Parlamento, altrettante caselle si liberano in segreteria dove tutte e tre avevano responsabilità. La minoranza dem però pensa che ci voglia una task force vera, che guidi l’organizzazione e gli enti locali nel partito. Nico Stumpo, bersaniano, invita alla calma: «Prima è indispensabile la nomina del coordinatore per attraversare questa fase che non sarà né semplice, né breve. Il Pd non deve entrare in fibrillazione, perciò non mettiamo il carro davanti ai buoi». I renziani s’inalberano. «Ora è vitale sostenere Renzi, dalla minoranza si sentono voci stonate: Cuperlo si metta l’anima in pace sulla segreteria - reagisce Stella Bianchi - Civati si aggira con quell'aria da faccino triste e lascia intendere che potrebbe lasciare il Pd, con il quale è eletto alla Camera, con un gruppetto di senatori per fare un partito nuovo con Sel e pezzi di 5 Stelle».
Repubblica 22.2.14
M5S alla resa dei conti con i dissidenti quattro senatori verso l’espulsione
ROMA — La prossima settimana l’assemblea congiunta dei parlamentari del M5S deciderà se avviare la procedura di espulsione per i senatori dissidenti Lorenzo Battista, Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella, Luis Alberto Orellana. Lo conferma il capogruppo al Senato, Maurizio Santangelo. Intanto il meet up di Orellana, in provincia di Pavia, prende le distanze dal parlamentare. «È stato sfiduciato dal territorio», rilancia Beppe Grillo su Twitter.
Corriere 22.2.14
Al Senato numeri variabili. E due incognite
I favorevoli tra 168 e 175. Ma Civati e i Popolari sono critici. L’aiuto di Gal
di Marco Galluzzo
ROMA — Il massimo di Letta al Senato fu quota 173. Renzi puntava, e punta ancora, a qualcosa di più. E non è detto che non ce la faccia; ma anche se lunedì la fiducia non dovesse essere più larga della precedente poco male: la navigazione del nuovo governo, anche a Palazzo Madama, dovrebbe essere agevole.
La forbice della fiducia di dopodomani varia da 168 sino a 175 senatori. È un calcolo a spanne, molto dipenderà dalle scelte che faranno i singoli, da movimenti in corso e calcoli delle ultime ore, ma basta sommare i 107 del Pd ai 31 di Ncd, aggiungere 10 esponenti del gruppo per le Autonomie, calcolare i 12 Popolari per l’Italia e gli otto di Scelta civica, per arrivare ad una quota minima assicurata, almeno stando alle previsioni di ieri sera: appunto 168 senatori.
Potrebbero emergere dei distinguo nel gruppo di Mario Mauro, i Popolari per l’Italia? Forse sì: l’ex ministro della Difesa non è stato riconfermato, Casini con due soli senatori incassa un ministro (Galletti) contro tutte le previsioni. Ancora una volta l’ex presidente della Camera, nonostante una ridotta pattuglia parlamentare, ottiene più dei compagni di strada che militano nel suo gruppo.
Il profilo istituzionale del partito, sommato alle dichiarazioni di esponenti come Lorenzo Dellai e Andrea Olivero, non lascia però prevedere scossoni. Anche se le scelte di Renzi hanno provocato più di un malumore: «Nel nascente governo i Popolari non sono stati chiamati a partecipare. Avevamo presentato proposte programmatiche serie e puntuali. Ascolteremo cosa dirà Renzi alla Camera prima di decidere», recitava ieri sera una nota. Diverso il discorso per il Gal, una sorta di gruppo misto del centrodestra: diviso in blocchi geografici (i siciliani da una parte, i campani che fanno riferimento a Nicola Cosentino dall’altra) dovrebbe procedere in ordine sparso. In 3 votarono la fiducia a Letta, lunedì potrebbero essere tanti o poco più. Certamente non darà disco verde Giulio Tremonti, che formalmente appartiene al gruppo.
Altri contributi potrebbero arrivare dai fuoriusciti del gruppo di Beppe Grillo: 4 in tutto, in passato hanno già votato la fiducia a Letta, oggi vengono corteggiati dalla minoranza del Pd che sogna di fare un gruppo autonomo. Un’ambizione che Renzi ieri ha in qualche modo smorzato, nominando Maria Carmela Lanzetta, che gli ha votato contro in direzione, ministro degli Affari regionali. Riassume Nicola Latorre: «C’è stata attenzione per la componente di Civati, non vedo problemi di numeri». Giudizio sull’esecutivo appena nato: «Bel governo!».
Diverso sarebbe il discorso se Pippo Civati, e color che a lui fanno riferimento, facessero realmente un gruppo autonomo al Senato: con qualche aiuto dei grillini forse potrebbero arrivare, a Palazzo Madama, a superare le 10 unità. Per poi fare cosa? «Renzi continua a guardare al centrodestra — dice Civati — fa di tutto per farsi votare no, vedremo, dipenderà dai provvedimenti». Giudizio sul governo: «Tanta fatica per una sorta di rimpasto, sottosegretari promossi, ministri che cambiano casella, non ne valeva la pena. Tanto rumore per nulla».
Il Sole 22.2.14
I numeri. I voti certi sono 162, in forse i sei senatori civatiani e una parte del gruppo Per l'Italia
Al Senato si può arrivare a 178
ROMA È ancora una volta il Senato l'Aula dove il nascente Governo Renzi dovrà guardarsi le spalle per ottenere la fiducia. Il nuovo esecutivo non dovrebbe avere problemi ma diversi senatori del Pd e dei Popolari per l'Italia hanno minacciato di far mancare il loro voto.
L'assemblea di Palazzo Madama conta 320 inquilini, e cioè i 315 eletti più i 5 senatori a vita (Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti, Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo). Quindi la maggioranza assoluta dell'Assemblea ammonta a 161 voti, anche se per ottenere la fiducia è sufficiente la maggioranza dei votanti.
Il gruppo Pd può contare su 107 senatori ma i 6 civatiani sono incerti, a questi vanno aggiunti i 31 di Ncd, i 7 di Scelta civica, i 12 di Per l'Italia (di cui solo 5 sicuri), i 10 del Gruppo delle Autonomie linguistiche e i 5 senatori a vita. A questi voti si dovrebbero aggiungere quelli dei tre senatori espulsi dal M5s che hanno già votato la fiducia al governo Letta e che aderiscono al gruppo Misto: Fabiola Anitori, Paola De Pin e Marino Mastrangeli. L'altra ex senatrice pentastellata, Adele Gambaro, ha già detto che negherà il suo appoggio. Stando a questi numeri Renzi potrebbe contare su 162 voti favorevoli certi. Che potrebbero diventare 168 se i sei senatori "civatiani" voteranno la fiducia. Un piccolo soccorso, in caso di cedimento di voti a sinistra, potrebbe venire sul lato opposto dal gruppo Gal (Grandi autonomie e libertà): «Decideremo che atteggiamento tenere dopo aver letto e ascoltato l'esposizione del presidente del Consiglio in Aula», ha detto il capogruppo Mario Ferrara. L'ipotesi di un sì di Gal (una sorta di gruppo misto del centrodestra) nasce perché tre degli 11 componenti avevano già votato la fiducia a Letta. Se tutti i senatori incerti dovessero votare sì la maggioranza potrebbe toccare quota 178.
il Fatto 22.2.14
C’eravamo tanto odiati: quando erano tutti contro
APPENA POCHI mesi fa, a luglio, Matteo Renzi premeva per le dimissioni del ministro dell’Interno Angelino Alfano, dopo l’imbarazzante gestione del caso Shalabayeva (la moglie del dissidente kazako Ablyazov prelevata a Roma con un blitz della polizia italiana). Alfano rimase al suo posto nonostante le pressioni del Partito democratico, Renzi in testa: “Se il ministro dell’Interno sapeva e ha mentito – commentò – è un problema. Se non sapeva è ancora peggio”. In una lunga lettera, Renzi aggiunse: “Diconochetuttaquestavicendanasca dalla mia ansia di far cadere il governo. Ma la realtà dei fatti è che io non ho alcun interesse a far cadere il governo Letta. E il bello è che lo sanno tutti! (...) Se cade Letta, non si vota. E se anche si formasse un nuovo governo non sarei io candidabile avendo più volte detto che se andrò a Palazzo Chigi un giorno, ci andrò forte del consenso popolare, non di manovre di Palazzo”
il Fatto 22.2.14
Matteo Renzi, il nostro Massud
Il neo premier farà (politicamente) la fine del guerrigliero afghano
Usato e poi gettato. Indovinate da chi?
di Massimo Fini
C’È UN PARALLELO sia pur blasfemo, fra Matteo Renzi e il comandante Massud, con qualche differenza. Massud era un grande guerriero e un coglione politico, Renzi è un coglione politico (sempre che non sia al servizio di interessi occulti oltre che dei suoi) e di battaglie conosce solo quelle, sordide, dei direttivi e dei congressi di partito, delle congiure di palazzo di cui ha dato recente dimostrazione facendo fuori uno dei pochi uomini presentabili del Pd, Enrico Letta. Il nobile Massud, che gode di grande considerazione in Occidente, è all’origine dell’attuale tragedia dell’Afghanistan. Cominciò portando nel Paese Bin Laden, che aveva le sue basi in Sudan, perché lo aiutasse a combattere il suo storico nemico, Gulbuddin Heckmatyar. Così quando i Talebani presero il potere se lo trovarono fra le palle, senza poterlo cacciare perché l’ambiguo califfo saudita, grazie alle proprie ricchezze, aveva costruito strade, ponti, ospedali e godeva di una certa popolarità, benché gli afghani non amino gli arabi. Nel 1979, sconfitti dai mujaheddin, che godono dell’appoggio degli americani che gli forniscono i missili, i sovietici abbandonano l’Afghanistan ma lasciano Kabul, formalmente presidente, un loro Quisling, Najibullah (quello che Karzai è oggi per gli americani). Massud, che vuole impadronirsi del potere, comincia a bombardare Kabul dalle montagne facendo 10 mila morti. Heckmatyar non ci sta. È l’inizio della guerra civile. I grandi comandanti militari che avevano sconfitto le truppe russe, Massud, Heckmatyar, Ismail Khan, Dostum con i loro sottoposti si trasformano in bande mafiose che taglieggiano, assassinano, stuprano la popolazione agendo nel più pieno arbitrio.
Quella talebana è la reazione a questo stato di cose. In due soli anni i giovanissimi “studenti di Dio”, guidati dal Mullah Omar, cacciano dal Paese i ben più esperti “signori della guerra ”, perché hanno l’appoggio della popolazione che non ne può più. Solo Massud, armato da Russia e Iran (oh yes), non si rassegna alla sconfitta e per tre anni logorerà i Talebani in continue scaramucce impedendogli di attuare in pieno il loro programma di governo fra cui c’era anche l’educazione scolastica femminile (oh yes), sia pur a modo loro. Finalmente nel 1999 Massud è ricacciato nel suo Panchir, tagiko. Ci sono contatti fra emissari di Omar e Massud per arrivare finalmente a una pacificazione dell’Afghanistan. Omar propone a Massud di diventare presidente, lui si riserverà un ruolo di guida spirituale.
È UNA PROPOSTA generosa visto che uno controlla il 90% del Paese, l’altro solo il resto. Ma Massud pretende anche il comando militare, perlomeno a metà. Omar gli spiega che una diarchia militare crea più problemi di quanti non ne risolva. Da quel momento Massud comincia a trafficare con gli americani che, decisi a invadere l’Afghanistan, hanno assolutamente bisogno di un appoggio sul terreno perché solo con i B52 e i caccia non possono piegare i Talebani. Omar fa pervenire a Massud un ultimo messaggio: “Guarda che se ti allei con gli americani poi saranno loro a comandare, non tu”. Costituita l’Alleanza del Nord, Massud viene assassinato. Non serve più.
E questa è la fine che farà, politicamente, Matteo Renzi. Renzi ha pienamente rilegittimato il “delinquente naturale” preparando con lui la nuova legge elettorale e Bibì e Bibò sono già d’accordo per nominare insieme il nuovo presidente della Repubblica. E la nostra poco allegra prospettiva è questa: d’ora in poi avremo due Berlusconi. Il Berlusconi propriamente detto e Matteo Renzi. Finché il primo, al momento opportuno, non deciderà di liquidare “l’utile idiota”.
il Fatto 22.2.14
Ridiamoci su
C’è un ministro kazako nel governo E se spacchi il Pd, ecco due Margherite
di Francesca Fornario
Dopo più di due ore e mezza - un ritardo che aveva fatto pensare che tra i ministri ci fosse l’ad delle ferrovie Mauro Moretti - Renzi ha presentato il suo esecutivo “nel segno della discontinuità”. Un governo del tutto rinnovato rispetto al governo Letta, al punto che agli Interni, al posto di Angelino Alfano - del quale Renzi invocava le dimissioni dai tempi dello scaldalo Shalabayeva - trasloca Angelino Alfano, costretto a rinunciare a una delle due cariche che ricopriva nel governo Letta: quello di ministro degli Interni del Kazakistan.
UN GOVERNO talmente rinnovato che alle Infrastrutture, al posto di Maurizio Lupi, arriva Maurizio Lupi e alla Sanità, al posto di Beatrice Lorenzin arriva Beatrice Lorenzin. Tre ministeri-chiave restano nelle mani dei diversamente berlusconiani (quelli che ti spiegano che Berlusconi è diversamente innocente). In compenso - per marcare discontinuità con il governo Letta - lasciano il ministero Franceschini e Orlando . Per prendere un altro ministero. Ma il vero segno di discontinuità è all’Economia, nei passati governi rovinosamente affidata ai tecnici fautori dell’austerity. All’economia arriva finalmente... un tecnico. Fautore dell’austerity. Pier Carlo Padoan, che da capo economista dell’Ocse raccomandava all’Italia di Monti di “ammorbidire la protezione del lavoro sui contratti standard”, eufemismo del tipo “Ti lascio perché non ti merito” che tradotto significa rendere più comodamente licenziabili i lavoratori a tempo indeterminato (contemporaneamente, l’Ocse veniva però smentita dai dati sull’indice di tutela dei lavoratori dai licenziamenti: un rapporto poneva infatti l’Italia nella parte più bassa della classifica, 21 esima su 30 paesi. Ed era un rapporto dell’Ocse! Ci sono così tante contraddizioni in seno all’Ocse che per non coglierle bisogna essere segretari del Pd). Padoan, esulta il diversamente berlusconiano Sacconi, è l’uomo giusto per abolire definitivamente l’articolo 18, che per Sacconi è la vera causa della disoccupazione giovanile, del cancro al seno, del calo di ascolti di Sanremo e della rottura tra Buffon e Seredova. Ci sono altre novità - sempre nel segno della discontinuità - come la sostituzione del ministro della Difesa del governo Letta Mario Mauro, favorevole all’acquisto di decine di F35 perché servono a esportare la democrazia, con la sottosegretaria alla Difesa del governo Letta Roberta Pinotti, che è dello stesso avviso. È che a furia di esportare la democrazia finiremo per restare senza. Tra le novità degne di nota anche l’ingresso di donna1, donna2 e donna3 alla guida di ministero senza portafoglio1, ministero senza portafoglio2 e ministero senza portafoglio3, perché era importante dare un segnale di speranza alle molte donne che in questo paese non riescono a fare carriera se non sono le figlie di qualcuno abbastanza ricco e potente da sedere in 40 consigli di amministrazione.
COME, PER ESEMPIO, l’ex vicepresidente di Confindustria Guidalberto Guidi. Difatti il nuovo ministro dello Sviluppo Economico è sua figlia Federica Guidi, favorevole al nucleare, membro della Trilateral e già sondata da Berlusconi che la voleva al suo fianco in Fi («Mai dire mai», commentò lei). Auguri alla minoranza Pd, anzi: alle minoranze. Una, quella cuperliana, reclama ora la segreteria del partito, come Diliberto che reclamava il corpo di Lenin. L’altra, quella civatiana, minaccia la scissione, fomentata dai molti elettori delusi e stremati che vorrebbero tornare ai tempi di Ds e Margherita. Ma l’impressione è che sia troppo tardi: se il Pd lo spacchi oggi ti ritrovi con due Margherite.
il Fatto 22.2.14
A sinistra
Camilleri candidato con Tsipras. Che nelle stime è al 7,2%
Tra le personalità contattate per la lista Barbara Spinelli e Gustavo Zagrebelsky
di Salvatore Cannavò
Giornata positiva ieri per il comitato Tsipras, il leader della sinistra greca che ha dato il proprio avallo alla lista promossa, tra gli altri, da Barbara Spinelli, e Andrea Camilleri. Positiva per almeno due fatti: la disponibilità di quest’ultimo a candidarsi e a dare una forte riconoscibilità alla lista. E poi il primo sondaggio pubblico che ha dato la lista al quarto posto con un sorprendente 7,2 per cento. La rilevazione è quella settimanale di Ixè per la trasmissione Agorà su Rai3. Se si votasse oggi per le elezioni europee, il primo partito sarebbe il Pd col 27,6 per cento, a seguire il M5S col 24,9 e Forza Italia col 22,4. La lista di sinistra ispirata a Tsipras raggiungerebbe incredibilmente il quarto posto con il 7,2 per cento staccando nettamente il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano - azionista del governo - fermo al 3,1. Ad allietare il clima del Comitato promotore, però, c’è anche la grande disponibilità a candidarsi offerta da numerose personalità. La più significativa, per ora, è proprio quella dello scrittore siciliano, Andrea Camilleri, creatore del Commissario Montalbano, seguito e amato da un pubblico ampio e diversificato. Ma disponibilità importanti, nei giorni scorsi, sono venute da Riccardo Petrella, Ermanno Rea, la scrittrice Valeria Parrella. Ci stanno seriamente pensando alcune figure intellettuali che potrebbero avere un certo impatto nel mondo del Pd. Ci sta pensando Tomaso Montanari, ma, soprattutto, la stessa Barbara Spinelli o anche il giurista Gustavo Zagrebelsky, su cui si fanno molte pressioni ma che al momento non ha sciolto la riserva. Ci sarà sicuramente l’ex disobbediente Luca Casarini o l’ex leader del ‘77 bolognese Franco Berardi “Bifo”. I promotori poi vogliono muoversi con candidature di prestigio anche sul piano internazionale. È stato contattato il regista inglese Ken Loach, icona della sinistra radicale, ma anche il filosofo Slavoj Zizek. Le candidature possono essere presentate da gruppi di almeno 50 persone, aderenti al progetto, entro domenica sera. Dovrebbero essere circa 250 proposte, comprese quelle di area di partito, da cui selezionarne 73, quanti sono i candidati al Parlamento europeo. Sel punterà molto probabilmente sui sindaci (quello di Cagliari, Zedda, ma anche Paola Natalicchio di Molfetta o Giovanni Speranza di Lametia Terme), Rifondazione su figure di partito. A decidere, i sei garanti nazionali.
il Fatto 22.2.14
La pupilla di B.
Coop e Confindustria pigliatutto
di Stefano Feltri e Carlo Tecce
A prima vista sembra così: la Confindustria si è presa il cruciale ministero dello Sviluppo, con Federica Guidi, così Giorgio Squinzi non potrà lamentarsi del nuovo governo. Il capitalismo di sinistra, quello delle Coop, conquista il dicastero del Lavoro con Giuliano Poletti, il presidente della Alleanza delle cooperative.
Ma sono nomine da decodificare meglio. La Guidi, modenese, 45 anni, componente della Commissione Trilateral, è figlia dell’industriale Guidalberto Guidi e vicepresidente di Ducati Energia. Come molti imprenditori “figli di” si è potuta dedicare molto alla Confindustria, ha guidato i giovani imprenditori dopo Matteo Colaninno (altro figlio) mentre il presidente era Emma Marcegaglia. La Guidi non ha mai nascosto le sue simpatie per il governo Berlusconi e per il Cavaliere in persona. Un anno fa si parlava di lei, amica anche di Maurizio Lupi, per una candidatura con il Pdl e addirittura di un suo ruolo nel partito, secondo il modello sperimentato ora con Giovanni Toti. Fu poi papà Guidalberto a spiegare a un Berlusconi che all’epoca sembrava finito che Federica non se la sentiva. Oggi è entrata, un po’ a sorpresa, nella squadra di Renzi, dicono soprattutto per una questione di quote rosa da rispettare (eppure la Guidi aveva sempre detto “sono contraria, non premiano le migliori”). Forza Italia interpreta la sua scelta come un segnale distensivo.
Tutta un’altra questione Giuliano Poletti. Il corteggiamento della politica è stato lungo per questo massiccio imolese, classe 1951, storico leader delle Coop rosse emiliane, che dice di pensare in romagnolo prima di parlare in italiano. Pier Luigi Bersani lo voleva candidare, lui ha detto di no. Matteo Renzi lo aveva invitato alla Leopolda, ma ha preferito non esporsi per non schierare le Coop nelle primarie. Ha ispirato il progetto di alleare le cooperative rosse e quelle bianche, dopo esser riuscito a far nascere Alleanza delle Cooperative e poi ha affidato la presidenza al “bianco” Luigi Marino (oggi senatore di Scelta Civica), vincendo le resistenze del mondo ex comunista.
DEVE PORTARE al governo Renzi un’anima sociale che finora mancava, è un riformista ma senza slanci liberisti: invoca equità, ma da cooperatore non crede che la si possa ottenere usando la leva del fisco o quella del mercato, evoca una democrazia economica in cui contano le teste e non le quote di capitale (nonostante le Coop siano in difficoltà per gli investimenti ad alto rischio nel Monte Paschi e Bankitalia abbia dichiarato guerra alle Banche popolari).
Il programma dei due ministri economici che affiancheranno Pier Carlo Padoan al Tesoro, sarà meno scontato di quanto ci si poteva aspettare. Con la Guidi allo Sviluppo è ormai esclusa un’applicazione del “piano Giavazzi” che voleva ridurre gli incentivi alle imprese. O meglio: Guidi è espressione di quella parte di Confindustria che rappresenta la manifattura contro i grandi gruppi di Stato, quindi al massimo il suo ministero proverà a incidere su Eni, Enel, Terna, Ferrovie e così via (tutte aziende che però sono abili a sfruttare il proprio rapporto con la politica per difendersi). Sarà complicato per una come lei, di matrice berlusconiana, dominare un ministero che è rimasto bersaniano nei vertici e nella cultura interna. Con Poletti – che sicuramente si farà guardiano delle agevolazioni fiscali delle cooperative
– sbiadisce quel poco che era rimasto della rottamazione renziana sul lavoro, quell’approccio un po’ bellicoso tipico di uno dei primi consulenti del premier, Pietro Ichino: per temperamento e storia personale, Poletti non sarà mai il ministro che cercherà di piegare i sindaci sul “contratto unico” (lunghi periodi di prova con licenziamenti facili). La sua scelta indica la volontà di Renzi di affrontare il problema dalla coda, ragionando prima di ammortizzatori sociali, di tutele, privilegiando il punto di vista delle piccole imprese rispetto alle logiche stile Fiat. Sarà interessante vedere se Poletti riuscirà a ricostruire un rapporto tra Renzi e la Cgil di Susanna Camusso o se, invece, il suo arrivo al ministero renderà il sindacato ancora meno rilevante come canale tra il governo a guida Pd e la sua (teorica) base.
l’Unità 22.2.14
Lo scatto all’ultima curva su Esteri e Giustizia
di Vladimiro Frulletti
il Fatto 22.2.14
Renzi, governo a quattro mani
Dopo quasi tre ore il Quirinale corregge la lista: "Alla giustizia non può andare un giudice"
Il Colle cancella Gratteri, Renzi nasce già dimezzato
Nelle due ore e mezza al Quirinale, Napolitano punta i piedi su Esteri e Giustizia Il premier sacrifica il magistrato antimafia in cambio del siluramento della Bonino
Il resto è un governicchio che lascia al loro posto Alfano e Lupi d’Esposito e Marra
di Wanda Marra
Un governo di legislatura? La mano sul fuoco non ce la possiamo mettere, speriamo che vada tutto bene”. Giorgio Napolitano ha finito le sue dichiarazioni ai microfoni della Sala alla Vetrata. Ma i cronisti gli si affollano intorno, provano a strappargli un parere più informale sull’esecutivo che Matteo Renzi ha appena presentato. Al di là di quel “governo delle novità”, come lui ha voluto definirlo. E della precisazione: “Non c’è stato nessun braccio di ferro”. Il Capo dello Stato gesticola. È vispo, ma trasmette l’idea di chi ha condotto l’ultima battaglia. E a questo punto, guarda il tutto con un po’ di distacco. “Lui speriamo che se la cava”, sembra dire. È un monarca che nelle due ore e mezzo del confronto finale con il premier incaricato ha esercitato fino a che ha potuto il suo potere di moral suasion e il diritto di veto. Che ha spiegato, trattato, indirizzato. E che alla fine è arrivato fino a un certo punto (Nicola Gratteri è entrato ministro ed è uscito defenestrato, mentre Emma Bonino è stata sacrificata a Federica Mogherini). E poi, ha alzato le mani. Di fronte a un Matteo Renzi che alla fine delle sue dichiarazioni ufficiali, afono, ma palesemente soddisfatto, dice convinto: “Mi gioco la faccia, che è più importante della carriera”.
LA GIORNATA finale e decisiva nella formazione del governo va avanti in un modo che meno istituzionale non si può. Durante la notte, Matteo Renzi incontra Angelino Alfano: “Io non tratto più”, gli dice. In ballo ci sono le poltrone, ma anche le richieste programmatiche e quel famoso assenso a una clausola di salvaguardia nell’Italicumn contro il voto subito. Renzi cede alle richieste di conferma dei tre ministri (Alfano, Lupi e Lorenzin), ma Angelino non è più vice premier. Non si impegna su altro. È ancora mattina quando dal Nazareno Lorenzo Guerini fa sapere che Matteo Renzi salirà al Colle con la lista alle 16. Peccato che nessuno avverte il Quirinale ufficialmente. Al Colle la comunicazione che il premier incaricato arriverà alle 16 e 30 giunge all’ultimo momento. Gli va bene per un pelo: alle 17 era attesa Dilma Roussef, la presidente del Brasile, che si è ammalata e ha dovuto disdire l’impegno all’ultimo momento. Altrimenti “Turbo-Renzi” avrebbe dovuto aspettare.
Renzi arriva alle 16 e 28, accompagnato da Graziano Delrio, su un’Alfetta grigia. Stavolta lo fanno salire dallo scalone principale. Vestito e cravatta scuri (“Ho messo l’abito giusto”, scherzerà alla fine) arriva con una lista, che comprende 8 donne e 8 uomini. Parità di genere sulla quale è disposto ad impiccarsi. Dopo aver ceduto su un tecnico, Padoan all’Economia, e sulla riconferma dei ministri Ncd, vuole Nicola Gratteri alla Giustizia. E non intende mollare su Federica Mogherini agli Esteri, anche se Napolitano vorrebbe riconfermare sia la Bonino, che Moavero Milanesi agli Affari Europei. La Mogherini al Colle è stimata, ma non la considerano ancora matura.
Mentre passano le ore è chiaro che il colloquio non è una formalità. Toni cordiali: sia Napolitano che Renzi sono due combattenti. E questo aiuta. Renzi arriva non con degli aut aut ma con delle proposte: non vuole mettere il Colle nella posizione di dovergli bocciare la lista. E poi, è la prima volta che i due discutono della squadra nel suo insieme. Napolitano ci tiene a marcare una distanza. Non è il governo del Presidente, quello che sta nascendo. Però su un pm come Guardasigilli non può mollare. “C’è una regola sempre rispettata: i magistrati non possono andare alla Giustizia”, spiega a un Renzi determinatissimo. Che continua a ripetere: “Se mi gioco la faccia e l’osso del collo voglio decidere il volto del mio governo”. Riesce a tenere la Mogherini agli Esteri e - a parte Gratteri - praticamente tutta la squadra che aveva portato entrando. Napolitano lo lascia solo, nella saletta napoleonica, con un telefono. E lui ricomincia le consultazioni. Chiama Andrea Orlando: “Tu vai alla Giustizia”. Al ministero dell’Ambiente al suo posto entra Galletti di Scelta Civica, che doveva andare alle Politiche Agricole. A quel punto iniziano i sondaggi con i bersaniani. È uscito Gratteri, e dunque si è liberato un posto per un uomo. Un bersaniano. Esce Valeria Fedeli, entra Maurizio Martina. Alle Politiche agricole. Per ricomporre il puzzle ci vuole un’ora.
FUORI ci si chiede cosa stia accadendo. Un punto finale con Napolitano, per rivedere il tutto, inframmezzato da un Tweet del premier in persona: “Arrivo, arrivo #lavoltabuona”. E poi Renzi esce. “Un colloquio lungo? L’esecutivo deve durare 4 anni”. Il messaggio: “Rischiamo tutto, ma con determinazione e convinzione”. E soprattutto: “Se può fare il presidente del Consiglio uno come me sotto i 40 anni vuol dire che tutto è possibile”. È rilassato. A chi gli chiede se ci siano elementi di discontinuità risponde in battuta: “Questa non è la rubrica della settimana enigmistica ‘Scopri le differenze’”. Obiettivo raggiunto. Anche il Presidente ha un’aria baldanzosa. Chiarisce: “C’è l’impronta di Renzi nelle facce giovani”. L’era Napolitano volge al declino.
il Fatto 22.2.14
“Fai il guardasigilli" Poi Renzi va al Colle e cancella Gratteri
Il Pm rassicurato fino a ieri pomeriggio "Sei in squadra"
Anche B. non era contrario "Basta che non sia di Md"
Napolitano preferisce sostituirlo (e nessuno lo avvisa)
di Beatrice Borromeo
Resta da capire come giustificherà, Giorgio Napolitano, il veto sul nemico numero uno della ‘ndrangheta, il pm Nicola Gratteri. Che fino a pochi minuti prima dell’incontro tra Matteo Renzi e il presidente della Repubblica, aveva in tasca il ministero della Giustizia. Un incarico che l’entourage del premier aveva confermato per telefono al magistrato calabrese ieri pomeriggio. Una vicenda, questa, che è stata raccontata e confermata al Fatto Quotidiano da tre fonti che hanno chiesto di rimanere anonime. E se l’incontro al Quirinale è stato così lungo – più di due ore – il motivo è stato proprio che la scelta di Gratteri, per il capo dello Stato, era inaccettabile. Un veto che fa riflettere anche sull’excusatio non petita di Napolitano, che ha azzardato il ricorso all’ironia per provare a negare il suo ruolo nella bocciatura di Gratteri: “Vorrei rassicurare i cultori di ricostruzioni giornalistiche a tinte forti, che il mio braccio non è stato sottoposto, né l’altroieri né oggi, ad alcuna prova di ferro. Lo trovate, spero, in buone condizioni”.
UN TENTATIVO, quello di smorzare il suo intervento, che forse tendeva a scaricare la responsabilità della marcia indietro su qualcun altro. Per esempio Angelino Alfano, che aveva già espresso la sua contrarietà alla nomina di Gratteri (non voglio un Guardasigilli “giustizialista”, aveva detto). Ma il peso del neo ministro degli Interni non era bastato a far cambiare idea a Renzi: e infatti, durante la telefonata di ieri, gli uomini del premier avevano rassicurato il pm sul fatto che l’accordo era stato trovato. C’è anche chi ipotizza che sia stato Silvio Berlusconi a opporsi. Versione smentita da diversi berlusconiani che raccontano un aneddoto emblematico: nei giorni scorsi, il Cavaliere ha freneticamente telefonato ai suoi amici calabresi per informarsi su “questo signore, che conosco troppo poco”. La sua unica paura era che il pm potesse appartenere a Magistratura Democratica. Ma Gratteri non fa parte di nessuna corrente e non ha mai espresso apprezzamenti su alcun partito. Tanto è bastato per ottenere il via libera di B.
Insomma, è stato proprio il presidente della Repubblica - come ha raccontato una delle persone presenti all’incontro - a escludere categoricamente la nomina di Gratteri, dicendo che non può consentire a un magistrato di diventare Guardasigilli. Tanto più se è ancora in servizio. Una motivazione che non ha convinto nè Renzi nè il suo braccio destro, Graziano Delrio. I due, prima di piegarsi, si sono battuti per cercare di far passare Gratteri, che era il loro cavallo di battaglia (e uno dei nomi più celebrati sui social network). A poco è servito ricordare che un pm alla Giustizia c’era già stato di recente (Nitto Palma). O che Gratteri non si è mai candidato, e di conseguenza la questione dell’indipendenza proprio non si poneva. Il suo ruolo, era chiaro da subito, sarebbe stato esclusivamente tecnico. Anche perchè le sue ricette per rimettere in piedi la macchina della giustizia erano già note. Proposte già pronte come “l’emergenza” per eccellenza: il sovraffollamento delle carceri.
Gratteri l’avrebbe risolta così: “Serve la realizzazione in tempi brevi di nuove strutture penitenziarie”. Inoltre, spiegava, “bisognerebbe riorganizzare gli spazi secondo il modello americano: chiusi nelle celle dovrebbero restare solo i detenuti di alta sicurezza (41bis e individui socialmente pericolosi), mentre gli altri potrebbero usufruire degli spazi esterni, e lavorare per il reinserimento sociale”. Poi le misure alternative: “Soprattutto per tossicodipendenti e baby-criminali”. Ma la mossa fondamentale, sosteneva il procuratore aggiunto, era quella di fare accordi bilaterali per far scontare ai detenuti la pena nei loro paesi d’origine.
Gratteri ha parlato anche della riforma del codice di procedura penale. Tra le tantissime idee, sottoposte già all’ex premier Enrico Letta, c’era quella di garantire l’informatizzazione di tutta la cancelleria. E poi un appello alla razionalità: se il giudice viene sostituito durante il processo, oggi è necessario – a parte rare eccezioni - rinnovare l’istruttoria dibattimentale, riascoltando nel contraddittorio tutti i soggetti che si erano già espressi. E questa, sosteneva Gratteri, “è una delle principali cause che permette la dilatazione della durata dei processi”, e lo sperpero di denaro pubblico e di forza lavoro. La proposta era semplice: utilizzare le dichiarazioni già rese.
POI, ANCORA, bisognava rendere obbligatorio l’uso della posta elettronica certificata per effettuare le notifiche, così da risparmiare tempo e denaro. Altra proposta: l’inasprimento del 41-bis, imponendo ai detenuti di restare totalmente isolati. Non mancava anche una visione sulle doti indispensabili per diventare onorevole (“per lo meno, la fedina penale intonsa. Ci vuole uno sbarramento netto, chiaro, feroce”). “La politica avrebbe senso farla solo se si avesse il potere di cambiare davvero le regole del gioco, nel rispetto della Costituzione”, aveva detto qualche mese fa. Ma Gratteri non aveva fatto i conti col fatto che l’arbitro supremo l’Italia ce l’ha già: Giorgio Napolitano.
il Fatto 22.2.14
Democratici destini
Via Arenula, ecco Orlando
di Antonella Mascali
Non voglio un magistrato al ministero della Giustizia, aveva intimato Angelino Alfano e così è stato. Il neo premier Matteo Renzi, che in cuor suo avrebbe voluto l’ex pm anticamorra Raffaele Cantone, l’ha accontentato. E ha accontentato anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano.
A via Arenula arriverà Andrea Orlando, mancato dottore in legge, ministro dell’Ambiente del silurato governo Letta, l’uomo del Pd che non inquieta il centro-destra. E che riceve il plauso dell’Unione Camere penali: è l’uomo giusto al posto giusto.
Il pm antindrangheta Nicola Gratteri, altra carta che Renzi avrebbe voluto giocarsi come immagine, si è visto soffiare il ministero quando sembrava cosa fatta. La presidente del tribunale di Milano Livia Pomodoro o l’ex ministro Flick, per citare altri nomi circolati, non hanno mai avuto vere possibilità.
IN REALTÀ ORLANDO, visto come il politico della mediazione, è stato la prima scelta, anche se all’inizio delle trattative ha fatto qualche piccola resistenza: avrebbe voluto restare all’Ambiente e non entrare nella “fossa dei leoni” del ministero della Giustizia dove lo attendono sovraffollamento delle carceri, pressioni per indulti e amnistie e l’eterna riforma del processo penale, che con Berlusconi in politica da 20 anni non si è mai potuta fare. Sono state approvate solo leggi ad personam che il centrosinistra al governo non ha cancellato.
Il neo Guardasigilli è un uomo nel Pd per tutte le stagioni: l’hanno voluto, con diversi incarichi, Walter Veltroni, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani e da ultimi Enrico Letta e Matteo Renzi. La sua politica della “condivisione” l’ha già espressa nel 2010 da responsabile Giustizia del partito. Sul Foglio scrisse la sua proposta di riforma da “condividere” con il Centrodestra. Proponeva una sorta di processo breve, non come quello del Cavaliere per azzerare i suoi processi, ma con una giustizia a doppia velocità: “Si possono ipotizzare tempi massimi per la durata del procedimento, senza prevedere prescrizioni processuali automatiche, ma questi dovrebbero essere parametrati distretto per distretto in rapporto alle risorse disponibili”. Orlando aveva ipotizzato anche la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, tanto desiderata dai berlusconiani: “Sarebbe matura una riflessione sulla rimodulazione dell’obbligatorietà, attraverso l’individuazione di priorità che non limitino l’indipendenza dei pm”. Vedremo se da ministro ricalcherà quelle proposte così come quella di voler separare le carriere dei magistrati. Intanto ieri, appena nominato, Orlando ha ricevuto gli apprezzamenti degli avvocati penalisti: “Abbiamo espresso l’auspicio che il prescelto alla guida di via Arenula fosse persona in grado di interpretare lo spirito garantista della Costituzione... Siamo convinti che l’onorevole Orlando abbia queste qualità, ed essendo un politico esperto, sappia anche contenere le invasioni di campo di quei settori dello Stato che tradizionalmente pretendono di condizionare la politica proprio in tema di giustizia”.
Dunque il ministro incassa un bonus dagli avvocati, ma non è affatto detto che lo riceverà anche dai magistrati.
l’Unità 22.2.14
Sorpresa Farnesina. Arriva Mogherini
Le proteste di Pannella
di Umberto De Govannangeli
È forse la bocciatura più eclatante. Di certo, è la discontinuità più marcata. E questo in uno dei ministeri chiave: quello degli Affari Esteri. Alla Farnesina erano convinti che Emma Bonino avrebbe garantito quella continuità in politica estera auspicata dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Una continuità, rimarcano a microfoni spenti e taccuini chiusi, fonti diplomatiche di lungo corso, tanto più necessaria a fronti dei dossier internazionali aperti e del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea. La preparazione e l’entusiamo di Federica Mogherini, la neo titolare della Farnesina, è fuori discussione, ed è una ragione di speranza. Ma questo non chiude il caso-Bonino. Non lo chiude perché la ministra uscente era intesta ai sondaggi di gradimento del governo Letta e, soprattutto, perché l’ex titolare della Farnesina, si era spesa, con la riconosciuta determinazione, sui tavoli più scottanti nello scacchiere internazionale: dall’affaire- Marò alla crisi siriana, dall’apertura al nuovo corso iraniano alla «guerra civile nel cuore dell’Europa»: l’Ucraina. Federica Mogherini, con i suoi 41 anni, è la più giovane ministra degli Esteri nella storia della Repubblica: sarà lei, nel mondo, a simboleggiare lo sguardo al futuro del premier più giovane dell’Italia repubblicana.
SPIAZZATI. Ma l’uscita di scena(ministeriale) di Bonino non è indolore. Di certo, non lo è per Marco Pannella. Quando ancora la bocciatura non era diventata ufficiale, ma la notizia era data per «quasi certa», così si pronunciava il leader storico dei Radicali: «Con eventi che mi ricordano quelli della fuga di Pescara di Vittorio Emanuele Terzo, come era prevedibile, sono certo che Renzi ha ottenuto di far fuori la Bonino. Vedremo se è così. Il nemico della partitocrazia resta la storia Radicale. Il nemico resta la storia Radicale, la grande vittoria c’è, la Bonino fatta fuori, i Radicali fatti fuori, fatta fuori la storia Radicale, socialista, azionista, liberale. Renzi ha ottenuto l’ideale per i partitocrati. Spero di sbagliarmi», dice Pannella ai microfoni di RadioRadicale. Non si era sbagliato. La promozione di Mogherini alla guida della politica estera italiana è una vittoria di Matteo Renzi. Non c’è stato alcun braccio di ferro, puntualizza davanti ai giornalisti Giorgio Napolitano. Nessun duello, dunque, ma non è discostarsi dal vero affermare che il presidente della Repubblica avrebbe preferito una scelta di continuità. E c’è chi dice che l’apprezzamento, sincero, del Capo dello Stato verso «Emma la tenace» potrebbe inverarsi nella sua nomina a senatrice a vita.
IMPEGNOSERRATO L’apprezzamento per l’uscente nulla toglie al profilo della neo ministra, una passione coltivata nel tempo per la politica estera. L’ultima sua riflessione ufficiale, prima di diventare ministra degli Esteri risale a l’altro ieri ed è dedicata all’Ucraina e ai fatti di Kiev. Mogherini la svolge sulle pagine de l’Unità: «Ora - rimarcava la neo ministra - di fronte a un’Ucraina profondamente divisa, armata in modo diffuso, in condizioni economiche disperate, e che molti analisti interni non esitano a definire già in uno stato di guerra civile non conclamata, l’unica strada che la comunità internazionale e i suoi attori più razionali (a partire dalla Ue) possono provare a percorrere è quella della mediazione: far fermare le violenze (da entrambe le parti); sostenere il dialogo tra le diverse istanze politiche (che formalmente è in corso); evitare che la diffusione di armi arrivi a punti di non ritorno; garantire percorsi trasparenti di gestione della giustizia, e che i responsabili degli atti di violenza ne rispondano. Evitare che la guerra civile diventi conclamata. Non accettare lo schema della contrapposizione... ».
Profilo europeista, dunque, ma attenta alle relazioni transatlantiche e, nel contesto del Medio Oriente, a quelle con Israele, Federica Mogherini, 41 anni, è diventata deputata del Pd nel 2008 dopo essersi fatta le ossa nella Sinistra giovanile. Nell’ambito del suo ruolo in seno al partito, la neo ministra ha seguito i dossier relativi all’Iraq, l’Afghanistan, e il processo di pace in Medio Oriente. Sposata con Matteo e mamma di due bimbe, Caterina e Marta, Mogherini dice di sé: «Amo viaggiare (ovunque, sempre e in ogni modo), leggere (romanzi, preferibilmente gialli) e passare tempo con la mia famiglia e le persone che amo».
Negli anni Novanta, Mogherini costruisce un buon rapporto con le ong a partire da un’attività di volontaria nell’Arci, impegnata in campagne nazionali ed europee contro il razzismo e la xenofobia. «Con la sua nomina», afferma Marco De Ponte, segretario generale della ong ActionAid, «si può avviare una nuova stagione della presenza dell’Italia nel mondo ». Un profilo aperto, «movimentista» nel senso più progressivo, che si coniuga con importanti incarichi ricoperti in ambiti internazionali, qual è la sua nomina a presidente della delegazione italiana all’Assemblea Parlamentare della Nato.
il Fatto 22.2.14
Silurata la Bonino, Esteri e caso Marò a Federica Mogherini
Il nuovo capo della Farnesina è cresciuta nei Ds
Oggi la radicale sconfitta perlerà in piazza
di Salvatore Cannavò
Marco Pannella, che nonostante l’età fiuta l’aria politica meglio di tanti giovani, l’aveva capito da qualche giorno. E già domenica tempestava di telefonate Radio Radicale per far notare come Emma Bonino fosse sparita dai sondaggi sul gradimento dei ministri uscenti, o da quelli sui personaggi pubblici più popolari. “Qui mi sa che hanno già deciso”. Pannella ha capito le intenzioni di Renzi, “in nome della partitocrazia ha fatto fuori la storia radicale”, ma non sapeva se e quanto fidarsi della capacità di tenuta di Giorgio Napolitano. Che ieri pomeriggio, nelle due ore e mezza di “colloquio” con Matteo Renzi, oltre al caso Gratteri, ha dovuto battagliare con il nuovo presidente del Consiglio proprio per la casella più delicata di qualsiasi governo del mondo, quella degli Esteri.
ALLA FINE l’ha spuntata Renzi. E come notava un osservatore autorevole come Paolo Mieli, perché aveva bisogno di imprimere il proprio segno al nuovo governo E così nasce la candidatura di Federica Mogherini, la più giovane ministra degli Esteri della Repubblica italiana, bella presenza, competente anche se dovrà guadagnarsi innanzitutto la fiducia della Farnesina, dove piangono l’uscita di Bonino. La quale ha affrontato la giornata di ieri in modo molto sereno, concentrata sul caso ucraino per poi staccare tutto avuta la notizia della sostituzione. Parlerà, insieme a Pannella, oggi pomeriggio in un comizio pubblico a Largo Argentina . Il primo pensiero di Mogherini ieri è stato per lei, ovviamente via Tweet: “Grazie a tutti, ma soprattutto a @emmabonino per il lavoro eccellente che ha fatto quest'anno (e sempre) sugli #Esteri. Da domani al lavoro”.
Nata 41 anni fa, madre di due figli, sposata con l’ex braccio destro di Veltroni al Campidoglio, Matteo Rebesani, di politica estera Mogherini si occupa fin da giovanissima quando, non ancora ventenne, si reca al Servizio Civile Internazionale per seguire un seminario sui temi internazionali. Poi inizia una carriera tutta di partito. Nella Sinistra giovanile, poi nei Ds. Nel 2001 entra nel Consiglio nazionale con la segreteria di Piero Fassino e si lega alla componente che coltiva il rapporto con il mondo dell’associazionismo. In particolare con Marina Sereni fidatissima del sindaco di Torino. È il settore che si dedica alla Perugia-Assisi, cura i rapporti con il mondo del pacifismo e infatti Mogherini è molto attiva nell’organizzazione della più grande manifestazione contro la guerra, quella dell’Iraq, svoltasi il 15 febbraio del 2003.
I TEMI della guerra e della pace entrano stabilmente nella sua agenda: fa parte della Commissione Difesa, dove si è occupata di F35 – dossier su cui potrebbe avere i primi problemi – sempre con un approccio pragmatico e “governista”. Con la segreteria Veltroni del Pd entra a far parte dell’esecutivo del partito, organismo di cui non si ricorda più l’esistenza, ma soprattutto diviene deputata per la prima volta. E nel corso della legislatura sarà ricordata per il pancione con cui il 14 dicembre del 2010 si presenta a Montecitorio per votare la sfiducia al governo Berlusconi che però quel giorno la farà franca.
CON L’ADDIO DI VELTRONI al partito entra nella segreteria di Dario Franceschi con l’incarico alle Pari opportunità. Poi, durante la segreteria Bersani, rimane in stand-by ma viene confermata deputata alle ultime elezioni. Fino al ritorno in segreteria, stavolta agli Esteri, con Matteo Renzi. E sarà proprio lei a gestire per il premier un incarico politico molto delicato: l’accordo per il cambio di nome del Pse in “Partito dei socialisti e dei democratici” in modo da consentire l’ingresso del Pd in quella “famiglia” europea.
Profilo partitista, dunque, per quanto competente e ben vista al Quirinale dal Consigliere per gli Affari militari, generale Rolando Mosca Moschini. Una benevolenza che però non ha impedito al Presidente della Repubblica di discutere a lungo con Renzi sull’opportunità di privarsi di Emma Bonino della quale il capo dello Stato ha un’ottima opinione. Tanto che nel Pd sono in molti a scommettere che Napolitano prima o poi riuscirà a farla eleggere al proprio posto.
Repubblica 22.2.14
Emma e gli altri, i Rottamati
Dalla Cancellieri a Kyenge e Zanonato l’addio dei rottamati
Staffetta anche per i tecnici Saccomanni e Giovannini
di Filippo Ceccarelli
ALZI la mano chi ricorda che faccia abbia il ministro, fino a ieri, Trigilia. Di nome fa Carlo. È un signore non brutto.
DALLO sguardo intenso dietro gli occhialetti tondi e la barba corta e ben curata. L’avevano piazzato in un dicastero dal nome misterioso: «Coesione territoriale».
Non si è assolutamente in grado di stabilire se abbia lavorato bene o meno, Trigilia. Secondo alcuni era tanto più bravo quanto più amante del lavoro compiuto in silenzio, lontano da ogni pubblicità. Nel tempo della proclamazione auto-telegenica - «ci metto la faccia» - magari lui sarà anche contento, ma da domani non lo si vedrà proprio più sui giornali o in tv.
Né più mai si vedrà Zanonato, che stava allo Sviluppo economico, e invece twittava a tutto spiano, come un forsennato, con tanto di foto di vita quotidiana e pure in ambito famigliare. Per stare più vicino alla gente, magari. In ogni caso tutt’altro che antipatico. Tra i migliori ricordi che lascia c’è senz’altro quello che lo vide accogliere con allegra sollecitudine la compagna di partito e attuale ministra, Marianna Madia, convinta che lui fosse alla guida del ministero del Lavoro. Zanonato la fece parlare e quando capì l’equivoco - lo scambio di persona configurandosi come il classico dispositivo della commedia - si avvicinò alla finestra indicandole, al di là della strada il palazzo dell’amministrazione allora guidata dal professor Enrico Giovannini.
Pure lui persona squisita e anche competente. Uno dei tanti tecnici. Comunque l’hanno fatto fuori. Non si dirà qui trombato, né rottamato, per non mancargli di rispetto, ma sacrificato sull’altare del ringiovanimento sessuato del governo Renzi. Un bel repulisti, non c’è che dire, ben 13 ministri non confermati.
Almeno in tv Giovannini non aveva poi l’aria di divertirsi troppo, a via Veneto. Veniva dall’Istat, che è un ottimo posto, poche settimane orsono affidato all’odierno titolare dell’Economia Padoan. Così Giovannini potrebbe tornare da dove veniva, forse pure con gioia, o sollievo, o rassegnazione o chissà.
La sorte degli ex ministri è segnata, ma poi varia da caso a caso, come il modo in cui ciascuno vorrà accogliere la fine di quell’esperienza. All’estremo delfairplay si colloca la reazione dell’udc D’Alia che del collega di partito che in qualche modo gli ha soffiato il posto, Gian Luca Galletti, ha detto: «Sono entusiasta della sua nomina, è un amico vero, sarà un grande ministro».
All’opposto già ribolle l’ira dei radicali per la caduta di Emma Bonino, la vera grande e forse anche nobile sconfitta di questa partita di potere. Lei in pratica ha detto solo: «Non ho nulla da dire». Ma oggi prima conferenza stampa e poi comizio, all’aperto, come nella tradizione di quel piccolo partito. Ma intanto è già partito il tuono di Pannellone, che ha 83anni, ma anche per questo Renzi farebbe malissimo a sottovalutare. Ciò che è successo gli ha ricordato la fuga dei Savoia a Pescara, nella notte dell’8 settembre: «La grande vittoria c'è - esplode il suo sarcasmo - la Bonino fatta fuori, i radicali fatti fuori, fatta fuori la storia radicale, socialista, azionista, liberale. Renzi ha ottenuto l'ideale per i partitocrati». E’ solo l’inizio.
La fine, per altri, era nella forza delle cose. Dopo l’affare Ligresti, ad esempio, la Cancellieri era quasi un miracolo che fosse ancora al suo posto; e lo stesso Quagliariello, con i suoi saggi portati in gita a Francavilla, in tutta franchezza non si capiva cosa fosse rimasto a fare su quella poltrona dopo che Renzi e Berlusconi, in mezzo pomeriggio, gli avevano tolto il fastidio delle Riforme. E anche Saccomanni, il tecnico dei tecnici, come tale era ormai compromesso. Appassionato del Belli, il più cupo e desolato poeta del potere, avrà di che riflettere sulla vanità dello stesso e dei suoi vistosi orpelli: «Preti, ladri, uffizziali, cammerieri,/ tutti co le crocette a li pastrani./ E oramai si le chiedeno li cani, dico che je ledanno volentieri»...
Difficile anche valutare il lascito, in quel ginepraio incandescente che è l’Istruzione, della professoressa Maria Chiara Carrozza, anche lei così tecnica, così discreta, così poco «visibile». Ha augurato «in bocca al lupo» a chi le succede in viale Trastevere, troppo spesso bloccato da manifestazioni di protesta.
Un impeccabile tweet anche da Massimo Bray costretto che dice addio ai Beni Culturali: «Questa storia come tutte le storie ha una fine. Grazie al personale del ministero e ai cittadini che, come me, ci hanno messo cuore e passione». A curioso complemento dei social si segnala tuttavia un singolare bombardamento, fino a 4 mila messaggi fuori tempo massimo diretti al premier e preceduti da quella che suonava come icastica affermazione di principio: #iostoconbray.
Meno chiaro è che cosa abbia contribuito a stroncare non solo la personale esperienza di governo di Enzo Moavero, di cui si diceva che avesse gran credito a Bruxelles, ma addirittura l’esistenza stessa degli Affari Europei. Sparisce anche l’Integrazione e con questo finisce a casa, col giubilo dei leghisti, anche Cecile Kyenge. Che pure per il suo impegno stava quasi per rinunciare al matrimonio (poi tutto si è aggiustato).
Infine Mario Mauro che tra squilli di tromba, astuti generali, costosi F35 e indecifrabili scissioni post-montiane, ci aveva preso gusto. Pure troppo. A tempo debito la storia ricostruirà come è stato possibile che un ministro di peso e con entrature nell’associazionismo cattolico, Cl e dintorni, alla fine della giostra sia rimasto senza poltrona. C’è già chi punta il dito su Pierfurby Casini, che è nello stesso giro e starebbe tornando da quest’altra parte. Comunque faccende abbastanza loro, e tutto sommato non del tutto rilevanti per la collettività.
Repubblica 22.2.14
L’amaca
di Michele Serra
Ma una persona degna e competente come Massimo Bray, in dieci mesi da ministro della Cultura, che cosa avrà avuto il tempo materiale di fare, a parte riordinare la scrivania, leggersi qualche carta, visitare qualche sito d’arte, fare due chiacchiere con i suoi funzionari, abbozzare qualche progetto destinato ad abortire sul nascere? La folla di uomini e di occasioni che la sedicente seconda Repubblica si è divorata negli anni, scialando tempo e sprecando energie, è un micidiale affresco di inconcludenza politica. Parafrasando il saggio-pamphlet di Jakobson, «Una generazione che ha dissipato i suoi poeti», noi siamo la generazione che ha dissipato i suoi ministri; e nei famosi “costi della politica” bisognerebbe includere anche questo consumo compulsivo di competenze e di speranze. Per la legge dei grandi numeri è fortemente probabile che tra loro si celasse qualche grande riformatore, qualche saggio amministratore, qualche vivace innovatore; ma non lo sapremo mai.
La stabilità politica non basta, da sola, a garantire la formazione di nuove classi dirigenti; però la favorirebbe, e parecchio. Non si può governare, neanche per una settimana, senza avere in mente un’idea del futuro, e un ragionevole tempo per provare a inseguirlo.
il Sole 22.2.14
Da De Gasperi a Beautiful, la speranza di essere clamorosamente smentiti
di Roberto Napoletano
Non ci resta che sperare di essere clamorosamente smentiti dai fatti. La dura realtà con cui l'Italia deve fare i conti esige senso di responsabilità, passione politica, visione, competenza e (forti) capacità tecniche. La qualità complessiva della squadra di governo, con buone eccezioni a partire dal ministro dell'economia Pier Carlo Padoan, il metodo e le modalità che ne hanno determinato le scelte lasciano perplessi e ci fanno interrogare sulla (piena) consapevolezza della gravità del momento, le esigenze profonde del Paese, l'importanza dei ruoli e la delicatezza delle partite che si hanno davanti in casa e in Europa.
Renzi ha fatto un riferimento a De Gasperi: le sofferenze dell'economia reale italiana e il senso di smarrimento della sua risorsa giovanile esigono uomini e donne di quella tempra e dovrebbero consigliare pudore. Non basta avere la testa e i piedi piantati nel nuovo mondo per essere all'altezza della sfida che l'Italia deve affrontare. Da De Gasperi a Beautiful la caduta può essere elegante, ma rovinosa. Sta a Renzi e alla sua squadra smentirci clamorosamente e nessuno più di noi si augura che ciò avvenga.
Corriere 22.2.14
Svolta nuovista, più interrogativi che certezze
Stefano Folli
Il nuovo presidente del Consiglio voleva dare la sua impronta al governo, chiara e netta. Ci è riuscito, nonostante che qualcuno ieri sera parlasse di «eccesso di continuità», di compromesso al ribasso e di "renzismo" annacquato. Non sembra che sia così. La spinta nuovista è evidente e va proprio nel senso auspicato dal sindaco-premier: molti giovani, molte donne, una lista di ministri fatta per colpire la fantasia degli elettori e partecipare con successo a qualche "talk show" televisivo. Certo, il nuovo gabinetto deve tener conto degli equilibri nella maggioranza e ancor più della frastagliata realtà del Partito Democratico, nel quale non tutti sono renziani, come è noto, specie nei gruppi parlamentari. Ma nel complesso il leader ha ottenuto quello che voleva, come si conviene a un giovane molto determinato che non arretra facilmente davanti agli ostacoli.
Quel lungo colloquio con il presidente della Repubblica di sicuro non è stato facile, ma alla fine è servito a sottolineare un dato di fondo: il destino ha cambiato cavallo, come scriveva Longanesi al tempo di un altro passaggio epocale. Renzi si è assunto la responsabilità delle sue scelte e in termini politici aveva il diritto di farlo, nonché la spregiudicatezza che in certe situazioni è sempre utile, come ha sperimentato sulla sua pelle Enrico Letta. A proposito: il premier poteva risparmiarsi quelle parole di stima fuori tempo massimo spese per il suo predecessore. Ronald Reagan diceva che non è importante essere sinceri, ma è essenziale sembrarlo: una piccola lezione che Renzi dovrebbe meditare.
In conclusione, ieri sera non è nato un Letta-bis, come "twittavano" i soliti buontemponi, bensì un esecutivo di impianto radicalmente diverso, al di là della conferma dei tre "alfaniani" e di un paio di altri rappresentanti centristi (ma stranamente nessun Popolare per l'Italia, gruppo piuttosto nutrito). Una compagine che riflette nel suo complesso, salvo poche eccezioni, l'investimento totale che il neo premier ha fatto su se stesso. Alcuni ministri e ministre sembrano chiamati solo a fare da corona al leader, a dimostrarne la modernità, a testimoniare l'avvenuto salto generazionale. Ed è qui che nascono le maggiori perplessità. In apparenza c'è un deficit di esperienza e di solidità nel concerto renziano. Nulla che non possa essere smentito nei fatti e nella fatica quotidiana del governo. Eppure al momento i dubbi restano. La scelta migliore è senza dubbio quella di Padoan, scelta che per fortuna il premier ha avuto la saggezza di condividere dopo le iniziali perplessità. Padoan è un tecnico con riconosciuta sensibilità politica, apprezzato e stimato in Europa e nei fori internazionali. A lui viene affidata quasi interamente la credibilità italiana, rappresentando insieme la novità del governo Renzi, ma anche la continuità delle cose che contano.
Viceversa, l'errore più grave sembra l'allontanamento di Emma Bonino dagli Affari Esteri. Nel pieno della crisi ucraina, proprio quando l'Europa è chiamata a dare un segno di vita, e con la vicenda dei marò ancora irrisolta, la Farnesina viene trattata alla stregua di un dicastero minore, anziché di uno dei luoghi privilegiati in cui si costruisce l'immagine dell'Italia nel mondo. Fra l'altro la Bonino figurava costantemente in testa nei vari sondaggi dedicati al gradimento dei ministri del governo uscente. Si è voluto rimarcare che una pagina è stata voltata, ma forse era meglio riflettere sul costo di questo colpo a effetto. Tanto più che è scomparso anche il ministero delle Politiche Comunitarie, affidato a un eccellente esperto quale è Moavero. Cancellare con un colpo di spugna la sua competenza non sembra essere un'ottima idea, giusto alla vigilia del semestre italiano di presidenza dell'Unione.
Sta di fatto che tutti hanno capito l'urgenza per Renzi di presentarsi alla testa della giovane generazione. La fotografia di un'Italia nuova che si afferma nel solco di un premier di appena 39 anni. Il problema è che tutta questa freschezza non può bastare a rispondere a tutti gli interrogativi che certe scelte sollecitano. Il presidente del Consiglio insiste nel dire che questo governo è nato con un po' di sforzo perché la sua prospettiva è quella di durare l'intera legislatura. Senza dubbio è nei suoi auspici, ma il "mantra" è poco convincente. L'impressione è che il Renzi Uno sia soprattuto un esecutivo fatto per piacere, grazie soprattutto ai volti di alcuni ministri (o ministre), pronto però a trasformarsi in uno strumento elettorale alla prima difficoltà. Del resto, Berlusconi - interlocutore non secondario del nuovo governo - non fa mistero di volersi preparare alle elezioni entro un anno, forse meno. E Renzi ha il piglio di uno che è in campagna elettorale permanente.
Vedremo. Di certo lunedì il governo sarà giudicato sull'agenda del programma. Gli italiani si attendono riforme e non solo bei sorrisi.
l’Unità 22.2.14
Berlusconi fa il responsabile «Ma l’Italicum non si tocca»
di Federica Fantozzi
Nessuna grossa sorpresa, un nome «non pregiudizialmente ostile » al ministero della Giustizia, donne e giovani, ma un profilo «molto cauto». Sul governo appena nato Silvio Berlusconi sceglie la linea dell’attendismo. «Non mi interessano le facce, ma il programma. Tanto, chiunque ci sia dentro, resta il governo di Renzi».
I nodi restano i soliti: le tasse, e la scelta di Padoan su questo versante non li rassicura. Per le Riforme il nome della Boschi, fedelissima del leader, invece significa che “Matteo” vuole tenersi stretta la partita. Certo, doppia: gli alfaniani si attendono l’ufficializzazione che la legge elettorale arriverà solo dopo l’abolizione del Senato. Significa blindare la legislatura per un anno e mezzo. Il Cavaliere è disponibile, ma in cambio dell’opposizione «responsabile » vuole risultati concreti: «Avanti con l’Italicum e l’impianto non si tocca». A fare gli auguri di buon lavoro è il capogruppo al Senato Romani: «Governo equilibrato con non pochi tratti innovativi. Attendiamo il programma per verificare la spinta innovativa ».
Tra cinquecento d’epoca tirate a lucido, curiosi e militanti, Berlusconi avrebbe dovuto lanciare la sua Missione Azzurra. In piazza in Lucina, a metà pomeriggio, attendevano che avviasse la campagna elettorale per le Europee con un occhio rivolto a eventuali elezioni politiche nel 2015. «Renzi ha la maggioranza nel suo partito - ha osservato infatti - ma non in Parlamento. Molti deputati del Pd sono bersaniani e dalemiani». Invece, il Cavaliere ha aspettato la fine del colloquio tra Renzi e Napolitano al Quirinale. E alla fine, i tempi lunghi lo hanno costretto a dare forfait. Sul palco davanti ai fan delusi è salito - con due ore di ritardo - il responsabile dei club Marcello Fiori.
Al secondo piano di Palazzo Fiano Almagià, Berlusconi attende il corso degli eventi. Ma si concede ai 200 giovani volontari azzurri. Come al solito, è ondivago. Perché Forza Italia deve tenersi sempre pronta, ma auspica «che in 4 anni si facciano le riforme». Il premier incaricato non solo non è comunista ma è «una risorsa», però «ha vinto a Firenze con 111 mila voti. Io sono stato votato 172 milioni di volte in 20 anni». E ancora, «dopo Monti, Letta e Renzi, si può dire che la sinistra si è data ai giochi di palazzo» perché «l’ultimo premier eletto con il voto sono io». Ma soprattutto, il vero affondo politico è questo: «Il governo metterà una patrimoniale di parecchi miliardi».
PIÙ DENTIERE PER TUTTI Berlusconi si diverte con la campagna elettorale. Accompagnato da Annagrazia Calabria, da Fiori, e dal fondatore dell’Esercito di Silvio Simone Furlan, dispensa sorrisi e strette di mano ai 200 volontari. Saranno la manovalanza del piano sul territorio su cui il leader ragiona con l’obiettivo di «uscire dalla vecchia politica» ed entrare in contatto con le necessità della gente. Una piattaforma che ha già esposto ai suoi parlamentari italiani ed europei lasciandoli basiti: si tratta di dedicare il week end al proprio collegio (metaforicamente parlando), incontrando elettori e categorie professionali, e fin lì va bene. Ma poi bisogna «lavorare in sinergia» con la seconda gamba, i club Forza Silvio comprensibilmente cari al cuore del leader.
Trasformati in centri multitasking: ascolto per anziani, sportello di psicologia, assistenza fiscale e previdenziale in stile Caf, consulenza legale nei casi di malagiustizia. Adesso il leader ha aggiunto una serie di promesse elettorali che entrano davvero - così ritiene - nelle case degli italiani. Una collaborazione con la categoria degli odontoiatri, che ricevuti nella sede azzurra hanno spiegato come la crisi abbia impattato sulle abitudini sanitarie dei cittadini costringendoli a rinunciare alle cure dentali. Lo slogan che gira è «più dentiere (gratis) per tutti». E grazie ai suggerimenti di Michela Vittoria Bambilla, pensa a un pool di veterinari che curino senza farsi pagare i migliori amici dell’uomo. Che nelle famiglie sono ben otto milioni. Non solo cani, ma gatti, criceti e nei limiti del fattibile pesci rossi.
Insomma, una campagna puntata alla conquista del ceto medio devastato dalla crisi, ma soprattutto della terza età. Quella di cui Berlusconi, con la pubblicazione delle foto nature ma d’autore - scattate da Paul Stuart per il Sunday Times - ha accettato di far parte e deciso di cavalcare alla grande. Nonostante i dubbi - è un eufemismo - del suo partito. Metà dei dirigenti con le mani nei capelli, Fitto in silenzio da stampa da due settimane, Verdini in guerra personale con gli alfaniani.
l’Unità 22.2.14
Tre ore con Napolitano «Nessun braccio di ferro»
di Marcella Ciarnelli
Per dissipare ogni interpretazione maliziosa sul lungo colloquio avuto per buona parte del pomeriggio con Matteo Renzi, che aveva appena sciolto la riserva sull’incarico di primo ministro e si avvia ad intraprendere una strada assai complessa, il presidente Napolitano ha scelto di chiudere lui la giornata dopo che il segretario del Pd aveva preannunciato via twitter la fine del confronto, «due ore e mezza ben spese». «Il governo che vi è stato presentato presenta così ampi caratteri di novità da spiegarvi “ad abundantiam” il tempo richiesto per definirne la composizione». Dunque, «nessun braccio di ferro» col neopremier, ha voluto comunicare in prima persona il Capo dello Stato, condendo l’informazione con un sorriso. «Vorrei assicurare, e mi spiace deludere i cultori di ricostruzioni giornalistiche a tinte forti, che il mio braccio non è stato sottoposto ad alcuna prova di ferro» ha detto con un pizzico d’ironia, ribadendo che il colloquio si era svolto «in un clima di massima collaborazione istituzionale».
Molto serio e preoccupato, invece, il presidente Napolitano è apparso quando ha affrontato il l tema che a lui sta più a cuore, il superamento di una crisi devastante che ha colpito tutti, i giovani in particolar modo, che solo riforme strutturali possono contribuire a superare. La ripresa, la crescita. Quindi il futuro per un Paese che soffre difficoltà senza precedenti.
«Condivido pienamente l’esigenza espressa da Matteo Renzi di adottare in tempi brevi le riforme strutturali per le istituzioni, l’economia e il lavoro, che non possono ulteriormente attendere. Perché in questo senso si procedesse, superando molti lunghi anni di esitazioni e di contraddizioni, io mi sono speso per tutti questi anni di mia presidenza e confido che veramente non si perda questa occasione perché non possiamo concederci il lusso di perderla ».
Ha rivolto in questa prospettiva un caloroso augurio al neopresidente del Consiglio che ha confermato la sua intenzione ad un impegno di legislatura, condiviso dal presidente della Repubblica, che però ha precisato che «certo la mano sul fuoco non ce la possiamo mettere, ma speriamo che tutto vada per il meglio». E poi non ha fatto mancare il riconoscimento al lavoro svolto da Enrico Letta in un passaggio di testimone, pur imprevisto fino a pochi giorni fa cui già lo stesso Renzi aveva rivolto il suo ringraziamento. Ed ha confermato Napolitano tutta la sua «stima, fiducia e gratitudine» per il presidente del Consiglio uscente dicendosi «sicuro » che in Parlamento e non solo «continuerà a dare un importante contributo per il suo Paese e per l’Europa».
UN LAVORO IN PARALLELO Otto uomini e otto donne in nome della parità di genere. E tante facce nuove. «L’impronta di Renzi risulta evidente in molti nomi nuovi chiamati per la prima volta a ricoprire l’incarico di ministri » ha sottolineato il Capo dello Stato che ha confermato come nelle nomine si sia rispettato il dettato costituzionale per cui i ministri sono nominati dal presidente della Repubblica ma «su proposta» del premier.
Lasciando lo studio alla Vetrata, dove era appena terminato il colloquio con Renzi in un pomeriggio che ha visto «un lavoro in parallelo» ha precisato, facendo intendere che lui e il suo interlocutore, ognuno per la propria parte, avevano anche lavorato separatamente in quelle ore che sono apparse lunghissime e foriere di contrapposizione. Sull’impostazione dell’esecutivo, sui nomi proposti, segno però che qualche limatura c’è stata in corso d’opera, la cui responsabilità «è prerogativa costituzionale del presidente del Consiglio ed è stata rispettata in modo pieno» ha detto Napolitano ribadendo che «il clima di collaborazione istituzionale di cui ho parlato si è rispecchiato, come sempre nella prassi repubblicana, in ripetuti scambi di opinioni e consigli tra il presidente incaricato e il presidente della Repubblica».
«Bisogna essere pazienti in queste circostanze» ha detto il presidente sottolineando i tratti di novità dell’esecutivo che hanno portato al lungo colloquio. Un po’ meno lungo di quello, certamente più difficile, affrontato un paio di giorni fa da Renzi alle prese con i primi passi nella formazione del suo governo e con una delle giornata più complesse a sciogliere il nodo dei nodi, quello del ministro dell’Economia.
Anche alla nascita dell’esecutivo Letta il presidente aveva voluto dare pubblicamente il suo incitamento ad un governo chiamato a superare l’impasse di un risultato elettorale che non consentiva altra soluzione che le larghe intese. Buon lavoro a Renzi che deve affrontare il suo incarico sapendo che «è un’occasione da non perdere».
Repubblica 22.2.14
Madia: “Non me lo aspettavo stavo guardando Peppa Pig”
di G. C.
ROMA - «Se anche mi sentissi inesperta, questa volta non lo direi, segno che lo sono meno...». Marianna Madia ironizza sulla gaffe che accompagnò l’esordio della sua carriera politica. Per la neo ministra della Pubblica Amministrazione l’incarico è una sorpresa. Tra un mese poi, Madia dovrà assentarsi perché nascerà il suo secondo figlio.
Madia, è contenta di essere diventata ministro?
«Molto, anche se non ho avuto ancora il tempo di rendermene conto. Non ho seguito i commenti politici, ho guardato in tv Peppa Pig, perché me l’ha chiesto mio figlio ».
Ma immaginava di andare alla Pubblica amministrazione?
«No, non me l’aspettavo, non pensavo tutto sarebbe avvenuto in questo modo. Avevo capito che nell’aria c’era qualcosa che mi riguardava, sapendo poi com’è fatto Renzi... però Matteo mi ha detto all’ultimo minuto che si trattava di questo ministero».
Lei sa dove mettere mano nella Pubblica amministrazione?
«Innanzitutto dalla scorsa legislatura in commissione Lavoro alla Camera, che si occupa del lavoro privato e pubblico, ho seguito alcuni provvedimenti di Pa. Nel Job Act poi, una parte a cui Renzi tiene molto, riguarda i dirigenti della Pubblica amministrazione. Va affrontata una riforma partendo non da quanto ha detto Brunetta, che i funzionari sono fannulloni, ma al contrario del ruolo dei dirigenti».
Quindi a quale tipo di riforma pensa?
«Intanto ci deve essere una rotazione negli incarichi, e quindi una mobilità. Ma le riforme vanno fatte con cura e cautela. E c’è la piaga del precariato da risolvere, anche se so non ci sono risorse, tuttavia va combattuta. Tutta la sfida del governo è una responsabilità da fare tremare le vene ai polsi».
Repubblica 22.2.14
Renzi-Grillo
Due generazioni allo streaming
di Massimo Recalcati
La diretta streaming Renzi Grillo è materia ghiotta per l’analisi non solo politica ma anche psicopatologica. Per il M5S è stata un’altra occasione persa per fare pesare la propria forza elettorale. Ma, nel tradimento da parte di Grillo del mandato popolare che aveva ricevuto dal suo popolo, dobbiamo leggere qualcosa di più sottile che ci consente di introdurre la lente di ingrandimento della psicoanalisi. Si tratta ancora una volta del rapporto tra le generazioni che è divenuto un tema politico e antropologico centrale del nostro paese. Rispetto alla prima diretta streaming Bersani-M5S la rappresentanza generazionale appare in questo caso invertita: ora è il figlio ad essere presidente incaricato ed è il padre a rappresentare le ragioni dell’opposizione. Anche i turni conversazionali appaiono totalmente invertiti: al monologo disperato e paterno di Bersani si è sostituito quello iracondo e provocatorio di Grillo. Ma in un caso e nell’altro i figli tacciono o sono costretti, come in quest’ultimo caso, a tacere. Sono solo i padri che parlano. Ma con una differenza sostanziale. Nel caso di Bersani si poteva apprezzare tutto lo sforzo di un buon padre di famiglia per convincere i figli adolescenti e oppositivi per principio che la crisi obbligava a ragionare insieme e a congiungere le forze. Avevo a suo tempo paragonato questo tentativo a quello dello Svedese, mitico protagonista diPastorale americana di Philip Roth di fronte al fondamentalismo adolescente della figlia ex terrorista e membro fanatico di una setta religiosa. Con Grillo invece la paternità assume tutt’altra connotazione. La sua voce non cerca dialogo, non riconosce alcuna dignità al suo interlocutore, non parla, ma accusa. Non intende ragionare sui contenuti ma definisce con sdegno l’impurità dell’avversario di cui si dichiara un “nemico fisico”.
In questo contesto di ribaltamento dei ruoli generazionali (il figlio fa la parte del padre, mentre il padre fa la parte del figlio), l’attimo che costituisce il focus di tutta la scena è quando Grillo dà del “ragazzo” al Presidente incaricato. Soffermiamoci un momento su questo passaggio ai miei occhi decisivo. «Sei solo un ragazzo, certe cose non le sai, lascia fare a me che ho quarant’anni di esperienza». Questo, più che la dichiarazione di non essere democratico, che non ha stupito nessuno, deve davvero colpire. Ma come? Un leader che ha saputo mobilitare con forza i giovani restituendo a loro il sogno del cambiamento, si rivolge al Presidente incaricato definendolo con tono chiaramente paternalistico e, insieme, come spesso accade a chi assume toni paternalistici, dispregiativo. Questo è un punto di grande interesse clinico nel dialogo tra i due, o, meglio, nel monologo soverchiante di Grillo. Chi viene chiamato ragazzo è un uomo di 39 anni, padre di tre figli, capace di assumersi responsabilità istituzionali enormi, di guidare una grande città e un grande partito. Chiamarlo “ragazzo” non svela solo una megalomania di fondo del leader del M5S, ma manifesta inconsciamente il fantasma padronale che lo anima profondamente. Questo padre dichiara che non ha tempo da perdere per discutere coi figli. Non solo coi figli d’altri - tale è Matteo Renzi -, il che potrebbe anche essere plausibile, ma nemmeno con i propri. Per questo usa il mandato ricevuto democraticamente dal suo popolo per fare uno show che sarebbe semplicemente fuori luogo se non avesse una ricaduta politica che coinvolge fatalmente le sorti del nostro paese. «Sei solo un ragazzo!», urla il padre orco a chi immagina non sia degno di interloquire con lui. «Sei solo un ragazzo, taci! Lascia che parli Io!». Quante volte abbiamo ascoltato dai nostri pazienti questa rappresentazione sadicamente autoritaria della paternità. “Sei solo un ragazzo!” è sempre il pensiero inconscio (o conscio?) del padre-padrone che nutre nel profondo di se stesso un odio radicale della giovinezza e che mostra con orgoglio di fronte all’entusiasmo di chi comincia una nuova avventura («ti spiego cosa vorremmo fare» prova a dire Matteo Renzi) le medaglie che gli danno il diritto di oscurare la parola del suo giovane interlocutore («Taci! Ho quarant’anni di esperienza più di te!»). Non è questo lo schema che la Scuola di Francoforte ha reperito come fondamento di ogni famiglia autoritaria? Quante volte ci siamo trovati nella nostra vita privata e pubblica di fronte a padri così? Quante volte la forza e l’entusiasmo della giovinezza deve subire l’ostracismo di chi vuole metterli a tacere. Lo ha mostrato bene Michele Serra nel suo ultimo libro Gli sdraiati: il dono più grande che un padre possa dare ai suoi figli è non odiare la giovinezza, è avere fede nella sua forza generativa. Nel caso dell’incontro Renzi-Grillo le parti si invertono bruscamente come accade sempre più frequentemente anche nella nostra società: il figlio si mostra più responsabile del padre che, come ha commentato un simpatizzante del M5S, gioca a fare il bambino in un momento istituzionale che avrebbe richiesto la massima serietà.
Da buon padre-padrone travestito da adolescente rivoltoso, Grillo ha rivelato pubblicamente non solo la sua estraneità nei confronti delle consuetudini e delle regole democratiche, ma il fatto che può fare quello che vuole della volontà del suo stesso popolo costituito, in gran parte, di “ragazzi”. Vogliono che vada a discutere di politica e di programmi con Renzi per provare a dare una mano per salvare il nostro paese? Sono solo dei ragazzi, non hanno quarant’anni di esperienza. Lasciate fare a me. Lasciate che sia io a mostrarvi come me ne fotto della democrazia. La pazienza dolce e frustrata dello Svedese-Bersani lascia qui bruscamente il testimone al padre freudiano dell’orda che nel nome della sua propria Legge si arroga il diritto di fare quello che vuole al di là della Legge. Abbiamo già visto in diverse occasioni questo genere di padri prendere il potere. È allora che la maschera del giustiziere cade rivelando la smorfia orrida del tiranno che paternalisticamente considera i suoi sudditi solo dei ragazzi da disciplinare e da rieducare.
l’Unità 22.2.14
Rappresentanza, Fiom vuole «un referendum vero»
di Massimo Franchi
La proposta al Direttivo della Cgil di un referendum sul Testo unico sulla rappresentanza da tenere fra i soli iscritti delle categorie coinvolte dall’accordo firmato da Confindustria e un documento di richieste al governo Renzi, col quale l’unico punto di contatto pare essere la legge sulla stessa questione rappresentanza. Maurizio Landini affronta una doppia partita: quella interna alla Cgil, delicatissima, e quella esterna, per far cambiare politica economica e industriale al nuovo governo.
Il clima di tensione si respira anche in Fiom dove al Comitato centrale di oggi Landini farà approvare i paletti sulla consultazione che si terrà intorno al 20 marzo. Considerando “un passo avanti” la decisione della segreteria confederale di “cambiare idea” e “riaprire la partita sull’accordo” inviso alla Fiom per il rischio sanzioni per i delegati sindacali e per la perdita di autonomia delle categorie, Landini chiede “una consultazione vera e certificata, che coinvolga i lavoratori delle imprese aderenti a Confindustria, precedute da assemblee in cui il “Sì” e il “No” all’accordo abbiano pari spazio e dignità”, “un referendum da tenersi in 2 o 3 giorni con urne aperte tutte nello stesso momento e spoglio certificato da commissioni elettorali ad hoc”. Se le richieste della Fiom non verranno accettate, è probabile che oggi il Comitato centrale decida di dare indicazione ai propri iscritti di non partecipare al voto. Il tutto – comunque – ribadendo che “la Fiom non lascerà mai la Cgil, perché è casa nostra”.
La decisione sulle modalità della consultazione avverrà nel Direttivo Cgil di mercoledì. L’orientamento della segretaria è di proporre di far tenere assemblee unitarie uniche con Cisl e Uil per spiegare l’accordo e di far votare gli iscritti Cgil di tutte le categorie attive, ma su collegi distinti: quelle afferenti a Confindustria (un bacino di 6,5 milioni di lavoratori con i metalmeccanici che ne coprono circa un milione e mezzo), quelle delle altre organizzazioni (ReteImprese, Abi, Confservizi che ha sottoscritto l’accordo qualche giorno fa). Un metodo utilizzato anche per la consultazione per l’accordo del 28 giugno, nella quale la Fiom fu sconfitta, sebbene continui a considerare poco trasparente quel voto. Una partita complicata. Che avviene proprio in mezzo ad un percorso congressuale nel quale Camusso e Landini avevano firmato la stessa mozione.
Anche Landini, comunque, deve fare i conti con la sua minoranza interna riformista. Ieri 29 membri hanno inviato una lettera per spiegare che non parteciperanno al Comitato centrale perché “continuano a ritenere che la decisione sulla consultazione spetti alla confederazione”. Landini ha presentato anche un documento di richieste al governo. Sette punti (piano per la mobilità sostenibile, efficentamento energetico, banda larga e informatizzazione Pa, riqualificazione settori manufatturieri, piano straordinario di mantenzione del territorio, convocazione di un tavolo Fiat, ridiscussione del piano di privatizzazioni) che paiono lontani dalle politiche di Renzi. Su altri due pilastri del Jobs act le distanze sono notevoli: la Fiom dice sì al reddito minimo, ma non come alternativa alla Cassa integrazione, “che va allargata a tutti”, sostiene Landini. E sul contratto unico la Fiom propone di allungare i tempi della prova, ma non vuole i tre anni senza articolo 18 voluti da Renzi.
il Fatto 22.2.14
“Pronti a boicottare il referendum anti-Fiom”
L’offensiva di Landini contro la Camusso
Il leader delle tute blu Cgil annuncia una manifestazione per l'occupazione
di Salvatore Cannavò
1 Se la Cgil non invierà un segnale di distensione, lo strappo con la Fiom potrebbe essere definitivo. Maurizio Landini, il segretario dei metalmeccanici, infatti, riunisce oggi il Comitato Centrale per proporre un orientamento netto in merito alla consultazione sull’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio: o si vota con regole chiare e democratiche oppure la Fiom non ci sta. E il non starci potrebbe significare anche la non partecipazione alla consultazione stessa, oltre che il non rispetto dei suoi risultati. “Se si dovesse realizzare un plebiscito per il segretario generale, peraltro con regole non chiare, noi non ci stiamo”.
Ieri mattina, in una conferenza stampa, il leader Fiom è stato molto preciso: “Noi votiamo, e rispetteremo il voto, solo se garantirà il rispetto di regole democratiche minime”. E queste regole sono sostanzialmente tre: “Che votino solo coloro che sono interessati all'accordo, i lavoratori di aziende che fanno parte di Confindustria; che nelle assemblee si possano illustrare con pari dignità entrambe le posizioni; che ci sia un voto realmente democratico e, soprattutto, certificato da commissioni paritarie”.
LANDINI HA SPIEGATO che di queste cose avrebbe voluto parlare direttamente con la segreteria della Cgil prima di oggi. “Abbiamo dato la disponibilità per qualsiasi giorno, compreso il sabato e la domenica, ma abbiamo avuto una risposta negativa”. Susanna Camusso ha comunicato alla Fiom che la riunione congiunta si sarebbe potuta tenere solo dopo il 26 febbraio, giorno in cui il Direttivo nazionale della Cgil sarà chiamato a decidere sulle modalità della consultazione.
La palla, dunque, passa di nuovo alla Cgil dove nei giorni scorsi si sono tenute diverse riunioni per venire a capo di questo pasticcio, e dove Susanna Camusso dovrebbe riunire gli uomini a lei più vicini prima del direttivo nazionale del
26. La proposta di consultazione avanzata dalla segreteria, al momento, sarebbe quella di far votare gli iscritti interessati all’accordo ma anche le categorie a cui l'accordo potrebbe essere esteso. Un meccanismo che ieri Landini ha definito “poco intelligente” e destinato “ad aumentare gli elementi di conflitto, non a ridurli”. Lo scontro, dunque, non sembra ricomponibile. In Cgil nessuno crede che Camusso sia disposta a fare una marcia indietro anche perché, allo stesso tempo, deve gestire il rapporto con Cisl e Uil che, in questo momento, si dicono disorientati. Anzi, in alcuni ambienti della Cisl si pensa che quell’accordo, di fatto, sia ormai carta straccia e che non possa più venire applicato. Landini, in ogni caso, non lascia spazio a ipotesi di scissione. “Non siamo ospiti in casa d'altri” scandisce, “la Cgil è la nostra casa, siamo noi”. Una dichiarazione ostentata che, letta bene, delinea una condizione da separati in casa. Ad andare via dalla Cgil non ci pensa nessuno, “semmai ci caccino loro” si dice nei corridoi di Corso Trieste. Ma l'ipotesi di recuperare per intero tutta l’autonomia possibile è invece ormai apertamente contemplata. Anche perché, nel corso del congresso, la minoranza che fa capo alla segreteria Camusso, si è di fatto divisa. Una parte, ad esempio la Fiom toscana, si è schierata con Landini e la lettera inviata ieri dagli esponenti “camussiani” della Fiom con cui si annuncia che la componente oggi non parteciperà al comitato centrale, vede molte defezioni. In questo senso va dunque letta l’ultima dichiarazione di Landini, la proposta di fare una manifestazione a marzo, non solo della Fiom ma anche di studenti, precari e tutti quelli che hanno qualcosa da dire al nuovo governo”. La prima manifestazione dell’era Renzi.
Repubblica 22.2.14
Brescia
Le assoluzioni cancellate
di Benedetta Tobagi
IL 28 maggio 1974, a Brescia, alle 10.12, l’urlo bestiale di un’esplosione interruppe il comizio del sindacalista Franco Castrezzati che parlava alle migliaia di convenuti in piazza della Loggia, nonostante la pioggia, per manifestare pacificamente contro l’escalation di violenze di marca neofascista che laceravano la città e tutto il nord Italia da anni.
Una bomba posta da mani ignote uccise Livia, Alberto, Clem, Giulietta, Luigi, Vittorio, Euplo, Bartolomeo (restituiamo per una volta alle vittime la semplice umanità dei loro nomi) e ferì un centinaio di altre persone. Quasi quarant’anni dopo, giovedì mattina, nella mastodontica architettura umbertina del “palazzaccio” della Cassazione romana - pare fatto apposta per farti sentire un moscerino davanti al Moloch della Giustizia -entravano Manlio Milani, sopravvissuto, che in piazza perse la moglie Livia, Giorgio Trebeschi, il figlio di Alberto e Clem, giovani insegnanti impegnati nel sindacato, reso orfano a un anno e mezzo, con alcuni dei feriti e una squadra di avvocati di parte civile, in attesa dell’undicesimo giudizio. Li ho visti entrare tesi, curvi come un moderno Sisifo sotto il macigno del pensiero che il terzo grado del terzo processo per l’eccidio (che in appello, nell’aprile 2012, aveva visto assolti tutti gli imputati) poteva calare come una lastra tombale su tutta la vicenda, consegnandola all’impunità. Ma ieri pomeriggio ne sono usciti con passo più lieve, piangendo, per una volta, lacrime di emozione. La Quinta sezione penale ha annullato con rinvio due assoluzioni, due posizioni chiave: torneranno sotto processo Carlo Maria Maggi - questo il dato più clamoroso - leader indiscusso per il nord est della struttura clandestina gruppo neonazista Ordine Nuovo, che aveva depositi di armi ed esplosivi e propugnava un programma di stragi e attentati per sovvertire l’ordine democratico, l’uomo che dopo la bomba del 28 maggio disse ai suoi accoliti «Brescia non deve rimanere un fatto isolato», e uno dei suoi giovani scagnozzi, Maurizio Tramonte, intraneo al gruppo e al contempo informatore del Sid.
Dovremmo condividere tutti il sussulto di speranza che li ha rianimati. La Cassazione, ieri, ha risposto a tutti coloro che s’interrogano sul significato di processi celebrati a decenni di distanza dal fatto, a tutti coloro che si arrendono, scettici, ai dispositivi delle sentenze d’assoluzione sui cosiddetti “misteri d’Italia”, senza andare a leggere le centinaia di pagine di motivazioni che li accompagnano. La Cassazione ha riaperto, in parte, i giochi, perché le motivazioni dell’appello del 2012 contenevano fatti pesanti come macigni, come richiamato dal procuratore generale d’udienza Vito d’Ambrosio in una requisitoria dura e limpida. L’esplosivo scoppiato in piazza della Loggia veniva dallo scantinato della trattoria veneziana “Allo scalinetto”, a due passi da San Marco, il deposito di Maggi; l’ordigno fu predisposto e trasportato in un covo veronese, da cui partì alla volta di Brescia, passando per Milano, ad opera di due sottoposti del Maggi, entrambi defunti, l’ordinovista Marcello Soffiati e l’armiere del gruppo, Carlo Digilio, già condannato per analogo ruolo svolto nell’organizzazione della strage di piazza Fontana. Questi fatti, insieme ai proclami stragisti di Maggi, impegnato, al tempo della bomba, nella riorganizzazione clandestina delle sue truppe (Ordine Nuovo era stato messo fuori legge nel 1973, in applicazione della “legge Scelba”, per ricostituzione del partito fascista), alle note informative dei servizi segreti, a lungo occultate (a causa di colpevoli depistaggi del reparto di controspionaggio del Sid capitanato da Gian Adelio Maletti, anche lui già condannato nei processi per la strage di piazza Fontana, per aver aiutato la fuga di alcuni imputati) entrate nel processo solo negli anni Novanta, alle brucianti intercettazioni delle conversazioni tra due reduci della destra eversiva(risalenti al 1995), allarmati alla notizia che Digilio aveva cominciato a collaborare con la giustizia, rappresentano una mole di indizi gravi, precisi e concordanti a fronte di cui l’assoluzione di Maggi - questo fanno intendere i giudici di legittimità accogliendo i ricorsi - non risulta sufficientemente motivata. Come pure difetta la motivazione dell’assoluzione di Tramonte. Imputato di concorso in strage, era stato assolto come semplice “infiltrato”: andrà rivalutato il ruolo da lui svolto nella preparazione dell’attentato, alla luce delle scottanti informazioni che forniva in tempo reale al Sid col nome in codice Tritone. I gravi fatti contenuti nella sentenza d’appello del 2012, quindi, non finiscono relegati nel deposito - pur importante - della verità storica. E forse si arriverà, fatto inedito, alla condanna per strage di un dirigente apicale di Ordine Nuovo. Il nuovo giudizio d’appello potrebbe arrivare prima della fine dell’anno.
È un verdetto importante, quello della Cassazione, per chi non si è mai rassegnato al fatto che i “plurimi atti abusivi” consumati dall’allora capitano dei Carabinieri Francesco Delfino nel corso delle indagini per il primo processo, e i depistaggi del Sid, fossero riusciti a garantire piena impunità agli stragisti. Maggi ha più di ottant’anni, non dispone delle ingenti risorse del miliardario Delfo Zorzi, che vive da anni in Giappone e ieri è uscito per sempre dal processo. Chissà che non decida, a fronte del nuovo rinvio a giudizio, di collaborare, finalmente, con la giustizia. Vogliono sapere la verità, le vittime, e i cittadini, non certo accanirsi contro un anziano medico in pensione. Ed è bello poter scrivere, oggi, che possiamo ancora sperare in una parola di giustizia degli uomini, per gli uomini, per i morti innocenti di piazza della Loggia.
il Fatto 22.2.14
La siringa torna a uccidere i ragazzi dello Stivale
Quattordici morti di overdose nel giro di pochi giorni: quattro a Roma, tre a Torino, uno in Sardegna, due in Emilia, quattro nelle Marche. Corpi emaciati ritrovati con la siringa ancora nel braccio, uccisi da una partita di eroina tagliata male. Poi è stata la volta dei maxi sequestri: martedì ad Ancona cinque chili di “roba” a bordo di una motonave proveniente dalla Grecia che un cittadino bulgaro stava tentando di introdurre in Italia. Mercoledì a Pescara quattro chili e mezzo in casa di una donna rom. Ieri a Palermo, un chilo e mezzo nel bagagliaio di un’auto. Sembrano storie retrò, di quelle raccontate al telegiornale su una vecchia tivù a tubo catodico. Invece sono di questi giorni. Anzi, di tutti i giorni. Ogni tanto qualcuno se ne accorge, le mette in fila e lancia un allarme, sempre lo stesso: è tornata l’eroina. “Non è vero, l’eroina non se n’è mai andata – spiega Raffaele Lovaste, direttore dei Servizi tossicodipendenti del Trentino –. La gente però non se ne accorge perché la tossicodipendenza è diventata un fatto privato”. Non è così per le forze dell’ordine: il loro lavoro è accorgersene. L’anno scorso a Roma la polizia ha sequestrato il 10 per cento di eroina in più rispetto al 2012. Nella Capitale sono anche tornate, quelle sì, le vecchie piazze di spaccio a cielo aperto: San Basilio, Tuscolano, stazione Termini, Centocelle.
“GLI SPACCIATORI DI EROINA li riconosci perché, a differenza degli altri, sono quasi tutti italiani. Tossicodipendenti che campano vendendo qualche dose”, spiega un inquirente. E magari con qualche reato: rapine nei negozi, furti di pneumatici, scippi. L’Osservatorio sulle dipendenze tempo fa aveva lanciato l’allarme: con la crisi i consumi si impenneranno. La previsione era ragionevole: un buco costa poco, bastano dieci euro. Tutt’altri prezzi rispetto alla cocaina. Un boom vero e proprio non c’è stato ma – secondo l’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa – nell’ultimo decennio i consumatori tra i 15 e i 34 anni sono aumentati di circa il 20 per cento. I due terzi hanno usato almeno altre tre sostanze illecite nel corso dell’ultimo mese: di solito cocaina, metanfetamine e cannabis. È questo il tratto distintivo dei nuovi consumatori: “Non sono tossicodipendenti nel senso classico. Magari prendono l’eroina una volta alla settimana per farsi passare il down delle altre droghe”, spiega la ricercatrice Sabrina Molinaro. “Siamo abituati a un mondo in cui c’era una forte distinzione tra le sostanze: il cocainomane che si godeva la vita, l’eroinomane come sinonimo di marginalizzazione e controcultura. Nelle nuove generazioni non è più così: si prende di tutto, senza fidelizzarsi a nessun prodotto. Almeno all’inizio”, spiega Riccardo Gatti, direttore del dipartimento dipendenze dell’Asl di Milano. Anche il mercato interno ai consumatori di eroina si sta differenziando: brown per i vecchi tossicodipendenti e gli studenti, bianca per i clienti con più capacità di spesa. In Italia gli eroinomani sono circa 160 mila “ma – avverte Molinaro – sono dati sottostimati perché si basano su auto-dichiarazioni”. Quello che preoccupa di più è che tra i giovanissimi i consumatori sono in crescita: sono 36 mila gli studenti delle superiori che l’hanno usata almeno una volta e 23 mila negli ultimi 30 giorni. Il processo di dipendenza è più lento rispetto al passato perché la campagna contro l’Aids di fine anni 80 ha funzionato: i nuovi tossici l’eroina la fumano o, eventualmente, la sniffano. Non si bucano più. E la dipendenza arriva un po’ più tardi. Ma arriva. “Una mattina al Sert di Trento sono rimasta sconcertata – racconta Molinaro –. C’era una coda di ragazzini e ragazzine alla moda. Ho chiesto a un operatore cosa facessero lì. Mi hanno spiegato che a causa dei sequestri le piazze della città erano rimaste 'a secco'. Erano al Sert, prima della scuola, a cercare una dose di metadone. La settimana dopo, con l’arrivo di un nuovo carico, avrebbero smesso di frequentarlo”. Almeno per un po’.
l’Unità 22.2.14
L’identità ucraina e gli errori dell’Occidente
di Paolo Soldini
FORSE PER AIUTARE DAVVERO GLI UCRAINI LA PRIMA COSA DA FARE SAREBBE QUELLA DI RAGIONARE SENZA SCHEMI E SENZA PRECONCETTI. Nessuno nega le responsabilità che il regime di Viktor Yanukovich si è preso reprimendo nel sangue una protesta che, all’inizio, era davvero pacifica e prevalentemente animata da pretese ragionevoli. Nessuno ignora le colpe della Russia di Vladimir Putin, né la pericolosità delle sue mene per risuscitare a spese dell’«estero vicino» il sistema di relazioni che fu proprio dell’ex impero sovietico. Nessuno, però, dovrebbe contentarsi di denunciare le «contraddizioni», l’«inerzia» e (fino al massacro) il «disinteresse» dell’Europa e di tutto l’Occidente, come molti fanno in questi giorni, senza approfondire sostanza e ragioni di quell’atteggiamento colpevole. Non è vero che l’Unione europea sia stata «assente» nella crisi ucraina. L’Unione c’è stata, ma ha sbagliato. E lo stesso vale per gli Stati Uniti.
Prendiamo due momenti della storia di questo «errore». Uno è molto recente: alla fine del novembre scorso il vertice europeo di Vilnius avrebbe dovuto sancire l’associazione dell’Ucraina all’Unione. La scadenza saltò perché Yanukovich rifiutò di firmare. Per le pressioni russe, si disse, e per il prestito di 15 miliardi di dollari promesso da Mosca. È da quel rifiuto che partì la protesta, riprendendo, aggiornati, gli slogan antirussi della «rivoluzione arancione» del 2004. Ma che cosa offriva a Kiev l’Unione europea? Lo status di Paese «associato» è un istituto che prevede aperture commerciali, assicurazioni e garanzie di standard economici, giuridici e di rispetto dei diritti umani compatibili con quelli esistenti nell’Unione, ed è (o dovrebbe essere) il primo passo verso l’adesione piena e legittima. Ma tutti i leader europei pensavano, e alcuni lo dicevano apertamente, che per Kiev a quel primo passo non ne sarebbero seguiti altri. L’Ucraina è troppo distante dagli standard europei, l’economia è allo sfascio e, soprattutto, è dominata da una classe di oligarchi scaturita dal crollo dell’Unione sovietica, sopravvissuta alla rivoluzione e i cui interessi erano potentemente rappresentati dal regime (non solo quello attuale, ma anche dal precedente). L’offerta di associazione era un po’ una farsa. O meglio: una commedia recitata seriamente solo per impressionare gli spettatori russi. Tant’è che - si dice e nessuno finora ha smentito - furono proprio le autorità di Bruxelles a suggerire al Fondo Monetario, cui i governanti di Kiev avevano chiesto il prestito che avrebbero poi avuto da Putin, di adottare una linea molto pesante in materia di garanzie. I criteri del piano sono ancora a disposizione tra i documenti del FmiI a Washington: al loro confronto, le nequizie della trojka in Grecia paiono caramelle alla menta. Lo scenario secondo il quale l’Ucraina stava «entrando» nella Ue, ma Yanukovich e i russi lo hanno impedito è falso. Eppure è quello per cui centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade e per cui molti, troppi, sono morti.
L’altro errore decisivo nella storia dell’atteggiamento dell’Occidente verso l’Ucraina, la Russia e le regioni del suo ex impero è ben più antico. Risale agli anni successivi all’unificazione tedesca e alla risistemazione che ne seguì del sistema delle relazioni europee. E qui a sbagliare non furono soltanto gli europei ma anche, e soprattutto, gli americani. Nei negoziati che avrebbero portato all’unificazione fu assicurato a Mosca che la Nato non si sarebbe allargata ad est: neppure nella ex Germania est sarebbero state schierate armi offensive. Pochi anni dopo tutti gli Stati al di là dei confini occidentali dell’ex Urss, più le tre repubbliche baltiche che ne avevano fatto parte erano dentro l’Alleanza. Ciò corrispondeva alle volontà popolari in quei Paesi, che non si erano liberati dall’incubo del Grande Fratello, ed era perciò perfettamente legittimo nonostante le promesse fatte a suo tempo, ma l’insistenza con cui a Washington il presidente e l’establishment repubblicano insistevano nelle distinzioni tra «Europa vecchia», cattiva, ed «Europa giovane», buona, configuravano una sorta di special relationship tra americani e est-europei che culminò nei piani di scudi spaziali estesi alla Polonia e alla Repubblica cèca e che è sostanzialmente condivisa dall’attuale amministrazione democratica.
Qualcuno può onestamente pensare che i russi non si sarebbero preoccupati e non avrebbero studiato contromisure? Anche chi non ha la benché minima simpatia per Vladimir Putin può comprendere la preoccupazione con cui l’autocrate guardò al vertice Nato di Bucarest dell’aprile 2008, in cui su richiesta di Washington si doveva discutere della possibile adesione dell’Ucraina e della Georgia. Non se ne fece niente perché alcuni governi europei, quello tedesco in testa, rifiutarono di seguire gli americani. Ma a Mosca ancora dev’essere ben vivo lo shock del pericolo corso.
Il riconoscimento degli errori dell’Occidente dovrebbe spingere a considerare più oggettivamente le ragioni di chi invita a diffidare degli entusiasmi pro Unione europea e pro Usa di un movimento in cui accanto a sacrosante domande di libertà non mancano spinte nazionaliste e fascisteggianti, tanto antirusse quanto anti polacche e antisemite e del tutto estranee ai valori democratici dell’Europa e degli Stati Uniti, a cominciare dalla non violenza. L’Ucraina è un paese dall’identità complicata e intimamente confusa, in larghe parti, con quella russa. Le semplificazioni eccessive potrebbero sfociare nella dissoluzione del Paese. Con i rischi di instabilità che ne deriverebbero.
il Fatto 22.2.14
Quel che sappiamo dell’Ucraina
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, non ho capito perché l’Europa vuole inglobare l’Ucraina, se sarà annessione, colonizzazione o semplice acquisizione di “spazio vitale”. Mi è oscuro a chi serve, chi lo ha deciso, e perché al suo posto non è stato chiesto, ad esempio, l’ingresso della Tunisia o della Palestina e se questo impulso espansivo avrà fine. Certamente ci saranno ripercussioni nel mondo del lavoro e dell’economia. Chi andrà a spiegare ai futuri disoccupati che il loro posto di lavoro è stato dislocato in Ucraina? Nino
LA LETTERA è importante perché dimostra quanto sia lontana l’Europa dalla maggior parte di noi, che pure siamo cittadini competenti e informati. Infatti parole come “annessione”, “colonizzazione”, “spazio vitale” non hanno niente a che fare con ciò che è o vorrebbe essere l’Unione europea. È chiaro che trattandosi della realizzazione – lenta, imperfetta ma pur sempre un grande fatto storico – di un sogno nato contro il fascismo, la guerra e l’occupazione nazista, l’Unione è un processo volontario. Chi non ne è già parte può chiedere di esserlo, e questo è il caso dell’Ucraina, ma anche la ragione della violenta rivolta in quel Paese. Una parte, anche per ragioni storiche e culturali si sente attratta dalla Russia. Una parte, per ragioni dello stesso tipo ma opposte, vuole fuggirne e l’unico rifugio che potrebbe salvarla è l'Europa. Dunque non è (e non poteva essere) l’Europa che va in cerca di un nuovo membro dell’Unione, ma il contrario. E il dramma consiste nel trauma provocato da questa scelta in una parte di quel Paese. Ovvero il contrario: tutto era deciso per un’adesione all’Europa, quando un nuovo governo filo-russo ha cambiato tutto, provocando l’insurrezione. Viene in mente, leggendo la lettera, la famosa leggenda metropolitana francese (che ha provocato in quel Paese un voto contro l’Europa): quella dell’idraulico polacco che, con la nuova libertà di circolazione e di lavoro dentro la Ue, avrebbe spossessato l’idraulico francese. Il fatto è che non sono mai i nuovi venuti a portar via il lavoro agli operai dei singoli Paesi membri. Sono gli imprenditori dei Paesi membri che si portano via le fabbriche. È vero, l’Ucraina potrà essere una buona scusa. E infatti la Fiat ha già dimostrato che in Polonia si pagano gli operai molto meno che a Termini Imerese. E lo stesso è avvenuto per la Serbia. Però, prima dell’Unione europea e della disponibilità di Paesi membri dell’Unione meno costosi di altri, le aziende animate da grande ansia del risparmio e scarso legame con il proprio Paese, se ne andavano in Corea, a Taiwan, in Bangladesh, in India. Dunque, ben altre cose bisognerà saper spiegare ai futuri disoccupati, cominciando dalla strana politica delle banche che non fanno credito, e concludendo con la storia di grandissime imprese simbolo come la Fiat che se ne vanno per il mondo senza timore di squilibrare l’Italia industriale di cui, fino a poco tempo fa, erano il simbolo più conosciuto e riconosciuto. In conclusione, sembra evidente che l’Ucraina sarà la benvenuta nell’Unione, se questo risolverà il tragico problema della sua spaccatura e la libererà dalla Russia. E non porterà altri problemi, oltre a quelli, già abbastanza gravi, che già sono esplosi.
Repubblica 22.2.14
La piazza non crede alla tregua
Kiev, nella piazza che non cede intesa con Yanukovich ma niente pace
“ Deve andarsene”. Il Parlamento apre la via al rilascio della Tymoshenko
di Bernardo Valli
KIEV. LE SMORFIE prevalevano sui sorrisi. La rivolta non ha perduto la sua grinta. Continua. È quel che ho notato nel primo pomeriggio aggirandomi tra le barricate costruite a ridosso dei palazzi del potere e per il momento destinate a restarci.
L’ACCORDO firmato di primo mattino per mettere fine all’insurrezione popolare non ha suscitato emozioni. È apparsa roba per diplomatici, per ministri di passaggio, per presidenti come Viktor Yanukovich, che invece di programmare elezioni in dicembre, come ha fatto, dovrebbe essere processato, non tra dieci mesi, subito. L’idea di sorbirselo ancora fino alla fine dell’anno non passa neanche per la testa ai marcantoni armati di spranghe di ferro, con elmetti da minatore e gli sguardi sempre sul chi vive per non lasciarsi sorprendere dai poliziotti annidati come cecchini dietro le colonne dell’accademia di musica. Loro vogliono le dimissioni di Yanukovich e l’accordo gli concede invece tempo. Questi umori mi sono sembrati evidenti. Alcune voci si sono persino alzate per augurare a Yanukovich una fine simile a quella di Gheddafi. In un’insurrezione ci sono sempre note stonate. La notizia dell’accordo non ha smosso, per ora, di un centimetro le barricate di piazza dell’Indipendenza e dintorni.
Soltanto la promessa amnistia per i fatti degli ultimi mesi è stata accolta con soddisfazione. In particolare il provvedimento che consentirebbe a Julia Tymoshenko, l’ex primo ministro e capo dell’opposizione, di non scontare i sette anni cui è stata condannata. Non ha lasciato indifferenti neppure il fatto che il Parlamento abbia messo all’ordine del giorno modifiche alla Costituzione al fine di avvicinarla a quella del 2004, votata ai tempi della “rivoluzione arancione”. Essa limitava i poteri al presidente della Repubblica, e per questo non piaceva neppure a Vladimir Putin, indispettito dall’idea che l’Ucraina, riducendo le prerogative del Capo dello Stato, mettesse in risalto il superpotere in vigore al Cremlino. Per rendere concrete le suggestioni contenute nell’accordo ci vorrà del tempo.
L’inviato di Putin a Kiev non se ne è andato sbattendo la porta, perché Vladimir Lukin è un diplomatico garbato, di lunga esperienza, ma non è stato politicamente garbato da parte sua non firmare l’intesa raggiunta nella notte dai ministri degli esteri europei, il tedesco, il francese e il polacco, dal presidente Yanukovich, e da tre oppositori moderati, Vitali Klitchko, Arsenj Iatseniuk e Oleg Tyagnibok. Lukin ha rifiutato di sottoscrivere l’intesa raggiunta con tanta fatica perché l’ha giudicata inutile, e non adeguata alla situazione, che a suo parere resterà quella che é. Il comportamento dell’inviato di Putin suona come un duro rimprovero diretto all’alleato Yanukovich. Al quale è già stato rivolto un severo invito, di non essere «un tappetino in cui tutti si puliscono le scarpe». Gli amici russi vorrebbero che il presidente ucraino si dimostrasse più deciso nel riportare l’ordine nel paese. Le sue esitazioni sono interpretate come una mancanza di coraggio. I capi della rivolta lo giudicano invece responsabile della repressione sanguinosa, che giovedì ha fatto almeno settanta morti.
Gli oppositori moderati cercano in queste ore di convincere ad aderire all’accordo i gruppi radicali, ultranazionalisti, e alcuni di estrema destra, che controllano i punti critici del bastione creato nel cuore della capitale. È un’impresa difficile. Vitali Klitchko, il pugile campione del mondo, personaggio popolare, è stato fischiato e gli èstato rimproverato di avere stretto la mano a Yanukovich. Dall’alto di una barricata un giovane ha gridato: «Dì al presidente che se non si dimette lo andiamo a prendere». In tre mesi si è creata una città nella città. Migliaia di uomini e donne sfilano tra le tende e le barricate per partecipare a una rivolta che a tratti assume l’aspetto di una secessione. Arrivano comitive dalle province occidentali con viveri e materiale utile alla vita nel grande accampamento. Ci si imbatte anche in gruppi di ufficiali di polizia che hanno lasciato i loro distretti con l’inten-zione di interporsi tra ribelli e forze dell’ordine nel caso di nuovi confronti, dopo quello particolarmente sanguinoso di giovedì. In sostanza dei poliziotti sono pronti a far fronte ad altri poliziotti. Quelli che ho incontrato non erano armati, ma erano in divisa ed erano inquadrati da gruppi radicali, dotati di spranghe di ferro e bastoni. Capita che da quei gruppi, presenti sulle barricate, partano bombe molotov o colpi d’arma da fuoco, stando a quanto denuncia il governo.
C’è una determinazione che le vaghe, incerte promesse con-tenute nell’accordo possono soltanto scalfire. Il rifiuto a sottoscriverlo dell’inviato di Putin, sia pure espresso con un certo tatto diplomatico, non migliora certo l’atmosfera. Un sondaggio spacca la società ucraina in due come una mela: 47 per cento della popolazione si dichiara in favore dei ribelli di piazza Indipendenza, e con quelli che manifestano in molte province, in particolare quelle occidentali, e il 46 per cento si dice invece filorusso. Ma in caso di elezioni presidenziali (e l’accordo le prevede per la fine dell’anno) Viktor Yanukovich sarebbe confermato alla presidenza.
Le difficoltà economiche pesano, spesso sono determinanti. Negli ultimi anni quasi due milioni di uomini e donne hanno abbandonato l’Ucraina. Parte delle scelte in favore di un’intesa con la Russia sono state più pragmatiche che ideologiche. Per un paese sul costante orlo del fallimento la promessa di quindici miliardi di dollari, accompagnata dal ribasso di un terzo delle forniture di gas, è stata irresistibile. Anche perché l’Unione Europea ha offerto un aiuto finanziario assai più modesto, e sottoposto a condizioni dettate dal Fondo monetario internazionale. Nel seguire la crisi ucraina bisogna sempre tener conto dell’aspetto economico, non sempre evidente se la si segue dalle barricate.
Repubblica 22.2.14
La posta in palio in Ucraina
di Timothy Garton Ash
Oltre le barricate in fiamme e i corpi riversi per strada, cinque sono le cose importanti in palio nel dramma insurrezionale in corso in Ucraina.
1) Il futuro dell’Ucraina come Stato-nazione indipendente.
Una situazione di gravi violenze all’interno di uno Stato, che ancora non sfocia in guerra civile aperta, può imboccare due strade drasticamente differenti: lacerare lo Stato, come è successo in Siria e nell’ex Jugoslavia, oppure, se la gente si unisce per fare un passo indietro prima del baratro, saldare insieme uno Stato nazione, come in Sudafrica. Lo Stato-nazione è quello in cui lo Stato crea una comune identità nazionale civica, invece che cementare un’unica identità nazionale etnica.
Una delle ragioni del caos di questi ultimi mesi in Ucraina è che l’Ucraina, nonostante sia uno Stato indipendente da più di vent’anni, non è né uno Stato pienamente funzionante né una nazione pienamente formata. Usare l’espressione “le forze della legge e dell’ordine” per descrivere quello che è successo in Ucraina la scorsa settimana è come dire “tè e sandwich” per descrivere un pasto a base di vodka scadente, carne stopposa e sangue. Il presidente Viktor Yanukovich è un delinquente, ma è anche un delinquente inefficace: delle forze di sicurezza efficienti e disciplinate non ammazzerebbero i manifestanti sparando quasi a casaccio un minuto prima, per poi abbandonare la piazza nelle loro mani un minuto dopo.
Anche l’amministrazione, il Parlamento e l’economia non hanno nulla a che vedere con quelli di un normale Stato europeo. Sono infiltrati e manipolati in larghissima misura da oligarchi, cricche di potere e familiari del presidente (“la Famiglia”). Per fare solo un esempio, secondo l’edizione ucraina della rivista Forbes,il figlio di Yanukovich, un dentista, nel gennaio del 2014 ha “vinto” la metà di tutti gli appalti pubblici: probabilmente la più grande estrazione dentaria della storia.
È questo, insieme alla brutalità delle milizie, la cosa che fa imbestialire tanti ucraini e che ha spinto alcuni di loro a dare la vita per un cambiamento. Ma se l’accordo proposto ieri - un governo di coalizione, una riforma costituzionale per restituire maggiori poteri al Parlamento e la convocazione di elezioni presidenziali prima della fine dell’anno - riuscirà ad attecchire, allora questi giorni sanguinosi potrebbero ancora passare alla storia come un capitolo decisivo sulla strada della creazione di uno Stato-nazione indipendente. In caso contrario, all’orizzonte incombe una disintegrazione ancora maggiore.
2) Il futuro della Russia come Stato-nazione (o come impero).Con l’Ucraina, la Russia è ancora un impero; senza l’Ucraina, la Russia stessa ha l’occasione di diventare uno Stato-nazione. Il futuro dell’Ucraina per l’identità nazionale russa gioca un ruolo più centrale di quello che gioca il futuro della Scozia per l’Inghilterra. Secoli fa, le persone che vivevano nel territorio che oggi è l’Ucraina erano i russi originari. In questo secolo, le persone che si autodefiniscono ucraini plasmeranno il futuro di quella che oggi è la Russia.
3) Il futuro di Vladimir Putin. Konstantin von Eggert, un giornalista russo indipendente, una volta ha osservato che l’evento più importante della politica russa nell’ultimo decennio non era avvenuto in Russia, ma in Ucraina: la Rivoluzione Arancione del 2004. Il regime di Vladimir Putin vide la Rivoluzione Arancione come l’ultima e la più pericolosa di tutte le rivoluzioni di velluto o di vari colori cominciate nell’Europa centrale quindici anni prima. E i “tecnologi della politica” di Putin svilupparono tecniche per contrastarla, con grande abilità e successo. Fra queste tecniche non mancava la violenza, naturalmente, ma c’erano anche soldi a palate, «organizzazioni non governative organizzate dal governo» e una manipolazione dei media che al confronto lo spin doctor di Tony Blair, Alistair Campbell, sembra l’arcivescovo di Canterbury. Quando Putin ha surclassato l’offerta di associazione dell’Ue all’Ucraina, ricca di regole ma povera di liquidi, mettendo sul piatto la bellezza di 15 miliardi di dollari, un famoso “tecnologo della politica” russo, Marat Gelman, ha twittato: «L’installazione di Maidan venduta per 15 miliardi: la più costosa opera d’arte della storia». (Maidan è la piazza dell’Indipendenza di Kiev, epicentro delle proteste.) Ma le cose non sono andate secondo i piani e un paio di settimane fa Putin e Yanukovich si sono incontrati a Sochi: lunedì scorso la Russia ha sbloccato un’altra tranche dei 15 miliardi promessi e martedì le milizie di Yanukovich hanno cominciato a usare proiettili veri contro una piazza sempre più disperata e a volte violenta. Il fatto che Putin fosse pronto ad accettare il rischio di un contraccolpo di immagine negativo durante i suoi preziosi giochi olimpici di Sochi dimostra quanto sia vitale per lui l’Ucraina. Ora, messo di fronte alla situazione sul terreno, ha operato una ritirata tattica, ma non ci illudiamo che smetterà di intromettersi.
4) Il futuro dell’Europa come potenza strategica. Proprio come l’Ucraina non è semplicisticamente spaccata tra Est e Ovest, così la questione geopolitica non è se l’Ucraina si unirà all’Europa oppure alla Russia. La questione è se l’Ucraina diventerà sempre più integrata nella comunità politica ed economica dell’Europa, oltre ad avere un rapporto molto stretto con la Russia. Ed è anche se l’Unione Europea riuscirà a difendere i suoi valori fondanti sulla porta di casa propria, come non riuscì a fare in Bosnia vent’anni fa.
È chiaro ormai che l’Ue ha fatto male i suoi calcoli, lo scorso autunno, quando ha lanciato un ultimatum «o noi o loro» senza offrire all’Ucraina i soldi di cui aveva disperatamente bisogno o una chiara prospettiva di ingresso nell’Unione. Come sottolinea Andrew Wilson, un esperto di Ucraina, l’Ue si è presentata a un duello al coltello armata di una baguette. Nelle ultime settimane Bruxelles se l’è cavata molto meglio. Il compromesso proposto venerdì è stato un successo diplomatico concreto dei ministri degli esteri di Francia, Polonia e Germania. Ma un’Europa indebolita dalla crisi dell’euro possiede l’immaginazione e la determinazione strategica necessarie nel lungo periodo?
5) Il futuro della rivoluzione. Io sostengo che nella nostra epoca il 1989 ha soppiantato il 1789 come modello standard di rivoluzione: invece di progressiva radicalizzazione, violenze e ghigliottina, abbiamo proteste di massa pacifiche seguite da una transizione negoziata. Questo modello ultimamente è stato messo a dura prova, non solo in Ucraina, ma anche nell’autunno violento che ha fatto seguito alla Primavera Araba. Ma se questo fragile accordo reggerà, e se si riusciranno a contenere le violenze nelle piazze, l’Europa potrebbe di nuovo riuscire a dimostrare che ogni tanto siamo in grado di far tesoro degli insegnamenti della storia.
l’Unità 22.2.14
Sudan, condannata per «atti osceni» una donna stuprata
Accusata anche di adulterio e prostituzione ha evitato la pena capitale perché divorziata
di S. Ren.
Dopo il danno la beffa e la beffa stavolta giunge direttamente da un’aula di giustizia di Khartoum, in Sudan. Succede che una cittadina etiope, vittima di uno stupro di gruppo in Sudan lo scorso agosto compiuto da sette uomini, sia stata condannata a un mese di carcere per atti osceni, più a pagare una multa di 5mila sterline sudanesi equivalenti grosso modo a 880 dollari. Va da sé che le è stato impedito di presentare denuncia formale per stupro. Ora rischia la deportazione forzata.
Ma perché la condanna?
Semplice, la violenza è stata filmata come è ormai in voga nei nostri tempi e il video è stato messo in rete sei mesi dopo l’accaduto su WhatsApp dai suoi stupratori. Le immagini mostravano una scena di sesso, gli stupratori che ridevano. E qui sta il misfatto più grande per la corte sudanese, che ha sospeso la condanna solo perché la donna incinta al nono mese, era di tre mesi al momento della violenza, ha spiegato il suo avvocato Samia al-Hashmi.
Per i tre uomini che hanno ammesso di avere avuto un rapporto sessuale con la ragazza diciottenne invece le pene si riducono a 100 frustate ciascuno per adulterio, 40 per gli altri due che hanno diffuso in rete il filmato, accusati di avere distribuito materiale indecente, più una multa di 1250 dollari.
La notizia è stata diffusa dal gruppo per i diritti delle donne «Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa» (Siha) che denuncia come la donna sia stata detenuta in una cella della polizia, dove ha dormito per terra senza un materasso e senza cibo adeguato.
RISCHIO LAPIDAZIONE. E c’è pure da tirare un sospiro di sollievo perché all’inizio sulla giovane gravavano anche le accuse di adulterio e prostituzione, robetta che in Sudan porta dritta alla pena di morte per lapidazione. Un pericolo scampato solo perché la donna è riuscita a convincere il giudice di essere divorziata e dunque a rendere meno colpevole, ma certo non del tutto, da parte sua il fatto di essere stata violentata. Lo stupro è avvenuto mentre la donna era alla ricerca disperata di una casa. In qualche modo, non è chiaro come, forse con la promessa di un alloggio, è stata attirata in una proprietà disabitata e assalita a Omdurman.
Inutilmente la vittima ha ripetuto alla Corte che l’atto sessuale si è svolto contro la sua volontà. Per i giudici sudanesi non era un particolare rilevante.
Ora l’organizzazione «Iniziativa strategica» accusa le autorità di Khartoum di aver agito in modo discriminatorio in quanto la vittima è una donna e una immigrata.
Per il direttore regionale del gruppo attivista Hala Elkarib la sentenza del tribunale rappresenta un deterrente per tutte le donne che vorranno denunciare abusi sessuali: «La condanna nei confronti della vittima nega ulteriormente la sua protezione da parte dello Stato e protrae la punizione e lo stress emotivo in una donna che è stata sottoposta al più brutale dei crimini».
LEGGE CORANICA. Ma questo è quanto accade in Sudan dove vige la sharia e nessuno si scandalizza più di tanto quando le donne vengono punite perché indossano i pantaloni imitando le coetanee occidentali. È accaduto nel luglio di qualche anno fa, una trentina di poliziotti entrarono in un ristorante di Karthoum e arrestarono tutte le donne che portavano i pantaloni.
La pena per abbigliamento indecente è scritta nero su bianco ed è di 40 frustate, le stesse che sono state inflitte agli autori dello stupro che hanno poi deciso di divulgare la loro bravata.
l’Unità 22.2.14
Chi ha paura del diario di Anna Frank?
Decine di pagine strappate ad almeno 265 copie del libro nelle biblioteche pubbliche di Tokyo
Nessuna rivendicazione, il centro Wiesenthal: «Offesa alla memoria, un gesto intriso d’odio»
di Sonia Renzini
«Spero di poterti confidare tutto, come non ho mai fatto con nessuno, e spero che mi sarai di grande sostegno », scrive Anna Frank nel suo diario. Sono le parole di una ragazzina ebrea di 13 anni appena compiuti, affidati a un quadernetto a quadretti bianchi e rossi avuto in regalo per il suo compleanno.
Piccoli ritratti di una quotidianità diventata suo malgrado il simbolo stesso della Shoah e a distanza di anni continuano a essere la testimonianza inconfutabile della nostra memoria che qualcuno si ostina a volere cancellare. In Giappone sono state danneggiate almeno 265 copie del «Diario» di Anna Frank custodite in una trentina di biblioteche pubbliche di Tokyo, insieme ad altri libri sull’Olocausto. Strappate dieci, venti pagine per volume, resi di fatto inutilizzabili, praticamente da buttare.
La denuncia è arrivata dal Consiglio delle biblioteche pubbliche della capitale giapponese. «Non sappiamo cosa sia successo e chi abbia fatto tutto questo », dice il presidente del Consiglio Satomi Murata. Scuote la testa Toshihiro Obayashi, vicedirettore della biblioteca centrale della zona di Suginami, dove 119 copie sono state distrutte in 11 delle 13 librerie pubbliche: «Da noi ogni libro archiviato sotto il nome di Anna Frank è stato danneggiato, non era mai successo finora».
Sdegno e preoccupazione viene espresso dal Centro ebraico internazionale Simon Wiesenthal che chiede alle autorità di indagare per identificare e assicurare al più presto alla giustizia i responsabili di questa «campagna d’odio».
BEST SELLER IN GIAPPONE. Per il presidente Abraham Cooper «si tratta di blitz organizzati per offendere la memoria di Anna Frank, la più famosa tra il milione e mezzo di bambini ebrei uccisi dai nazisti durante l’Olocausto ». E continua: «Solo persone intrise di bigotteria e odio possono cercare di distruggere le storiche parole di coraggio, speranza e amore di Anna di fronte al suo imminente destino».
Nel suo diario Anna Frank inizia con il raccontare la sua storia di ragazzina, i suoi compagni di scuola, la vita di tredicenne. Ma poi quando è costretta alla clandestinità in un appartamento segreto di Amsterdam per nascondersi dai nazisti, le sensazioni dell’età si intrecciano in modo sempre più inquietante con l’angoscia e i problemi dei grandi, diventando lo specchio fedele della realtà storica del tempo. Fino all’agosto del 1944 quando il rifugio viene scoperto dalla Gestapo e l’intera famiglia deportata nei campi di concentramento. Anna Frank morirà in quello di Bergen Belsen nell’agosto del 1944, all’età di 15 anni solo tre settimane prima della liberazione. Il diario sarà pubblicato postumo nel 1947 dal padre Otto Frank, unico sopravvissuto allo sterminio.
Il libro è stato tradotto in tutto il mondo ed è diventato per i ragazzi di tutte le scuole il primo veicolo di conoscenza dell’Olocausto. Anche in Giappone dove viene tradotto nel dicembre 1952 ed è salito in testa alle classifiche l’anno successivo, tanto che in termini di vendite il Giappone è secondo solo agli Stati Uniti.
«Negli anni ‘50 e ‘60 ci sono stati concorsi in cui gli adolescenti giapponesi dovevano riflettere sull’esperienza di Anna Frank - dice il Rotem Kowner, esperto di storia e cultura giapponese presso l’Università israeliana di Haifa -. In Giappone la storia trascende la sua identità ebraica per simboleggiare con più forza la lotta dei giovani per la sopravvivenza».
Il vandalismo sul simbolo della Shoah lascia sconcertati, oltretutto il Giappone non ha nessuna vera storia di antisemitismo. Ma è vero che negli ultimi due anni si sono moltiplicate le critiche rivolte alle autorità giapponesi per alcune dichiarazioni ritenute «revisioniste » sul passato militarista del Paese, in particolare con l’arrivo alla guida del governo del premier nazionalista e conservatore Shinzo Abe.
il Fatto 22.2.14
Dalla pasticca al buco
Farmaci come droghe Negli Stati Uniti è allarme overdose
di Alessio Schiesari
L’overdose di Seymour Hoffman, quella di Nancy Motes (sorellastra di Julia Roberts), gli oltre cento tossicodipendenti morti in pochi giorni nella costa est degli Stati Uniti. Non è solo l’eroina a tenere insieme questi drammi. Tutti sono collegati anche all’abuso di farmaci contro il dolore a base di oppiacei. Hoffman ha cominciato a bucarsi in gioventù. Per vent’anni è rimasto “pulito”. Poi, nel 2012, la ricaduta. Prima di tornare all’ago, aveva cominciato ad assumere l’Oxycontin, un analgesico ricavato dall’oppio. Per saperne di più sulla morte di Nancy Motes bisognerà aspettare i risultati dell’autopsia, ma sembra che a esserle fatale sia stato un cocktail di farmaci. Non ci sono dubbi invece sulla strage di eroinomani sulla costa atlantica: il killer si chiama Fentanyl, un farmaco 80 volte più forte della morfina utilizzato dai narcotrafficanti per tagliare la “roba”.
SECONDO il ministero della Salute Usa, negli ultimi quattro anni il numero di eroinomani è quasi raddoppiato, raggiungendo i 620 mila casi. L’80 per cento di loro abusava di farmaci contro il dolore prima di passare all’eroina. Il salto dalle pillole prescritte dal medico alla siringa è diventato pericolosamente breve. La liberalizzazione decisa dalla Fda – l’agenzia del farmaco Usa – negli anni 90 ha fatto schizzare i consumi contro i painkiller, le pillole contro il dolore. Mal di schiena, cefalea, artrite, fibromialgia: i preparati a base di oppioidi possono essere prescritti per un’infinità di disturbi. “Sono medicine utili, non se ne può fare a meno. Negli ultimi anni però è stata fatta troppa promozione. Dall’uso si è passati all’abuso”, spiega Riccardo Gatti, direttore del dipartimento dipendenze dell’Asl di Milano.
Migliaia di pazienti, una volta venuta meno la ragione per cui erano in cura, continuano a cercare gli stessi effetti. Inizialmente ci si rivolge al mercato nero, dove Vicodin, Oxycontin e altri ricercati farmaceutici spopolano. Senza la prescrizione però costano troppo: l’oxicodone può arrivare a un dollaro il milligrammo. L’equivalente in eroina costa un decimo. Ecco perché in molti si “convertono” all’ago, salvo poi tornare ai painkiller quando riescono a ottenere una nuova prescrizione. La nuova tossicodipendenza americana funziona così: andata e ritorno tra lo studio medico e la piazza di spaccio un’infinità di volte.
PER CAPIRE quanto possa essere stretto il legame tra le sostanze basti pensare che, nelle ultime settimane, la polizia del Vermont ha sequestrato centinaia di buste di eroina che in realtà contenevano solo farmaci. In realtà il problema non è nuovo. Già Kurt Cobain a metà anni 80 aveva fatto lo stesso percorso: dal Percodan all’eroina. Simile anche la storia dell’attore Heath Ledger, l’ultimo Joker, stroncato da un’overdose di farmaci. L’epidemia è esplosa insieme alla liberalizzazione delle vendite, che ha portato questa classe di farmaci a essere la più venduta. Secondo il Cdc, Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, ogni anno ne viene somministrata una quantità sufficiente a curare ogni americano, bambini inclusi, per un mese. L’overdose ha sorpassato gli incidenti stradali e le armi come prima causa di morte accidentale e l’abuso di farmaci è responsabile del 60 per cento dei decessi, più di eroina e cocaina insieme.
ANCHE le case farmaceutiche e l’Fda si sono accorte del problema. Per tentare di arginarlo sono aumentati i controlli sui medici dalla prescrizione facile. Le aziende produttrici hanno creato pillole più dure per evitare che vengano sbriciolate e sniffate o assunte per endovena. Non sono andate in porto due campagne lanciate dall’associazione “Medici per la prescrizione responsabile di oppioidi”. La prima chiedeva di restringere la somministrazione di oppioidi solo alle patologie gravi. La seconda voleva inserire nel bugiardino di ogni oppioide un dosaggio massimo e un tempo limite di somministrazione. Gli sforzi fatti non stanno sortendo gli effetti sperati. Al contrario, la strada per l’inferno è spesso lastricata di buone intenzioni. Come racconta il Washington Post, dove le prescrizioni sono state tagliate, è cresciuta la richiesta di eroina. L’America ha abbracciato l’utopia di un mondo senza dolore. Ora ha scoperto di non riuscire più a smettere.
Corriere 22.2.14
In soffitti, porte e stanze è scritto ciò che siamo (e che vorremmo essere)
Casa e psicoanalisi
Dai disegni dei bambini ai sogni degli adulti, nella simbologia freudiana ecco perché tutto ciò che riguarda l’abitare suscita in noi emozioni intense
di Silvia Vegetti Finzi
Capita a tutti di vagheggiare la casa dei nostri sogni. Ma la casa nel sogno c’è già. Da sempre inscritta nell’inconscio, compare nei pensieri notturni che esprimono, attraverso i simboli, ciò che altrimenti resterebbe confinato nell’ignoto. Nel teatro del sogno la casa rappresenta, secondo Freud, «l’organismo nel suo complesso». Il nostro primo Io è corporeo, ma poiché il corpo, nella segreta interazione tra dentro e fuori, sfugge a una presa diretta, ci affidiamo all’immagine della casa per dar forma a ciò che siamo e, successivamente, a ciò che vorremmo essere. Quando i bambini iniziano a disegnare, dopo i primi difficili tentativi di comporre il corpo umano, provano un’intima soddisfazione approdando al disegno della casetta, una forma geometrica, solida, statica, riconoscibile da tutti. Passano poi ad adornarla con l’albero, il sole, i fiori. In tal modo la genericità dell’archetipo, una delle forme innate che orientano la conoscenza, si personalizza, si fa storia, identità, comunicazione.
Abbellendo il disegno della casa, i bambini perfezionano se stessi, incrementano la loro autostima e si espongono all’apprezzamento altrui. Come scrive Vivian Lamarque: «La nostra casa: se ci vogliamo bene, vogliamo bene anche a lei, alle sue stanze tutte per noi, alle sue pareti, ai suoi angoli, alle sue finestre…».
Per l’inconscio le stanze simbolizzano i vari organi e le rispettive funzioni: il soffitto la testa, le porte gli orifizi, la cucina la gola, la camera dei genitori i desideri incestuosi. Non si tratta tuttavia di corrispondenze fisse, valide per tutti, perché il sognatore v’introduce esperienze personali per cui salire e scendere le scale può rappresentare tanto l’atto sessuale come la competizione sociale. Inoltre è significativo il tono emotivo, le sensazioni di piacere o dolore che connotano la medesima figura. Mentre nell’inconscio la casa rappresenta il corpo, nella coscienza simbolizza piuttosto la famiglia, il contenitore degli affetti fondamentali. Ma il sogno della casa non riguarda soltanto l’attualità, talora ci riporta indietro sino a raggiungere la gravidanza, la preistoria che abbiamo attraversato prima di nascere.
Scrive Freud nell’Interpretazione dei sogni : «Esistono sogni di paesaggi e località nei quali, mentre ancora sto sognando, si rivela con sicurezza: “ qui una volta ci sono già stato”». Questo «già veduto» (déja-vu) ha però nel sogno un significato particolare: la località è sempre l’organo genitale della madre; infatti, di nessun altro posto si può dire con certezza di «esserci già stati una volta». Il tema viene ripreso ne Il disagio della civiltà , quando Freud ricostruisce il passaggio, nella notte dei tempi, dalla condizione animale a quella umana. Un progresso che consentì di proteggerci dalla natura e di regolare le relazioni degli uomini tra loro. In questo senso la casa, intesa come rifugio e luogo d’incontro della famiglia, risponde a entrambi i requisiti. Dobbiamo alla tecnica il passaggio dalla tana alla casa. Tuttavia il modello originario di ogni artificio risiede pur sempre nel corpo: le lenti potenziano lo sguardo, le onde acustiche l’udito, i mezzi di locomozione, il passo... e la casa? «La casa — ribadisce Freud — è una sostituzione del ventre materno, della prima dimora cui con ogni probabilità l’uomo non cessa di anelare, giacché in essa egli si sentiva al sicuro e al proprio agio». E la sicurezza è la prima, fondamentale esigenza dell’umanità. Non è facile seguire Freud verso profondità della mente che egli stesso riconosce «fiabesche». Ma lo scandaglio psicoanalitico ci aiuta a comprendere perché tutto ciò che riguarda l’abitare susciti emozioni particolarmente intense: la casa rappresenta infatti la nostra identità, radicata nel corpo, estesa nello spazio e declinata nel tempo. Per cui possiamo dire: non abbiamo una casa, ma siamo la nostra casa.
Repubblica 22.2.14
L’era della sorveglianza
Bauman: Siamo noi i "Grandi Piccoli Fratelli"
di Stefano Rodotà
Dal 1949, quando comparve 1984 di George Orwell, per molto tempo sulle nostre società si è allungata l’ombra dell’utopia negativa del Grande Fratello. Con il passare degli anni, e con la continua crescita delle possibilità di raccogliere dati personali grazie alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, era divenuto via via più pressante l’invito a rivolgere lo sguardo piuttosto al moltiplicarsi dei Piccoli Fratelli, che penetravano nelle società rendendo concreta una sorveglianza diffusa sulle persone. Molti di questi Piccoli Fratelli sono poi cresciuti, hanno assunto le sembianze di Google o di Facebook, fino a quando il Datagate ha rivelato l’esistenza di un soggetto, l’americana National Security Agency, dove potevano essere riconosciuti i tratti di un vero Grande Fratello planetario.
Abbandonando questo schema, Zygmunt Bauman e David Lyon dialogano mettendo in evidenza una più profonda trasformazione della società, ormai posseduta integralmente dalle logiche della sorveglianza, non più imputabile a questo o quel soggetto, ma divenuta un suo dato strutturale (Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, traduzione di M. Cupellaro, Laterza). Non siamo di fonte a una variazione nella letteratura sulla morte della privacy, ma a una riflessione sulla sorveglianza «liquida, perché è cruciale cogliere i modi in cui essa si infiltra nella linfa vitale della contemporaneità» fino a distruggerla, facendo regredire la persona alla condizione di puro oggetto sul quale si esercitano poteri fondati, in definitiva, sull’imperativo della sicurezza e sulle pretese del mercato.
L’oggetto della riflessione, allora, divengono la effettiva distribuzione e il concreto esercizio del potere, facendo emergere l’inadeguatezza della politica, l’impotenza degli Stati nazionali e, drammaticamente, anche una sorta di impossibilità individuale e collettiva di opporsi a questo processo. L’orizzonte è quello della ricerca di Bauman sulla modernità liquida che, tuttavia, non diviene uno schema costrittivo, perché David Lyon, con le sue domande, sollecita anche un confronto con molte delle posizioni emerse nella discussione contemporanea sulla sorveglianza, con una ricchezza di riferimenti che qui possono essere colti solo in parte. Ma i veri interlocutori finiscono con l’essere altri - Jeremy Bentham, con la sua teorizzazione del Panopticon; Michel Foucault, per l’indagine sul dispositivo della sicurezza; e l’assai più lontano Etienne de la Boétie, l’autore del Discorso sulla servitù volontaria.
Tutti i processi di trasformazione della persona, infatti, vengono descritti non tanto come l’effetto di una costante imposizione esterna, ma come il risultato di processi che costruiscono le condizioni propizie perché ciascuno accetti le servitù che gli vengono imposte, se non vuole essere vittima dei processi di esclusione che innervano la società della sorveglianza. Siamo così di fronte ad una nuova antropologia, nella trasformazione delle persone in “hyperlinkumani”, in entità bisognose di cogliere ogni occasione di visibilità, mettendo in rete qualsiasi informazione personale, contribuendo così alla “profilazione fai da te”. L’insistenza sull’assoggettamento volontario, tuttavia, non fa dare il giusto rilievo al parallelo processo di espropriazione dell’autonomia delle persone, consegnate agli algoritmi e alle tecniche probabilistiche che costruiscono una identità ad esse ignota, che ipoteca il loro futuro.
La sorveglianza si manifesta così come un dispositivo di esclusione, che rende non più utilizzabile lo schema del Panopticon, la costruzione circolare che consente ai carcerieri di vedere i detenuti senza esser visti e che, con le sue mura, è il simbolo della modernità “solida”. Al suo posto vengono insediati un Banopticon, le raccolte di dati in base alle quali si costruiscono i profili dei soggetti da escludere; e un Synopticon, che coinvolge ogni persona nei processi di sorveglianza. Poiché all’origine di tutto è l’ininterrotta raccolta di ogni informazioni, non è un caso che il libro si apra enfatizzando il ruolo dei droni, le macchine volanti sempre più miniaturizzate, capaci di giungere in ogni luogo e di impadronirsi dei dati in una condizione di quasi invisibilità, emblema estremo della liquidità.
Una nuova società è di fronte a noi, riconducibile alla “passione moderna per la costruzione di un ordine”, che portò ai campi di concentramento di nazismo e fascismo, dei quali i processi di selezione sociale della società della sorveglianza si presentano come la prosecuzione, sia pure in forme più blande ehigh tech.E in uno schema così compatto ed estremo non riescono ad aprire brecce le domande con le quali Lyon cerca di indurre Bauman a una considerazione più articolata della rivoluzione tecnologica, con una amputazione dell’analisi che rischia di rendere più debole la ricostruzione complessiva, che non a caso trascura tutti i contributi che cercano di segnalare le possibilità di intervenire attivamente per contrastare la logica della sorveglianza.
Si torna così al tema del potere, che “evapora” nella spazio dei flussi planetari dell’informazione, e della politica ricacciata nei luoghi fisici degli Stati nazionali. Una politica per ciò impotente, se non recupera la dimensione globale, anche per far sì che la ricostruzione negativa possa divenire una di quelle distopie che si autosmentiscono. Vero è che, perché questo accada, è indispensabile uno “slancio d’azione” (qui Bauman cita Gramsci) che compare come speranza nelle battute finali del dialogo, indicando la strada di “un’etica della cura” che recuperi integralmente la considerazione “dell’Altro” e induca a fissare il limite nel rispetto della dignità della persona. Tutto questo, però, viene collocato piuttosto in un recupero della trascendenza più che nella fiducia dell’azione individuale e collettiva. Ma siamo davvero sicuri che non sia più possibile continuare a seguire anche questa strada?
l’Unità 22.2.14
Chi ha paura del diario di Anna Frank?
Decine di pagine strappate ad almeno 265 copie del libro nelle biblioteche pubbliche di Tokyo
Nessuna rivendicazione, il centro Wiesenthal: «Offesa alla memoria, un gesto intriso d’odio»
di Sonia Renzini
«Spero di poterti confidare tutto, come non ho mai fatto con nessuno, e spero che mi sarai di grande sostegno », scrive Anna Frank nel suo diario. Sono le parole di una ragazzina ebrea di 13 anni appena compiuti, affidati a un quadernetto a quadretti bianchi e rossi avuto in regalo per il suo compleanno.
Piccoli ritratti di una quotidianità diventata suo malgrado il simbolo stesso della Shoah e a distanza di anni continuano a essere la testimonianza inconfutabile della nostra memoria che qualcuno si ostina a volere cancellare. In Giappone sono state danneggiate almeno 265 copie del «Diario» di Anna Frank custodite in una trentina di biblioteche pubbliche di Tokyo, insieme ad altri libri sull’Olocausto. Strappate dieci, venti pagine per volume, resi di fatto inutilizzabili, praticamente da buttare.
La denuncia è arrivata dal Consiglio delle biblioteche pubbliche della capitale giapponese. «Non sappiamo cosa sia successo e chi abbia fatto tutto questo », dice il presidente del Consiglio Satomi Murata. Scuote la testa Toshihiro Obayashi, vicedirettore della biblioteca centrale della zona di Suginami, dove 119 copie sono state distrutte in 11 delle 13 librerie pubbliche: «Da noi ogni libro archiviato sotto il nome di Anna Frank è stato danneggiato, non era mai successo finora».
Sdegno e preoccupazione viene espresso dal Centro ebraico internazionale Simon Wiesenthal che chiede alle autorità di indagare per identificare e assicurare al più presto alla giustizia i responsabili di questa «campagna d’odio».
BEST SELLER IN GIAPPONE. Per il presidente Abraham Cooper «si tratta di blitz organizzati per offendere la memoria di Anna Frank, la più famosa tra il milione e mezzo di bambini ebrei uccisi dai nazisti durante l’Olocausto ». E continua: «Solo persone intrise di bigotteria e odio possono cercare di distruggere le storiche parole di coraggio, speranza e amore di Anna di fronte al suo imminente destino».
Nel suo diario Anna Frank inizia con il raccontare la sua storia di ragazzina, i suoi compagni di scuola, la vita di tredicenne. Ma poi quando è costretta alla clandestinità in un appartamento segreto di Amsterdam per nascondersi dai nazisti, le sensazioni dell’età si intrecciano in modo sempre più inquietante con l’angoscia e i problemi dei grandi, diventando lo specchio fedele della realtà storica del tempo. Fino all’agosto del 1944 quando il rifugio viene scoperto dalla Gestapo e l’intera famiglia deportata nei campi di concentramento. Anna Frank morirà in quello di Bergen Belsen nell’agosto del 1944, all’età di 15 anni solo tre settimane prima della liberazione. Il diario sarà pubblicato postumo nel 1947 dal padre Otto Frank, unico sopravvissuto allo sterminio.
Il libro è stato tradotto in tutto il mondo ed è diventato per i ragazzi di tutte le scuole il primo veicolo di conoscenza dell’Olocausto. Anche in Giappone dove viene tradotto nel dicembre 1952 ed è salito in testa alle classifiche l’anno successivo, tanto che in termini di vendite il Giappone è secondo solo agli Stati Uniti.
«Negli anni ‘50 e ‘60 ci sono stati concorsi in cui gli adolescenti giapponesi dovevano riflettere sull’esperienza di Anna Frank - dice il Rotem Kowner, esperto di storia e cultura giapponese presso l’Università israeliana di Haifa -. In Giappone la storia trascende la sua identità ebraica per simboleggiare con più forza la lotta dei giovani per la sopravvivenza».
Il vandalismo sul simbolo della Shoah lascia sconcertati, oltretutto il Giappone non ha nessuna vera storia di antisemitismo. Ma è vero che negli ultimi due anni si sono moltiplicate le critiche rivolte alle autorità giapponesi per alcune dichiarazioni ritenute «revisioniste » sul passato militarista del Paese, in particolare con l’arrivo alla guida del governo del premier nazionalista e conservatore Shinzo Abe.
l’Unità 22.2.14
Giacometti e l’infinito lunare
Le sue sculture filiformi evocano uno spazio fuori dal tempo
di Giuseppe Montesano
QUANDO GUARDO UNA DELLE OPERE, ANCHE UNA SOLTANTO, DI ALBERTO GIACOMETTI, NON SONO SICURO DI QUELLO CHE VOGLIO DIRE: in genere, provo una sensazione di riconoscimento, come per qualcosa di ritrovato che non sapevo di aver perduto o posseduto. La cosa più logica allora è suggerire a chi può farlo di andare a Villa Borghese a Roma a vedere una mostra di Giacometti scultore aperta fino a maggio, e di comprarsi il catalogo pubblicato da Skira, e poi di andare in cerca degli altri Giacometti. Non è una mostra con tantissimi pezzi, quella di Villa Borghese, e forse è un bene: perché proprio qui comincia uno degli effetti che provoca l’opera di Giacometti in chi la contempla. Una sola opera è sufficiente a fantasticare, a restare disorientati delicatamente disorientati, a essere felici. Basta l’imperscrutabile Cubo, o una delle figure piccole e grandi che si levano filiformi nello spazio e lo occupano con la pienezza della Montagna che è venuta da Maometto: miracolosamente, e allo stesso tempo come se il miracolo si fosse fatto normale e quotidiano.
Sappiamo tutto, delle origini dell’arte di Giacometti: una vasta cultura curata con amore dal padre pittore; la visione di centinaia di libri d’arte che il padre possedeva e che il bambino e poi l’adolescente guardava; la scoperta sempre sui libri, e poi nel piccolo museo di Firenze, della grandiosa essenzialità formale degli egiziani; la passione lucida e forse un po’ segreta per Picasso, l’attraversamento mai terminato delle terre misteriose del Surrealismo. L’arte di Giacometti, già solo per questo cammino complesso, è una denuncia della miseria dell’arte neo-contemporanea come si è manifestata dopo la pop-art, nel suo trucco fondamentale dell’azzerare il passato per riusarlo sotto forma di museo del Post: una volta tagliato il legame profondo con il problema della forma e delle forme, il solo che spetta all’arte, i neo-con si sono libati nel vuoto edonistico del gioco di stupire chi guarda: stupire nel senso più esteriore del termine, un senso che ha raggiunto l’acme solo oggi, nell’ora in cui i neo-con sono stati superati sul loro terreno dall’arte della pubblicità, sostituiti o asserviti.
Guardare Giacometti fa venire in controcanto tutto questo alla memoria, ma come se questo presente fosse già arcaico e defuntissimo, e i filiformi esseri e i cubi di Giacometti fossero ancora sulla strada per arrivare a noi. È così: Giacometti deve ancora arrivare alla percezione profonda. Perché il Cubo è così espressivo come se fosse parlante e danzante? Perché le esili apparizioni di figure che si fondono mentre arrivano all’occhio diventano immense e travolgono ogni difesa imponendosi come vere e propri epifanie? Perché le sue opere surrealiste sono in trasformazione perenne, anche dopo decenni, nuove a ogni colpo d’occhio che chiedono o forse insinuano? Perché Giacometti non cercava né lo stupore né i soggetti, non trattava né di esistenzialismo come si è detto né di altro che si possa tradurre in parole e concetti: pensava attraverso l’alterazione della forma, e l’alterazione era il gesto che ritrova l’equilibrio attraverso lo spostamento della prospettiva. Non la prospettiva geometrica, ma quella visione anticipata che la mente prepara alla visione reale e che diventa una forma del pregiudizio. Camminino o stiano ferme, si tengano in equilibrio su un carro o siano chiuse in una scatola-prigione, si disfino in fango carnale o si illuminino come lunari presenze le sculture di Giacometti portano con sé il loro spazio, e il loro spazio è talmente palpabile e concreto da imporsi in qualsiasi condizione: e forse nelle stanze di Villa Borghese, dove tutto si direbbe stridere con la sottrazione operata da Giacometti, la sensazione di quest’aura che circonda le sue opere è ancora più evidente. Esse cancellano tutto, non solo la figura a cui accennano o che evocano, esse cancellano la dimensione temporale: fermano il tempo, e costringono alla sosta la mente. Sono come la siepe nell’Infinito di Leopardi che costringe i sensi e i pensieri a spostarsi con un salto o un tuffo al di là, un al di là che non ha nulla di misterico, ma che risuona a lungo dentro chi ha contemplato le opere di Giacometti, come l’eco di una musica che ha toccato il corpo senza aggredirlo: ma Cubo, o Uomo che cammina sotto la pioggia, o Lotar III, o Donna in piedi, o L’uomo che vacilla, o L’oggetto nascosto, oltre a essere la siepe invalicabile sono anche «gli interminati spazi di là da quella», e i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quiete», e non lesinano a chi vi si abbandona lucidamente il «naufragare » dolce nel mare che Leopardi ascoltò con l’udito interiore. E la loro presenza di fronte o dentro di noi è bizzarramente desueta e futura, perché l’opera di Giacometti regala a chi la contempla con tutti i pori della mente aperti ciò che gli smarriti nel nulla dello stupore fasullo chiedono invano ai surrogati neo-con: regala l’esperienza di ciò che davvero esiste, di ciò alla cui presenza tutto cambia, di ciò alla cui presenza umilissima si inabissano senza nemmeno troppo clamore le menzogne, gli inganni, le potenze. Cos’è questa umile presenza? In che cosa consiste questa esperienza? Ah, ma questo è esattamente ciò che solo chi lo vive può sapere. Andate, e contemplate. È sufficiente. Tutto affiorerà come qualcosa che si è ritrovato, che forse non si è mai posseduto, che forse non è mai esistito.
il Fatto 22.2.14
La satira edificante di Gazebo, “Drive In” del Pd
di Fulvio Abbate
L’altra sera a Gazebo (su Rai3) si rideva con un retrogusto di raccapriccio dell’ultima intemerata di Beppe Grillo, mostrando la scena dove il King-Kong della politica italiana sovrasta verbalmente Matteo Renzi nel mezzo del loro ormai proverbiale colloquio trasmesso in streaming dal blog pentastellato. Un pezzo di teatro televisivo divenuto in pochi minuti un classico dell’emittenza underground grillina, sia come definizione d’immagini e sonoro sia come documento della cronaca politica recente, pratica protocollata da aggiungere al faldone della comunicazione, della vivacità, dell’imbarazzante linguaggio, del mo’-te-lo-faccio-vede’-io-chi-siamo-noi del Movimento 5 stelle. Inutile dire che c’è n’è perfino una sesta, invisibile, maestosa, degna del pavimento del Sunset Boulevard sulla quale, ululante, svetta l’irrefrenabile Grillo. Ed eccoci al punto.
In quale altro paese al mondo una trasmissione di satira riuscirebbe ad apparire così dissennatamente virtuosa da sollevare il dito ammonitore davanti all’eversore o addirittura al cazzaro? Ferma nella convinzione che perfino il riso liberatorio debba comunque far riferimento alla “bella politica” blaterata dal mandante morale del conformismo e della disfatta elettorale dal volto umano democratici?
IL DISCORSO ovviamente va perfino oltre la televisione, le vignette recenti di ElleKappa su la Repubblica, per esempio, danno sempre più la sensazione di un Minculpop Pd alacremente autoconvocatosi nell’opera di denuncia della “barbaria”, visto che costoro trovano moralmente intollerabile mettere in discussione il primato morale del partito già di D’Alema e adesso di Matteo Renzi. E lo stesso discorso vale per il Festival di Sanremo, come puoi pretendere di farne un refettorio dei sentimenti più edificanti nei giorni in cui l’orda d’oro di Grillo governa il sentimento di rabbia diffuso? Per queste ragioni Diego Bianchi e suoi accompagnatori l’altra sera sembravano dei puri nemici di se stessi, anime belle di sinistra che, portandosi una mano al petto, citano Gramsci che così pronunciava “…voi porterete l’Italia alla rovina, e a noi toccherà salvarla”.
E invece qualsiasi creatura minimamente sensata comprenderebbe che la peggiore scelta della satira non può essere il monosopracciglio alzato davanti a Grillo trasfigurato in King-Kong sul tetto del Nazareno e di Palazzo Chigi. Già, se Zoro e i suoi avessero riflettuto sullo stato delle cose con un po’ d’amor proprio professionale si sarebbero resi conto che Grillo li ha surclassati, è riuscito a riassumere in un unico pacchetto-idea regalo politica e satira, e poco importa che lo faccia scompostamente con le armi dell’invettiva e del vaffa, e mai come in questo momento vale il detto di John Belushi: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. Dove l’ambito titolo di Belushi, per quanto possa apparire devastante ai sostenitori della satira perbene, è proprio Grillo, quanto invece a quegli altri nella situazione data appaiono come i Be-ruschi del Pd. Nel senso di Enrico. “Gazebo” dunque come un Drive In veltroniano.
il Fatto 22.2.14
Van Gogh scrittore
Scrivere la vita. 265 lettere e 110 schizzi originali.
Vincent van Gogh. Donzelli pagg. 1.069 © € 55,00ANCHE come scrittore ebbe fama e fortuna postume, ma la sua prosa, scrisse Bukowski, “è il più puro degli stili”: per questo “Scrivere la vita” di Vincent van Gogh è un’opera letteraria, non solo una summa della travagliata carriera dell’artista, filtrata attraverso lettere e schizzi originali. Il carteggio con il fratello, le sorelle, la madre e gli amici è febbricitante e nervoso: va dal 1872 al 1890, pochi giorni prima del (presunto) suicidio, ed è “l’unica selezione concepita e autorizzata dal Van Gogh Museum di Amsterdam”, un florilegio di guizzi poetici e depressione, progetti di mostre e grane quotidiane, liste della spesa e riflessioni sulla pittura, una specie di«floricultura». E poi le “discussioni elettriche” con Gauguin, l’affetto per Theo, gli “attacchi di malinconia”, la paura della follia, che è “un accidente come un altro”, eppure “dimostra che effettivamente c’è qualcosa fuori posto nel mio cervello”. “Ma in fondo sappiamo da tempo che questo non è un mestiere allegro”.
C. Tagl.
Repubblica 22.2.14
L’indagine
Studio del Garante: la tv resta in testa tra i media, seguono i giornali, ma il web sale al terzo posto
Agcom: così gli italiani si informano Quotidiani online, primo Repubblica.it
ROMA - Internet ha conquistato il terzo posto in Italia come mezzo di informazione: lo utilizza infatti il 40% degli italiani. I quotidiani mantengono ancora però un certo vantaggio: sono al 44%. Mentre la televisione conferma saldamente la sua posizione di predominio, con l’80% (l’utilizzo di un mezzo di comunicazione non esclude l’altro, per cui la somma delle quote non fa 100); ultima la radio, con un modesto 18% che si confronta con percentuali ben più alte di Stati Uniti (42%) e Regno Unito (53%). I dati emergono dall’Indagine conoscitiva sul settore dei servizi Internet e sulla pubblicità online dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom). Quando si va alla scelta delle fonti per l’informazione online, la classifica non si limita alle edizioni Internet dei quotidiani cartacei. Infatti offrono informazioni sulweb non solo gli editori tradizionali, ma anche editori “nativi” digitali, aggregatori di contenuti e social network. E se è vero che l’informazione tradizionale, con le versioni online dei quotidiani cartacei, riveste un ruolo primario, con una quota del 36,1%, al primo posto della classifica delle fonti preferite per la ricerca delle notizie c’è invece Google, utilizzato dal 21,5% degli utenti web. Seguono la versione online di Repubblica, primo dei siti dei quotidiani, con il 17,3%, il Corriere della Sera, con il 9,5%, l’agenzia Ansa, con l’8,9%, Facebook, primo dei social network (7,1%), il TgCom, Libero, Il Sole24Ore, Wikipedia. Al tredicesimo posto arriva Twitter, apprezzato dunque anche come fonte di notizie.
Non solo l’informazione, ma naturalmente anche la pubblicità online ha fatto passi da gigante in Italia, passando dagli 818 milioni di ricavi del 2009 a 1,5 miliardi nel 2003, una cifra di tutto rispetto ma ben lontana dai 6,6 miliardi del Regno Unito e anche dai 2,7 miliardi della Francia. Inoltre il mercato pubblicitario online, rileva l’Agcom, è molto concentrato a livello mondiale, con Google che raccoglie il 31,5%. L’indagine sottolinea come «l’affermazione di Internet, il calo delle vendite e di audience dei prodotti informativi tradizionali e, al contempo, la concorrenza di molteplici operatori nell’alveo dell’offerta informativa digitale ha creato, a livello mondiale, problemi di finanziamento all’intero sistema dell’informazione». Per cui a «un surplus informativo spesso a costo quasi nullo per i cittadini » non corrispondono altrettanti vantaggi per il mondo dell’informazione. Anzi, rileva l’Agcom, «la riduzione delle fonti di reddito rischia di danneggiare durevolmente la qualità e la veridicità dell’informazione».