Corriere 23.2.14
L’Osservatore Romano: novità positiva le otto donne
ROMA — Da Vaticano e Chiesa cattolica arriva una chiara apertura di credito verso il nuovo governo guidato da Matteo Renzi. Per i vescovi, quello che ha giurato ieri incarna una «solida “cerniera” tra la sfera dei partiti e la realtà di chi fa impresa e crea lavoro». Il presidente della Cei Angelo Bagnasco ha aggiunto: «Preghiamo per il nuovo governo». Sull’Osservatore Romano si saluta come «novità molto positiva» la presenza di otto donne su 16 ministri, rilevando inoltre che il governo ha rispettato «le scadenze stabilite». Il quotidiano cattolico Avvenire ha scritto di una compagine di governo «asciutta, profondamente ringiovanita» e ad «alta densità politica». Di rado
il mondo ecclesiastico aveva lasciato da parte la cautela per lanciarsi in espliciti incoraggiamenti, facendo riferimento alle «urgenze» che attanagliano l’Italia e che richiedono «risposte immediate».
l’Unità 23.2.14
Senato, verso il sì tra i dubbi di Civati e dei popolari
L’esponente della minoranza Pd lancia un sondaggio web per decidere cosa fare domani. Mauro, Pi: «Propongo al mio partito di sostenere il governo, solo per i contenuti dell’appello di Napolitano»
Palazzo Madama, 159 sì certi
di Andrea Carugati
Sedici voti ballerini in Senato potrebbero complicare domani la partenza del governo Renzi. Numeri alla mano, la soglia dei 161 voti non sembra in discussione. Mase, contemporaneamente, dovessero votare no sia i 6 civiatiani del Pd sia i 10 senatori popolari legati all’ex ministro Mario Mauro, la nascita del governo rischierebbe di dipendere dai voti dei 5 senatori a vita e di 3 fuoriusciti del M5S (Mastrangeli, De Pin, Anitori).
I voti certi, infatti, sono appena sotto la soglia dei 161: 101 del Pd, 31 di Ncd, 7 di Scelta Civica, 2 dell’Udc, 10 del Gruppo delle autonomie, 5 senatori a vita e 3 ex grillini. In totale fa 159. Numeri a cui si potrebbero aggiungere dai 3 ai 10 senatori del Gal, una sorta di gruppo misto di centrodestra diviso a sua volta in due tronconi, i siciliani e i campani.
Le vicende di civatiani e popolari sono assai diverse tra loro: i primi si collocano alla sinistra del Pd, i secondi hanno lasciato nello scorso autunno Scelta civica per dar vita a una forza di centro che guarda al Ppe. E tuttavia il malumore per il governo Renzi è egualmente diffuso. Civati ha dato appuntamento ai suoi sostenitori stamattina in un locale del centro di Bologna, per una assemblea vecchio stile in cui confrontarsi con la base. E ha contemporaneamente lanciato un sondaggio sul suo blog per chiedere ai militanti «che fare?» con la fiducia a Renzi. A ieri sera avevano risposto circa 6mila persone, i risultati saranno resi noti oggi. «Ma non è un sondaggio online come quelli di Grillo», spiega Paolo Cosseddu, braccio destro di Civati. L’ultima parola dunque toccherà a ognuno dei parlamentari dell’area, che non sono vincolati al responso della rete. L’ex candidato al congresso ieri ha chiarito che in caso di voto contro il governo «sarebbe difficile restare nel Pd». Una scelta, quella della scissione, che pare improbabile. «Moltissimi ci chiedono di restare nel partito», spiega Cosseddu. Probabile dunque che, nonostante la netta contrarietà all’operazione politica, alla fine Civati e i suoi votino una fiducia «tecnica». Per poi valutare i singoli provvedimenti dell’esecutivo. «Io comunque sono contrario a questo governo », mette a verbale il deputato di Monza. Tra i popolari il dibattito è molto acceso. Maurizio Rossi ha già dichiarato il suo no, Casini e De Poli (che fanno parte del gruppo in quota Udc) voteranno sì. Gli altri 9 in bilico. Pesa come un macigno l’esclusione dal governo, a partire dalla defenestrazione di Mario Mauro dalla Difesa che non è stata compensata in nessun modo. «Almeno alla Bonino Renzi l’ha chiamata, noi niente...», si sfoga un senatore. Domani la decisione, dopo aver sentito il discorso programmatico di Renzi. «Non voteremo la fiducia a prescindere, le urne non ci spaventano», spiega Andrea Olivero. Ma è proprio Mauro, in serata, a rompere gli indugi: «Proporrò al mio partito di votare per la fiducia al governo. Solo ed esclusivamente per i contenuti dell’appello del Capo dello Stato». La linea che sta maturando è quella della «responsabilità istituzionale». «È falso che il nostro orientamento sia legato alle poltrone», dice il capogruppo alla Camera Lorenzo Dellai. Ma a Montecitorio si parla insistentemente di un riequilibrio a favore dei popolari nella partita dei sottosegretari: e in gioco ci potrebbero essere proprio Olivero e Mario Mauro. «Lealtà assoluta» al Pd dai 5 senatori che fanno riferimento a Enrico Letta. E tuttavia anche in quest’area, così come tra i civatiani, non mancano le incognite sul dopo. «Visti i malesseri anche in aree come quella dei popolari, che erano stati molto leali con Letta, mi pare che il cammino della maggioranza sarà persino più accidentato rispetto ai mesi scorsi», spiega Francesco Russo. «Sulla riforma del Senato, ad esempio, dentro il Pd ci sono opinioni molto diverse dal progetto presentato da Renzi ». Nervi tesi, non solo nel Pd, anche rispetto all’eventuale “soccorso azzurro” che potrebbe arrivare da Gal. Su 11 senatori, 3 avevano già votato la fiducia a Letta, Tremonti ha già annunciato il suo no, dunque ci sono 7 voti in bilico. Voti che dalle parti del Pd vengono vissuti come un incubo, per via dalla vicinanza di alcuni di loro a Nicola Cosentino. E non solo dai civatiani. «Se c’è un’operazione guidata da Verdini questo metterebbe in grave imbarazzo ampi settori del gruppo Pd», spiega il lettiano Russo.
Se, come probabile, il malessere dei civatiani non produrrà uno strappo, e i popolari seguiranno la via istituzionale, Renzi arriverà a quota 175. Due voti in più dei 173 che sono stati il record di Letta. Ma ci sono 16 voti che il neopremier non potrà considerare acquisiti una volta per tutte. E che rischiano di farlo ballare nei prossimi mesi.
il Fatto 23.2.14
Una trappola chiamata Senato, pochi voti per il rottamatore
I nervi della sinistra dem e i malumori centristi alla vigilia della fiducia
di Luca De Carolis
Il fu rottamatore promette risultati, tanti e in fretta. Ma ha tante botole davanti a sé, e una si chiama Senato. Perché se alla Camera la maggioranza ha i numeri per andare dritta (almeno sulla carta), a palazzo Madama il margine è molto più stretto. E il rischio di imboscate o ribellioni sarà un peso costante a partire da domani, giorno della prima fiducia per il governo Renzi. Premesso che la soglia minima di sopravvivenza è quella dei 161 senatori su 320, la maggioranza dovrebbe contare su 165 voti contro i 135 delle opposizioni (il presidente per prassi non vota). In mezzo, 20-21 dubbiosi di varia natura e provenienza. I più in bilico sono i sei civatiani del Pd; poi ci sono i 12 di Popolari per l’Italia, che ufficialmente decideranno oggi, e la gran parte di Gal. E allora il primo test di domani sera è già importante. Quasi scontato che Renzi ottenga la fiducia: ma conterà anche il come. Un sì con meno di 175 voti sarebbe un segnale fosco, sotto i 170 sarebbe (quasi) allarme. Un pezzo importante della partita si gioca proprio dentro il Pd. A Giuseppe Civati la staffetta e il governo non sono proprio piaciuti. E la nomina come ministro della civatiana Maria Carmela Lanzetta, chiamata a sua insaputa, ha aggiunto sale sulla ferita. Ieri ha ripetuto: “Non votando la fiducia sarebbe difficile rimanere nel partito, dobbiamo valutare cosa fare in aula. Ci dispiacerebbe rompere”. Poche ore dopo Civati ha lanciato una consultazione on line per conoscere il parere della base. Ma la decisione finale dovrebbe arrivare oggi, dalla riunione della sua corrente a Bologna.
NON CI SARÀ il senatore Corradino Mineo, all’estero per motivi personali, che al telefono spiega: “Decideremo dopo Bologna, è chiaro che siamo stretti tra le perplessità su questo governo e le richieste della gente di permettergli di partire”. Mineo parla da giorni del progetto di un gruppo in Senato, Nuovo Centrosinistra, da comporre assieme ai 7 di Sel, agli ex grillini del Misto e a dissidenti di M5S. Conferma: “Il progetto continuerà, fiducia o no, anche se siamo molto in ritardo. Di certo daremo segnali sull’esistenza della sinistra”. Insomma, fiducia o no, i civatiani faranno pesare i sei voti a palazzo Madama. Discorso molto diverso è quello dei Popolari per l’Italia. L’esclusione dal governo dell’ex montiano Mario Mauro ha lasciato evidenti malumori tra i fuoriusciti di Scelta Civica. E ora i Popolari si sono messi sulla riva del fiume. “Non abbiamo vincoli a votare la fiducia a prescindere, decideremo lunedì mattina” fa sapere Andrea Olivero. Che chiosa: “La minaccia del voto non ci fa paura”. Ma la componente dell’Udc, che ha ottenuto un ministro (Gian Luca Galletti all’Ambiente) spinge per il sì. E proprio Galletti ieri si è detto “convinto che i Popolari faranno prevalere il bene del Paese”. A ballare anche gli 11 voti di Gal, gruppo dell’area di centrodestra. A Letta diedero la fiducia in tre: difficile che per Renzi i consensi siano molti di più. Sullo sfondo, i cuperliani. Per ora sono allineati sulla fiducia al neo-premier. Ma attendono segnali a stretto giro, innanzitutto sulla riorganizzazione del partito. Ci sono tre vuoti da colmare in segretaria, quelli lasciati dai ministri Mogherini, Madia e Boschi.
E SOPRATTUTTO c’è Cuperlo che invoca un nuovo segretario, “perché quello che abbiamo ora sta a palazzo Chigi”. Un dalemiano conferma: “Renzi non può pensare di restare segretario. Serve un nuovo congresso”. Il premier ha scelto come ministro il bersaniano Maurizio Martina anche per dare un segnale di pace alla minoranza. Sa che i nervi sono ancora scoperti. E che del partito bisognerà presto ridiscutere. Perché in Senato non sta largo, e le incognite sono tante. La principale si chiama legge elettorale, su cui con i cuperliani sono volati stracci.
Corriere 23.2.14
La crepa a sinistra nei conti al Senato
Il nodo sottosegretari
Civati chiede al Web: che cosa devo fare?
Popolari: da noi sì, per l’appello del Colle
di Dino Martirano
ROMA — E ora inizia la partita a scacchi per i sottosegretari (complicata, tanto da lasciare pensare che si concluderà non prima di mercoledì) che, ovviamente, avrà un riflesso anche sul voto di fiducia previsto domani alle 14 al Senato e martedì mattina alla Camera. In particolare, a Palazzo Madama, l’esecutivo guidato da Matteo Renzi «balla» tra i 168 e i 175 voti favorevoli e, quindi, potrebbe subire non senza danni un brutto scherzo ordito dai Popolari per l’Italia (10 senatori) che sono rimasti a bocca asciutta dopo aver letto la lista dei ministri. Eppure, il pericolo per il sindaco di Firenze non dovrebbe arrivare da quella parte politica: «Proporrò al mio partito di votare per la fiducia al governo», annuncia Mario Mauro che ha dovuto traslocare dalla Difesa. L’ormai ex ministro, tuttavia, ha aggiunto, polemico: «Voteremo la fiducia ma solo ed esclusivamente per i contenuti dell’appello del capo dello Stato Giorgio Napolitano». Come dire che la partita non si chiude qui anche se i toni potrebbero essere meno acerbi se i Popolari potessero contare su un paio di «vice» dopo aver perso la Difesa.
Per Renzi, la battaglia del Senato si gioca anche sul fronte sinistro della coalizione, e in particolare con i sei-sette senatori del Pd che fanno riferimento a Pippo Civati. Da giorni, il competitor di Renzi alle primarie va dicendo che i «civatiani» potrebbero anche non votare la fiducia al governo ma ieri, in perfetto stile grillino, è stato compiuto un passo in più: «Votare o no la fiducia a Renzi?» è il quesito sottoposto alla Rete da Civati che stamattina a Bologna riunirà la sua componente in un’assemblea pubblica».
Parallelamente, in attesa di capire quanti voti di scarto ha Renzi al Senato, e quindi quanto «pesano» i 31 senatori del Ncd di Alfano, la maggioranza si prepara alla stretta sui sottosegretari e sui viceministri. Un aspetto non secondario è quello del ministero per gli Affari europei (cancellato da Renzi seppure previsto dalla legge 2034 del 2012) la cui filiera (il ministro Enzo Moavero e lo sherpa Stefano Grassi) istruiva i consigli europei mettendo in secondo piano la struttura degli Esteri. Cosa farà Renzi ora? Tornerà allo schema dell’ex premier Lamberto Dini, quando gli Affari europei erano affidati ad un sottosegretario di rango come Piero Fassino? Oppure terrà la delega a Palazzo Chigi? Altro tema delicato è quello dei servizi segreti: Marco Minniti, in qualità di autorità delegata con Enrico Letta resterà a Palazzo Chigi o Renzi preferirà cambiare cavallo?
Con il professor Mario Monti, tra sottosegretari e viceministri furono distribuite 28 poltrone. Con Enrico Letta il conto balzò a dieci «vice» e a trenta sottosegretari. Renzi ha tutta l’aria di fare economia di poltrone ma è pur vero che, con 14 commissioni permanenti alla Camera e altrettante al Senato, i 16 ministri non possono certo avere il dono dell’ubiquità. Al governo servirà dunque una seconda fila compatta e capace di coprire tutti i buchi in Aula e in commissione in modo da non rendere vano il lavoro di Maria Elena Boschi, neoministra senza portafogli con delega alle Riforme e ai Rapporti con il Parlamento.
Prima del Consiglio dei ministri che nominerà i sottosegretari dovrà anche essere stabilita la sorte degli eventuali vice del governo che verranno confermati.
Prendiamo il ministero dell’Interno che rimane nelle mani di Angelino Alfano (Ncd). I due vice del Pd, Filippo Bubbico e Giampiero Bocci, ci tengono a mantenere l’incarico, ma al Viminale potrebbe arrivare Emanuele Fiano che si è fatto le ossa al Copasir e in I commissione sulla legge elettorale e sul finanziamento dei partiti. Alla Giustizia, ci sarà un «vice» del Ncd, magari con l’esperienza di capogruppo, e si affaccia anche l’ipotesi dell’avvocato David Ermini (Pd, fedelissimo di Renzi). All’Economia sono previsti due «vice» politici per compensare il supertecnico Pier Carlo Padoan: in pole position Casero del Ncd (conferma) e Morando del Pd. Alla Farnesina, la neoministra Federica Mogherini potrebbe forse avvalersi della «continuità» assicurata dal viceministro Lapo Pistelli (Pd) e dal sottosegretario Mario Giro (Popolari). Per Scelta civica i nomi dei «papabili» sono quelli di Carlo Calenda, Benedetto Dalla Vedova e Ilaria Borletti Buitoni.
Repubblica 23.2.14
Civati: ma serve un referendum tra gli iscritti
di Giovanna Casadio
ROMA — (...) Nel Pd tuttavia, tra la lacerazione e lo scisma, le acque restano agitate. Pippo Civati minaccia infatti una spaccatura: di non votare cioè la fiducia a Renzi e di formare il Nuovo centrosinistra. In stile grillino, lancia un sondaggio online perché siano gli elettori a decidere sulla fiducia al governo. Oggi a Bologna Civati riunirà l'assemblea di Democratici. «Siccome il vero problema di questa situazione, che precede qualsiasi giudizio su Renzi, sul suo governo e soprattutto sulla sua maggioranza, è il fatto che si sia procedutoper l’ennesima volta assemblando gruppi che tutti avevano votato per fare altro, vi chiediamo ancora di partecipare. Di solito sono gli elettori a scegliere», scrive sul suo blog. Civati prepara la sua battaglia.
(...)
l’Unità 23.2.14
Il Cav avverte: «Sull’Italicum non si tratta»
Berlusconi contento delle Comunicazioni alla Guidi amica di famiglia, a cena ad Arcore lunedì. Ma teme patto Renzi-Ncd per far slittare la legge elettorale
di Federica Fantozzi
Aspettiamo. Ma non accetteremo una retromarcia». Con chi gli chiede lumi sullo stato dell’arte di legge elettorale e riforme, Silvio Berlusconi taglia corto. Ad Arcore per il fine settimana, interrotto da qualche telefonata ai club sparsi per la Penisola, il Cavaliere riordina le idee.
Il governo, in realtà, non gli piace né gli dispiace: Orlando alla Giustizia è un nome considerato «garantista», molto meglio di un pm. Federica Guidi allo Sviluppo, oltre che un’amica di famiglia, è uno dei volti nuovi che l’ex premier aveva corteggiato (invano) alle ultime elezioni). E liquida come «sciocchezze» quelle di chi, sottolineandone i buoni rapporti con Alfano e Lupi, insinua che si siano consolidati a sue spese. Addirittura, lunedì scorso era con il padre Guidalberto a cena ad Arcore. La delega alle Comunicazioni, per il Cavaliere, non è in mani ostili: «Abbiamo un ministro pur stando all’opposizione» è la battuta che riferisce l’HuffPost. E il merito sarebbe di Verdini.
Meno contento, Silvio è dell’approdo di Pier Carlo Padoan a via XX Settembre: «Dalla padella alla brace...» avrebbe commentato riferendosi all’avvicendamento con Saccomanni. Mase «la patrimoniale noi non la voteremo mai», Berlusconi sa anche che sarebbe un fortissimo argomento di campagna elettorale e un’altrettanto pesante tegola per Ncd. E quindi, quasi quasi se la augura.
Il vero nodo, che innervosisce lui e agita il partito, è la gimkana della legge elettorale. All’alba della lunga notte di trattative, il Ncd diffonde in tutti i modi la gioia per avere ottenuto da Renzi «ampie garanzie» sulla prosecuzione della legislatura. Significa che l’Italicum non potrà vedere la luce prima delle - ben più lunghe e complesse - modifiche costituzionali. Formigoni parla addirittura di un patto scritto, messo nero su bianco tra i due alleati di governo. Ovviamente senza le «tecnicalità », che potrebbero essere l’aggancio dell’Italicum all’abolizione del Senato (emendamento Lauricella) o un percorso a tappe della legge elettorale (approvata alla Camera, poi ferma a Palazzo Madama). Gasparri però stoppa: «L’emendamento Lauricella non esiste, la legge elettorale si può e si deve varare subito»
SOSPETTI. Uno scenario che inquieta Forza Italia. E per la prima volta, fa pensare a Berlusconi di aver peccato - proprio lui - di ingenuità nel gettarsi a capofitto nella «profonda sintonia» con il neo-premier. Non perché la corsia preferenziale dell’Italicum potrebbe rivelarsi meno rapida del previsto. Su questo fronte Verdini, ma anche Romani, Bernini, lo hanno avvisato che la rotta sarà accidentata e qualche pit stop è in conto. Il problema è alla radice: «Se Renzi non rispetta i patti, se pensa di annacquare l’Italicum per arrivare fino al 2018, allora salta tutto subito» si sfoga il Cavaliere. Che trova terreno fertile nel partito: i falchi alla Minzolini, Gelmini, Biancofiore insistono che presto il presidente del consiglio si affezionerà più a Palazzo Chigi che all’intesa sulle riforme. Allora, si arriverebbe dritti al 2018. Con Berlusconi ultra-80enne e i rivali del Ncd rafforzati dalla rendita governativa. È
un futuro che Berlusconi spera con tutte le forze di scongiurare. Ecco perché, al telefono con il club dell’Eur-Garbatella, giura: «Ho avuto garanzie, la legge elettorale si farà. E la riforma della giustizia è assolutamente urgente, come lavoro, fisco e burocrazia». Ribadisce che «democrazia è quando un premier viene eletto dai cittadini» mentre Renzi è legittimato «all'interno di un partito che non ha una grande maggioranza, ma una maggioranza parlamentare con 144 deputati». Contrattacca: «Non so quando saranno le elezioni, ma teniamoci pronti in ogni momento. Noi puntiamo al 51%».
il Fatto 23.2.14
Le spine di Renzi tra valzer di poltrone e i “pizzini” di B.
Il neopremier deve accontentare i piccoli partiti con la spartizione di viceministri e sottosegretari
Il leader di forza Italia avverte sull’Italicum: “I pati si rispettano”
di Sara Nicoli
Adesso tocca a sottosegretari e viceministri. La partita degli equilibri si sposta sulla seconda fascia, quella che di solito conta il doppio, soprattutto quando il titolare di un dicastero non è un esperto della materia e ci vuole uno che sa muovere la macchina per davvero. Per il governo Renzi, questo gioco di scacchi per il completamento della squadra si preannuncia forse anche più tosto della composizione della prima fila. Si dice che sarà tutto pronto entro giovedì prossimo
CI SONO da accontentare i Popolari per l’Italia, che hanno perso il ministro fondatore Mario Mauro e già minacciano di non votare la fiducia. La compagine centrista è anche più arrabbiata dopo che il casiniano di ferro Gian Luca Galletti ha conquistato l’Ambiente, appena una settimana dopo l’annunciato ritorno dell’Udc nel centrodestra. E poi c’è anche da accontentare Scelta Civica, che ha conquistato l’Istruzione, ma è ancora avida di poltrone.
Ecco i primi nomi che circolano: i tre montiani Andrea Romano, Irene Tinagli e Carlo Calenda; l’alfaniano Giuseppe Esposito per la Difesa, il leader dei Socialisti Riccardo Nencini alla Cultura, la senatrice del Pd Valeria Fedeli per le Pari Opportunità e Vincenzo D’Anna, campano, cosentiniano del Gal, forse all’Interno. Il che la dice lunga su come quel gruppo al Senato sarà blindato per far da puntello a Renzi nel caso Alfano si mettesse a fare le bizze. Soprattutto sulla riforma elettorale. Perché sul quel fronte tira aria tesa.
Berlusconi ha capito che il suo ex delfino ha incassato da Renzi l’entrata in vigore dell’Italicum solo dopo l’approvazione della “riforma” del Senato (il famoso emendamento Lauricella) e questo l’ha preoccupato al punto da far decollare immediatamente le contraeree d’assalto sul tema. Gasparri: “Il cosiddetto emendamento ‘Lauricella-campa cavallo’ non esiste – ha detto il proconsole forzista – noi vogliamo sia la legge elettorale che la riforma costituzionale. Ma la prima è una legge ordinaria, già definita e concordata, che si può e si deve varare subito. Il resto richiede, per legge, procedure più lunghe”. E il Cavaliere stesso, parlando alle sue truppe (in questo caso della Garbatella, a Roma), ha messo in guardia sul fatto che “non si sa quando andremo a votare, ma bisogna stare pronti; questa è una situazione che ha poco a che fare con la democrazia, se il governo non è eletto dai cittadini non è più democrazia, dobbiamo puntare a spazzare via Grillo e ad avere un solo partito che abbia la maggioranza assoluta, il 51per cento, solo così si potranno fare le riforme”. E in ultimo, lanciando un “pizzino” a Renzi: “Pacta sunt servanda, i patti si rispettano”.
ECCO, APPUNTO, i patti. Secondo Rino Formica, ex socialista ed ex storico ministro delle Finanze della Prima Repubblica, molto legato al Cavaliere e molto ascoltato nei Palazzi, tra Renzi e Berlusconi il vero patto di ferro sarebbe più profondo rispetto alle semplici riforme. Sarebbe, insomma, composto sostanzialmente da tre punti: intesa per l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica a breve, elezioni politiche tra massimo un anno e una legge elettorale che tuteli Pd e Forza Italia. In sostanza, si punterebbe all’eliminazione scientifica dei piccoli partiti, all’emarginazione di Grillo (e l’Italicum va in questo senso) per raggiungere, poi, quella larga intesa parlamentare capace di modificare la forma dello Stato in senso presidenzialista. “È il disegno di Gelli – dice l’ex ministro – con Draghi al Colle”. Gli elementi a suffragio di questa tesi sono effettivamente molti. Compreso il fatto che sul governo l’impronta del Cavaliere è evidente. Federica Guidi, neo ministro dello Sviluppo Economico, lunedì scorso era a cena ad Arcore con il padre (la sua nomina è considerata una “genialata” di Verdini). Si parlava di televisioni, non a caso sarà lei a doversi occupare del settore. E grande è stata la soddisfazione del Cavaliere per la bocciatura quirinalizia del nome di Nicola Gratteri alla Giustizia. Berlusconi aveva chiesto un ministro “non ostile” e si sente tutelato da Orlando, un garantista, lontano dal “partito dei giudici” della Procura di Milano, uno che voleva eliminare l’ergastolo e limitare il 41 bis ai casi davvero esagerati. Insomma, l’uomo giusto per Silvio, che continua a volere la riforma della giustizia proprio con quel segno garantista che senz’altro un giudice armato contro la criminalità organizzata come Gratteri mai avrebbe concesso. E, invece, adesso, chissà.
il Fatto 23.2.14
Lecca Renzi
Ferrara non esagera mai: “È il governo perfetto”
“PARTENZA GRANDIOSA per Matteo Renzi. Drammone al Quirinale, poi un governo perfetto”. Giuliano Ferrara, dalle colonne del suo Foglio, fa i più sentiti “auguri a Renzi, degno successore del Cav, che ha silurato chi doveva silurare e promosso chi doveva promuovere”. La lingua dell’Elefantone già comunista, già amerikano, già berlusconiano, si prodiga come solo nelle grandi occasioni: “Un tweet dallo studio della Vetrata: ‘arrivo, arrivo #lavoltabuona’. Renzi, come Berlusconi prima di lui, è un colpo di scena vivente. Sapeva benissimo di dovere a se stesso e al Paese, e alla base del Pd e ai consensi trasversali di cui è in cerca inesausta, qualcosa di nuovo e di vitale. E glielo ha dato. Sapeva perfettamente che problemi di maggioranza non ci sono. Deputati e senatori votano la fiducia all’ultima spiaggia, senza discussioni”. Poi, Ferrara, giustamente, si prende anche i proprio meriti: “Gli avevamo modestamente consigliato di fare se stesso, il suo governo, e quello ha fatto. Gli avevamo dato 48 ore di tempo, perché qui da noi siamo pazzi, si è preso tre giorni in più. Ha sbagliato il tempo e il passo con Grillo, ma Grillo è sempre più inutile, alla fine non c’è problema”.
Corriere 23.2.14
Sul “Foglio”
Ferrara: è il migliore dei governi possibili
Una «partenza grandiosa» per «un governo perfetto». Parole colme di entusiasmo: sono quelle utilizzate per Matteo Renzi da Giuliano Ferrara sul Foglio . «Ecce homo, e si chiama Matteo» si intitola l’editoriale di ieri, dove «il governo Leopolda» è definito «il migliore oggi possibile». A cominciare dagli uomini e dalle donne della squadra. E ancora
per i tempi e i modi dello «scioglimento del drammone»: con il tweet «arrivo, arrivo». Proprio per questo, però, «Renzi premier non ha alibi», scrive Ferrara. «Adesso può tutto e se evita di litigare con il Cav», allora «le cose per questo Paese rischiano di mettersi meglio di quanto non ci si potesse aspettare prima».
il Fatto 23.2.14
Da “ambizione” a “zero”, così parla il renzismo di governo
La baldanza dell’ottimista cazzaro tra i twitter e citazioni a spanne
(Auto)narrazione dell’ascesa
di Andrea Scanzi
Ogni statista, vero o presunto, ha la sua narrazione. Ce l’ha Vendola e ce l’ha Renzi. Entrambi sono accomunati da un aspetto decisivo: non essere di sinistra, cosa che riguarda solo Vendola, ma il rifugiarsi nella supercazzola: ipercolta in Nichi, ipercool in Matteo. Dalla A alla Z, ecco tutto il mondo di Matteo.
A come “auto”, semplice e comune per suscitare empatia con l’elettore: dunque Smart, o al limite Giulietta. “A” come “ambizione”, dichiaratamente “smisurata”. E “A” come “alibi”, che non esiste più: “Questo governo risponde solo a me. Se sbagliamo è colpa mia, solo mia. Se c’è una responsabilità è mia, punto. Non ci sono più alibi”.
B come “baldanza”, parola che B non si sentiva dai tempi di Badoglio, ma che Renzi ha sfoderato presentando la lista di ministri. B come “bolle”, l’effetto che suscitava in Renzi il sentir parlare di rimpasto (poi ha cambiato idea: ogni tanto gli capita). E “B” come “bomba”, il soprannome con cui lo chiamavano i compagni di classe per la propensione a spararle grosse. Almeno in questo non è cambiato: coerente in niente, se non nella bugia.
C come “cazzaro”. “Resta il nu- C mero uno, è in forma strepitosa, un cazzaro insuperabile”. Renzi parlava del suo maestro Berlusconi, ma forse recensiva anche se stesso.
D come “discontinuità”, che D Renzi voleva sottolineare con la scelta di Gratteri alla Giustizia: “È il segnale più importante della discontinuità che intendo dare al mio esecutivo”. Quel segnale non c’è stato. E “D” come “De Gasperi”, l’unico che ha guidato un governo con meno ministri (“Ma non è una competizione, nessuno gli si può paragonare”).
E come “esci (da questo E blog)”. L’unica trovata mediatica forte di Renzi nel duello con Grillo.
F come “fareeeee”, pronunciato rigorosamente alla Crozza. “Ce la faremo. Un impegno: rimanere noi stessi, liberi e semplici”. E un altro impegno, quello sì mai disatteso: non dire niente, ma dirlo bene.
G come “Gratteri” e “Giustizia”. Era la sfida più grande di Renzi a Napolitano: è andata male. Respinto con perdite, e un misero gol della bandiera chiamato Mogherini.
H come hashtag. Twitter è per Renzi il regno supremo della supercazzola del cambiamento. Qualche esempio:#cambiareverso, #proviamoci, #cominciamoildomani, #lavoltabuona. E soprattutto #comefosseantani.
I come “Italia”. “Un paese semplice e coraggioso”. Che sia coraggioso, è acclarato. Che sia semplice, lo pensa solo Renzi.
J come “Jovanotti”, amico e guru di Renzi, e la sua grande chiesa che come noto “parte da Che Guevara e arrivafino a Madre Teresa”. E magari, già che c’è, passa anche da Rignano sull’Arno.
K come “Keating”, il professore de L’Attimo fuggente. Una delle citazioni preferite di Renzi, insieme (quando vuole darsi un tono) a Righeira e Moncler.
L come Letta. Molto gioioso il passaggio di consegne di ieri, non si vedeva un tale affetto reciproco dai tempi di Caino e Abele. Per quanto disastroso, l’ex premier non ha però tutti i torti a non “stare sereno”. I voltafaccia di Renzi non si contano più: “Mai al governo senza il voto”, “Non farò le scarpe a Letta”, “Mai più ricatti dai piccoli partiti”, “Basta Alfano nella squadra”, “Dureremo fino al 2018”. Eccetera.
M come “Movimento 5 Stelle”. Il vero nemico di Renzi. Dopo lo streaming ha twittato: “Mi spiace tanto per chi ha votato 5Stelle. Meritate di più, amici. Ma vi prometto che cambieremo l’Italia, anche per voi”. Metà Italia lo ha applaudito, l’altra metà ha contattato un avvocato per sporgere querela per diffamazione (l’insulto risiederebbe nella parola “amici”).
N come “Napolitano”, che Renzi vorrebbe in cuor suo rottamare ma al momento pare il contrario. E dunque “N” come “nuovo”, cioè come “niente”.
O come Orlando. Il neo-ministro della Giustizia. L’ennesimo inchino a Re Giorgio. L’ennesimo regalo a Berlusconi.
P come “palude”, espressione democristiana per una narrazione 2.0 che non disdegna stilemi dorotei. E “P” come “Peppa Pig”, una delle fondamenta intellettuali di alcuni renziani. Così Marianna Madia, subito dopo la nomina a ministro: “Non ho seguito i commenti politici, stavo guardando Peppa Pig”. Parole forti.
Q come “quota rosa”. Renzi, attentissimo alla pagliuzza affinché essa ridimensioni la trave, ha abbassato come nessuno l’età media di un governo e portato al 50% la presenza di donne. È un aspetto su cui fa leva anche quando si rivolge agli elettori. Prima le donne, poi gli uomini: “Italiane e italiani”, “Cittadine e cittadini” (“Compagne e compagni” è già più desueto).
R come “rifiuti”, che Renzi ha collezionato prima di scegliere i titolari: da Farinetti a Baricco, da Prodi ad Andrea Guerra. Anche per questo, fatti salvi rari casi, ha dovuto schierare panchina e tribuna.
S come “speranza”, intesa sia come continua sottolineatura renziana di un lieto fine di là da venire (contrapposto al “cupismo pessimistico” dei 5 Stelle), sia come “Roberto Speranza”: in uno squadrone simile, un fenomeno di quella portata non avrebbe sfigurato.
T come “tapioca”, ovviamente prematurata e con scappella-mento a destra.
U come “ultimi”, riferito non ai vinti e ai dimenticati ma “agli ultimi trent’anni”. Secondo Renzi, il suo è infatti il governo “più di sinistra” dall’84 a oggi. Tra lobby di Cl, Coop e Confindustria, sembra davvero di essere circondati da Gramsci, Gobetti e Berlinguer.
V come “vento”, evocato per spiegare la pugnalata a Letta: “Se il rischio lo dobbiamo correre anche noi, la disponibilità a correre il rischio deve essere presa con il vento in faccia“.
W come “Walt Whitman”, sparato per rimarcare il proprio coraggio: “Due strade trovai nel bosco e io, io scelsi quella meno battuta”. Pare però improbabile che il poeta si riferisse qui alla conferma di Lupi e Franceschini. Va poi aggiunto come quei versi, scoperti ne L’attimo fuggente e pure mal citati, non siano di Whitman ma di Robert Frost. Renzi ha detto che sono i suoi versi preferiti: figuriamoci gli altri.
Z come “zero”. L’attuale livello di coerenza e novità denotato da Renzi dopo l’elezione a segretario Pd. Più che stare sereno, forse è il caso che cambi rotta: #matteocambiaverso.
l’Unità 23.2.14
Il premier: «Ricreazione finita»
Federica Guidi allo Sviluppo, lo sponsor è Montezemolo
Il ministero comprende anche le deleghe alle Comunicazioni
Per il Cav è una garanzia
di B. Dig.
Giorgio Squinzi non ha fatto ancora commenti sulla formazione del governo Renzi. Da uomo d’impresa, aspetta i fatti, o per lo meno gli impegni, che arriveranno solo domani con il discorso programmatico. Neanche la nomina di una imprenditrice come Federica Guidi, di casa nel sistema confindustriale, ha suscitato reazioni pubbliche da parte del vertice. Certo, confessano fonti vicine al leader degli imprenditori, c’è soddisfazione per l’incarico dato a una figura cresciuta nelle stanze di viale dell’Astronomia. Ma non ci si sbilancia più di tanto.
Il fatto è che sull’ipotesi Guidi non ha pesato certo l’influenza di Squinzi. Anzi, dai piani alti dell’associazione sottolineano che nessuna indicazione è arrivata dal presidente, né per quella nomina, né per altre. La verità è che l’imprenditrice modenese ha un altro giro di «entrature», e per dirla proprio tutta appartiene a quella parte confindustriale che ha combattuto fino all’ultimo per fermare la corsa di Squinzi. Un’«anima» da falco, come quella del padre Guidalberto, per anni vicepresidente pasdaran dell’abolizione dell’articolo 18. Niente a che vedere con gli atteggiamenti sempre dialoganti e inclusivi di Squinzi, che non combatterebbe mai una battaglia solitaria contro le controparti sindacali. Come dire: è un’altra Confindustria quella entrata nell’esecutivo Renzi.
L’opzione Guidi potrebbe essere nata sugli spalti dello stadio Franchi di Firenze, in una delle lunghe chiacchierate di Matteo Renzi con il patron della Tod’s Diego Della Valle, uno dei suoi sponsor assieme all’inseparabile amico Luca Cordero di Montezemolo. Lo sbarco dell’erede della Ducati in via Veneto ha il marchio di Mr. Ferrari, molto legato al padre Guidalberto anche attraverso Alberto Bombassei. In un certo senso è stata la squadra di Scelta civica a fare da trait d’union tra il nuovo premier e la ex presidente dei giovani industriali, tornata poi all’azienda di famiglia, in cui però ieri ha lasciato tutti gli incarichi per incompatibilità.
Ma il vero «marchio» politico di Federica Guidi arriva dritto dritto da Silvio Berlusconi. L’ex premier le aveva proposto in passato di entrare a far parte del suo governo. Solo pochi giorni fa (lo riportava ieri l’Huffington Post) il cavaliere l’aveva invitata a cena per proporle un impegno politico nella nuova Forza Italia. Poi, la capriola: l’offerta dell’incarico arrivata da Renzi. Il quotidiano online riporta indiscrezioni che parlano dell’influenza di Verdini nell’operazione. Il ministero di via veneto, infatti, comprende anche le deleghe alle tlc: roba che scotta in casa del leader di Arcore. Il quale ha sempre tenuto sotto controllo il ministero, prima con Corrado passera, poi con Catricalà nel governo Letta. Oggi arriva la giovane Federica.
Per la verità altre indiscrezioni raccontano che il suo nome sarebbe piombato all’improvviso sul tavolo di Renzi e Graziano Delrio. Fino all’ultimo altri nomi erano destinati a quell’incarico. O meglio, le caselle non erano ben definite: Giuliano Poletti e Claudio De Vincenti «ballavano » tra Sviluppo e Lavoro. Ma la formazione dell’esecutivo richiedeva ancora una donna, per raggiungere la parità con gli uomini. Non è più un mistero per nessuno che nelle ultime ore di formazione della lista di governo ad essere contattata era stata Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria. Panucci si è premurata di telefonare al suo presidente, chiedendo un consiglio. Squinzi l’ha lasciata libera di scegliere. Ma alla fine la giovane economista ha evidentemente ritenuto poco opportuno assumere un incarico politico, preferendo rimanere all’interno dell’associazione di imprese. Insomma, la Confindustria ha scelto la strada dell’autonomia dall’esecutivo. A quel punto è spuntato il nome Guidi.
Corriere 23.2.14
I sorrisi e le battute. Renzi giura
Il grande gelo di Letta
Campanella subito passata di mano senza uno scambio di sguardi
Il sindaco: "la ricreazione è finita"
di Aldo Cazzullo
La
campanella passa di mano con una velocità tale che i fotografi non
hanno tempo di scattare. Occhi girati altrove, sguardi che non si
incrociano, mani che si stringono fugacemente. Al confronto, Prodi e
Berlusconi erano cari amici. Enrico Letta è furibondo e Matteo Renzi non
fa nulla per scioglierlo. L’ex premier si sente tradito, il nuovo gli
rimprovera di averlo costretto a una forzatura «quando appariva chiaro a
tutti che non avevo scelta diversa dall’andare al governo»; a tutti,
anche a Napolitano.
Il giuramento è un «one man show». I fotografi
gridano «presidente!» e anche se siamo al Quirinale si volta subito lui,
Renzi. Del resto dieci mesi fa, nel giorno funestato dal ferimento del
brigadiere Giuseppe Giangrande, giurava il governo del presidente della
Repubblica: Saccomanni, Bonino, Giovannini; tutti assenti. Oggi giura il
governo del presidente del Consiglio. Padoan, voluto da Napolitano, non
c’è. In compenso ci sono giovani non sempre di prima fila, dietro i
quali si intravede direttamente l’ombra del premier.
Renzi ride.
Prima un sorriso breve a Maria Elena Boschi, poi uno più aperto per
Federica Mogherini, infine con Andrea Orlando scoppia proprio a ridere:
«Allora, sei contento?»; Orlando, che sarebbe rimasto volentieri
all’Ambiente evitando la grana della Giustizia, si schermisce,
interviene Napolitano: «Coraggio…». Già superata l’emozione di salire al
Colle con la moglie Agnese vestita di grigio e la figlia Ester col
piumino: «Mi sono perso due figli, dove sono Francesco ed Emanuele?».
Poi Renzi indica alla bambina lo scalone d’onore e gli stucchi. In cima
li attende Clio Napolitano con il marito.
Unico tratto formale, la
giacca scura abbottonata. Per il resto, il premier è se stesso anche nel
suo primo giorno. È il giuramento più breve degli ultimi sessant’anni —
appena quindici ministri, vista l’assenza di Padoan —, ma Renzi non
riesce a stare fermo, non sa dove mettere le mani, si alza sulla punta
dei piedi, parla con i reporter che lo fotografano, ha un gesto d’intesa
per Poletti, fa il serio solo con i ministri del Nuovo centrodestra; ma
poi ride pure con Angelino Alfano, che ha portato la moglie Tiziana e
il figlioletto Cristiano, identico a lui. I figli di Renzi sono vestiti
di bianco, rosso e verde. Con la madre li accudisce Luca Lotti,
considerato in famiglia come uno zio.
Mai vista tanta stampa estera
nel Salone delle Feste del Quirinale, compresa una troupe di cameramen
giapponesi affannatissimi. La Mogherini si è convinta di essere Hillary
Clinton e si è vestita come lei: stessa tinta dei capelli, stessa
pettinatura, stessa giacca rosa salmone. La Boschi indossa invece
pantaloni dal colore introvabile in natura. La Forrest Gump italiana,
Marianna Madia, sottratta alla visione di Peppa Pig, spiega che sarà
l’anti-Brunetta: «Nella pubblica amministrazione non ci sono fannulloni
ma preziosi lavoratori!». Molta Roma, molta Emilia. Poco Nord: nessun
piemontese, nessun veneto. Poco Sud: né campani né pugliesi.
Napolitano,
al quinto giuramento (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta), appare tra
l’imbarazzato e il divertito. La sua stretta di mano è lunga, quella di
Renzi nervosa. La Pinotti con i tacchi è più alta dei corazzieri.
Perfide croniste si sfidano a individuare il colore del vestito della
Boschi: blu elettrico, blu carta copiativa, blu tuta di Capitan America…
La Giannini, catapultata in un anno dal rettorato dell’università per
stranieri di Perugia al ministero dell’Istruzione, è in prudente nero
con due fili di perle. Comunque le donne sono le migliori in campo: si
fermano a parlare volentieri, sorridono, si fanno gli auguri a vicenda;
non a caso Napolitano si fa fotografare tra la Mogherini e la Lanzetta,
con stivali scuri al ginocchio. Ministri sbiaditi. Solo Franceschini
sorride con il capo dello Stato: «Ero abituato a essere il più giovane,
mi sono distratto un attimo e sono uno dei più vecchi…». «Chi c’è più
grande di te?». «Be’, Padoan, Poletti…». Renzi ovviamente se la ride.
Poi si ricompone al momento della stretta di mano. Federica Guidi
tradita dal trucco ha due pomi rossi sulle guance tipo Heidi d’estate.
Breve gara, tra le croniste sempre più spietate, sul colore del vestito
della Lorenzin: lavanda, carta da zucchero, prugna acerba, glicine…
Giapponesi attoniti. Alla fine i ministri si fanno un applauso e si
ritirano a brindare.
Tranne la Boschi, non ci sono renziani; c’è
lui, e basta. Dietro a ogni poltrona si staglia il profilo del premier.
Il decreto per tagliare la burocrazia e riformare la pubblica
amministrazione, ad esempio, dovrà essere varato nel mese in cui il
ministro preposto diventerà mamma per la seconda volta. I più avveduti
tra i suoi uomini si rendono conto del rischio di un accentramento
eccessivo. Dopo il primo giro di interventi nel Consiglio dei ministri,
il sottosegretario Graziano Delrio interviene per avvertire gli
esordienti: «Prendetevi le vostre responsabilità, non scaricate tutto su
Palazzo Chigi, altrimenti qui non viviamo più». Renzi ha parole di
incoraggiamento: «La ricreazione è finita, mettiamoci al lavoro. Sono
molto soddisfatto di questa squadra. Un consiglio, in particolare ai
nuovi: non fatevi impressionare dalle telecamere in attesa qui fuori.
Evitate di cadere nella trappola degli annunci. Rimanete uniti. E fate
come me: non state sempre a Roma. Andate in giro, nelle scuole, nelle
fabbriche. Non cercate privilegi, non ostentate le scorte. Evitate i
microfoni, cercate i cittadini. Parlate con le persone normali». Gli
fanno visitare Palazzo Chigi: «Quando sarò a Roma voglio stare qui, ma
nell’appartamento di servizio, quello più piccolo». Poi la telefonata ai
marò prigionieri in India: «Non vi abbandoneremo, faremo di tutto per
riportarvi a casa». In privato Delrio avverte i ministri: «Non abbiamo
tempo da sprecare. Ci giochiamo già molto fin dalle prime settimane.
Dobbiamo subito battere due o tre colpi sul lavoro, la burocrazia, il
fisco. E anche sui tempi della giustizia». Di nomine non si è parlato,
ma un reporter inglese riferisce le voci che girano a Londra: Colao
all’Eni, Gubitosi all’Enel, che libererebbe la direzione generale Rai
per Campo Dall’Orto .
Un anno fa, nell’ultimo weekend di febbraio,
si andava a votare, con lo choc del disastro di Bersani, della rimonta
di Berlusconi, del successo di Grillo. Renzi va di fretta come se il
Paese avesse perso un anno aspettando lui, Letta esce di scena in
silenzio salutando gli impiegati di Palazzo Chigi con la mano sul cuore.
Prima di tornare a Pontassieve con la famiglia, il nuovo premier saluta
la folla di passanti e di curiosi. Presto si accorgerà che il rapporto
con l’opinione pubblica non si esaurisce nei «selfie» e nei «cinque»
distribuiti al volo; in questa situazione — con Berlusconi
all’opposizione, Grillo pronto all’ostruzionismo anche fisico in
Parlamento, lettiani e bersaniani dal coltello pronto dietro la schiena,
il difficile voto europeo del 25 maggio —, il nuovo governo non avrà
neppure i classici cento giorni per portare a casa i primi risultati .
La Stampa 23.2.14
Gratteri voleva “carta bianca” Così è stato bocciato
L’incarico alla Giustizia sfumato all’ultimo
di Guido Ruotolo
Deve esserci rimasto male. Alla fine di un estenuante tira e molla Nicola Gratteri aveva ceduto. «Ma sia chiaro - aveva detto allo sherpa Graziano Delrio e allo stesso Renzi - mi dovrete lasciare carta bianca sulla riforma dei codici e sulla riorganizzazione della giustizia». Quell’impegno l’aveva ottenuto. E, dunque, quando ha visto aprirsi la porta e uscire Renzi nella Sala della Vetrata, era convinto che avrebbe sentito leggere il suo nome come ministro di Giustizia.
Non avevano messo nel conto Renzi e lo stesso Gratteri l’opposizione che la sua nomina a Guardasigilli avrebbe trovato nel Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Inspiegabile, se fosse una pregiudiziale nei confronti di un magistrato, perché non sarebbe stata la prima volta, appunto, di un magistrato Guardasigilli. Proprio con l’ultimo governo Berlusconi aveva giurato un magistrato che aveva lavorato alla procura nazionale antimafia, Nitto Palma.
«Non dico nemmeno una sillaba». È l’unico commento strappato al procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Un silenzio dettato intanto dalla discrezione, in questi casi. Gratteri è un magistrato operativo, l’ultima sua inchiesta «New Bridge» ha portato al fermo nei giorni scorsi di esponenti della ’ndrangheta che trafficavano in droga con la famiglia mafiosa dei Gambino di New York.
Memoria storica della lotta alla ’ndrangheta, Gratteri è nato e vive a Gerace, Locride. Terra di ’ndrangheta, di sequestri di persona un tempo, dei più importanti trafficanti di cocaina in Europa oggi. E lui, oltre a coordinare tutta l’Antimafia della provincia orientale di Reggio Calabria, è stato responsabile anche della sala d’ascolto (delle intercettazioni) della procura di Reggio Calabria.
Un esperto di ’ndrangheta e di strumenti investigativi. Un «razionalizzatore» in grado di produrre risparmi ed efficienza. E oltre a una prolifica produzione di libri sulla ’ndrangheta (gli ultimi collaboratori di giustizia raccontano che ormai ogni ’ndranghetista ha sul comodino del letto i suoi libri), Gratteri ha lavorato in una commissione presieduta da Roberto Garofoli, segretario generale di Palazzo Chigi, che ha prodotto un testo ricco di spunti per una efficace lotta alla criminalità.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi rimase colpito della sua dichiarazione - erano le ore della clamorosa e sanguinaria evasione dell’ergastolano Francesco Cutri, a Gallarate - sulla necessità di ridurre il rischio di evasione durante i trasferimenti dei detenuti, introducendo la videoconferenza anche per «i detenuti di alta sicurezza».
Al largo del Nazareno sono convinti che la «risorsa» Gratteri non potrà non essere utilizzata. Lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nelle prossime ore potrebbe decidere di consultare di nuovo lo stesso Gratteri.
il Fatto 23.2.14
Federica Guidi
Lo Sviluppo riparte da una cena ad Arcore
di Ste. Fel.
Federica Guidi non è una quota rosa, è una quota azzurra. È l’unico ministro del governo Renzi che anche Silvio Berlusconi avrebbe voluto se a Palazzo Chigi ci fosse stato lui con Forza Italia. A chiarire le simpatie della signora modenese sarebbero bastate le dichiarazioni della titolare dello Sviluppo economico quando era a capo dei giovani di Confindustria, il sorriso mentre Berlusconi umiliava lei e Emma Marcegaglia da un palco: “Prendete atto che sono l’unico uomo e che queste due donne non sono minorenni” (era il 2009).
Sull’HuffingtonPost.it Alessandro De Angelis rivela che ancora lunedì sera Federica Guidi era ad Arcore, assieme al padre Guidalberto da cui ha ricevuto un’azienda (la Ducati Energia, dalla cui vicepresidenza il ministro ora si dimette) e le sue entrature confindustriali e politiche. A cena il Cavaliere, scrive De Angelis, non nasconde la sintonia: “Federica, prima o poi questa tessera di Forza Italia dovrai fartela...”. La Guidi è una delle scelte più misteriose di Renzi: non ha esperienza ministeriale, guidare la Confindustria giovani non è un vero lavoro, non richiede particolari competenze, a parte lamentarsi un paio di volte all’anno da Santa Margherita Ligure e da Capri per il fisco e la burocrazia che opprimono le imprese.
QUINDI PERCHÉ dare alla Guidi un ministero come lo Sviluppo, dove ha faticato un super-manager come Corrado Passera e un sindaco esperto come Flavio Zanonato è stato travolto dalla complessità della struttura? Per rassicurare Confindustria, certo, ed evitare che faccia opposizione a Renzi come durante la fase finale dell’esecutivo Letta. Ma anche per rassicurare Silvio Berlusconi su una delle sue due preoccupazioni (una è l’arresto, l’altra le comunicazioni, che dipendono dallo Sviluppo). Non sono più i momenti cruciali del beauty contest che doveva regalare a Rai e Mediaset le frequenze liberate dal passaggio della tv dall’analogico al digitale: tra lungaggini burocratiche e vincoli europei, le frequenze si sono svalutate e sono meno strategiche (ma Mediaset almeno ha evitato l’ingresso di pericolosi concorrenti).
Nel dubbio meglio prevenire: ora che Google, per esempio, ha un potere di lobby tale da spingere Renzi a bloccare la apposita tassa voluta da Letta, per Mediaset si annunciano anni complicati. Sta arrivando Netflix, a sconvolgere il mercato della tv a pagamento, Mediaset Premium non ha mai funzionato e ora, dopo aver acquistato l’esclusiva della Champions League, cerca nuovi assetti, magari fusioni. Il ministro sbagliato potrebbe favorire il web a scapito della vecchia tv generalista. Ma Berlusconi non pare doversi preoccupare. Vedremo se come vice alle Comunicazioni la Guidi confermerà Antonio Catricalà, da sempre amico di Gianni Letta, ombra del Cavaliere.
Repubblica 23.2.14
Guidi, prima grana per Renzi quelle cene a casa di Berlusconi e l’azienda in affari con lo Stato
Lei lascia l’impresa. Il Cavaliere: ho anche io un ministro
di Roberto Mania
ROMA -Lunedì scorso a cena ad Arcore da Berlusconi, forse per parlare anche di una sua possibile candidatura con Forza Italia alle prossime europee. Ieri il Cavaliere che pare abbia detto ai suoi: «Abbiamo un ministro pur stando all’opposizione ». Su Federica Guidi, neo ministro dello Sviluppo Economico con delega anche alle Comunicazioni, tv comprese, è già bufera. Perché c’è pure un potenziale conflitto di interessi per via delle commesse dell’azienda di famiglia, la Ducati Energia, con Enel, Poste, Ferrovie. Un ginepraio. Dalle imprevedibili conseguenze politiche.
Ma andiamo con ordine. «Donna, imprenditrice, quarantenne, famosa»: questo era l’identikit tracciato da Matteo Renzi, tra giovedì notte e venerdì, per il ministro dello Sviluppo Economico. Casella chiave per provare a far ripartire la produzione e il lavoro. E donna, imprenditrice, quarantenne e famosa, appunto, è stata: in Via Veneto, nel ministero che fu anche delle Corporazioni, è arrivata Federica Guidi, figlia di imprenditore, che ha battuto al fotofinish Marcella Panucci, direttore generale della Confindustria. E forse per la fretta, forse per qualche sottovalutazione, forse per tutte e due le cose messe insieme, Federica Guidi ora rischia di portare con sé, nel suo ufficio al primo piano dell’austero palazzo disegnato da Piacentini e Vaccaro, una notevole dose di potenziali conflitti di interesse. Perché la Ducati Energia in quel di Bologna, con fatturato in crescita negli ultimi anni (oltre i 110 milioni) e una sempre più marcata spinta alla delocalizzazione nell’est Europa (Croazia e Romania), nell’estremo Oriente (India) e in America Latina (Argentina) lavora (tanto) di commesse pubbliche, nazionali ed estere. Con un rapporto strettissimo, dunque, con la Pubblica amministrazione. E non è affatto un caso che ieri il primo atto del neo ministro Guidi, dopo il giuramento al Quirinale, sia stato proprio quello di dimettersi da tutte le cariche operative (era vicepresidente con la delega sugli acquisti) della Ducati Energia e dal consiglio del Fondo italiano d’investimento. Un passo inevitabile, ma una conferma dei possibili conflitti. L’ultima parola spetterà comunque all’Antitrust, l’autorità di garanzia alla quale la legge Frattini ha attribuito il potere di giudicare la posizione dei membri del governo. Dice Stefano Fassina, ex vice ministro dell’Economia, esponente della minoranza del Pd: «Il potenziale conflitto di interessi è del tutto evidente. Ma oltre a questo mi preoccupa la visione del ministro sulla politica industriale, la sua idea di rilanciare il nucleare, la sua contrarietà al ruolo dello Stato nell’economia. Penso che ci sarebbe bisogno di un ministro dello Sviluppo con un orientamento molto diverso».
La decisione di ieri della Guidi riduce solo di poco dunque il pericolo dei conflitti per l’ex vicepresidente della Ducati Energia, ora super ministro con responsabilità sulle politiche industriale, su quelle energetiche, sulla gestione delle tante (sono 160 le vertenze sul tavolo)crisi aziendali, e sul politicamente sensibile settore delle comunicazioni dove si addensano gli interessi dell’ex senatore Berlusconi.
E qui risiede anche il “caso Guidi” sul versante politico. Tra Guidalberto Guidi, ex falco confindustriale, e Berlusconi c’è un’antica consuetudine. Anche lui era alla cena di Arcore di lunedì. La figlia Federica ha sempre espresso posizioni vicino alla destra berlusconiana. È stata euroscettica, iperliberista fino al punto di proporre l’abolizione del contratto nazionale di lavoro sostituendolo con i contratti individuali. Il Cavaliere ha provato più volte a candidarla nelle sue liste. Pensò addirittura a un futuro da vice di Forza Italia per la giovane industriale. Che ora, però, è al governo mentre Berlusconi è all’opposizione.
E i problemi nascono dalle competenze che ha il dicastero dello Sviluppo. L’azienda dei Guidi, infatti, opera in tutti i settori controllati dal ministero: energia elettrica, eolico, meccanica di precisione, elettronica. Fornisce i suoi prodotti, oltreché a diversi enti locali e alle rispettive municipalizzate, ai grandi gruppi pubblici di cui lo Stato è ancora azionista di maggioranza o di riferimento, attraverso il ministero del Tesoro: Enel, Poste, Ferrovie dello Stato.
Lo stabilimento bolognese della Ducati Energia si è trasformato nel tempo in un impianto di mero assemblaggio di parti di prodotto che vengono realizzate all’estero. Sono circa 60 gli operai su un totale di quasi 220 lavoratori (impiegati, tecnici, ingegneri). Il restante dei 700 dipendenti, a parte una ventina che opera nel laboratorio di ricerca a Trento, è all’estero dove Guidi si è spostato da tempo per ridurre i costi di produzione. La Ducati ha sei stabilimenti nel mondo e produce, tra l’altro: condensatori, generatori eolici, segnalamento ferroviario, sistemi ed apparecchiature autostradali e per il trasporto pubblico, veicoli elettrici e colonnine di ricarica, generatori e motori elettrici, rifasamento industriale e elettronica di potenza. Oggi dalla fabbrica italiana di Borgo Panigale escono i “Free Duck”, piccole automobiline alimentate a elettricità, che vengono utilizzate dalle Poste per la consegna delle lettere e dei pacchi, da diversi Comuni per la raccolta dei rifiuti, e anche dalla Polizia municipale, per esempio a Genova. Alle municipalizzate (l’Atac di Roma, per esempio) le macchine per obliterare i biglietti dell’autobus. All’Enel dalla Ducati Energia arrivano le cabine per lo smistamento dell’energia e anche le colonnine per le ricariche delle automobili elettriche. Alle Ferrovie dello Stato sistemi per verificare la funzionalità dei binari e le macchinette per l’emissione dei biglietti self service. A Finmeccanica, negli anni passati, Guidi aveva presentato un’offerta per rilevare la Breda Menarinibus. Proposta che però non venne accolta dai vertici di Piazza Monte Grappa.
Guidalberto Guidi, da presidente dell’Anie (l’associazione di Confindustria delle imprese elettrotecniche ed elettroniche) condusse una battaglia a favore degli incentivi per le energie rinnovabili. Fu scontro anche in Confindustria tra i produttori tradizionali e gli altri. Non sarà facile, insomma, per il ministro Guidi puntare all’obiettivo di tagliare, come chiede Renzi, del 30% la bolletta energetica gravata dai 12,5 miliardi proprio di incentivi, per il 70% destinati alle rinnovabili. Figlia-ministro contro padre-imprenditore. Un altro conflitto di interessi?
Poletti è presidente dell’Alleanza della cooperative (Coop rosse più coop bianche) con la Compagnia delle Opere il braccio economico-finanziario di Comunione e Liberazione
Fra di esse anche Eataly distribuzione, una delle parti del gruppo alimentare di Oscar Farinetti, imprenditore molto vicino a Matteo Renzi
il Fatto 23.2.14
Giuliano Poletti
La rete d’affari delle coop (Tav, Eataly...) è al Lavoro
di Salvatore Cannavò e Stefano Feltri
C’erano molte ragioni per nominare Giuliano Poletti ministro del Lavoro. Ma ce n’erano anche tante per non farlo: come presidente dell’Alleanza della cooperative (Coop rosse più coop bianche) e storico presidente della Lega coop nazionale è il terminale di un intreccio imprenditoriale e politico che, a voler essere rigorosi sui potenziali conflitti di interesse, praticamente gli impedirebbe di toccare qualunque dossier. Perché la rete delle Coop arriva ovunque: per esempio c’è Obiettivo Lavoro, un’agenzia di servizi per il lavoro creata nel 1997 dalle larghe intese tra Coop e Compagnia delle opere (Comunione e liberazione). Ma le cooperative di cui lui è stato per anni il più alto rappresentante con la Compagnia delle opere si dividono anche gli appalti per Expo 2015 a Milano e alcuni dei grandi colossi cooperativi delle costruzioni sono attivi in progetti ad alta sensibilità politica, come la Cmc di Ravenna che si occupa dei tunnel Tav Torino-Lione. Per passare dal macro al micro, tre grandi coop di consumo (Liguria, la piemontese Nova coop e Coop Adriatica) sono socie di Eataly distribuzione, una delle parti del gruppo alimentare di Oscar Farinetti, imprenditore molto vicino a Matteo Renzi. E con Eataly le coop collaborando in tante librerie, tra letteratura e gastronomia. Ma queste sono minuzie a fronte di altri intrecci: tutte le grandi coop hanno scommesso sulla finanza, alcune su Monte dei Paschi (con risultati disastrosi) altre su Unipol, il gruppo bolognese guidato da Carlo Cimbri che ora si è fuso con la Fonsai post-Ligresti creando il colosso del settore. La vigilanza sulle coop non è più del ministero del Lavoro, è passata allo Sviluppo, ma ci sono materie che saranno di diretta competenza di Poletti. Come le regole sui contenziosi di lavoro.
Negli anni della crisi si è moltiplicato il numero di cause di lavoro in un mondo, quello cooperativo, che si presenta come armonioso e immune dalle tensioni tipiche dell’impresa. A Bologna Poletti si era schierato con Granarolo contro la Clt, società che gestisce la piattaforma logistica dell’azienda alimentare e che aveva subappaltato i lavori a un’altra coop che aveva poi tagliato gli stipendi del 35 per cento. Dopo le proteste Clt ha assorbito 80 facchini della coop, ma non i 23 protagonisti della protesta. In questi giorni si discute del caso di Lucia Di Maio: lavorava per un supermercato di Unicoop vicino ad Avellino, quando il negozio è stato ceduto a un’altra azienda, lei è stata licenziata nel 2009. Nel 2013 il tribunale stabilisce il reintegro: Unicoop le restituisce il posto, ma a Orbetello, a 400 chilometri da casa.
A Poletti il Jobs Act di Matteo Renzi è piaciuto subito, e anche la riforma Fornero che ha indebolito l’articolo 18 non gli è dispiaciuta. “Ho iniziato a lavorare nei campi a sei anni, so cosa vuol dire il lavoro”, ha detto ieri.
il Fatto 23.2.14
La scelta per l’Ambiente
Galletti (un Udc di Casini) e il passato nuclearista
Le prime polemiche per Gianluca Galletti arrivano in contemporanea al suo giuramento da ministro dell’Ambiente. A Galletti è rimproverata una vecchia presa di posizione a favore dell’energia nucleare. L’emittente bolognese Radio Città del Capo ha pubblicato su twitter un’intervista del 2010. Galletti era candidato alla presidenza della Regione Emilia-Romagna per l’Udc. Durante la conversazione, il neoministro parlava favorevolmente del rilancio della produzione di energia da fonti nucleari. Doveva ancora arrivare il 2011, l’anno della strage di Fukushima e del referendum che ha cancellato le norme sulla costruzione di nuove centrali. Ma in rete qualcuno ha già fatto partire la polemica. Il primo a contestare ironicamente il neoministro è Franco Grillini, storico leader del movimento gay, ex consigliere regionale Idv, ora LibDem: “Galletti, nuclearista, all’ambiente. Quindi Roccella alle pari opportunità, Borghezio all’integra - zione, Formigoni al turismo, Berlusconi alla giustizia, Razzi alla cultura, Marchionne al lavoro...”.
il Fatto 23.2.14
Il governo come un talent: Renzi non vuole l’esperienza
di Furio Colombo
Il fatto è che a questa compagine di governo non manca Emma Bonino, come in tanti hanno detto. Manca Simona Ventura, per organizzare il nuovo XFactor. Manca la De Filippi per ricordare ai giovani concorrenti le regole del talento italiano. Non ci hanno presentato un governo. Ci hanno presentato un concorso di giovani talenti che ti prende di sorpresa per l’alto rischio e la regola chiave: il concorrente non deve essere informato sulla materia in cui è chiamato a competere. Gli spettatori seguiranno lo spettacolo col cuore in gola. Perché c’è quest’altra regola: se non vince il giovane che compare per la prima volta su questa scena, ne risponde lo spettatore. Formula nuova, no? Certo l’eliminazione della Bonino, mandata a casa mentre faceva il ministro degli Esteri in uno dei momenti più delicati della storia della Repubblica, per questo governo era indispensabile. Che cosa ci faceva una competente nel nuovo tipo di gara? D’accordo, dal punto di vista dei nostri interessi internazionali questa improvvisata “staffetta” tra chi sa e chi non sa, sia pure per il gusto del brivido, è una decisione alla cieca.
PRENDETE la questione dei fucilieri di Marina consegnati alla polizia indiana da un armatore privato a cui erano stati concessi benevolmente dallo Stato italiano come scorta. Se c’è una trattativa, il brusco cambio la ferma. Se è in corso un confronto di credibilità e autorevolezza, lo liquida. Dettagli. A Renzi premeva far pesare un criterio assoluto, semplice e antico: io sono io, e voi (ovvero chiunque non sia un mio fedelissimo), non contate e non dovete contare niente (ho semplificato il concetto). Ma la decisione sembra anche dettata da un criterio ossessivo di età e di “lookkismo” (che si scatena in Renzi se si tratta di donne, alla faccia delle pari opportunità) di cui non si può che dare le due definizioni correnti: delusione (per coloro che avessero creduto nel Renzi “il nuovo”) ed errore. Non perché la Bonino sia la più brava del mondo. Ma perché, a quel livello, la sostituzione non c’era. Si è dovuto ricorrere a personale locale fornito dagli uffici Pd. Il risultato è un cast che potrà soddisfare il pubblico interno (non il popolo Pd, solo la Direzione del Pd). Interessa poco ricostruire il gioco rovesciato del presidente della Repubblica, che ha mezzo perso, perché ha dovuto accettare tutta la lista meno uno, e ha mezzo vinto perché, in cambio, ha imposto un suo uomo e ha fatto durare quasi tre ore “l’incontro formale” affinché le porte, che restavano chiuse, dimostrassero chi comanda. Renzi darà una sua versione dell’Italia, dell’Europa, della vita, nel suo discorso di investitura. Ormai si sa che sarà “giovane”, tenderà alla battuta (che riguarda lui solo ed è un tantino fuori posto), trasuderà compiacimento e non avrà alcuna visione del mondo. Niente crisi con l’India, niente attenzione al dramma ucraino, niente percezione delle rivolte nel mondo, niente Medio Oriente, niente Africa, niente Nord Africa, niente immigrati, tutte materie di cui i suoi amici giovani non hanno molte idee. Poteva, questo spensierato club di girl e boy scouts sedere allo stesso tavolo con Emma Bonino, rischiando di sentirsi ascoltati a ogni intervento, di svelare l’incredibile distanza fra i nuovi talenti in concorso e la realtà? Non potevano. Far fuori un testimone ingombrante era più facile che trattenerla e tentare di tenerla a bada.
Difficile che la nuova titolare della Farnesina che appena appena si stava facendo una esperienza nei percorsi non proprio semplici del Pd, che è intelligente, ma quasi del tutto estranea agli affari del mondo, possa prendere in mano senza danno segretari generali , ambasciatori e organismi internazionali e concepire una strategia e dettare una linea. Le ci vorrà del tempo, tutto a carico di chi deve restare sulla porta delle prigioni indiane. Tutto a carico delle crisi mondiali in cui l’Italia avrebbe un ruolo e un peso politico che non avrà. Cerco un’altra ricostruzione dell’insolito evento. Diciamo che la scelta è stata di formare il governo come uno di quei centri di formazione e riqualificazione del personale tra un impiego e l’altro. Tutta gente che un giorno potrà far bene e intanto impara. Ma nella concezione del fondatore della nuova “scuola della politica”, un simile corso di formazione deve avere un solo maestro, Renzi stesso, che può davvero farti capire perché, per prima cosa, se vuoi riuscire nella vita, devi pensare e guardare a te.
IL FASTIDIOSO intromettersi nei fatti che non ti riguardano, diritti umani, diritti civili, fermenti e pericoli negli altri Paesi, persecuzioni e discriminazioni, che non erano purtroppo nell’agenda del Pd già prima di Renzi, non avrebbe giovato al corso di formazione dei nuovi ministri giovani. Difficile dimenticare che il partito di cui Renzi è diventato trionfalmente segretario è lo stesso che, poco prima della rovinosa caduta del dittatore Gheddafi, persecutore di ogni diritto civile, lo ha dichiarato, con trattato vivamente sostenuto dal Pd, il migliore amico dell’Italia. Lo stesso partito che ha accettato, in questi giorni, che i giovani con le bocche cucite, illegalmente detenuti nel Cie di Roma, fossero espulsi, ovvero rimandati da dove erano fuggiti senza accertare se avessero diritto d’asilo o se rischiassero la pena di morte. Con i discorsi alle Camere, inizia non un governo ma un percorso molto ambito di formazione politica, e un vivace concorso Tv. Ti insegna che il centro sei tu e che la simpatia della giovinezza fa miracoli. Per te. Gli altri, se non sono fedelissimi, sono una perdita di tempo. Il mondo si stringe, in questa strana fase della globalizzazione. O almeno si stringe il mondo politico italiano. Da una parte Grillo, che possiede la parola assoluta, dall’altra Renzi, che possiede l’immagine assoluta. Poi ci sono armadi pieni di Berlusconi dismessi e di ambizioni da viale del tramonto. Peccato non aver notato che, proprio lì, sul banco del governo, non era il caso di abbandonarsi a esibizioni di flamenco e tip tap. Non resta che attendere l’opinione della giuria popolare.
il Fatto 23.2.14
Chiedo ancora: chi comanda davvero?
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, qualche tempo fa, di fronte alle manovre in atto sull’articolo 138, lei aveva sottolineato che la missione difficile, persino pericolosa, del “Fatto Quotidiano”, era rispondere a questa domanda: chi comanda davvero in Italia e dove vuole portarci. Le chiedo se la risposta è più vicina o più lontana dopo gli sconcertanti eventi di questo inizio d’anno. Antonio
PIÙ LONTANA, perché in luogo della ricerca alla vera risposta, in cui dovremmo essere coinvolti in tanti, dovremo dedicare (immagino) tempo e spazio alle nuove avventure di Matteo Renzi e della sua sconvolgente - e poi frenata - velocità d’azione. Ma appena ci saremo rimessi dallo spostamento d’aria, saremo ancora con la domanda inevasa di questa lettera. Il fatto è che - per qualche errore professionale, o forse per istintiva prudenza - ci troviamo ancora non solo senza risposta ma anche senza voglia di sapere. Tanto che, se possibile, in tanti stanno alla larga da questa domanda. Noterete che vi sono due tipi di ineludibili priorità. Primo tipo: certe “grandi opere”, che non sono mai scuole, ospedali o carceri. Sono sempre autostrade veloci e pulite per eliminare la lenta e rumorosa rotaia (“corridoio tirrenico”, dal Lazio al Piemonte) e rotaie velocissime (dal Piemonte alla Francia) per sostituire la lenta e inquinante autostrada, dalla Val di Susa a Lione, dove si scava alacremente un’intera valle contro la volontà di chi ci vive e ci abita e ha già detto no in tutti i modi. C’era anche il Ponte di Messina, ricordate? Adesso ci sembra imbarazzante ricordare le simulazioni al computer che venivano trasmesse nei tg come se fossero vere. Ma allora persone adulte e serie (va bene, diciamo semi-serie) ce ne parlavano da tutti i pulpiti e camere e senati e talk show. Forse un giorno saremo liberi di parlare con la stessa tranquillità del Tav e del “corridoio tirrenico” (non si sa quale dei due è più inutile e più dannosa per l’ambiente). Ma adesso sono priorità assolute, e chiedono persino la forza per essere realizzate, pena l’impossibilità di agganciarci alla ripresa. Vorrei chiarire al lettore: la resistenza non è inutile. Il Ponte di Messina non c’è, benché avesse potenti sponsor in maschera, come nel film “Eyes Wide Shut” di Kubrick. Ammettere di non sapere chi è il committente (certo non Angelino Alfano, così tipicamente uomo “agli ordini”) non è pessimismo, è realismo. Vuol dire essere consapevoli che, persino per il velocissimo Renzi, la canzone non è, come qualcuno ha scritto preso da una vampata di entusiasmo, “The times they are a-changin” ma “You have to serve somebody” (anche tu devi servire qualcuno). Il celebre realismo di Bob Dylan vuole che persino lui concluda la splendida canzone senza svelare o voler dire, alla fine, chi è il “somebody”. Lui si limita a suggerire “forse Dio, forse il diavolo”. Come in certi giochi intelligenti, capirlo tocca a noi.
La Stampa 23.2.14
Sul governo una certezza e un dubbio
di Luca Ricolfi
Il governo Renzi ha giurato, gli italiani – dopo una settimana di Sanremo alquanto impegnativa – si preparano ad assistere al nuovo spettacolo, quello della politica nazionale, più perplessi che entusiasti, più preoccupati che curiosi, più speranzosi che fiduciosi.
Anch’io mi sento parte di questo sentire strano e, a mia memoria, del tutto senza precedenti.
Un sentire che, per quel che riesco a capire, deriva dal fatto che nella mente di tante, forse tantissime persone, si sono installate una certezza e un dubbio. Una certezza granitica e un dubbio inestirpabile.
La certezza granitica è che «Matteo ce la deve fare». Ce la deve fare perché il nostro Paese è in tragico ritardo su tutti i fronti, e questa è l’ultima occasione. Credo che fra la gente normale, non ammalata di faziosità e di politica, nessuno si auguri un fallimento di Renzi. Persino coloro che lo detestano, coloro che lo trovano sfrontato e vanitoso, coloro che si sentono turbati dalla sua spregiudicatezza, persino tutti costoro non si augurano davvero un naufragio del governo Renzi. Perché tutti, quasi tutti, sentiamo che l’Italia non si può permettere un altro periodo di caos e ingovernabilità, e che caos e ingovernabilità sarebbero i frutti avvelenati di un’eventuale caduta di Renzi.
Accanto alla certezza granitica c’è però anche il dubbio, un dubbio grande come una casa. Chi non crede nei miracoli, o perlomeno non crede che la politica sia capace di miracoli, non riesce a nascondersi che quello che Renzi sta chiedendo agli italiani è un vero e proprio atto di fede. Un qualcosa che va contro ogni ragionevole aspettativa e ogni realistica valutazione dei confini del possibile. Renzi ci sta chiedendo di credere nel nuovo in quanto nuovo. Nessun’altra credenziale, che sia visibile a noi cittadini ignari, sembrano possedere la maggior parte dei nuovi ministri se non quella, appunto, di essere nuovi. Ma ci si può entusiasmare solo del fatto di vedere facce nuove, fresche, giovani e femminili?
Forse sì, ma permettetemi di dare un’occhiata ai curricula, sempre che le cose che uno fa nella vita – studi, ricerche, esperienze professionali – abbiano ancora un qualche valore. Intanto, salvo un paio di nomi, di veri giovani ce n’è ben pochi, a meno di definire «giovani» persone che hanno superato i 40 anni (nel mondo della gente comune una persona di 40 anni è un adulto, e spesso ha vent’anni di lavoro alle spalle). Questa normalità anagrafica del governo, il fatto di non essere un governo di ragazzini, è tutt’altro che un difetto, considerato che, per un ministro, l’esperienza e la competenza negli ambiti di cui si dovrà occupare sono delle virtù. Ed eccoci al punto dolente: i medesimi curricula che rivelano che l’età media dei membri del governo sfiora i 50 anni, ci offrono un quadro tutt’altro che rassicurante proprio su esperienza e competenza. Superata la soglia dei 40 anni, e a maggior ragione superata quella dei 45 o dei 50 anni, ci aspetteremmo che un ministro – ossia una persona chiamata ad occupare il posto di più alta responsabilità in un dato ambito – sia scelto fra i migliori nel suo campo. Dove essere fra i migliori significa aver già dimostrato, nel proprio lavoro, di essere fra i più capaci, i più preparati, i più disinteressati. Questo è essenziale, in particolare, nei ministeri (a mio parere quasi tutti) in cui non bastano esperienza e competenza politiche, ma occorre una profonda familiarità con la materia di cui il ministero si occupa. Perché se è vero che in certi ministeri (ad esempio agli Affari esteri, o agli Affari regionali) quel che conta è soprattutto l’esperienza politica, diplomatica o amministrativa, è ancor più vero che nella maggior parte degli altri (e più che mai nel caso di Economia, Lavoro, Istruzione, Pubblica Amministrazione, Sanità, Giustizia), è cruciale che il ministro abbia una conoscenza non superficiale delle materie che tocca. Detto per inciso, è proprio questo uno dei difetti principali della «vecchia» politica: la storia della seconda Repubblica è piena di riforme abortite, degenerate, o stravolte in quanto pensate da ministri esclusivamente preoccupati del «messaggio politico», ma del tutto incapaci di valutare le conseguenze effettive delle leggi che promulgavano. Ministri, insomma, ignari del fatto che anche l’idea migliore può generare il suo opposto, perché «il diavolo si nasconde nei dettagli».
Da questo punto di vista il governo Renzi è veramente molto vecchio, ossia costruito con una logica vecchia. Là dove serviva esperienza politica e c’era un ottimo ministro, universalmente stimato e noto in tutto il mondo, ossia al ministero degli Esteri, si invita Emma Bonino a farsi da parte. E là dove sarebbero serviti i migliori dei rispettivi campi, ossia nei ministeri che richiedono anche competenza tecnica, in troppi casi (non in tutti, per fortuna: vedi ad esempio Economia e Istruzione) si piazzano politici puri, senza alcuna credenziale nelle materie di cui dovrebbero occuparsi, ma con un’attenzione degna di miglior causa agli equilibri fra le forze politiche e fra le correnti del Pd. Politici cui sarebbe ingiusto rifiutare a priori qualsiasi credito, ma cui è altrettanto difficile affidarsi con la tranquillità che ci trasmette un bravo nocchiero.
Ed ecco allora una domanda vera, nel senso che davvero non so come siano andate le cose: perché tutti i nomi eccellenti che sono girati per i ministeri chiave sono caduti?
Nei giorni del totoministri giravano nomi di altissimo livello come quelli di Lucrezia Reichlin, Oscar Farinetti, Andrea Guerra, Alessandro Baricco, Pietro Ichino, Tito Boeri. Se fossero entrati tutti, o ne fossero entrati altrettanti consimili, sarebbe stato davvero il nuovo, un corpo mortale inferto alla vecchia politica. E io non sarei qui a scrivere questo articolo, né avrei letto le decine di commenti preoccupati che sono usciti sui giornali di ieri (sabato).
Che cosa è successo?
Io non l’ho capito. Renzi ha chiesto a tutti o a quasi tutti di entrare nel suo governo e ne ha ricevuto altrettanti rifiuti? E se sì, qual è la ragione?
Una possibile risposta è che, chiunque nella sua vita abbia lavorato davvero, abbia dimostrato le sue capacità, e abbia raggiunto una posizione di prestigio, non ha molta voglia di immolarsi per una posizione di ministro che potrebbe durare poco, e guadagnargli solo frustrazioni, arrabbiature, impopolarità e discredito.
Una seconda possibile risposta, molto più inquietante, è che Matteo Renzi sia apparso ai suoi potenziali ministri con le idee troppo vaghe sui contenuti. Che di fronte alla giusta domanda «per fare che cosa dovrei diventare ministro?» si sia tenuto un po’ tanto sulle generali.
Come siano andate le cose non lo so, e forse non lo sapremo mai. Per questo, per ora, non riesco a liberarmi né della mia certezza, che sia un bene per l’Italia che Renzi ce la faccia (in bocca al lupo!), né del mio dubbio, e cioè che Renzi non si sia reso conto fino in fondo della smisuratezza dell’impresa che ci promette di compiere.
«In questi giorni si è parlato molto di Tony Blair. Più volte il suo nome è stato accostato a quello di Matteo Renzi»
Corriere 23.2.14
Come perdersi all’italiana nella terza via più maliziosa
di Aldo Grasso
Tony, uno di noi. In questi giorni si è parlato molto di Tony Blair. Più volte il suo nome è stato accostato a quello di Matteo Renzi (è vero il contrario, ma per la nostra storia va bene così). Tony si è persino lanciato in unendorsement: le sfide del nuovo governo «sono assolutamente straordinarie, ma Matteo ha il dinamismo, la creatività e la forza per avere successo, con la combinazione di realismo e idealismo che servono per i tempi in cui viviamo». Matteo è stato paragonato a Tony per la sua determinazione a modernizzare il Paese con una sorta di «terza via» tra il neoliberismo della destra (Federica Guidi, Confindustria) e le politiche assistenziali della sinistra (Giuliano Poletti, il ministro Coop).
Tony, uno di noi. Ma l’accostamento che in queste ultime ore ingolosisce di più è quello con Berlusconi. Per farla breve, anche a Tony il bunga bunga non dispiace. Nel Regno Unito, i tabloid si sono scatenati sulla notizia di un flirt tra l’ex primo ministro e Wendi Deng, ex moglie del magnate delle Comunicazioni Rupert Murdoch: i bigliettini in cui la donna ammette di provare del tenero (warm feelings ) per l’ex leader laburista, i messaggini hot («Oh, ma come mai Tony mi manca così tanto... Ha un corpo talmente bello, bellissime gambe, cu... ed è snello, alto, la pelle bella. Occhi blu penetranti che amo. Amo i suoi occhi. Amo anche la sua forza sul palco... e altro ancora e altro ancora»). Poi ci sarebbe la storia di Rebekah Brooks, ex direttrice del Sun e di News of the World , il braccio armato dei giornali di Murdoch. Questo secondo triangolo, fra Tony, Rebekah e Rupert è roba pesante, non solo da gossippari.
Tony, uno di noi, nega tutto. Viene in mente Cherie Blair, invitata da Fabio Fazio per presentare la sua biografia. La moglie raccontava che Tony, ospite in Sardegna, faceva lo schizzinoso con Berlusconi: «Qualsiasi cosa accada, fa’ in modo che non mi scattino fotografie vicino a Silvio con la bandana. Mettiti tu in mezzo, altrimenti la stampa britannica ci uccide». Ora è lui a dover sopportare le malignità pruriginose.
Da sempre il potere ha i suoi vizi da arcangelo caduto, i suoi scandali fra le lenzuola, le sue spudorate seduzioni; l’importante, caro Renzi, nostro Blair alla fiorentina, è che non sia l’Italia a finire in mutande.
Corriere 23.2.14
L’universo di Matteo dove tutto si mescola
E si rottama poco
La scelta di contaminare e includere
di Paolo Di Stefano
Ha scritto Matteo Renzi: «L’uomo può ciò che vuole, scriveva Leon Battista Alberti, in una frase citata anche da Steve Jobs mentre si accingeva a rivoluzionare il mondo presentando l’iPhone». Nel suo universo c’è un po’ di tutto, dal Dolce stil novo (titolo del suo libro) ai guru del Verbo digitale. Il suo segreto è mescolare, contaminare, non solo alto-basso, basso-alto, ma anche destra-sinistra, sinistra-destra. In realtà, a guardare bene il suo Pantheon, il rottamatore rottama pochissimo. Gli vanno bene la scompostezza di Briatore e il suo opposto, Alessandro Baricco, cui lo avvicina, tra l’altro, il look camicia bianca e maniche rimboccate stile stiamo-lavorando-per-voi. Gli vanno bene Eataly e la Coca-cola: local e global. Usa la Smart, ed è smart lui stesso (copyright Marco Belpoliti). Gli piace Virzì, ma non disprezza Pieraccioni, e non rinuncia alla battuta come Panariello, anche se Benigni-Pinocchio non è male…
Renzi è il «ma anche» di Veltroni aggiornato agli anni 00. Da una parte Lucio Battisti e Fabrizio, dall’altra la «grande chiesa» di Jovanotti, che «parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa» (è il linguista Giuseppe Antonelli a porre l’accento su questa ecumenicità tutt’altro che rottamatrice). Veltroni e Renzi, si diceva. Da una parte Topo Gigio, dall’altra i Simpson; da una parte la nostalgia per le figurine Panini e Carosello dei cresciuti con la Rai, dall’altra la generazione venuta su con la tv commerciale e con «Drive in». Tratto comune Mike Bongiorno: la cui longevità, da «Lascia o raddoppia» e «Rischiatutto» alla «Ruota della fortuna», mette d’accordo tutti. Le altre icone a cui non si può dire di no? Kennedy e Mandela, ovvio (in fondo siamo pur sempre di sinistra…). Alzi la mano chi non è d’accordo. Un po’ come Bartali per le vecchie zie e Balotelli per gli «sdraiati».
Cultura dell’inclusione: contro la selezione intellettualoide ed einaudiana che fu il tratto distintivo e cupo dell’ortodossia Pci, da Togliatti a D’Alema (e Cuperlo). Un po’ di Calamandrei qua e un po’ di Fonzie là. Abbasso i «fighetti» alla Civati ma va bene Pif; abbasso i «professoroni» e gli «esperti», ma Padoan ci vuole. Abbasso i politici, ma vanno bene anche Alfano e Franceschini. Postmoderno declinato smart, ma anche moderno; medievale ma anche rinascimentale, se è vero che appena può Renzi cita Dante, Leonardo, Botticelli, Michelangelo, tanto per ricordare, en passant , ai provinciali e ai poveri di spirito che è stata (ed è sempre) la sua città la culla della cultura italiana. Fierezza che, come ha notato il filologo Claudio Giunta, a volte getta il cuore oltre l’ostacolo rischiando lo sfondone storico-culturale. Tipo: «Il Rinascimento si sviluppa a Firenze anche perché i trovatelli degli Innocenti ricevono la stessa educazione dei figli delle famiglie ricche».
Poco importa. Poco importa che Dante diventi «un ganzo», e che nel Pantheon renziano conviva tranquillamente con il suo opposto, Saint-Exupéry. Il poeta morale più pesante, angoscioso e engagé , e lo scrittore più light e disimpegnato. Tutto fa Renzi.
Corriere 23.2.14
Ma il merito in Italia vale solo per le donne?
di Fiorenza Sarzanini
Otto donne su sedici ministri, la metà esatta. Nasce così il governo guidato da Matteo Renzi. Ed è la prima volta che accade. Ma le consuetudini sono evidentemente difficili da superare e quando si arriva ad esaminare la componente femminile il livello di critica inevitabilmente si alza. I giudizi si fanno taglienti, addirittura sprezzanti. Soprattutto ci si sofferma sulla mancanza di esperienza di alcune, sull’incapacità (presunta) delle altre. Con la convinzione, neanche troppo velata, che siano state scelte per una questione di immagine, per ottenere un risultato politicamente corretto.
L’Italia sta attraversando un momento difficile a causa della crisi economica, la questione dei marò ci ha esposti anche dal punto di vista internazionale. Nessuno è disponibile a concedere cambiali in bianco, tanto meno ad un governo nato con una «manovra di palazzo». Ma non si capisce perché, aprioristicamente, l’eventuale fallimento dovrebbe essere determinato — come già qualche analista prevede — dal fatto che «le ministre» non hanno (o non avrebbero?) le competenze giuste.
Perché questo criterio non viene applicato anche per giudicare i loro colleghi? Come mai questa necessità di meritocrazia viene auspicata soltanto quando si tratta di donne?
Se riguardo ad una nomina ci sono sospetti di «anomalie» è giusto che ciò venga espresso, ma non si può essere intransigenti a priori, tantomeno prevenuti.
Dirà il tempo se Federica Mogherini sia davvero in grado di guidare un ministero strategico come la Farnesina. Ma lo stesso vale per Andrea Orlando, chiamato a gestire una materia difficile e complessa come quella della Giustizia. Analogo discorso si può fare per Maria Elena Boschi o Marianna Madia, così come per Maurizio Martina o Gian Luca Galletti.
Tutti i sedici ministri possono essere criticati. È legittimo, è giusto esprimere delle riserve e chiedere all’intero esecutivo di mostrarsi all’altezza della situazione. Ma questo — è evidente — deve avvenire a prescindere dal sesso dei componenti.
Non è questione di quote o controquote: solo di buon senso e di qualità della politica. A meno che non si pensi, senza avere il coraggio di dirlo, che il solo fatto di affidarsi a una donna offra meno garanzie, suscitando così maggiori diffidenze. Come se, fino a quando non si è posta la questione delle pari opportunità, il merito fosse stato la regola di questo Paese.
La Stampa 23.2.14
Indietro, di Jena
Questo governo ci fa tornare indietro nel tempo, praticamente all’asilo.
Repubblica 23.2.14
Recondita armonia di bellezze diverse
di Eugenio Scalfari
LA SCORSA settimana ero abbastanza triste per il modo inconsueto e molto crudele col quale la direzione del Pd aveva sfiduciato Enrico Letta. Mi venne in mente la canzone jazz americana “Stormy Weather”, tempi bui, e la citai nel mio articolo domenicale e nel titolo. Ma oggi è diverso. Oggi, sia pure con qualche cautela, dobbiamo festeggiare l’ascesa al potere di Matteo Renzi, il rilancio in programma della crescita economica, dell’occupazione, dei giovani, il compimento della riforma elettorale, la diminuzione delle tasse, la riforma della pubblica amministrazione, la semplificazione cioè la modernizzazione dello Stato e il prolungamento della vita del governo fino al termine naturale della legislatura nell’aprile del 2018.
È lungo quest’elenco, anche solo a snocciolarne i titoli. Ricordo che Letta fu contento perché per esporre il suo programma, che la direzione del Pd neppure esaminò, aveva scritto 54 pagine. Ma qui, per illustrare quello di Renzi, ce ne vorrebbero almeno 500. Per ora non ci sono, anzi non ce n’è neppure mezza. C’è soltanto l’elenco dei titoli che abbiamo sopra elencato, c’è un doppio criterio che Renzi ha ribadito più volte venerdì nelle sue dichiarazioni successive alla nomina ricevuta dal Capo dello Stato e cioè: concretezza e trasparenza. E c’è anche la tempistica: sei mesi per la legge elettorale, che invece fino all’altro ieri sembrava doversi collocare entro questo mese ed è stata, giustamente, agganciata alla riforma del Senato che richiede una legge costituzionale e una maggioranza comprensiva di Berlusconi.
Gli altri obiettivi invece saranno “avviati” e in buona parte effettuati entro quattro mesi, uno al mese cominciando dal lavoro e dall’occupazione. No, non state sognando, la tempistica indicata da Renzi è proprio questa: un mese per risolvere quei problemi (quasi secolari). Quattro problemi, quattro mesi e il pranzo è servito. E noi dovremmo festeggiare? Un governo di otto donne e otto uomini, il premier più giovane della storia italiana a partire dal 1861. Un altro esempio di grande gioventù per la presa del potere (ancora molto più giovane di lui) fu quello di Lorenzo il Magnifico, anche lui di Firenze, ma erano altri tempi. Anche Napoleone arrivò al vertice più o meno sui trent’anni e non parliamo di Alessandro Magno. Ma erano appunto tempi diversi.
Tra i moderni in Italia, abbiamo un campione; perciò in alto i calici. Personalmente purtroppo ho il divieto medico di bere alcol perciò -il presidente del Consiglio mi scuserà - brinderò alla salute sua e del governo da lui formato con una Coca light. Spero ne sarà ugualmente contento.
Ci sono però in più due punti che vorrei precisare prima di analizzare la situazione attuale del nostro Paese. E sono questi. Il direttore della Stampa, Mario Calabresi, riscontra nel nuovo governo e in Renzi che lo presiede una leggerezza che gli ricorda il Calvino delle Lezioni americane e ne trae ottimi auspici. Non so quanti siano i membri del nuovo governo che abbiano letto le Lezioni americane. L’amico Calabresi, che formula quell’auspicio, certamente le conosce ma ha dimenticato di dire che il personaggio che Calvino indica come la personificazione della leggerezza che lui intende era - pensate un po’ - Guido Cavalcanti. Francamente non pare che Renzi abbia qualche affinità con Cavalcanti. Ezio Mauro nel suo editoriale di ieri giudica Renzi un po’ bullo. È chiaro che con Cavalcanti non ha nulla a che fare.
La seconda affermazione si rifà a una dichiarazione del neo-premier subito dopo l’investitura ricevuta al Quirinale. Ha detto testualmente: «Il mio governo è il più di sinistra degli ultimi 30 anni ». Dice così ma non sembrerebbe. Personalmente, se dovessi dare un attributo, direi che è un governo pop. Forse la sinistra è diventata pop. Non so se sia un progresso. Speriamo di sì.
*** Una novità c’è sicuramente: questo non è più un governo del presidente della Repubblica, come accadde con Monti e con Letta. Questo nel bene e nel male è il governo di Renzi e del suo partito. Napolitano l’ha nominato e non poteva far altro visto che il partito di Renzi ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato dove la maggioranza assoluta viene raggiunta con i voti di Alfano e dei pochi senatori centristi.
Ma c’è un’altra maggioranza della medesima importanza sulla quale né la legge elettorale né le riforme costituzionali potrebbero esser fatte ed è quella stipulata, con “piena sintonia”, con Forza Italia di Silvio Berlusconi, il quale ha manifestato ampia adesione all’incarico che Renzi ha ricevuto.
Al punto che ieri il Cavaliere avrebbe espresso apprezzamento per la nomina della Guidi allo Sviluppo economico e comunicazioni, vantandosi di avere un ministro pur stando all’opposizione. C’è un problema per il preprendentemier e non è da poco. Anche perché tutto è confermato da una cena avvenuta lunedì a casa di Berlusconi, con la Guidi e suo padre tra gli invitati.
Ci sono dunque due maggioranze che per ora sostengono il nuovo governo, le quali però - è bene averlo presente - non vanno d’accordo tra loro perché Berlusconi, se solo potesse, vorrebbe distruggere Alfano e reciprocamente. Renzi e il suo partito sono perciò il perno che usa a proprio beneficio questa dicotomia. Durerà fino al 2018 o si sfascerà prima? Molto dipenderà anche dall’esito delle elezioni europee ma soprattutto dai risultati che nel frattempo il nuovo governo otterrà in materia economica.
Napolitano non aveva altre soluzioni, ma alcuni elementi della situazione dipendono pur sempre da lui. Per esempio lo scioglimento delle Camere; per esempio l’approvazione preventiva dei decreti e la promulgazione delle leggi o il loro rinvio al Parlamento nei casi di dubbia costituzionalità. Insomma ha ripreso un ruolo non più determinato dall’emergenza, anche se l’emergenza c’è ancora ma con caratteristiche diverse.
Con intelligenza e coraggio del quale è giusto dargli atto, Renzi ha detto che i rischi d’un insuccesso ci sono ma bisognava correrli ed ha aggiunto che lui e il suo partito ci mettono la faccia; se sbaglieranno pagheranno. Si è però scordato di aggiungere che se sbaglieranno pagherà anche il Paese e sarà esattamente il Paese a pagare il prezzo più alto.
In quel deprecabile caso, che dobbiamo tutti cercar di scongiurare, ciascuno operando responsabilmente nel campo che gli è proprio, quali sono le alternative? Solo il populismo dilagante?
Quello è certamente il pericolo da scongiurare, ma ce n’è un altro che a mio avviso è più concreto: se Renzi dovesse fallire noi saremo commissariati dall’Europa con tutte le conseguenze del caso; ma avremo anche contribuito col nostro fallimento a danneggiare fortemente l’Europa nella sua evoluzione. Il nostro continente diventerebbe irrilevante nell’economia globale con tutte le conseguenze del caso. La faccia di Renzi è a rischio e questo è il suo coraggio, ma se solo fosse questo ce ne potremmo tranquillamente infischiare. Il rischio è in realtà terribilmente più elevato ed è opportuno esserne consapevoli.
*** C’è un punto che resta assolutamente oscuro: fino a cinque o sei giorni prima del pronunciamento della direzione del Pd che abbatté Letta e votò per il nuovo governo, Renzi aveva confermato che mai e poi mai avrebbe messo fuorigioco il governo esistente, almeno fino alla conclusione del semestre italiano di presidenza europea. Non sosteneva che quel semestre fosse di grande importanza (anche Berlusconi la pensa così, ma Renzi ora su questo punto ha completamente cambiato idea) ma lui comunque non sarebbe intervenuto e si sarebbe unicamente occupato del partito, cosa che era di grande importanza e ci aveva preso gusto a portarla avanti.
Proprio in quei giorni, cioè un paio di settimane fa, a me capitò di partecipare nella trasmissione di Lilli Gruber ad un dibatto con Delrio che non conoscevo ma sapevo bene chi fosse.
Delrio, su domanda della Gruber e anche mia, ribadì che Renzi non pensava affatto a sostituire Letta e che lui era dello stesso parere e l’aveva consigliato a mantener ferma quella posizione. Ricordo che Delrio era ministro del governo Letta.
Accadde invece che a pochi giorni di distanza anche Delrio abbia cambiato radicalmente opinione e sia stato tra i più fidati dei luogotenenti del leader a spingerlo verso la presa del potere a Palazzo Chigi. In quei giorni Delrio era in predicato per assumere la guida dell’Economia, del quale non risulta abbia particolare esperienza.
Come si spiega questo improvviso cambiamento, talmente sor- che, quando avvenne e ancora fino a venerdì scorso, Renzi non aveva affatto formato la squadra di governo e si aggirava tra i nomi di Montezemolo, Baricco, Farinetti, Guerra, Boeri, Moretti ed altri che alla fine sono risultati indisponibili? Che cosa ha spinto Renzi e Delrio a “metter la faccia” loro e quella dell’intero Paese?
Io non so dare alcuna risposta e neanche Renzi la dà. Dice che la situazione era divenuta insostenibile. Perché? E perché non se n’era accorto nei quattro o cinque giorni prima della direzione del partito? Mi sorge un dubbio: forse aveva capito che la situazione congiunturale stava migliorando e che a metà agosto si sarebbe consolidata la fine della recessione con i primi effetti positivi e con il relativo successo di Letta. Questa prospettiva avrebbe messo lui in una posizione secondaria, perciò non c’era tempo da perdere.
Capisco che questa ipotesi è maliziosa, ma altre non ne vedo e voglio ricordare che Renzi aveva riferito anche a Napolitano le sue intenzioni di non insidiare il governo esistente. Questo rinnova la domanda: perché il neo-premier ha cambiato idea?
*** Il problema che adesso si pone (e dovrebbe esser risolto entro un mese stando alla tempistica renziana) è, per dirla in breve, un abbattimento sostanziale del cuneo fiscale o di qualche provvedimento che gli somigli, la ripresa dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, la ripresa degli investimenti; il tutto insieme ad una diminuzione del debito pubblico e della pressione fiscale sulle fasce povere della popolazione.
Sono gli stessi temi reclamati da Squinzi e dalla Confindustria i quali, però, alle domande rivoltegli, non hanno mai indicato le coperture che rispettino il limite del 3 per cento del deficit, ricordato da Visco a Renzi nel colloquio di tre giorni fa come asticella invalicabile.
Da calcoli fatti da attendibili osservatori le cifre necessarie oscillano tra i 50 e i 70 miliardi. Ma quand’anche ci si limitasse allo strettissimo necessario facendo passare degli straccetti di carne per bistecche alla fiorentina, ce ne vorrebbero come minimo 40. Da prendere attraverso la spending review. Tagliando gran parte delle inutili sovvenzioni ad imprese del tutto improduttive se ne tirano fuori una trentina e un’altra decina tassando le rendite finanziare. Ma per realizzarle se ne parla alla fine dell’anno perché la bacchetta magica Renzi e Delrio non ce l’hanno.
Avevano detto un mese. Ben che vada ce ne vorranno otto di mesi anche se si aggiungesse -come pure sarebbe necessario -un’imposta edilizia con andamento decisamente progressivo per far fronte agli esodati e ai lavorati delle imprese messe a secco dai tagli della spending review. Il compito spetta al ministro del Tesoro Padoan, il solo ministro che a bocca storta Renzi ha dovuto accettare dal fermo suggerimento di Napolitano.
Purtroppo lo stormy weather permane. Al più ci si può consolare con la “Recondita armonia di bellezze diverse” cantata da Mario, il protagonista della Tosca, come apertura dell’opera. Era molto ardito quel fantasioso pittore che amava la bruna, sognava la bionda e intanto cospirava con i repubblicani per buttare giù il Papa. Alla fine fu fucilato e gettato nel Tevere. Segno che troppe cose insieme non si possono fare.
Repubblica 23.2.14
Il documento
“Innovazione e uguaglianza la mia idea di destra e sinistra nell’Europa della crisi”
Il manifesto di Renzi: “ La lezione di Bobbio è viva”
di Matteo Renzi
C’È STATO un tempo in cui a sinistra la parola “sinistra” era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?
“CENTRO-sinistra” o “centrosinistra” era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l’universo del campo progressista.
In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c’è il Partito democratico, la parola “sinistra” come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell’Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberaldemocratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, “democratica”.
Erano, nel mondo, gli anni della “terza via”, di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.
A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio -or sono venti anni esatti -pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della “terza via” -che pure nel socialismo liberale, nell’utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso -si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all’insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell’Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.
Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all’americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.
Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull’eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come “merito” o “ambizione”? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli “ultimi”, legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l’eguaglianza -non l’egualitarismo -resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un’ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un’altra profondità. «Nel linguaggio politico - scrive Bobbio - occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell’avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale».
Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/ indietro, chissà, innovazione/conservazione.
E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull’analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.
Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l’opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un’esistenza più ricca di esperienze. Con l’invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale -libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt -e fornendo loro l’occasione di realizzare se stessi. L’invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall’altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere “Sì!” alla loro domanda di cambiamento.
La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un’altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell’innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.
Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l’innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l’incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all’incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all’ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.
La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.
Repubblica 23.2.14
L’amaca
di Michele Serra
Se fossi consulente all’immagine di Matteo Renzi gli suggerirei di sorridere un poco meno e gongolare solo a tratti, perché la sua troppo evidente contentezza di governare rischia di urtare lo stato d’animo prevalente nel Paese: che non è di letizia. Per giunta, nel continuo sfoggio di se stesso cui è costretto un uomo pubblico, abusare di sorrisi, battutine e piacionerie conduce inevitabilmente al paragone con il più inesausto piacione di tutti i tempi, che è Berlusconi. Paragone del tutto infausto per almeno i due terzi dell’elettorato di Renzi, ai quali il solo sospetto che il renzismo possa essere un derivato del berlusconismo mette i brividi.
Si intende che l’ottimismo, specie di questi tempi, è un bene prezioso; che un’espressione lugubre, un sembiante depresso non sono opportuni, specie in una persona chiamata ad incarnare istituzionalmente le buone intenzioni: ma troppo smalto stona perfino sulle unghie. Usciamo da un ventennio al tempo stesso ingenuo e burino, dove mostrare la dentiera alle telecamere e dire «guardate quanto sono figo» pareva l’essenza stessa della politica. Visto che lei parla sempre di futuro ci aiuti, gentile Matteo, a uscire dal passato.
l’Unità 23.2.14
Ora si sciolga il nodo delle pari opportunità
di Francesca Izzo
LA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO SEGNA UN PASSAGGIO DI RILIEVO NELLA VICENDA POLITICA ITALIANA. Viene riconosciuto e sancito con la presenza di 8 ministre su 16 (tutte alla testa di ministeri importanti) il principio della parità di genere. Dopo l’elezione di un Parlamento con il maggior numero di donne e di giovani della storia della Repubblica, dopo la formazione del governo Letta che dava grande spazio alle competenze femminili, siamo ora alla sua piena sanzione.
È stata così inaugurata una prassi che renderà difficile, se non impossibile, aggirare tale principio in futuro. È il frutto della forza e della tenacia con cui donne, appartenenti alle più varie organizzazioni, gruppi, associazioni, si sono battute in questi ultimi anni per raggiungere questo risultato. E chi ha condiviso, come me, la responsabilità della mobilitazione il 13 febbraio di tre anni fa delle donne italiane, in difesa della dignità calpestata e per l’uscita da uno stato di passiva marginalità, non può che esserne soddisfatta. Nel giro di pochi anni è stato compiuto un percorso notevole.
Ora può cominciare una fase nuova, certo non semplice ma coinvolgente. Non è stato previsto un ministero delle pari opportunità come accade invece in altri paesi, Francia e Spagna ad esempio, che hanno governi paritari.
Questa assenza rischia di rendere meno incisiva, più neutra l’azione del governo, per un altro verso potrebbe però stimolare l’intera compagine governativa ad acquisire quell’ottica di genere indispensabile per attivare l’enorme potenziale femminile di cui l’Italia dispone.
Spetta innanzitutto alle nuove ministre tenere costantemente presente le prospettive e le ricadute di genere nella loro azione, nelle politiche che perseguiranno.
La vita delle donne italiane, la loro quotidianità, dovrà percepire sensibilmente i benefici di questo cambiamento, di queste presenze ai vertici dello Stato.
A questo scopo sarebbe opportuno più che un sottosegretariato, la creazione, presso la presidenza del Consiglio, di una figura, con ridotto ma qualificato staff, che coordini, monitori, segua l’iter e valuti l’impatto delle leggi e provvedimenti volti a superare il gap di genere nel nostro Paese.
l’Unità 23.2.14
Legge elettorale e ius soli Trattativa dura con Alfano
Quasi chiuso l’accordo su cittadinanza e unioni civili: niente matrimoni ma regole anche per coppie gay
di Claudia Fusani
Mentre gli altri giurano, suonano campanelle e si riuniscono nella grande sala del consiglio dei ministri, gli altri, gli sherpa, lavorano al programma. Riunioni continue da giovedì pomeriggio fino a domani quando i principali dossier dovranno essere chiusi in tempo per la prima fiducia a palazzo Madama del premier Renzi. Per ora sono noti soprattutto i titoli: credito alle imprese, riforma del lavoro e semplificazione del fisco e della burocrazia, ricerca e istruzione, infrastrutture e rilancio del mezzogiorno.
Venerdì mattina, prima di diventare ministro, la responsabile per il Lavoro nella segreteria del Pd Marianna Madia e l’ex ministro del Lavoro e ora capogruppo Ncd al Senato Maurizio Sacconi hanno chiuso un accordo preliminare sul lavoro, la prima delle emergenze che il governo Renzi ha promesso di voler affrontare. Non ci sarà alcuna alchimia tra le varie tipologie di contratto. Sgomberato il campo anche dalle presunte magie del contratto unico. Nessun sistema complesso chiamato job’s act. Qualcosa, invece, di molto più concreto e immediato. «Il lavoro del governo - si spiega - punterà a valorizzare al massimo il contratto di apprendistato e ad ampliare le tutele passive ed attive di chi è senza lavoro». I soldi per queste voci arriveranno dal Fondo sociale europeo.
In chiusura e - si dice - destinate ad ampie citazioni nel discorso sulla fiducia, sono le questioni cosiddette valoriali, questioni di principio che misurano però il livello di civiltà di un paese. Quagliariello e Schifani per Ncd, Faraone e Scalfarotto per il Pd si sono visti venerdì pomeriggio e di nuovo ieri. L’accordo è quasi chiuso per lo ius soli, la cittadinanza italiana per i figli di immigrati nati in Italia. C’è accordo sul fatto di riconoscerlo in modo «attenuato». Il Pd vorrebbe la cittadinanza a compimento del primo ciclo di studi, cioè alla fine della quinta elementare. Ncd preferisce arrivare alla conclusione del secondo ciclo di studi, cioè la scuola dell’obbligo. In ogni caso la cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia sarà uno dei primi provvedimenti concreti del governo.
Più tribolato, ovviamente, il fronte dei diritti civili. Le parti hanno concordato che va urgentemente fatto qualcosa visto che è ancora senza risposta la sentenza della Consulta (2010) che impone di coprire il vuoto legislativo sul fronte dei diritti e delle unioni civili. Anche Ncd quindi ha dovuto sedersi a quel tavolo, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Il Pd punta al modello tedesco, «gli ultimi della classe in Europa ma pur sempre qualcosa rispetto al nulla che abbiamo in Italia». Sulle unioni civili la Germania prevede un istituto a parte, parallelo e simile a quello del matrimonio ma specifico per le coppie omosessuali. «Da questo posizione non possiamo retrocedere» assicurano fonti Pd. Che però dovranno far buon viso a cattiva sorte, cioè a questioni di cassa e di bilancio. Il matrimonio tedesco, infatti, aprirebbe la strada a diritti come anche la reversibilità della pensione. È stato spiegato al tavolo che il nostro sistema pensionistico non sarebbe in grado di sopportare questo ulteriore carico. Probabile quindi che l’accordo venga chiuso su un sistema simile ai vecchi Dico, anche se dieci anni dopo. Unioni di fatto con una serie di diritti riconosciuti a livello però privatistico circa convivenza, assistenza durante la malattia, eredità. Il tutto, tra l’altro, dopo «tre anni di provata convivenza».
Ma la madre di tutti gli accordi riguarda la legge elettorale. L’impegno è che il premier Renzi sia esplicito nel riferire, durante il discorso sulla fiducia, l’impegno solenne raggiunto davanti a ben cinque testimoni. Renzi, Delrio e Franceschini si sono impegnati con Alfano e Lupi ad assumere come proprio, cioè del governo, un emendamento alla legge elettorale che vincoli l’entrata in vigore dell’Italicum alla modifica del Senato e all’entrata in vigore del monocameralismo.
Disponibile è già l’emendamento Lauricella (Pd) che lega temporalmente Italicum e riforma del Senato. Nel caso ci fossero problemi di costituzionalità (smentiti dall’autore che è professore in materia) legati alla indeterminatezza dell’entrata in vigore della legge elettorale, è disponibile un altro emendamento, firmato da Pino Pisicchio (Cd) che infatti fissa il limite di un anno. È la famosa clausola di salvaguardia a prova di eventuali patti segreti Berlusconi-Renzi e scioglimenti anticipati della legislatura. Magari tra un anno.
il Fatto 23.2.14
Salvati tra le onde, abbandonati al nulla
La storia dei 42 migranti senegalesi tratti in salvo dalla Marina militare e poi lasciati a vagare per le strade siciliane
di Veronica Tomassini
Gli uomini procedono fuori dai cancelli, stavolta liberi, ma non lo sono. Sono 42 migranti senegalesi, il centro di primo soccorso è l’Umberto Primo di Siracusa. C’è un brutto vento di febbraio, un freddo anomalo, i migranti procedono come guitti patetici, perdonate questa immagine, eppure è così. Avanzano con sciarpe lunghissime o assurde brache calate, tenute ferme maldestramente da cinture a fiori o berretti con decorazioni a uncinetto, con tute da operaio, pantofole, scarpe tre misure più grandi o più piccole, a piedi scalzi, con fragili magliettine laminate e c’è un freddo da cani, una giornata terribile che si prostra o mostra davanti a uno strano rastrellamento, eseguito da comandi invisibili. Sembrano uomini rimediati alla meglio, sbucati da un universo concentrazionario, non sono gli haftling di un lager, e tuttavia non sono uomini più felici. Sono stati salvati dalla nave militare San Giusto, in acque internazionali, si tratta dell’operazione Mare Nostrum, la procedura che salva con autonomia di azione, che tracima creature amene da barconi malandati in porti stabiliti dagli accordi europei.
QUESTI 42 SENEGALESI sono stati salvati e poi condannati al nulla, all’esilio perenne che tengono in tasca: il foglio consegnato dalla questura ovvero non un foglio di via e basta, ma un decreto di respingimento differito. Cioè sono arrivati, sono stati salvati e poi in qualche maniera rigettati in acqua molto metaforicamente (mica tanto). Sono arrivati qualche giorno fa al porto di Augusta, nessuno ha parlato loro della possibilità di chiedere la protezione internazionale, c’è un maledetto problema di intendimento, non si sono capiti? Di fatto, invece che richiedenti asilo, diventano nello spazio d’un mattino materia fluttuante, altrimenti clandestini neri destinati coercitivamente a sparire, entro sette giorni, secondo normativa, e per giunta presentandosi alla frontiera Roma-Fiumicino. Dovrebbero tornarsene in aereo. Figuriamoci. Sono insorte la rete antirazzista di Catania, l’associazione Borderline Sicilia Onlus e l’associazione studi giuridici per l’immigrazione con Carla Trommino, chiederanno conto al Governo, impugneranno provvedimenti contro la illegittimità costituzionale del respingimento differito. Tanto sta accadendo dall’inizio dell’anno, è accaduto anche al Cspa di Pozzallo, ne hanno mandati via all’incirca 40, per lo più nigeriani, tra questi una donna al terzo mese di gravidanza. Ma altri ancora sono stati colpiti dallo stesso provvedimento, tutti potenziali richiedenti asilo. A Siracusa i blocchi mollati in strada con il foglio di via sono tre, da inizio gennaio. I 42 senegalesi sono in giro da ieri, 15 sono in strada da poco più, 7 gambiani e 8 nigeriani, ci sono due minori, un ragazzo poliomielitico e due in stato di pericolosa prostrazione morale, secondo diagnosi medica. Ma sono in giro. Ancora 12 fantasmi per lo stato italiano sono stati rispediti al Cie di Ponte Galeria e da lì saranno rimpatriati. Ieri una marcia terrificante, lenta e mogia, ha attraversato la città, a Siracusa nessuno ci ha badato, succede quasi ogni giorno oramai, uomini neri attraversano le strade senza soluzione, non certo una meta. Non sanno nulla, non sanno nemmeno, non tutti e non subito, che esiste una mensa in cui poter mangiare senza soldi, no ticket, chiede qualcuno di loro sinceramente sorpreso. E indossano brache assurde ed è facile notarli, a pensarci bene, quali ridicoli vestiti devono indossare, quanta vergogna si somma a una pedissequa ignominia. I neri poi si fermano ai semafori e chiedono qualcosa, non sanno la lingua, gli automobilisti imprecano, chiudono i vetri, altri avanzano nella medesima marcia terrificante. Siracusa non si è organizzata per niente. Dove dormono questi ragazzini, certi non hanno nemmeno la maggiore età. Sostano ai giardini pubblici, in attesa praticamente di nulla, ci passano la notte.
É troppo chiedere agli enti morali, almeno loro, di intervenire? Di sentirsi una volta tanto agnelli in mezzo ai lupi? E’ troppo chiedere agli uomini di chiesa di uscire dai loro paramenti? Devono farlo perché le omelie si consumano in strada, conducono coperte al limite, non parole, i pulpiti sono le panche, le retrovie immonde, ne avessero coscienza.
l’Unità 23.2.14
Carceri, la vergogna del sovraffollamento
di Henri Margaron
Psicoanalista responsabile del Sert di Livorno
TRA BREVE, GRAZIE AD UN FINANZIAMENTO DELLA REGIONE TOSCANA, UN GRUPPO DI TOSSICODIPENDENTI varcheranno le porte del carcere per andare in comunità terapeutiche. Con questa iniziativa il governatore Enrico Rossi non pretende di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri ma spronare la politica a trovare delle risposte alla vergogna della nostra democrazia, il sovraffollamento delle carceri. Non è umanamente accettabile che cinque o sei persone siano costrette a trascorrere intere giornate in una cella angusta, insalubre, senza possibilità di privacy ed esposti a tutti i pericoli morali e fisici che può portare una tale promiscuità. Trattare ogni detenuto con dignità è ovviamente un dovere morale ed etico ma è anche lo strumento più sicuro per consegnare alla società a fine pena delle persone capaci di dare il loro contributo.
La migliore garanzia del rispetto delle regole, lo sappiamo tutti, è il piacere di condividere delle relazioni all’interno del gruppo e più una società sarà in grado di favorire questo principio e meno le persone saranno tentate di delinquere. Si tratta di una considerazione facilmente condivisibile ma lasciata alle utopie degli umanisti più illuminati, che trova però nuovo vigore nelle più recenti scoperte della scienza. L’insieme delle connessioni tra le informazioni che giungono al cervello si modella sulle nostre esperienze per consentire uno sviluppo funzionale delle capacità percettive, motorie, cognitive e linguistiche. Il modellamento del connessioni, però, avviene solo quando le esperienze sono significative per l’organismo sia in senso positivo che negativo. Nel primo caso le esperienze modelleranno tutte le strategie di approccio e di apertura che conosciamo, nel secondo quelle di fuga o di chiusura.
L’adattamento delle connessioni neuronali alle nostre abitudini permette di apprendere e di migliorare, ma porta anche a situazioni dolorose come certi disturbi di personalità o alcune forme di dipendenza. Coloro che non hanno la fortuna di crescere in un contesto idoneo alla formazione di capacità relazionali sicure e gratificanti, avranno maggiori difficoltà a comportarsi in modo adeguato. D’altro canto le droghe, vuoi perché migliorano direttamente le condizioni dell’organismo vuoi perché aumentano alcune capacità, rendono certe esperienze artificialmente più gratificanti. La dipendenza è la condizione nella quale si trova chi, a forza di ripetere le stesse esperienze, ha perso la possibilità di ottenere altre forme di gratificazione. Naturalmente tale evoluzione può essere riscontrata in tutta una serie di altre abitudini che vengono definite condotte di addiction, come il gioco patologico, lo shopping compulsivo o la bulimia.
La plasticità neuronale che ha portato una persona ad una condizione di addiction, può però consentire di aiutarla ad uscirne. Per questo dobbiamo aiutare la persona «ammalata di esperienze» a vivere delle relazioni sane ed equilibrate che vorrà coltivare nella misura in cui sono foriere di gratificazione. Un tale processo evidentemente non può svilupparsi in ambiente carcerale ma in contesti alternativi di tipo comunitario. Quali caratteristiche precise dovrebbero avere questi contesti alternativi tra esigenze di sicurezza e dovere di riabilitazione ed a chi dovrebbero rivolgersi? Magari ragionando più sulla personalità del colpevole che sulla natura del reato. Il progetto della Regione Toscana che Cesare Beccaria non avrebbe sconfessato pone queste domande alla politica. Speriamo che la politica sappia prendere delle decisioni che non abbiano come unica ambizione quella di evitare le sanzioni della comunità europea.
il Fatto 23.2.14
Mps, il computer di David Rossi manomesso dopo la sua morte
Sono ancora molti i punti oscuri nell’inchiesta sul suicidio del manager
di Davide Vecchi
Chi è entrato nell’ufficio di David Rossi dopo la sua morte? Chi ha spostato alcuni oggetti e ha avuto accesso al suo computer più volte e per diversi minuti nelle ore trascorse tra il decesso e il sequestro del materiale da parte degli inquirenti avvenuto solo la mattina dopo? A distanza di un anno l’inchiesta sull’induzione al suicidio dell’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena ha ancora degli interrogativi senza risposta. Dal fascicolo emergono inoltre alcune discrepanze tra le ricostruzioni fornite da alcuni testimoni, tra cui quelle di Fabrizio Viola e Bernardo Mingrone, rispettivamente amministratore delegato e direttore generale area finanza di Rocca Salimbeni. E soltanto lo scorso novembre la Polizia Postale, a seguito di nuove perizie caldeggiate dai familiari di Rossi, ha individuato i destinatari della mail con cui il dirigente il 4 marzo, due giorni prima della morte, chiedeva aiuto: “Stasera mi suicidio sul serio. Aiutatemi!!!”. Mail recapitata a Viola, come da tempo noto, ma anche a Bruna Sandretti dell’ufficio del personale. Altre perizie di parte, infine, sarebbero ancora in corso sulle registrazioni delle telecamere di sorveglianza sul vicolo dove è stato ritrovato il cadavere di Rossi. Dalle immagini si cerca di ricostruire la dinamica della caduta e soprattutto dare un’identità ad alcune persone, una in particolare, che si vedono nelle vicinanze dell’uomo riverso a terra, ancora vivo, e poi allontanarsi.
NONOSTANTE la chiusura delle indagini sia stata notificata a luglio, gli inquirenti hanno sentito altri testimoni fino a dicembre e svolto ulteriori aggiornamenti sfruttando il fascicolo parallelo aperto il 5 luglio a seguito della pubblicazione sul Fatto Quotidiano dello scambio di mail tra Rossi e Viola. Anche su questi elementi si è concentrata l’attenzione del gip Monica Gaggelli che ora deve esprimersi sull’archiviazione dell’inchiesta sull’induzione al suicidio di Rossi. Archiviazione chiesta dai pm titolari dell’indagine, Nicola Marini e Aldo Natalini, che ha visto l’opposizione dei familiari della vittima e sulla quale Gaggelli lo scorso 13 dicembre si è riservata. Ma la decisione, garantiscono fonti vicine alla Procura toscana, è attesa a giorni. Alla luce di quanto emerso non è escluso un supplemento di indagini.
A ormai un anno esatto da quel 6 marzo, quando Siena scoprì che i freddi numeri dell’inchiesta scandita da bilanci, swap, derivati e mandate agreement, avevano ucciso l’unico contradaiolo rimasto ai vertici della banca. Lo scrive Carla Ciani nella sua relazione e lo conferma anche a verbale davanti ai pm: “Per lui (l’indagine, ndr) rappresentava un dramma”. Ciani è una coaching, chiamata in azienda da Viola per motivare i manager della banca tra cui Rossi, cui era stato sottratto da poco il settore della comunicazione interna e affidato a Ilaria Della Riva. Inoltre aveva subito una perquisizione, a casa e in ufficio, a fine febbraio che lo aveva “profondamente scosso”, aggiunge Ciani. La mattina del 6 marzo Ciani incontra Rossi nel suo ufficio per due ore. È un incontro motivazionale fissato da tempo. Il 13 marzo la coaching racconta ai pm: “Era molto agitato (…) mi ha manifestato una situazione di ansia derivante dalla perquisizione da lui subita (…), continuava a chiedersi senza trovare risposta se c’era qualcosa che avrebbe potuto comprometterlo. Si sentiva quasi il senso di disgrazia imminente: questo era fortissimo – rivela Ciani – tant’è che usava espressioni quali ‘ho paura che mi possano arrestare’, ‘ho paura di perdere il lavoro’”. Infine: “Continuava a dire di aver fatto delle cavolate, ma l’unica cavolata rappresentatami come tale è stata questa mail scritta a Viola”.
MAIL INDIVIDUATA dalle indagini solo in un secondo momento grazie esclusivamente a ricerche specifiche e mirate. Anche a seguito di questa evidenza sono stati sollevati dei dubbi su una possibile manomissione del computer di Rossi. Già nel primo verbale redatto il 7 marzo alle 15.15 i pm Natalini e Nastasi rivelano numerosi “accessi sospetti” avvenuti dopo il decesso. In particolare nella notte del 6 marzo “alle ore 21.50; 21.56; 1:24 e 1.37”. Nello stesso verbale la questione veniva liquidata con la perizia di Marco Bernardini, responsabile Itc della banca: “Movimenti del mouse”.
Successive perizie specifiche avrebbero invece accertato che in almeno due casi (21.50 e 1.24) qualcuno è entrato nel pc con le password e lo ha usato per 6 minuti e 17 secondi al primo accesso e per 13 minuti al secondo. Nello storico agli atti ci sono anche accessi successivi avvenuti il 7 mattina ma questi sono indicati e riportati nei verbali di perquisizioni e sequestro da parte delle autorità e accompagnati dalla ricostruzione delle operazioni iniziali effettuate per recuperare la password compiute il 7 mattina. Appare dunque quasi certo che la sera dopo il decesso di Rossi qualcuno è entrato nel suo ufficio. Anche il confronto tra i rilievi immediati svolti dai Carabinieri, i primi a intervenire sul posto, e le foto repertate il giorno successivo, ci sono numerose differenze anche nella disposizione degli oggetti nella stanza. Eppure dai verbali dei testimoni nessuno dopo le 22 era in Rocca Salimbeni.
Corriere 23.2.14
Le illusioni dello spread in discesa
Le verità (crude) dell’economia reale
di Fabrizio Coricelli e Fabio Pammolli
In questi anni, il movimento dello spread tra i rendimenti dei titoli pubblici italiani e quelli tedeschi è stato terreno e strumento di scontro politico: un termometro per attribuire responsabilità ai governi che lo avrebbero fatto salire e per plaudire ai governi che lo avrebbero fatto scendere.
Oggi, febbraio 2014, si celebrano uno spread sotto la soglia del 2% e rendimenti dei titoli pubblici — il costo nominale del debito per lo Stato — tornati ai livelli d’inizio 2006.
Ai cittadini italiani, però, interessa sapere quanto pesa il pagamento del debito pubblico in termini di risorse reali da recuperare con maggiori imposte e con minore spesa pubblica: reddito, patrimonio, servizi, trasferimenti che individui, famiglie e imprese, salvo i detentori di Btp (in gran parte le banche), si vedono decurtare per coprire il pagamento degli interessi sul debito. E, febbraio 2014, le risorse reali necessarie per ripagare gli interessi sul debito sono ben sopra il livello del 2006.
Dal 2012, i rendimenti reali dei titoli pubblici corretti per l’inflazione al consumo sono cresciuti di oltre due punti percentuali, mentre non si è certo ridotto il divario tra tasso d’interesse reale sul debito e tasso di crescita dell’economia, se tale si può definire quello italiano.
In termini di costo reale del debito pubblico, oggi stiamo peggio di due, di tre e di otto anni fa.
Un bel guaio, e la soluzione non è introdurre nuove misure di restrizione fiscale.
Certo, un aggiustamento basato sulla spesa sarebbe preferibile rispetto a più imposte. Ma davvero pensiamo che politiche fiscali restrittive portino a una pronta ripresa in una situazione che è vicina alla deflazione?
Vero, dobbiamo mantenere gli impegni di contenimento strutturale della spesa pubblica. Dovremmo farlo, però, senza aggravare con le nostre mani una stagnazione economica già grave.
Occorre uscire dal vicolo cieco in cui ci si è infilati imponendo sacrifici in nome della riduzione del deficit, salvo scoprire che nel frattempo il costo reale del debito ha continuato a crescere.
Utile sarebbe che, superando complessi d’inferiorità, una discreta dose di provincialismo e più di un conflitto d’interessi, si smettesse di liquidare come populista ogni voce critica rispetto alla conduzione delle politiche economiche a livello europeo.
Nessuna ripresa sarà possibile, per l’Italia, fino a quando nell’eurozona il tasso d’inflazione rimarrà così basso, impedendo la riduzione dei tassi reali. Non è solo lo Stato a soffrire, visto che il razionamento e il costo del credito per imprese e famiglie sono una delle cause principali della nostra stagnazione.
Negli ultimi mesi, nonostante l’inflazione sia rimasta ben sotto la soglia target del 2%, la Banca centrale europea ha intrapreso una politica di fatto restrittiva, se si guarda alla liquidità totale immessa nel sistema. All’Italia servirebbe, invece, un’Europa con un tasso d’inflazione sensibilmente più alto e con un euro più debole. Non è un caso se Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario, ha invitato ad alzare il target d’inflazione della Bce al 4%. E anche l’eccellente performance dell’occupazione nel Regno Unito, avvenuta nonostante il lento recupero del Prodotto interno lordo, si spiega con un tasso d’inflazione attorno al 3%, molto più elevato di quello della zona euro, che ha consentito una riduzione del costo del lavoro di quasi otto punti percentuali tra la fine del 2007 e il 2013.
Il dibattito sul deficit pubblico sopra o sotto il 3% del Pil non deve distogliere l’attenzione dalla natura finanziaria della crisi che stiamo attraversando, segnata dal prosciugamento del credito. In questa stretta creditizia, il mantenimento della pressione fiscale ai livelli attuali induce di per sé, nel migliore dei casi, nuove riduzioni di spesa e, nel peggiore, una catena di fallimenti di piccole imprese.
Ovviamente, qualunque politica monetaria espansiva della Bce dovrebbe comunque essere accompagnata, in Italia, da misure capaci di assicurare sia un flusso adeguato di credito all’economia reale che una riduzione tangibile del cuneo fiscale e contributivo sul lavoro.
Due sfide, queste, che dovranno essere prioritarie nell’agenda del nuovo governo.
*Université Panthéon-Sorbonne, Parigi
** Imt Lucca e visiting
professor Harvard University
l’Unità 23.2.14
Yulia libera, destituito Yanukovich
Il Parlamento ucraino libera la leader dell’opposizione Tymoshenko
Fissate al 25 maggio le elezioni presidenziali anticipate
di U.D.G.
Un presidente in fuga che denuncia: «Non mi dimetto, è in corso un colpo di Stato simile alla crisi politica che avvenne in Germania con l’ascesa dei nazisti un «golpe nazista» e avverte: «Resto per combattere, io non mi dimetto». L’opposizione che festeggia la liberazione della «pasionaria» ex premier e occupa il Parlamento di Kiev. L’Ucraina si spacca in due. «Io non lascio il Paese e non ho intenzione di dimettermi. Sono il presidente legittimamente eletto»: così Viktor Yanukovich da una stazione televisiva di Kharkiv, città posta nella parte orientale del Paese, ai confini con la Russia. Yanukovich ha aggiunto che non avrebbe firmato nessuna delle nuove leggi approvate dal Parlamento, compreso il provvedimento per il rilascio della leader dell’opposizione in carcere Yulia Tymoshenko. «Le decisioni che stanno prendendo oggi (ieri per chi legge, ndr) sono illegittime. è in atto un colpo di Stato. Non intendo firmare nulla». Dopo l’accordo per le elezioni anticipate e il governo di transizione con l’Ue, Yanukovich non ci sta a cedere il passo nel giorno in cui il Parlamento ucraino accelera sul fronte del passaggio di consegne. Tre decisioni fondamentali: la liberazione di Yulia Tymoshenko, leader della Rivoluzione Arancione del2004e storica nemica di Yanukovich, e l’elezione di due suoi alleati come presidente dell'Assemblea e come nuovo ministro dell'Interno. La polizia ucraina intanto ha rilasciato una nota in cui afferma di essere «al fianco della gente» e di condividere il loro desiderio per un «cambiamento rapido nel Paese» chiedendo ai manifestanti di collaborare per assicurare l’ordine pubblico.
SCONTRO TOTALE. Il rischio concreto adesso è una spaccatura a metà del Paese, tra le regioni occidentali nazionaliste e filo-europeiste e le regioni orientali, più vicine alla Russia e a Yanukovich. I deputati delle regioni orientali hanno messo in dubbio «la legittimità e la legalità delle decisioni del Parlamento di Kiev» e hanno annunciato di voler prendere il controllo dei loro territori. Mac’è un nuovo scontro diplomatico tra Unione Europea e Russia sulla questione ucraina. «A Kiev non è in atto alcun colpo di Stato. I palazzi del governo sono stati abbandonati. Il presidente della Rada è stato eletto in modo legittimo » scrive in un tweet il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski che, insieme ai colleghi di Germania e Francia ha mediato i negoziati fra Yanukovich e l’opposizione. Di segno opposto la reazione di Mosca. L’opposizione ucraina ha tradito gli impegni presi dal Paese e si è piegata «a estremisti armati le cui azioni rappresentano una minaccia alla sovranità e all’ordine costituzionale dell'Ucraina ». A denunciarlo è il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov in un messaggio telefonico inviato a Germania, Polonia e Francia.
YULIA A PIAZZA MAIDAN. Yulia Tymoshenko è libera. A riferirlo è la portavoce del suo partito «Patria», Olha Lappo. In serata, l’ex premier dal carcere di Kharkiv raggiunge Kiev, e torna nella «sua» Piazza, piazza Maidan che si è battuta per la liberazione dell’eroina della Rivoluzione arancione del 2004. «È caduta la dittatura»: queste le prime parole di Tymoshenko appena rilasciata dall'ospedale-carcere di Kharkiv. «Bisogna assicurare chei manifestanti non siano morti invano», ha aggiunto. «La dittatura è caduta - scandisce da Piazza Maidan Yulia Timoshenko - non grazie agli uomini politici e ai diplomatici, ma grazie alle persone che sono uscite per strada e che sono riuscite a proteggere le loro famiglie e i loro paesi».
In mattinata, il Parlamento ucraino riunito per una sessione speciale ha deciso di eleggere come nuovo presidente del Parlamento Oleksandr Turcinov, braccio destro dell’ex premier tornata in libertà. L'Assemblea di Kiev ha eletto anche il nuovo ministro dell'Interno, un altro leader dell'opposizione vicino alla Tymoshenko: si tratta di Arsen Avakov. Il Parlamento ha rimosso due fedelissimi di Yanukovich, l'ex ministro dell'Interno Vitaly Zakharchenko, colpevole di aver provocato due giorni di guerra civile a Kiev e l’ex presidente del Parlamento, Volodimir Ribak. Ma la decisione più grave viene presa alla fine: l’Aula vota nel pomeriggio all’unanimità la richiesta di impeachment per il presidente Yanukovich e l’indizione di nuove elezioni presidenziali il prossimo 25maggio. È lo scontro finale.
l’Unità 23.2.14
La doppia partita di Kiev e la corsa alle leadership
Mentre inizia la lotta politica tra la componente «europeista» e quella ultranazionalista, Mosca deve capire se puntare o meno su Yanukovich
di Umberto De Giovannangeli
Un partito-regime che si sgretola. Una opposizione eterogenea, in cui è iniziata la resa dei conti per la leadership tra la componente sinceramente «europeista» e quella ultranazionalista, legata al «mito» della Grande Ucraina. Tante sono le partite aperte in un Paese che sta spazzando via il vecchio ma non ha ancora chiaro quale dovrà essere il nuovo. E il «nuovo» potrebbe significare la fine dello Stato ucraino unitario. La decisione assunta ieri dal Parlamento di Kiev di considerare decaduto il presidente Viktor Yanukovich, e quest’ultimo che dalla sua roccaforte ai confine con la Russia denuncia il golpe, rendono questa prospettiva divisoria concreta e devastante. Devastante perché, come affermato in una recente intervista a l’Unità Vittorio Strada, «questa possibile divisione del Paese non sarebbe del tipo jugoslavo o cecoslovacco, in quanto inciderebbe sulla carne viva di una stessa nazione». «Siamo di fronte alla più grave crisi europea - avverte lo studioso - ancor più grave di quella del Kosovo, perché in questo caso in gioco ci sono gli interessi diretti della Russia e nella politica di potenza dell’attuale leadership “putiniana”, la questione- Ucraina ha un valore irrinunciabile».
Mosca, dice a l’Unità una fonte diplomatica a Kiev, «deve decidere se puntare ancora su Yanukovich o investire su un candidato più presentabile. Ma una cosa è certa: mai la Federazione Russa accetterà di veder insediato al potere un presidente considerato come una minaccia mortale ai propri interessi». Putin sa di dover far presto, prima che il fronte fedele a Yanukovich si sgretoli. Un processo in atto. Molti ministri sarebbero «spariti», come denunciano fonti dell'opposizione. Anche il partito delle Regioni del presidente continua a perdere pezzi. Sono almeno 41 i deputati che hanno abbandonato la formazione politica, secondo l’agenzia Interfax. Ai 28 dell’altro ieri se ne sarebbero infatti aggiunti 13 ieri, il gruppo parlamentare conta adesso 164 fedelissimi su 450 complessivi.
Ma il momento della verità scatta anche per le opposizioni. Yulia Tymoshenko, la ex premier tornata in libertà, è il simbolo di quel «nazionalismo civico» che è la cifra di un Paese capace di immaginarsi diverso.
A contendere a Tymoshenko la leadership dell’opposizione è Vitali Klitschko, ex-pugile molto famoso in patria, più irruento e radicale della «pasionaria» della Rivoluzione arancione.
OPPOSITORI E OLIGARCHI. Le anime di Piazza Meidan, cuore della rivolta anti-Yanukovich, sono molte. Oltre ai sostenitori di Klitschko e di Tymoshenko, ci sono anche gli ultranazionalisti di Svoboda, partito radicale con derive antisemite, che riscuote successi all’ovest, nelle regioni tradizionalmente ucraine. In prima fila negli scontri con la polizia sono soprattutto gli attivisti di formazioni paramilitari bene addestrate, afferenti agli ultranazionalisti di Svoboda, del Pravy Sektor o di Spilna Sprava, fautori della «Ucraina agli ucraini», segnati dai miti razziali otto-novecenteschi distillati dai teorici locali dello Stato etnico. profondamente russofobi, polonofobi e antisemiti. A incidere sul futuro, come è stato per il passato, è anche l’atteggiamento delle oligarchie. Riflette in proposito Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes: «Gli oligarchi alla Akhmetov o alla Firtash, ossia gli ex esponenti della nomenklatura comunista che hanno saccheggiato il Paese nell’ultimo ventennio, manovrando i politici d’ogni colore come marionette – anche perché non hanno trovato a Kiev un Putin che li mettesse in riga - temono che il caos segni la fine del loro regime criminale, magari a favore di altri criminali opportunamente ridipinti. A meno che non riescano essi stessi a riciclarsi per tempo».
L'Ucraina si sta disintegrando. A Leopoli e in altre città dell’Ucraina occidentale marcate dall’influenza polacca e asburgica spuntano comitati rivoluzionari che si proclamano potere di fatto, dopo aver arrestato i rappresentanti del potere legale, alcuni dei quali stanno riconvertendosi alla causa degli insorti. Le ali estreme della protesta sognano un’Ucraina finalmente derussificata, centrata sul «genotipo nazionale ». Vacilla anche la Transcarpazia - parte della Rutenia subcarpatica, crocevia di culture, lingue e pretese geopolitiche rivali. Nella Crimea «regalata» sessant’anni fa dal Cremlino all’Ucraina sovietica, con la flotta russa del Mar Nero alla fonda nel porto di Sebastopoli, si alza invece la voce di chi vuole tornare sotto Mosca. Nel Donbass, epicentro dell’Ucraina orientale russofona e russofila, tendenzialmente schierata con Yanukovich (ma non a qualsiasi prezzo), ci si prepara alla possibilità di separarsi da Kiev. Una guerra di secessione nel cuore dell’Europa. Uno scenario da incubo.
il Fatto 23.2.14
Partita a scacchi
Fra Siria e Ucraina, il Risiko di Putin
di Robert Fisk
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il Fatto 23.2.14
La star Yulia e il nazi Il paese resta diviso
Il ritorno della Tymoshenko: “dittatura finita”
Ma sul futuro pesa la figura di Yarosh e della sua formazione paramilitare
dall’inviato a Kiev
Yulia illumina la piazza della nuova rivoluzione arancione e oscura gli altri leader dell’opposizione. Seduta su una sedia a rotelle ieri sera ha parlato a migliaia di persone radunate in Piazza Indipendenza: “Questa è una nuova Ucraina, il passato non tornerà. Fatemi vedere i vostri volti, siete eroi”, ha gridato fra le lacrime. Ed ancora: “Se qualcuno vi dice che avete finito il vostro lavoro e dovete andare a casa non gli credete: dobbiamo andare avanti fino alla fine”. Nel giorno della cacciata del despota e della liberazione dell’eroina del 2004 incarcerata da Yanukovich, Yulia Tymoshenko si accaparra i favori dei pronostici su chi sarà il prossimo leader dell’Ucraina. La 53enne alla guida del partito della Madrepatria ha fatto subito sapere di essere disponibile a candidarsi alle elezioni che si dovrebbero tenere il 25 maggio. Preceduta dalle parole di speranza e felicità della figlia Yevgenia, suo principale testimonial dal momento dell’arresto nel 2011, la donna con le trecce bionde acconciate secondo la tradizione, ha occupato quasi interamente - ancor prima di mostrarsi in pubblico - la scena politica.
È STATO IL PARLAMENTO rivoluzionato nella sua composizione a votare l’immediata liberazione dell’ex premier messa in carcere con l’accusa di appropriazione di fondi legati alle partite di gas russo; tra loro c’era anche Vitali Klitschko, 42 anni, ex campione mondiale di pugilato leader del partito Udar, Pugno, e parte della troika dell’opposizione che venerdì ha firmato - per il disappunto dell’ala radicale della protesta di Maidan - gli accordi con il presidente Yanukovich. Più visibile e popolare degli altri esponenti dell’opposizione “ufficiale” (l’ex banchiere centrale Yatseniuk e Tyahnybok, a capo del partito nazionalista Svoboda) ieri il colossale Vitali si aggirava tra dentro e fuori il Parlamento parlottando con gli altri deputati della minoranza divenuta maggioranza con lo sfaldarsi del partito delle Regioni di Yanukovich.
Il presidente ha iniziato a vedere evaporare la sua presa politica su Kiev con l’allontanamento del suo maggior sponsor: l’oligarca-principe d’Ucraina Rinat Akhmetov, proprietario tra l’altro dello Shaktar, la squadra di Donetsk, capitale dell’est filorusso, e città natale anche di Yanukovich. A gennaio il magnate dei metalli disse pubblicamente che non andava usata la forza contro i manifestanti, poi si è trasferito a Londra, dove possiede la residenza più cara al mondo.
Il volto-simbolo dell’opposizione di Kiev è invece quello di Andriy Parubiy, 43 anni, deputato di madrepatria, ribelle della prima ora, tanto da essere incarcerato nell’88 dalle autorità dell’Ucraina sovietica in quanto fautore dell’indipendenza. Nato al confine con la Polonia nella regione dove sorge Leopoli, “capitale” degli attuali ribelli pro-Europa, nel 2010 chiese all’Europarlamento di essere indulgente nei confronti della decisione del governo di Kiev di fregiare il ribelle filo-nazista e anti-sovietico Stepan Bandera del titolo di eroe nazionale. Dal 21 novembre 2013, primo giorno della protesta, è stato sulle barricate di Maidan, divenendo il capo del corpo di auto-difesa degli insorgenti. Ieri si sgolava per tenere a bada la folla attorno alla Rada, con la bandiera ucraina a mo’ di foulard e i modi felpati del politico navigato. Meno diplomatico e disponibile ai bagni di folla l’altra figura che è emersa dalle barricate di Maidan, come alter-ego di Parubiy: è Dmytro Yarosh, 42 anni, ex professore di liceo, alla guida di una delle formazioni paramilitari (“Martello Bianco”) che compongono Pravy Sektor, la milizia di punta di piazza Maidan, i cui membri si riconoscono per la disciplina e l’aria marziale, quando si schierano in fila con le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Alla sua prima conferenza stampa si è presentato giorni fa in tuta militare tutta nera, spiegando di dover farsi carico della pavidità e inazione altrui (ovvero, degli altri leader dell’opposizione) per “non far fallire il processo rivoluzionario”.
LA COSTELLAZIONE di movimenti che si rifanno più o meno direttamente all’idolo nazionalista-paranazista Bandera, fino a prima dell’inizio della protesta si erano fatti conoscere soprattutto per gli assalti ai casinò (in quanto luoghi di corruzione morale), che sono stati messi fuorilegge nel 2009. Sotto la sua influenza ricadrebbero più o meno direttamente le più addestrate tra le centurie di autodifesa popolare, che hanno retto l’urto degli assalti delle forze di sicurezza di Yanukovich nelle scorse settimane. E che si sono guadagnate sul campo, bagnando con il sangue il selciato di Maidan, l’onore e la riconoscenza di parte della cittadinanza, smentendo con le loro gesta e il successo maturato tra venerdì e ieri la profezia di Vasyl Symonenko, giovane poeta e attivista picchiato a morte dalle autorità ucraine sovietiche nel 1963, dopo aver creato il museo delle vittime del Kgb: “Nel cimitero delle brevi illusioni non c’è spazio per le tombe”, e dunque per il ricordo.
Ora Yarosh dovrebbe tramutare il carisma gudagnato in potere, resistendo allo scippo del consenso della piazza che i politici di professione, a iniziare dalla Tymoshenko, rischiano di portargli via nelle prossime ore.
Repubblica 23.2.14
Tra le rovine delle strade di Kiev l’Ucraina si sgretola nel sangue torna l’incubo della secessione
Regioni orientali con Yanukovich, le altre con la Tymoshenko
di Bernardo Valli
KIEV. IN CARROZZINA, in lacrime, Yiulia Tymoshenko, appena uscita di prigione, ha chiuso una giornata ricca di drammi, non conclusi, tra le barricate di piazza Indipendenza.
A TARDA sera l’ex primo ministro e capo dell’opposizione ha ringraziato le centomila persone che l’acclamavano, dicendo che erano state loro a liberarla, e non i diplomatici venuti da fuori. Soltanto allora la “rivoluzione” ha sorriso e ha sparato fuochi d’artificio nel cielo grigio in onore della prigioniera liberata. Prima di quel momento le strade di Kiev erano gremite da una folla più angosciata che trionfalistica. Pesava sulla città, e pesa ancora, la minaccia di una secessione. La soddisfazione per gli avvenimenti della notte era velata dall’ansia. Il detestato presidente, Viktor Yanukovic, aveva lasciato Kiev; il Parlamento l’aveva giudicato «non in grado di adempiere alle sue funzioni» e quindi l’aveva deposto. Alcune radio raccontavano che da Kharkiv, dove era approdato, aveva poi cercato di ripartire in aereo per la Russia, ma che era stato bloccato sulla pista di volo da un gruppo di manifestanti.
Mi aspettavo che questi avvenimenti suscitassero canti e sorrisi, e invece, percorrendo le strade in salita in direzione del Parlamento, e facendomi largo tra la folla compatta, soffocante di piazza Indipendenza, scoprivo soltanto volti preoccupati. Ogni tanto si alzava una voce isolata: «A morte i criminali». Neanche i comizi erano trionfalistici. I toni erano mesti. Neppure sulle barricate i ribelli esultavano agitando manganelli e sbarre di ferro, nonostante nelle ultime ore la capitale fosse caduta nelle loro mani e il Parlamento avesse legittimato la loro protesta.
Colpiva l’ordine nella città. Le automobili si fermavano ai semafori, i negozi erano aperti, anche in prossimità delle barricate. Capitava che gli uomini spesso mascherati delle “centurie”, di cui si conoscono le idee estremiste, radicali, svolgessero il ruolo di vigili urbani, in prossimità del campo trincerato. Penso che il grigiore delle espressioni fosse dovuto alla consapevolezza che la vittoria dell’insurrezione rischia di avere un costo molto alto. La secessione, appunto, questo era ed è l’incubo: la spaccatura della nazione ucraina, con tutte le conseguenze di una divisione sofferta, lacerante, forse ritmata dalla violenza.
L’Ucraina si sta infatti sgretolando. Le regioni orientali russofone non accettano la destituzione del presidente, Viktor Yanukovich, appena decretata dal Parlamento di Kiev; mentre le regioni occidentali più “europee” accolgono con sollievo la liberazione di Yiulia Tymoshenko, condannata a sette anni di carcere, e amnistiata dal Parlamento trasformatosi in una Convenzione rivoluzionaria.
Nella notte tra venerdì e sabato Yanukovich ha sentito che la sua sicurezza personale non era più garantita, e, pare con due elicotteri, ha lasciato di gran fretta la sua lussuosa residenza sul Dniepr, e ha raggiunto Kharkiv, storica seconda città dell’Ucraina, situata nel Nord Est russofilo. Là, alloggiato in un club di golf, ha annunciato alla televisione di non avere l’intenzione di dimettersi e di essere vittima di un colpo di Stato. Inizierà al più presto visite nelle regioni a lui favorevoli. Al più presto andrà a Odessa, dove si parla da tempo di una secessione della Crimea. Yanukovich si è ben guardato dallo smentire le voci sulla sua tentata fuga in Russia. Nella stessa Kharkiv il governatore, Mikhailo Dobkineon, ha riunito a congresso i rappresentanti delle regioni ucraine vicine per studiare l’inaccettabile situazione creatasi a Kiev. E alla riunione hanno partecipato governatori e deputati russi.
Esistono ormai due poteri ucraini distinti. Quello nelle province orientali filo russe, di cui Kharkiv è la città principale, e dove Viktor Yanukovich si trova in una posizione incerta, ma da dove può tentare iniziative contro il potere di Kiev nato dall’insurrezione. Quest’ultimo ha l’appoggio, per ora disordinato, dei ribelli di piazza Indipendenza, e ha ricevuto il battesimo della legalità dal Parlamento, nel quale è avvenuto un terremoto.
Molti deputati del partito delle Regioni, di cui Yanukovich è o era il leader, hanno aderito al Partito della Patria di Yiulia Tymoshenko. Si è così formata una maggioranza di 328 voti (su 450) che ha destituito Yanukovitch e liberato Tymoshenko. Lo stesso Parlamento ha deciso di tenere elezioni presidenziali il 25 maggio, di formare un governo di “salute pubblica” entro dieci giorni e ha nominato l’ex sindaco Avakov ministro degli interni d’emergenza. Il quale ha invitato i gruppi estremisti di piazza Indipendenza a unirsi alla polizia per mantenere l’ordine pubblico, aggregandoli al nuovo potere.
Al centro dell’Europa una rivolta rischia di spaccare il secondo paese del continente per la superficie, fino a qualche anno fa con quasi cinquanta milioni di abitanti poi ridotti a quarantacinque milioni da una dissanguante emigrazione economica. Un’operazione geopolitica di queste dimensioni un tempo provocava un conflitto armato, o ne era il risultato. Adesso la crisi Ucraina mobilita la diplomazia al suo più alto livello. I ministri degli esteri di Francia, Germania e Polonia hanno pensato nella notte tra giovedì e domenica di avere realizzato un accordo che avrebbe riappacificato le forze a confronto a Kiev. Un confronto che arroventa i rapporti tra l’Europa da un lato e la Russia dall’altro. Con gli Stati Uniti ben presenti sullo sfondo. Dimostrando la propria disponibilità Putin ha mandato a Kiev un suo inviato, il diplomatico Vladimir Lukin, uomo famoso per la sua moderazione. Ma Lukin se ne è andato senza firmare il testo dell’accordo ritenendolo inefficace, ingiusto e pericoloso. Infatti i rappresentanti moderati dell’opposizione, dopo avere sottoscritto il documento, non sono riusciti a convincere i gruppi estremisti di piazza Indipendenza, dai quali dipende il campo trincerato. Per questi ultimi l’accordo prolungava la presidenza di Viktor Yanukovitch, mentre al tempo stesso Yanukovitch sentiva i suoi poteri ridimensionati e minacciati. Insomma il compromesso realizzato dai ministri europei non ha prodotto l’intesa sperata. Al contrario ha fatto da detonatore. Ha fatto esplodere una situazione in verità già esplosiva.
L’incognita risiede adesso nel sapere come continuerà la “guerra non armata” tra russi e occidentali (europei e americani non divisi ma neppure uniti su questo problema). Putin ha promesso a Obama nelle ultime ore di non voler aggravare la situazione. Ed è presumibile che l’altro diretto interlocutore del leader russo, Angela Merkel, abbia ricevutole stesse assicurazioni. Ma il ministero degli esteri russo ha fatto sapere al segretario di Stato che a suo avviso i ministri europei (il tedesco, il francese e il polacco) si sono lasciati ingannare a Kiev dagli oppositori di Yanukovich, un alleato non troppo stimato dal Cremlino. Se la secessione ucraina si confermerà, i russi da un lato e gli europei e gli americani dall’altro, saranno mesi alla prova. L’Ucraina pesa più del Kosovo e della Georgia.
Corriere 23.2.14
Vietati i dubbi sulla crescita cinese, autocensura delle Banche d’Occidente
di Guido Santevecchi
L’ufficio propaganda di Pechino ha chiamato direttori di tv e giornali cinesi e li ha ammoniti a non ospitare i commenti di economisti e analisti di istituzioni finanziarie straniere che nutrono dubbi sullo stato dell’economia nella Repubblica popolare. Il nuovo fronte aperto dalla censura è stato rivelato dal South China Morning Post , giornale di Hong Kong, dove la libertà di stampa ereditata dalla tradizione britannica resiste ancora. La messa al bando sui media cinesi delle opinioni allarmate (o allarmiste, a seconda dei punti di vista) dei ricercatori stranieri si aggiunge alla censura subita da quotidiani come il New York Times o l’agenzia Bloomberg , che avevano pubblicato inchieste sulla corruzione al vertice del potere e si sono visti oscurare a lungo le loro edizioni web.
Il governo cinese, impegnato in un delicato programma di ristrutturazione del modello di crescita, ha già dato l’addio all’incremento a due cifre del Prodotto interno lordo, ha chiuso il 2013 con un sempre sorprendente +7,7% e ora ha fissato per il 2014 una sorta di linea del Piave a +7%. Non è un numero simbolico: la Cina ha 7 milioni di laureati l’anno, giovani che si aspettano di migliorare la loro posizione rispetto a quella dei padri; il 7% di crescita assicura lavoro a tutti. Ma ogni punto sotto equivarrebbe a un milione di laureati senza il lavoro che cercano, sarebbe l’instabilità, spiega al Corriere un docente del Centro di studi sulla Cina globalizzata alla Peking University.
In un commento la Bloomberg (che si è autocensurata per non essere espulsa) prevede che le grandi banche occidentali imporranno ai loro analisti di andarci cauti prima di sostenere che il Paese non crescerà del 7%. JP Morgan è già sotto inchiesta negli Usa per aver assunto i figli di alcuni potenti politici di Pechino. Correrà il rischio di subire rappresaglie sul difficile mercato finanziario cinese per dare pubblicità alle relazioni negative dei suoi ricercatori? I gruppi bancari dell’Occidente pubblicheranno a cuor leggero studi sul «sistema bancario ombra» della Cina? Bloomberg scommette di no: e di autocensura se ne intende.
Repubblica 23.2.14
Corrado Gini. L’uomo coefficiente
Un secolo a poco prima di scrivere “Le basi scientifiche del fascismo”, inventò un indice statistico per calcolare il grado di diseguaglianza sociale
di Federico Rampini
NEW YORK. È una delle frasi più celebri dell’economista John Maynard Keynes. Esprimeva così il dominio spesso inconsapevole che le ideologie antiche esercitano sui governanti: «Uomini pratici, che si ritengono immuni dalle influenze intellettuali, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto». Che sorpresa, scoprire che i leader americani sono schiavi di uno statistico defunto. Per di più italiano. E fascista. È ilWall Street Journal a ricordarcelo cogliendone l’ironia, con un articolo intitolato “Obama’s Favorite Gini”. Il Gini tanto amato da Barack Obama è Corrado, lo scienziato nato giusto centotrenta anni fa, nel 1884, a Motta di Livenza in quel di Treviso, e morto nel 1965. Il presidente Usa si affida al “coefficiente Gini” ogni volta che vuole attirare l’attenzione sulle diseguaglianze sociali. E lo fa sempre più spesso. Nell’Obama-pensiero c’è stato un crescendo, durante la seconda campagna presidenziale (2012), poi negli ultimi discorsi dell’Inauguration Day (2013) e sullo Stato dell’Unione (2014). «Il Sogno Americano non è più alla portata di tutti, le diseguaglianze sono cresciute in modo abnorme», ripete il presidente. E giù a citare statistiche che sono tutte riconducibili a quell’indicatore: il coefficiente Gini, che dal 1912 è lo strumento statistico più autorevole, più universale, più attendibile per misurare la distanza tra i ricchi e i poveri. O meglio ancora la “dispersione statistica” che descrive accuratamente le distanze tra tutti i redditi.
Più di recente Bill de Blasio, il neosindaco di New York, ha impostato la sua trionfale campagna elettorale usando le stesse statistiche. Diversi premi Nobel dell’Economia, come Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Amartya Sen, insistono sui pericoli di una “deriva delle diseguaglianze”, che non è soltanto inaccettabile eticamente e politicamente, ma impedisce una ripresa economica sana, solida e sostenibile. E giù a citare il coefficiente Gini, tutti quanti: è in quel numero la conferma scientifica e indiscutibile che le diseguaglianze sono aumentate, sia in un trend secolare (dall’inizio del Novecento), sia in un arco di tempo più recente (l’accelerazione dagli anni Ottanta a oggi che ha proiettato un’élite di ricchi verso la stratosfera, mentre l’intero ceto medio ristagna).
Ma anche la destra neoliberista si guarda bene dal contestare Gini. Il contro-argomento dei nipotini di Ronald Reagan è un altro: il coefficiente Gini ci dice che la Francia con la sua aliquota marginale Irpef al 75 per cento è meno diseguale degli Stati Uniti, ma questo non basta per combattere la disoccupazione giovanile francese. Meglio essere più diseguali, ma tutti un po’ più ricchi: è la metafora reaganiana dell’alta marea che al-za tutti i battelli, sia gli yacht che le barche dei pescatori. Siamo comunque sempre all’interno di una realtà descritta da Gini.
Il paradosso che ricorda ilWall Street Journalè che lo stesso statistico, riverito dal pensiero progressista del terzo millennio, era l’autore di un saggio intitolato Le basi scientifiche del fascismo (1927). Fu ben ripagato dal regime: Benito Mussolini ne fece il presidente dell’Istituto Centrale di Statistica. Il Duce era influenzato dal pensiero di Gini soprattutto sulla demografia. Già nel 1912, scrivendo I fattori demografici dell’evoluzione delle nazioni, Gini aveva teorizzato l’importanza della natalità elevata, della crescita della popolazione, come motore di dinamismo. E il fascismo in seguito si sarebbe impegnato su quella strada, con politiche di incentivo alle nascite. La fede fascista di Gini gli procurò qualche guaio al termine della seconda guerra mondiale: il 6 novembre 1944 dovette dimettersi da tutti gli incarichi accademici in attesa della conclusione del processo sulle sue responsabilità durante il regime, il 24 gennaio 1945 fu sospeso senza stipendio per un anno. Ma al termine di un ricorso, il 17 dicembre 1945, Gini fu di fatto prosciolto da tutte le accuse con la decisione finale di non procedere nei suoi confronti. L’anno seguente riprese a insegnare, nel 1949 tornò a presiedere la Società Italiana di Statistica, fino alla sua morte.
La riabilitazione di Gini non stupì nessuno, né in Italia né all’estero. La sua statura scientifica era straordinaria, riconosciuta ben oltre i confini d’Italia e d’Europa. Considerato come uno dei più grandi statistici di tutti i tempi, erede e continuatore della tradizione di Vilfredo Pareto, nel 1920 era stato eletto membro onorario della Royal Statistical Society britannica. Ebbe lauree ad honorem da università di tutti i continenti, inclusa Harvard. Le sue teorie facevano presa ben oltre i seguaci del fascismo. La cosiddetta “eugenica”, derivata dalle sue idee sulla demografia e la natalità, ebbe ampia diffusione nel mondo intero. Gini dava una veste statistico- matematica alla visione di Oswald Spengler sul declino dell’Occidente. Per lo scienziato italiano le nazioni nella loro giovinezza hanno alti tassi di fertilità e natalità, poi con il benessere subentra la denatalità, a cominciare dalle classi sociali più elevate: donde lo stadio finale della decadenza, in cui le nazioni senescenti soccombono inevitabilmente nella competizione con quelle più giovani.
Un altro aspetto curioso della biografia di Gini, al crepuscolo del fascismo, fu la sua adesione al Movimento Unionista, che proponeva l’annessione dell’Italia agli Stati Uniti. E non solo dell’Italia. In effetti per gli Unionisti, che adottarono come emblemi la bandiera Usa a stelle e strisce, più quella italiana e una carta geografica mondiale, gli Stati Uniti avrebbero dovuto annettersi tutte le democrazie del pianeta e diventare di fatto un governo mondiale. Il movimento ebbe breve durata, si sciolse nel 1948, e non risulta aver mai goduto di appoggi da parte di Washington.
È il coefficiente di Gini, quello che sopravvive in modo davvero sorprendente. Anche coloro che ne denunciano i limiti, finiscono per proporne una versione allargata. Così negli ultimi decenni sono nati coefficienti di Gini che oltre al reddito misurano le diseguaglianze in termini di accesso all’istruzione; di mobilità sociale; di opportunità. La forza di quell’indice prescinde dal paese in cui è nato: l’Italia figura molto male nelle classifiche stilate con l’indice Gini, sia che misuri le disparità nei redditi, sia per gli altri indicatori di mobilità e opportunità.
Repubblica 23.2.14
Cosa si nasconde dietro quella curva
di Piergiorgio Odifreddi
Basta un semplice confronto tra due percentuali, ad esempio tra il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale e l’80 per cento delle risorse del pianeta che esso consuma, per esprimere in maniera precisa e concreta la grave disuguaglianza esistente oggi nella distribuzione della ricchezza del mondo. Volendo essere più precisi e articolati, bisogna però usare informazioni più dettagliate: nel 1905 l’economista statunitense Max Lorenz propose quindi, in un articolo intitolato “Metodi per misurare la concentrazione della ricchezza”, di considerare quelle che oggi si chiamano appunto curve di Lorenz.
Si tratta delle curve che descrivono le percentuali crescenti della ricchezza possedute da percentuali crescenti della popolazione, partendo dal basso: cioè, da chi ne possiede di meno. Queste curve cominciano e finiscono sempre allo stesso modo, a causa del fatto che lo 0 per cento della popolazione possiede ovviamente lo 0 per cento della ricchezza, e il 100 per cento ne possiede invece il 100 per cento. Per il resto, ciascuna curva differisce a seconda della regione geografica, del momento storico e del tipo di ricchezza considerata: ad esempio, se il patrimonio o il reddito, e se al lordo o al netto dalle tasse.
Ci sono due tipi estremi di curve di Lorenz. Nella direzione della completa uguaglianza, c’è la retta a 45 gradi che descrive la distribuzione perfettamente uniforme della ricchezza: cioè, quella in cui non solo il 20 per cento della popolazione mondiale consuma il 20 per cento delle risorse, ma ogni percentuale della popolazione consuma la corrispondente percentuale delle risorse. Nella direzione della completa disuguaglianza, invece, c’è la curva piatta in cui nessuno possiede niente, eccetto uno che possiede tutto, e che fa schizzare la curva al suo massimo nell’ultimo punto.
Le curve di Lorenz, che nel concreto si situano sempre fra questi due estremi, misurano nel dettaglio la concentrazione della ricchezza in una data situazione, ma lo fanno al prezzo di infinite informazioni: una per ciascun valore percentuale della popolazione. Nel 1912 lo statistico italiano Corrado Gini propose dunque, nell’articolo “Variabilità e mutabilità”, di estrarre da ciascuna curva di Lorenz un’unica informazione cumulativa, che oggi si chiama appunto coefficiente di Gini, e si ottiene misurando la percentuale dell’area compresa tra la curva data e quella a 45 gradi, rispetto all’area compresa tra quest’ultima e la curva piatta.
Poiché si tratta di una percentuale, il coefficiente di Gini è sempre un numero compreso fra 0 e 1, che si può riportare più comodamente a un numero fra 0 e 100 moltiplicandolo per 100, appunto. E poiché esso misura quanto la corrispondente curva di Lorenz si discosta dalla completa uguaglianza nella distribuzione della ricchezza, più è grande il coefficiente e maggiore sarà la disuguaglianza, e viceversa.
Il vantaggio del coefficiente di Gini è che esso rispecchia la distribuzione della ricchezza in maniera più raffinata di quanto non facciano indicatori più rozzi quali il prodotto interno lordo di una nazione, che non dà nessuna informazione sulla distribuzione, o il reddito pro capite, che ne dà solo una rudimentale: quella statistica secondo cui, se una persona mangia un pollo e l’altra no, ne mangiano in media mezzo ciascuno.
A questo punto non rimane che mettere in pratica la teoria, e vedere qualche caso concreto. Ad esempio, nell’intero mondo il coefficiente di Gini è salito da 43 a 71 nel periodo tra il 1800 e il 2000: dunque, negli ultimi due secoli l’incremento di ricchezza prodotto dalla Rivoluzione Industriale ha molto accresciuto il divario fra ricchi e poveri. Lo stesso effetto si è avuto negli Stati Uniti, dove il coefficiente è salito da 39 a 48 nel periodo tra il 1970 e il 2010, a causa del dimezzamento dell’aliquota massima delle tasse. In Italia, invece, l’aumento della pressione fiscale ha mantenuto nel periodo tra il 1980 e il 2005 il coefficiente del reddito netto quasi stabile, tra 31 e 34, mentre quello del reddito lordo saliva da 42 a 56: cioè, le alte tasse hanno agito da riequilibratore sociale della ricchezza.
Guardando agli stati del mondo, ci si accorge che il coefficiente di Gini permette di classificarli in ordine decrescente di democrazia distributiva. I coefficienti sono minimi nei paesi scandinavi, e bassi in Europa, Canada e Australia. Crescono a valori medio-bassi in Russia, India e Giappone, e medio-alti in Stati Uniti, Messico e Cina. E arrivano a valori alti in Brasile, e massimi in Centrafrica e Sud Africa. A conferma del fatto che ricchezza e giustizia sociale sono cose non solo ben diverse, ma anche ben quantificabili.
Repubblica 23.2.14
Ultra Democrazia
Aspettative crescenti destinate a rimanere deluse.
Diritti sempre nuovi da soddisfare
Così gli eccessi rischiano di travolgere l’Occidente
La studiosa Dominique Schnapper spiega perché
di Anais Ginori
PARIGI. Un lento scivolare dalla tolleranza all’indifferenza, dalla libertà alla licenza, dalla critica al relativismo assoluto, dall’uguaglianza all’egualitarismo. Il rischio incombente per le democrazie è “l’ultrademocrazia”, esasperazione dei principi che hanno costruito le società moderne, fino a capovolgerli. Nel nuovo saggio L’Esprit Démocratique des Lois,pubblicato nella collezione Nrf di Gallimard, la politologa e sociologa Dominique Schnapper sostiene che la democrazia deve essere protetta prima di tutto da se stessa e da un nuovo “fondamentalismo democratico” attraverso il quale il cittadino si comporta più che altro da individuo, trasformando in vizi privati le pubbliche virtù. Secondo l’intellettuale francese, figlia di Raymond Aron, il “vivere civile” non è solo minacciato dagli abusi di potere, dall’incremento delle disuguaglianze, dalla violazione dei diritti fondamentali o da nuove discriminazioni. Le democrazie che hanno vinto sui totalitarismi nel Novecento, entrano nel ventunesimo secolo con il rischio di essere vittime del proprio successo e delle smisurate ambizioni interiorizzate da quello che Schnapper chiama l’homodemocraticus.
Quali sono i “nemici interni” della democrazia di cui parla?
«Mai nella storia dell’umanità, le società democratiche sono state così libere, tolleranti, ricche. Ma proprio questa straordinaria evoluzione potrebbe provocare una “corruzione” dei principi democratici che paventava Montesquieu in uno dei capitoli de Lo spirito delle leggi.
Il termine corruzione non va inteso in senso morale, ma come disfunzione di valori. Significa tradire i principi fondativi del “governo repubblicano”, altra espressione di Montesquieu che profetizzava il rischio di “leggi che rendono liberi di essere contro le leggi”».
È per questo che ha ripreso il titolo dell’opera di Montesquieu?
«Ovviamente non ho la presunzione di fare un seguito ideale di un testo così importante e definitivo. Ma ho ripreso le tesi di Montesquieu per tentare di capire delle dinamiche del presente. Aveva per esempio immaginato una democrazia “estrema” che si sarebbe contrapposta alla democrazia “regolata”. Oggi vediamo che l’aspirazione democratica arriva a spingere gli individui fino al rifiuto di regole e limiti. Le nostre democrazie alimentano un desiderio illimitato di benessere e protezione materiale, sociale, morale. Il sentimento di cittadinanza è stato ormai interiorizzato con effetti in qualche modo perversi. I pensatori greci condannavano l’hybris, forma di orgoglio degli uomini che cercano di superare i propri limiti, comportandosi come dèi. La democrazia spinge alla ricerca diun miglioramento perenne, anche perché dalle prime rivoluzioni del Seicento ad oggi abbiamo assistito a un continuo progresso dei diritti democratici».
L’aumento delle disuguaglianze non è già un tradimento della promessa democratica?
«È un’illusione pensare che l’uguaglianza politica, sancita dalla democrazia, si possa trasformarsi in uguaglianza materiale. Lo Stato sociale è condannato a non soddisfare le crescenti richieste e quindi a essere fonte di frustrazioni e umiliazioni. Le risposte dello Stato sono in ritardo e per natura limitate rispetto a quanto chiedono i cittadini o, per meglio dire, gli “aventi diritto”. Al di là della crisi economica che attraversiamo, esiste uno scarto strutturale tra aspettative e realtà della democrazia sociale ».
Così si spiega anche la sfiducia crescente nella politica e nelle istituzioni?
«Non stiamo assistendo alla scomparsa delle norme e delle istituzioni, ma a una nuova tensione con gli individui democratici che pretendono di scegliere le regole alle quali sottoporsi, scegliendo la propria sovranità. Quando parlo di istituzioni mi riferisco anche a scuola, giustizia, sindacati, religioni e tutte le istanze statali e partigiane che regolano le pratiche sociali nello spazio pubblico. L’homo democraticus ha prima abolito le norme imposte dalla volontà divina, poi ha rifiutato le norme imposte dalla Natura. Ora la contestazione punta contro regole stabilite, ovvero contro la storicità di norme ereditate dalle generazioni precedenti. Ma è una transizione molto delicata perché la democrazia si basa su una comunità di individui che condividono una visione del mondo, è questa l’unica forma di trascendenza repubblicana ».
Anche il diritto di critica ha superato ogni limite?
«Le società democratica è imperfetta, come tutte le società umane, anche se ha la particolarità di sottoporsi all’analisi critica dei suoi membri. Insieme al rischio di democrazia estrema, c’è anche quello di una critica estrema. La contestazione è legittima se si concentra sulle decisioni politiche e sulle persone, non lo è se attacca le istituzioni. Bisogna evitare un fondamentalismo democratico, prediligendo la critica relativa alla critica radicale, cercando di contestualizzare i costi sociali e politici delle decisioni, riferendosi al passato e ad altri esempi nel presente. È facile cedere alla denuncia radicale, spesso più visibile sui media e nel mondo intellettuale. Eppure è la critica ragionata e ragionevole, prosaica e autocritica, che forma l’ordine democratico, in tutta la sua modestia».
Come rispondere alle richieste di democrazia diretta o di nuove forme di rappresentanza?
«La democrazia deve rimanere aperta a ogni discussione e contributo ma le decisioni spettano a organismi rappresentativi e democraticamente eletti. Solo il voto e il suffragio universale permettono ai cittadini più marginali della società di esprimersi alla pari di tutti. La cosiddetta democrazia diretta rischia invece di favorire la tirannia di piccoli gruppi, in particolare di quelli che urlano più forte degli altri».
Sottolineare i rischi della “Ultrademocrazia”, non rischia di favorire movimenti reazionari?
«Le posizioni reazionarie sono velleitarie per definizione. Né gli individui né le società possono tornare indietro nel passato. Inoltre, avere un approccio reazionario non permette di comprendere quel che sta accadendo. Le democrazie devono rimanere aperte, liberali, senza chiudersi in false nostalgie. I cittadini devono battersi per difendere lo spirito originale della democrazia, nei suoi valori “regolati” e non “estremi”, per riprendere Montesquieu. Le democrazie non sono condannate alla sconfitta perché il destino collettivo non è mai deciso in anticipo. Da sempre, i democratici si trovano a dover costruire un mondo improbabile».
Repubblica 23.2.14
L’analisi
La dittatura delle minoranze è il vero pericolo di oggi
di Roberto Esposito
Negli ultimi decenni le forme di rappresentanza hanno subito molte contestazioni E così adesso si reclama in misura esasperata l’espressione diretta della volontà popolare
Cosa deve intendersi per “ultrademocrazia”? Diversamente dalla postdemocrazia a suo tempo teorizzata da Crouch e Dahrendorf, il concetto implica che la democrazia non è affatto esaurita, anche se sottoposta a una costante deformazione che la mette in pericolo. La tesi di Dominique Schnapper è che lo stress crescente cui essa appare sottoposta non venga dall’esterno – dagli ultimi totalitarismi o dai nuovi fondamentalismi – ma sia l’esito della sua stessa logica, spinta alle estreme conseguenze. Rispetto a coloro che hanno parlato di limiti della democrazia, o di “promesse non mantenute”, l’argomento viene adesso rovesciato. Proprio per aver cercato di mantenere le proprie promesse fino in fondo, la democrazia rischia di avvitarsi in un cortocircuito dal quale non è facile uscire.
Se si guarda in maniera non superficiale a quanto accade, è evidente che le contraddizioni che oggi insidiano i regimi democratici vadano ricondotte al suo stesso dispositivo logico. I due paradigmi che della democrazia costituiscono gli assi portanti – e cioè quelli di sovranità e di rappresentanza – fin dall’inizio non si articolano senza difficoltà. Come integrare l’idea di “volontà generale”, formulata da Rousseau, agli interessi, spesso in contrasto, degli individui che la compongono? Cosa fa dell’insieme di singoli cittadini un medesimo popolo sovrano? Dopo che a lungo l’apparato statale ha rischiato di soffocare la libertà individuale, da tempo assistiamo ad uno sbilanciamento del principio democratico verso il polo contrario. Ma con un esito altrettanto problematico. In un caso come nell’altro – sia per eccesso di sovranità statale che per eccesso di individualismo – a mettere in crisi le nostre democrazie è l’estremizzazione unilaterale di un vettore presente nel suo corredo genetico.
Lo stesso vale per la dialettica tra rappresentanza e partecipazione. Il meccanismo rappresentativo costituisce l’unica maniera, negli Stati moderni, di veicolare la volontà popolare all’interno delle istituzioni. Ma, come è stato ben presto chiaro, è impossibile trovare un modo di collegare stabilmente i rappresentanti alle intenzioni dei rappresentati. È ovvio che un certo grado di autonomia dei primi sia necessaria per liberarli da vincoli clientelari o interessi particolari. Ma il tracadimento, tutt’altro che raro, delle aspettative degli elettori che ne è scaturito ha di gran lunga oltrepassato il limite, diventando una delle prime cause della disaffezione generale nei confronti della politica.
Anche in questo caso, per comprensibile reazione, l’ago dell’opinione pubblica tende da tempo ad oscillare in direzione opposta. A un eccesso di democrazia rappresentativa si contrappone adesso l’elogio di quella diretta. Se la rappresentanza, come è interpretata dai partiti, appare scarsamente affidabile, è necessario tornare ad una forma di partecipazione diretta, legando senza mediazioni la decisione politica alla volontà dei cittadini. Lo strumento individuato, a questo fine, è oggi la rete. Che si tratti di un canale essenziale anche per la politica è fuori discussione. Tuttavia il suo uso indiscriminato non accanto, ma contro, le altre procedure di deliberazione minaccia di spingere la prassi democrati- al di là dei suoi confini. Mai come in questo caso si può parlare di “ultredemocrazia”, intendendo con tale espressione il controeffetto che un’opportunità, non controllata nella sua misura, può determinare. Il rischio di un’utilizzazione spregiudicata del web – come lo sperimentiamo in questi giorni in Italia – è duplice. Intanto sta nell’ambivalenza costitutiva del medium.
Che da un lato è veicolo di libertà, dall’altro di controllo. Esso include, ma anche esclude, secondo gli interessi di chi ne gestisce il funzionamento. Il secondo possibile effetto perverso della rete riguarda il suo uso in termini populisti. Attraverso di essa il leader può influenzare, utilizzandola ai propri fini, l’opinione pubblica. Ma anche farsene plasmare al punto di esserne governato anziché cercare di governarla.
Ancora una volta un eccesso di democrazia rischia di metterne in discussione i presupposti costitutivi. Alla base di tale contraddizione vi è, ancora, il rapporto tra il tutto e le parti. Abbiamo imparato da Tocqueville cosa sia la tirannide della maggioranza. Ma adesso, con un rovesciamento speculare, rischiamo di sperimentare la tirannide della minoranza. E possibile, e fino a che punto, che una forza politica minore impedisca, con ogni mezzo, alla maggioranza di governare? O, spostandoci in altro ambito, può una modestissima percentuale di elettori svizzeri portare all’approvazione di un documento, come quello sulla limitazione dell’immigrazione, contrario ai valori e agli interessi dell’intera Comunità europea? Non è anche questo un esito ultrademocratico della democrazia?
Repubblica 23.2.14
In memoria di Dulbecco Nobel battagliero nato cent’anni fa
di Piergiorgio Odifreddi
Ieri, 22 febbraio 2014, Renato Dulbecco avrebbe compiuto cent’anni. Ma, a differenza di Rita Levi Montalcini, suo amore giovanile e amica per la vita, non è arrivato a festeggiare il secolo di vita. Il nostro grande scienziato, come lei premio Nobel per la medicina, è infatti morto esattamente due anni fa, il 20 febbraio 2012.
Laureato in medicina a soli 22 anni, Dulbecco è stato il padre della virologia moderna, uno dei pionieri dello studio del cancro, l’alfiere della lotta contro il fumo, l’ideatore del Progetto Genoma, un divulgatore di talento, un opinionista da prima pagina su Repubblica, il presentatore di un Festival di Sanremo, il testimonial d’onore del Telethon e, dulcis in fundo, l’ispiratore di un personaggio di fumetti chiamato Dulby.
La sua voce si era levata pubblicamente un’ultima volta nella primavera del 2005, unitamente a quella della Montalcini, per invitare gli italiani ad andare a votare a favore dell’abrogazione di alcuni articoli della Legge 40 sulla procreazione assistita. Una legge, promulgata dal secondo governo Berlusconi, che è il tipico prodotto di una visione clericale e oscurantista delle biotecnologie.
L’anacronismo della legge fu dimostrato dal fatto che lo schieramento contrario alla sua abrogazione era guidato dal cardinal Ruini e dal neoeletto papa Benedetto XVI. L’Italia sitrovò così divisa a scegliere, su una questione scientifica e medica, tra i fatti enumerati dai due premi Nobel della medicina, e le opinioni espresse dai due prelati, e scelse di stare dalla parte sbagliata, a propria e nostra vergogna. Oggi Dulbecco e la Montalcini non ci sono più, ma quella legge c’è ancora: il ricordo delle nostre due glorie ci aiuti a cancellare presto questa nostra onta!
Repubblica 23.2.14
Berger e Spinoza fratelli nel disegno
di Franco Marcoaldi
Ostracizzato dalla comunità ebraica di Amsterdam, si era ritirato dalla vita sociale; per sostenersi molava lenti, mentre scriveva il Trattato sull’emendazione dell’intelletto e l’Etica, che verranno pubblicati post mortem. Ma la passione segreta del filosofo Baruch Spinoza era il disegno, anche se di quella passione non è rimasta traccia.
Allo scrittore John Berger, però, piace immaginare che il taccuino di cuoio scamosciato, da lui ricevuto un certo giorno in regalo da uno stampatore polacco, sia proprio quello del grande marrano. E lì comincia a disegnare, riflettendo e fantasticando sul significato di quel gesto, in stretta e costante connessione con le pagine dell’Etica e del Trattato.
Berger ci ha abituato a testi spiazzanti, inclassificabili, e anche questa volta non si smentisce. Nel libro si alternano disegni a carboncino, acquarelli, ricordi, sogni, citazioni spinoziane, la descrizione di piccoli restauri e affilatissime riflessioni sul nostro presente. Ma il vero cuore del libro è una questione da sempre cara allo
Storyteller inglese: cosa significa vedere e cosa significa disegnare quanto si è appena visto. Vedere è, innanzitutto, un atto “doppio”, perché contempla a pari titolo anche l’essere visti, come ci hanno spiegato grandissimi artisti – da Cézanne a Giacometti. In altri termini, l’oggetto del nostro sguardo ci ricambia a sua volta con un’energia che modifica e accresce la qualità e il significato dell’incontro: il visibile cela l’invisibile. Ed è esattamente di questa inafferrabile presenza che andiamo in cerca quando disegniamo: si tratta di “visioni” non poi molto dissimili da quelle del dormiveglia.
Non per caso i diversi disegni che si succedono nel libro (iris, volti, biciclette, animali, danzatrici) si concludono immancabilmente con un voluto refrain: «noi che disegniamo lo facciamo non solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di invisibile alla sua incalcolabile destinazione». Affermazione che comporta, come sempre in Berger, immediate e concrete conseguenze etiche e politiche. Perché portare alla luce ciò che è celato significa innanzitutto rifuggire dalla tentazione di distogliere lo sguardo da tragedie, soprusi e ingiustizie di ogni genere. Vuol dire trattenere dentro di noi una persona, una storia, un oggetto, che altrimenti andrebbero smarriti. Vuol dire accogliere i superstiti, più che gli interpreti, di quel mistero che si chiama vita. Ben sapendo, per dirla con Spinoza, che «a quante più altre un’immagine è stata congiunta, tanto più spesso si fa sentire ». Dunque risuona dentro di noi, sedimenta fermenti e nuove, possibili germinazioni.
Bento (Benedetto, Baruch) si è ormai trasformato nel fratello di sangue di Berger. E poco importa se i due sono separati da quattro secoli di storia. Senza pensarci su, lo scrittore invita il filosofo a salire a bordo della propria moto perché, sostiene, esiste uno strano parallelismo tra il centauro e il disegnatore, che può aiutarci a svelare un segreto «a proposito di movimento e visione. Guardare avvicina ». La moto del resto, a differenza dei mezzi a quattro ruote, «segue il tuo sguardo, non le tue idee». E lo stesso accade nel disegno, un’attività che ha «qualcosa di prototipico e anteriore al ragionamento logico ». Si disegna per perlustrare, indagare, orientarsi nel mondo. Un po’ come accade «alle lepri che cercano un nascondiglio allorché si sentono braccate, ai pesci che sanno deporre le uova, agli alberi che si aprono un varco verso la luce o alle api che costruiscono le loro celle». Grazie a queste mappe mentali, che provano a dare forma a quanto si vede, o meglio si intra-vede, corpo e cervello comunicano tra loro. «Il desiderio simbiotico di avvicinarsi sempre di più, di penetrare il sé di quel che si sta disegnando – pare volerci dire Berger – è un modo di avvicinare la forma più alta di conoscenza indicata da Spinoza; quella che concerne «la sostanza delle cose riassunta in Dio», l’amor Dei intellectualis.
Repubblica 23.2.14
Perché la religione è una cosa razionale
di Francesca Bolino
Può una visione del mondo teistica essere razionale e coerente con una mentalità di tipo scientifico? Robert Audi – uno dei più autorevoli filosofi del panorama analitico contemporaneo, affronta la questione in questo denso volume. Audi non identifica la razionalità con la giustificazione e neppure con la ragionevolezza e non collega nessuna delle due con la conoscenza. La fede religiosa non è assolutamente riducibile a un tipo di credenza. L’adesione a una religione influenza sempre tutti gli aspetti dell’esistenza.
Il punto di svolta che il filosofo americano vuole mettere in luce (non è nuovo, ma è importante la prospettiva filosofica che Audi porta con sé) è che l’impegno religioso rappresenta anche una scelta di vita a tutto tondo. Dunque, l’invito è quello di provare a cambiare prospettiva: non solo la prospettiva di scelta cognitiva ma anche quella esistenziale.
«L’impegno religioso razionale si colloca così in qualche punto tra una cieca fiducia in quello che noi ardentemente desideriamo sia vero e un timido rifiuto di rischiare delusioni; tra scetticismo e credulità», scrive Audi.
Repubblica 23.2.14
Kokoschka
Stravolgere lo sguardo sulla realtà per riuscire a vederla davvero
di Achille Bonito Oliva
VIENNA. “La mia vanità, che non ha nulla a che fare con il mio corpo, si riconoscerebbe volentieri in un mostro, se vi riconoscesse lo spirito dell’artista, e io sono orgoglioso della testimonianza di un Kokoschka, perché la verità deformante del genio è più alta di quella dell’anatomia e poiché in presenza dell’arte la realtà è solo un’illusione ottica”(Karl Kraus, Die Fackel).
L’io al centro dell’attenzione è quello di Oscar Kokoschka esposto al Leopold Museum di Vienna: pitture, grafiche e duecento fotografie fino al 3 marzo.
Nel clima della secessione viennese, Oskar Kokoschka (1886 – 1980) adopera la pittura come uno specchio anamorfico capace di alterare la distanza simmetrica tra il modello e il dipinto, di annullare la semplice
vistadell’uomo comune che usa l’occhio come un organo di semplice riproduzione visiva e invece fondare una nuova dimensione dello sguardo che presuppone il nervo di una sensibilità particolare e stravolgente.
Lo sguardo diventa un organo con doppia polarità che funziona attraverso un elemento d’introversione a un altro di estroversione. La prima adatta a restituire le tre dimensioni delle cose, il secondo capace di catturarne un’altra, la quarta, quella psichica e interiore. Dunque lo sguardo ha una capacità creativa che appartiene soltanto all’artista, armato di una sensibilità particolare e di un sistema di allarme di estrema e necessaria fragilità. L’intensità di questo sguardo scavalca la temporalità, intesa come pura percezione del presente, ed accede ad una allargata e profetica. Wolf Dieter Dube racconta del ritratto del biologo Forel rifiutato dalla famiglia dello scienziato in quanto ritenuto non rassomigliante. Successivamente il professor Forel, dopo un colpo apoplettico, ha cominciato sempre più a rassomigliare al quadro dipinto da Kokoschka. L’immagine è portatrice di una dimensione allucinata che svela nodi e ferite, cicatrici e ingorghi, stratificati sotto la coltre della rimozione e dell’inibizione. A conferma il suo testo teatrale Assassino speranza delle donne.
L’assassinio delle convenzioni diventa la pulsione originaria dell’arte linguistiche o morali, politiche o sociali. Tutto si realizza attraverso la costruzione di un’immagine che è per definizione un gesto di rifondazione, dopo quello destrutturante delle convenzioni, e dunque di affermazione vitale. Chi produce questo sano, feroce ed anche allegro assassinio è l’artista O.K. che affonda il suo sguardo oltre la soglia del privato senza mai indietreggiare davanti alle indicibili e indecenti apparizioni di verità nascoste.
La pittura dell’artista austriaco passa attraverso una fase di scarnificazione grafica che annulla ogni dettaglio sovrastrutturale e, secondo le cadenze di una sensibilità anche giapponese, capace di una riduzione all’essenzialità della linea, accede ad un segno concentrato in un “punto focale”, lo svelamento di una nascosta ed inaccessibile identità.
Tale punto focale sviluppa una forza di irradiazione e dilatazione dell’immagine, un’energia vitale che trasfigura il soggetto e lo sposta su un versante estremamente interiorizzato. Nello stesso tempo la scarnificazione grafica trova un suo ispessimento attraverso la materia pittorica e stratificata che ricorda la grande lezione italiana di Tiziano, Tintoretto e Veronese. Un doppio passaggio dall’apparenza alla sostanza, dallo scheletro all’opulenza di una nuova carne.
L’arte di O.K. è la pratica di uccisione e resurrezione, di uno svelamento e rivestimento, di una riduzione e una rifondazione della materia: “Ora io costruisco composizioni da volti umani (modelli come le persone che hanno resistito con me per lungo periodo, persone che mi conoscono e che io conosco perfettamente, tanto che mi perseguitano come incubi) e in queste composizioni un essere è in conflitto con un altro in rigida contrapposizione come l’odio e l’amore, e in ogni quadro cerco ‘l’accidente’ drammatico che salderà gli spiriti individuali in un ordine superiore”.
Amore e odio, morte e resurrezione, assassinio e speranza. Due linee attraversano l’opera di Kokoschka: una gotica e una barocca. Quella gotica tende alla scarnificazione e alla restituzione di un permanente motivo dolente, quella barocca a riscattare tale impulso negativo e a rovesciarlo in un’istanza vitale e positiva. Materia e spirito si fronteggiano assiduamente nel campo dell’arte e si attraversano in una sana ambivalenza senza che una sopravanzi l’altra. In questo senso la pittura di O.K. arricchisce il senso comune, creando uno spostamento dalla pura vista allo sguardo complesso.
Repubblica 23.2.14
Giacomo Rizzolatti
Lo scienziato racconta la sua vita e come ha scoperto i neuroni specchio
Vivevamo a Kiev negli anni Trenta e dovemmo scappare
“Da bambino sono scampato alle purghe staliniane con i miei studi ho capito come funziona il cervello”
Esiste un meccanismo naturale che ci immedesima negli altri e ci rend
intervista di Antonio Gnoli
Ripensando alla turbinosa ascesa della repressione staliniana non era facile immaginare di ritrovarvi i lembi di una piccola grande storia italiana. Ma quando la polizia segreta e la fame incombente bussarono alla porta della famiglia Rizzolatti si capì immediatamente che un’epoca era finita e che il futuro appariva incerto e spaurito come i volti degli abitanti di Kiev. Giacomo Rizzolatti, che grazie alla sua scoperta dei “neuroni specchio” ha sfiorato il Nobel, conserva la memoria di quegli anni per quel tanto che il padre gli raccontò. Lo scienziato vive e insegna a Parma. È un signore curioso e affabile. E se posso aggiungere una nota di colore egli veste con la discreta trasandatezza che un uomo di talento ha quando il disinteresse per sé è pari all’interesse per la propria ricerca. «Giunti a una certa età siamo ciò che abbiamo imparato ad essere: radici, educazione, cromosomi. Contesti naturali e sociali. Anche il vestire non fa eccezione».
In fondo l’abito e l’abitare hanno la stessa radice.
«Abitiamo i nostri vestiti come le nostre case».
Lei vive qui?
«Sì, a Parma in una zona centrale».
Dove è nato?
«In Ucraina, allora Unione Sovietica. Il mio papà fece l’università a Kiev, città allora molto diversa da quella martoriata di oggi. Parlo degli anni Trenta. Si iscrisse a Medicina che non ero ancora nato. La situazione si stava facendo terribile. Si percepiva un senso di furore rivoluzionario e di paura ancestrale».
Paura per cosa?
«Perdere tutto, anche la vita. Cominciava a dilagare il sistema della delazione e della denuncia. Stalin aveva deciso di collettivizzare l’economia. E i contadini, quelli con la terra, furono i primi a opporsi. Ammazzarono le proprie bestie, incendiarono le proprie case, rinunciarono a lavorare la terra pur di non cedere all’espropriazione forzata. In quelle circostanze gli studenti erano spediti a lavorare nei campi. Mio padre, soprattutto in estate, raccoglieva nei primi kolchoz le patate».
Fu una forma di collaborazione?
«Direi piuttosto un obbligo. Mi raccontò che durante una lezione all’università, una ragazza lo denunciò: lui, disse la studentessa indicando mio padre, è il figlio del costruttore Rizzolatti, un nemico del popolo. Il professore reagì con calma: è vero, replicò. Ma lo studente Rizzolatti è stato rieducato come infermiere nelle miniere del Don».
Con che spirito suo padre le raccontò tutto questo?
«Era consapevole che la situazione stava sfuggendo di mano. Ma non ne ebbe mai un ricordo cupo. Quando una volta gli chiesi perché, sapendo cosa era accaduto in Unione Sovietica, aveva deciso di partecipare alla guerra partigiana in Italia, mi rispose: perché lì come qui pensavamo comunque a un mondo migliore».
Come arrivò la sua famiglia a Kiev?
«Alla fine dell’800 il mio bisnonno emigrò verso l’impero russo. Era friulano, senza lavoro perché ce ne era poco. Arrivò a Kiev con alle spalle una scuola di mosaico. Fu assunto come operaio specializzato. Col tempo si mise in proprio nella lavorazione del marmo, che importava da Carrara. Divenne un uomo discretamente ricco. E tutto andò bene fino alla rivoluzione del 1917».
Cosa accadde?
«Ci tolsero la fabbrica. Ma non la casa, quella che il nonno aveva fatto costruire. La confiscarono solo parzialmente consentendo alla nostra famiglia di viverci. Dopotutto eravamo stranieri e quindi ancora agevolati».
Quando la situazione precipitò?
«Durante la Guerra di Spagna. Stalin decise che in pochissimo tempo gli stranieri dovevano essere rispediti ai loro paesi. Nel 1937 arrivò lo “sfratto”. Toccò prima a mio zio, poi a mio padre e mia madre, infine ai nonni che erano ancora vivi. In tre mesi dovemmo lasciare Kiev. Ero appena nato. L’ambasciata ci aiutò a portare via qualche gioiello, sembravamo usciti da un romanzo di Bulgakov, che tra l’altro era nato a Kiev e aveva fatto il medico».
Non è che l’Italia fosse proprio il sogno.
«Anzi. Per una legge del fascismo i miei dovettero risiedere nel luogo da cui i nonni erano partiti: Clauzetto, un paesino non lontano da Pordenone. Ora, lei immagini passare da un posto come Kiev che faceva un milione di abitanti, con una vita sociale internazionale, a un luogo che contava sì e no 500 anime. La mamma che era una donna spiritosa, disse: ma non avete l’impressione di stare nel Caucaso?».
E qui inizia la sua storia.
«Devo dire che la nostra storia familiare strideva con il provincialismo italiano di quegli anni. Avevo buone letture alle spalle: romanzi francesi e russi, come si addiceva a un’educazione un po’ mitteleuropea ».
Conosceva il russo?
«Da ragazzo lo leggevo. Oggi avrei difficoltà con il cirillico. Ma allora, parlo degli anni Cinquanta, mi fu utile al liceo classico che frequentai a Udine. Poi l’università a Padova e la decisione di occuparmi di neurologia ».
Perché neurologia?
«La scelta si legava alla professione dei miei. Entrambi medici. E poi ero affascinato da quella scatola e soprattutto dal suo contenuto: il cervello. Gli insegnanti mi sembravano tutti bravi. Fu un assistente di fisiologia a mettermi in guardia: ma cosa fai? Qui sono quasi tutti dei “mona”. Se vuoi occuparti di “cervello” vai a Pisa dal professor Giuseppe Moruzzi».
Cosa aveva di speciale?
«Fu un genio della ricerca. Insegnò a Bruxelles, Cambridge e a Chicago invitato dal grande Horace Magoun e infine a Pisa. Capitava, a volte, che Rita Levi Montalcini lo interpellasse su alcune ricerche scientifiche. A lui si deve l’importante scoperta della formazione reticolare che lo rese particolarmente famoso in Unione Sovietica».
Perché lì?
«Le sue ricerche si incrociavano con quelle di Pavlov. In particolare sul concetto di “reazione di orientamento”».
Spieghi.
«Prima di Moruzzi si pensava che il cervello si attivasse grazie alle sue tante vie, acustica, visiva, motoria, e che queste modalità andassero analizzate separatamente. Pavlov si accorse che battendo le mani si produce un certo suono di fronte al quale una persona si gira. La domanda che si fece Moruzzi fu: perché quella persona oltre all’udito coinvolge la parte motoria?».
«Moruzzi formulò l’ipotesi che le modalità sensoriali fossero integrate, o tenute assieme, da una sostanza reticolare che poi inviava l’impulso al cervello».
«Per tre anni. È stato un uomo fondamentale con una visione umanistica straordinaria. Ricordo ancora che una delle prime cose che mi chiese fu se conoscevo la di Proust. Balbettai che sì qualcosa avevo letto. Mi guardò e rispose: naturalmente in francese, se no è come non averla letta».
È stato importante Moruzzi per le sue successive scoperte?
«Lo è stato come atteggiamento critico, come manifestazione di creatività e indipendenza di giudizio. Di solito si pensa che solo gli artisti siano creativi e che gli scienziati facciano il lavoro rigido. Non è così».
In effetti molti artisti si sono entusiasmati per la sua scoperta dei “neuroni specchio”.
«È vero. Jan Fabre, che ho incontrato diverse volte, ci ha visto dentro un mondo che era anche il suo».
«Inizialmente mi occupavo del sistema visivo. Per caso mi accorsi che c’era un’area del cervello che confinava con il sistema motorio e lì si trovavano delle risposte visive che apparentemente non dovevano esserci ».
Mi faccia capire: un cervello ha miliardi di neuroni. Lei e il suo team ne intercettate alcuni un po’ particolari. Ma non è come trovare il biglietto vincente di una lotteria?
«Sembra ma non è così. Anche perché non si parte da zero ma con delle ipotesi. Il punto è che quando ti imbatti in ciò che sembra un’anomalia, prima di escluderla, devi provare a razionalizzarla».
«Seguendo anche un approccio etologico. Cominciammo i primi esperimenti utilizzando dei gatti».
«Sì. Quando lo comunicai a un professore americano rispose: ma io non leggo letteratura sui gatti. Come non legge? dissi io. Voglio dire, precisò, che la sola rilevanza cognitiva la si ha con le scimmie o con l’uomo ».
«Sì e l’idea fu di non condizionare la scimmia ma lasciarla libera. Quindi non trattarla come un essere che produce movimento, ma alla stregua di un’entità viva, le cui azioni sono esercitate in vista di uno scopo ».
«E in qualche modo socievole. I test che conducemmo ci fecero scoprire una cosa apparentemente strana: registrammo che un neurone motorio rispondeva agli stimoli visivi».
«Perché di solito si pensava che l’atto motorio fosse un semplice atto esecutivo. In realtà la questione apparve più sofisticata. Ci accorgemmo che la scimmia non compiva solo dei movimenti ma delle vere e proprie azioni. E questo era possibile perché, in qualche modo, era saltata la rigida e artificiale separazione tra area percettiva, cognitiva e motoria ».
Per dirla con una battuta: il movimento non è cieco.
«Più esattamente: il cervello che agisce è anche il cervello che comprende ».
E questa comprensione avviene prima che la società dia le regole e si formi il linguaggio?
«Diciamo che è una precomprensione che viene prima della costruzione dei concetti, ma è altrettanto importante per le capacità cognitive ».
Questa fase primaria è quella che chiamate dei “neuroni specchio”?
«Ci sono dei fenomeni alla nascita che abbiamo appunto chiamato “neuroni specchio”».
«Il meccanismo ci permette di sapere cosa fanno gli altri senza dover ricorrere alla fase linguistica, ma basandosi unicamente sulle proprie competenze motorie».
Insomma: io so che cosa sta facendo una persona perché so farlo anche io, sento le stesse cose che sente lui?
«In un certo senso è così. I neuroni specchio creano un campo comune di esperienza che coinvolge tanto l’aspetto individuale quanto quello sociale».
«La nostra scoperta, alla quale ha contribuito un gruppo di ricercatori straordinari, rivela che c’è un meccanismo naturale che in qualche modo ci rende sociali, ci porta a considerare l’altro come noi stessi. È chiaro che questo meccanismo è poi influenzato dalla società. Questo per rispondere a eventuali obiezioni sul presunto eccesso di biologismo ».
Gli psicologi non hanno accolto molto bene la vostra scoperta.
«Lo capisco, va a toccare tutto il piano dell’emotività che loro spiegano in maniera diversa. I neurologi invece l’hanno presa benissimo, ritenendola fondata su basi solide. E così gli artisti e perfino i filosofi».
Anche il pubblico si è appassionato. Come ha vissuto il successo?
«All’inizio con molto stupore. Sapevo che la scoperta era interessante, soprattutto per le ricadute. Ma non mi aspettavo una reazione così mediaticamente forte».
«Nell’epoca moderna è il metodo sperimentale: trovare risultati che siano ripetibili. Insomma, il metodo galileiano».
«Mi sento ancora newtoniano. In fondo continuiamo a vivere nel mondo newtoniano».
Newton non disprezzava le incursioni nella magia e nella religione.
«Anche Galilei si dedicava all’astrologia. Ma sono aspetti folcloristici ».
Per uno scienziato oggi sarebbe folcloristico occuparsi di religione?
«Non sarei io a impedirglielo. Mi dà fastidio chi è violentemente contro qualcosa. La varietà di pensiero nelle persone, oltre alla confusione, crea ricchezza. Però una cosa è la fede altra è la scienza».
«Sono due mondi avulsi l’uno all’altro. Il metodo sperimentale mi dice che una cosa deve essere assolutamente ripetibile perché sia vera. I miracoli non sono ripetibili. Se ammettessi i miracoli non farei più scienza. Diamoci un po’ di coerenza».
Alcuni grandi scienziati non hanno rinunciato a credere.
«È vero. Il grande scienziato John Eccles era un esigentissimo cattolico ».
Cos’è la libertà per un uomo che si concede una contraddizione così vistosa?
«Non ho mai pensato alla fede come a un oggetto. E capisco che ad alcuni faccia piacere sapere che esiste un mondo dell’aldilà e che non tutto finisce qui».
«Certamente consola. Ed è chiaro che sul piano delle preferenze è meglio un mondo che preveda l’aldilà a un mondo che non è in grado di contemplarlo. La mia logica dice però che è poco verosimile. Tuttavia, mi danno fastidio coloro che si dichiarano atei e che impongono una loro immagine di assenza di Dio. In fondo è anche questa una prepotenza. Se uno scienziato vuole andare in chiesa ci vada pure. Le leggi della fisica non cadranno per questo».
La Stampa 23.2.14
Tra i Sassi di Matera il filo della città futura
Diventati dopo gli Anni Cinquanta sinonimo di degrado sono in realtà un modello abitativo sostenibile e comunitario
di Pietro Laureano
I Sassi di Matera furono completamente spopolati dagli abitanti, costretti a spostarsi in nuovi quartieri negli Anni Cinquanta e Sessanta, e le case grotta e il sistema di habitat trogloditico furono dichiarati una vergogna per la nazione italiana. L’intera comunità, con la sua identità e il suo passato, fu decretata inadeguata e posta ai margini della storia. Era estranea ai modi, ai tempi e alle necessità dello sviluppo – maschera del volto truce dell’emigrazione e della speculazione edilizia. Matera costituiva un modello scandaloso perché, basata sul risparmio delle risorse, sul continuo riciclo e sull’autoproduzione, era una minaccia per la società dei consumi.
Negli Anni Ottanta, dopo l’esodo urbano, matura la volontà di recupero, ma il dibattito oscilla tra la sacralizzazione estetica di un mondo perduto e le proposte di risanamento basate sulla concezione che si trattasse di adeguare miseri quartieri dismessi. Così i Sassi di Matera rischiavano o la museificazione, condannandoli al degrado per l’impossibilità di gestione, o un riuso realizzato tramite omologazioni distruttive con la progettazione di affacci, sventramenti e nuove volumetrie. L’unica soluzione possibile era il ritorno degli abitanti con interventi di restauro compatibili con la preservazione dei valori.
La cosa non era facile sia perché la gran parte dei cittadini di Matera non voleva riabitare i Sassi, ferita ancora aperta per il marchio subìto della vergogna e l’imposizione di nuovi modelli, sia perché, per stabilire codici di salvaguardia, è necessario prima interpretare i luoghi e stabilirne i valori e significati. Occorreva quindi compiere una nuova lettura e una nuova narrazione da far vivere nella memoria, negli interessi e nelle passioni dei cittadini; e anche sostenere le associazioni, gli appassionati e gli intellettuali già operanti in questa direzione con un’iniziativa che stimolasse la volontà e l’orgoglio della comunità; diffondere questa immagine come elemento di promozione e di riscatto culturale ed economico. Tutto questo è stato ottenuto con l’iscrizione nella lista del patrimonio mondiale Unesco realizzata nel 1993 come primo sito del Sud dell’Italia. Il riconoscimento fu dovuto all’interpretazione del sistema geniale di gestione dell’acqua e dell’energia, dell’organizzazione sociale e comunitaria degli spazi e dei percorsi urbani, delle caratteristiche uniche del modo di abitare e di proteggere l’ecosistema come modello di sostenibilità per la città del futuro. L’iscrizione di Matera diede impulso, in Italia, a nuove candidature; a livello internazionale, all’apprezzamento delle località popolari e non auliche; e, sul piano teorico, all’evoluzione effettuata dall’Unesco della concezione del patrimonio dal monumento al paesaggio, alle conoscenze e alle persone che l’hanno prodotto.
Matera, abbarbicata sui gradoni scoscesi dell’altopiano calcareo delle Murge, lungo il bordo del profondo canyon della Gravina, ha una compenetrazione totale con il paesaggio: non è costruita sulle rocce, vi è scolpita; non è edificata, è scavata; non è realizzata con la pietra, è la pietra stessa. È il rovescio delle categorie consuete. Qui le antiche cronache recitano: «i morti sono sopra i vivi», perché, abitando il sottosuolo, si seppellisce sui giardini pensili posti al di sopra; le strade sono i tetti delle abitazioni sottostanti, e gli opposti coesistono: vuoto e pieno, antro e giardino pensile, luce e tenebra. Reliquia preistorica e ipotesi per futuri alternativi, Matera, come una divinità primordiale, pone interrogativi e sfide con l’enigma dei suoi labirinti di luce e i mille volti di pietra.
La scarsità delle risorse, la necessità di farne un uso appropriato e collettivo, l’economia della terra e dell’energia e la produzione e la gestione dell’acqua sono alla base della realizzazione dei Sassi di Matera. Sull’altopiano, scavati nella fragile roccia calcarea, sono ancora visibili i primi villaggi del Neolitico risalenti al VI millennio a.C. circondati da fossati organizzati con canalette e cisterne dalla perfetta forma a parabola, filtri e tumuli di pietra che, captando il vento, condensano l’umidità. La linea tra il piano e il burrone è soglia simbolica e luogo fondamentale per la captazione delle acque. Seguendo gli strati del calcare tenero, si scavano cavità semiorizzontali su più piani sfruttando la parete verticale e i gradoni naturali della sponda del canyon. Durante le piogge, terrazzamenti proteggono i pendii dall’erosione e convogliano per gravità le acque nelle grotte. Nella stagione secca, le cavità aspirano l’umidità atmosferica che si condensa nella cisterna terminale degli ipogei. Lo scavo è effettuato con un’inclinazione precisa per permettere al sole in inverno, quando è più basso a mezzogiorno, di penetrare fino in fondo. In estate, il sole più vicino allo zenit colpisce solo gli ingressi delle grotte lasciandole fresche e umide. Il processo ha una funzione pratica, garantendo la climatizzazione costante, e un significato simbolico. L’unione del Sole con la Terra, attraverso la condensazione del vapore sulla roccia più fredda, crea il miracolo dell’acqua e della vita.
Nel tempo, sviluppando le originarie tecniche preistoriche, si realizza un sistema di habitat adattato e complesso. Con gli stessi blocchi di pietra ricavati scavando le grotte, sono fatti gli ambienti costruiti che chiudono a ferro di cavallo la radura terrazzata determinando uno spazio centrale protetto. Il modulo dell’abitazione è la volta a botte, il lamione, estroflessione delle stesse grotte che rimangono dietro le facciate costruite. Quelli che erano l’orto irrigato e l’aia pastorale davanti alle grotte si trasformano nella corte, luogo delle attività della famiglia allargata; l’insieme di affacci su spazi più grandi forma l’agglomerato principale delle relazioni sociali: il vicinato. Qui una grande cisterna comune raccoglie le acque che provengono ora dai tetti, mentre il gradone sovrastante si trasforma in giardino pensile. Le linee di scorrimento idrico divengono le scale e i percorsi del complesso urbano. La forma e la trama viaria assecondano la struttura e le asperità del terreno seguendo le linee di gravità per le necessità di raccolta e di gestione dell’acqua.
L’intera città sembra essere stata concepita non per un attraversamento rapido ma proprio per fermarsi, imbattersi in qualcuno, lasciarsi coinvolgere nei rapporti sociali e di vicinato. Ne risulta una struttura spaziale allo stesso tempo corporea e geometricamente rigorosa; una geometria non ortogonale e regolare, ma caotica e frammentata, non pianificata ma autoprodotta, non euclidea ma frattale. Semplici regole, iscritte nella natura e nella coscienza di ognuno, ripetendosi costantemente, determinano risultati sublimi. Così, con l’applicazione pigra, lenta, costante e tenace dello stesso processo si attua l’intensificazione senza perdita di varietà e complessità. Si conciliano la cuspide e la curva, la regolarità e la sinuosità, il minerale e il biologico. È una geometria organica, la stessa preposta alla crescita di una foglia, allo sviluppo di una conchiglia e alla formazione dei fiocchi di neve, i cristalli, fino alle galassie. È la geometria organica espressa nelle incisioni di Cornelius Escher che in uno spazio limitato sa disegnare l’infinito e in un’architettura impossibile il ripetersi dell’eterno.
Corriere 23.2.14Antoinette Fouque
Addio alla psicanalista che ha fatto la storia del femminismo
È morta a Parigi nella notte tra mercoledì e giovedì Antoinette Fouque (nella foto) , psicanalista cofondatrice del Movimento di Liberazione della Donna (Mlf) ed ex eurodeputato. Aveva 77 anni. Figura emblematica del femminismo francese e mondiale, il suo nome è strettamente legato alla nascita del Mlf, il 26 agosto 1970. L’anno dopo Fouque è una delle 343 firmatarie del manifesto per il diritto all’aborto. Nel 1973 fonda le Edizioni della donna (Edf). Allieva di Roland Barthes, segue una psicanalisi con Jacques Lacan, da cui prende le distanze nel suo gruppo Psicanalisi e Politica. Dopo aver litigato con Lacan, lascia la Francia e va in esilio negli Stati Uniti per diversi anni. A San Diego, nel Sud della California, presiede l’Alliance Francaise. Deputata europea (Radicale) dal 1994 al 1999, a Strasburgo è stata vicepresidente della commissione per i diritti della donna e delegata dell’Ue alla Conferenza mondiale della donna di Pechino nel 1995.
Corriere Salute 23.2.14
Anoressia e bulimia vanno seguite anche se non sono proprio quelle «vere»
di D. D. D.
Sebbene la vere anoressia e bulimia siano relativamente rare, durante l’adolescenza possono manifestarsi sindromi parziali dei disturbi alimentari, che presentano solo alcuni sintomi di anoressia e bulimia. Tali sindromi sono state studiate dal dottor George Patton sullo stesso campione utilizzato per la ricerca sui disturbi psicologici ansioso-depressivi ( vedi sopra ); lo studio è stato pubblicato sul British Journal of Psychiatry .
«La diffusione delle sindromi parziali è attorno al 3-5 per cento delle ragazze adolescenti» dicono gli autori della ricerca. «I primi studi “longitudinali” hanno preso in considerazione la possibilità che le sindromi parziali possano svilupparsi diventando disturbi completi, così che potrebbe avere un senso progettare interventi terapeutici precoci. «Finora non si era riusciti a chiarire quale fosse il naturale evolversi di queste sindromi parziali ed è per questo che il gruppo guidato dal dottor Patton le ha indagate con uno studio osservazionale prospettico, durato undici anni.
«l nostro studio conferma che le sindromi parziali sono comuni durante l’adolescenza — spiegano Patton e i suoi collaboratori —. Circa una ragazza su dieci soddisfaceva i criteri diagnostici per tali condizioni in qualche momento tra i 15 e i 17 anni. Solo una ragazza su sei di quelle con un disturbo alimentare adolescenziale aveva ancora una sindrome parziale da giovane adulta: un risultato coerente con un precedente studio statunitense secondo il quale la maggioranza di questi disturbi non persiste nell’età giovanile». Le ragazze affette dalle sindromi parziali comunque mostrano sintomi ansioso-depressivi con una frequenza almeno doppia rispetto alle altre ragazze, più frequente uso di sostanze e alcol, maggiori probabilità di fumare e di avere rapporti sessuali precoci.
«I segnali che dovrebbero preoccupare sono diversi, e per certi versi speculari nelle ragazze con condotte alimentari restrittive e in quelle con condotte bulimiche — dice il Gabriele Masi, direttore dell’Unità operativa di psichiatria dell’età evolutiva dell’Istituto scientifico Stella Maris di Pisa —. Nelle prime, un elemento di allarme è l’intensità, la persistenza e l’impatto emotivo dell’alterazione dell’immagine corporea, cioè la discrepanza tra come una persona è realmente e come si percepisce. Discrepanza che può riguardare il corpo nel suo complesso, o alcune parti, come cosce, natiche, seno. Tale aspetto è ancora più rilevante se si associa a un disturbo depressivo, o a comportamenti rigidamente ripetitivi e controllanti. Nelle ragazze con tratti bulimici, i segnali di allarme sono quelli indicativi di uno stato di precario autocontrollo, in particolare la frequenza degli episodi di vomito e l’instabilità dell’umore, con fasi di eccitazione, irritabilità, impulsività o aggressività, che spesso rappresentano il sottofondo dell’uso di alcol o sostanze di abuso».
Corriere La Lettura 23.2.14
Ma perdere la testa per una statua di marmo non è (solo) da uomini
di Laura Bossi
Qualche giorno fa, la sera di San Valentino, una signora in visita alla Gipsoteca di Possagno (Treviso), al lume delle lanterne, fu colta da malore davanti a una Venere del Canova. I giornali parlarono di Sindrome di Stendhal . Il termine fu coniato da una psichiatra fiorentina in riferimento a quel passaggio di Roma, Napoli e Firenze in cui il poeta descrive l’attrazione vertiginosa che esercitano su di lui i monumenti della chiesa di Santa Croce, e il languore, quasi uno svenimento, che lo obbliga a uscire all’aria aperta.
Secondo la psichiatra tale stato di confusione non è raro nei turisti moderni che si avvicinano senza alcuna precauzione alle opere d’arte. Tra i casi clinici citati dalla psicoanalista Graziella Magherini, un bavarese di età matura, tale Franz, è folgorato dal Bacco del Caravaggio. Prova un’eccitazione sessuale ambigua, si sente oppresso, traspira, ha l’impressione di essere sul punto di perdere i sensi. Bisogna portarlo in ospedale. Isabella, una giovane professoressa francese di educazione artistica, in visita agli Uffizi con i suoi allievi, è presa dall’impulso di voler lacerare i quadri; quei ritratti di personalità o autoritratti di artisti le sembrano «terribilmente reali». Secondo la psichiatra, in questo caso non è Eros, piuttosto Thanatos, a provocare una tale emozione.
Ma è soprattutto la scultura con la sua presenza nello spazio e le sue proprietà tattili a esercitare uno strano fascino, o addirittura a suscitare una varietà singolare dell’amore sensuale.
L’agalmatofilia (dal greco agalma , statua o immagine, e philia , amore) fu particolarmente cara ai Romantici. Il poeta Joseph von Eichendorff (La statua di marmo ) racconta l’avventura di Florio, giovane gentiluomo in viaggio dalle parti di Lucca, che scopre, una notte, una statua marmorea di Venere presso uno stagno, come se la dea, appena uscita dalle acque, contemplasse l’immagine della propria bellezza. A Florio sembra addirittura che gli occhi della statua si aprano, le labbra si schiudano, e la vita con il suo fuoco divino animi le belle membra.
Heinrich Heine, nelle Notti fiorentine , ci narra di un fanciullo che prova un turbamento inesplicabile alla vista di una bianca dea di marmo che giace nell’erba di un parco. La notte egli non riesce a trovare sonno e fantasticando sotto i raggi della luna si ripromette di baciare la statua sugli angoli della bocca, dove le pieghe delle labbra formano irresistibili fossette. Infine non resiste all’imperioso desiderio, si alza, raggiunge la bella addormentata nel giardino notturno e, come se stesse per commettere un delitto, bacia la dea con un fervore, una tenerezza, un delirio come non proverà mai più.
L’amabile Antonio Baldini, in un dialogo con Mario Praz sull’amore delle statue pubblicato all’inizio degli anni Quaranta proprio dal «Corriere della Sera», ci rivela che il poeta neoclassico Ugo Foscolo fu turbato dal collo voluttuoso della Venere italica del Canova mentre nella sua deliziosa novella Paolina fatti in là , in cui racconta una visita notturna a Villa Borghese una notte d’estate, sempre Baldini ci dà una versione Biedermeier dell’agalmatofilia . La Galleria è rimasta aperta, il poeta percorre le sale silenziose, riconosce dapprima, nella penombra, l’ermafrodita che dorme sul suo letto sfatto, il piede preso nel lenzuolo. Carezza la sua capigliatura femminea, la guancia marcata dal vaiolo. Il corpo dell’adolescente ambiguo gli pare bruciante. Un po’ più lontano, vede la bella Paolina Bonaparte, seduta sul suo letto di marmo; cioè non propriamente seduta, ma rilevata sul fianco e appoggiata con il gomito sui cuscini, e si sarebbe detto che sorrida alla luna (sempre la luna!).
Il poeta si siede su quel poco di materasso che Paolina gli lascia a disposizione, come un medico le appoggia l’orecchio sulla gelida schiena, poi le passa il braccio intorno al collo, e le mormora tra i ricci: «Paolina, fatti in là. Dammi ancora un po’ del tuo fresco giaciglio. Non ho, tu vedi, dove andare a dormire». Poi le prende la mano che tiene il pomo e sente distintamente «la grana dolcissima della pelle e la buccia invece liscia liscia della mela e le fossette delicate sul dorso della mano e l’attaccatura del picciuolo del frutto».
Mario Praz sottolinea la parentela tra queste fantasie e quella più esplicita di Mérimée, che echeggia il tema di un racconto medievale: il giorno delle nozze un giovane imprudente si toglie l’anello per giocare al pallone, e lo infila al dito di un’antica statua di Venere. Ma quando cerca di riprenderlo, il dito si è ripiegato. La sera stessa, la dea sale le scale di casa sua e sotto gli occhi inorriditi della sposa, lo stringe in un abbraccio mortale. Dietro la nostalgia della donna ideale sorge il convitato di pietra del Don Giovanni , la statua del Commendatore. Aveva ragione il Gran Duca Cosimo III quando ordinò di trasportare la Venere de’ Medici dai giardini della Villa alla sua attuale sede di Firenze, perché pare che fosse «ben spesso con parole e con gesti de’ più scorretti abusata». Ma si dirà: l’agalmatofilia , che ci accompagna dall’antichità, sembra colpire solo gli uomini. Ed è vero che i casi femminili sono più rari, e spesso descritti con un’intenzione parodica. L’esempio più celebre è probabilmente il monologo di Molly Bloom nell’Ulisse di Joyce, in cui Molly si domanda perché tutti gli uomini non sono fatti come una bella statuetta di marmo comprata dal marito, così bianca, pulita, innocente che si vorrebbe baciarla dappertutto.
Con simile ironia, Mario Praz racconta, ne La casa della vita , della sua florida cameriera Dirce infatuata di una statua d’Amore. Ricordiamo anche la scena del film di Luis Buñuel, L’âge d’or («L’età dell’oro»), in cui la protagonista succhia il piede di una statua di marmo, oppure la visita solitaria di Ingrid Bergman al Museo di Napoli nel Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, in cui si arresta affascinata davanti all’Ercole Farnese . Il desiderio eccitato dallo sguardo sarebbe forse un tratto specificamente maschile? Lo sguardo dell’artista creatore che come Pigmalione vuole animare la materia inanimata sarebbe uno sguardo sessuato? David Freedberg si interroga addirittura se lo sguardo nella cultura occidentale non sia uno sguardo maschile, che ricerca il possesso.
Ma forse è più importante notare che l’oggetto dell’agalmatofilia è una dea, un idolo immobile dalla bellezza eterna, ideale, inaccessibile. L’agalmatofilia sarebbe dunque una ierogamia , un matrimonio sacro tra una divinità e l’uomo.
Corriere La Lettura 23.2.14
Il velo copre le donne. E nasconde il resto
Hijab , chador , burqa , niqab ... «Per voi in Occidente sono simboli della sottomissione delle musulmane, anche se molte li portano per scelta. Ora, con l’avanzata dei fondamentalisti, anche da noi sono un segno negativo, almeno per me. Ma i problemi delle donne dell’islam sono altri. E comunque quei veli sono solo una faccia della medaglia». Nawal Saadawi, la più famosa e radicale femminista araba, oggi ottantaduenne, come tutte le donne musulmane velate o meno (lei non lo è affatto, e si veste pure di colori sgargianti), si irrita un po’ a sentirsi chiedere del velo.
Nell’ultimo nostro incontro al Cairo era anzi passata all’attacco contro la «visione superficiale e stereotipata» che in Europa e negli Stati Uniti si ha della questione femminile in terra d’islam e contro «l’ossessione tutta occidentale» per il velo. E con «la Lettura» aveva insistito su un punto: «Guardate che chi impone l’hijab da noi punta allo stesso obiettivo di chi costringe le vostre donne a spogliarsi o a usare la chirurgia plastica. Vuole ridurci a solo corpo, merce per il libero mercato patriarcale. Gli uomini non si velano né si spogliano». Poi era passata a discutere di politica, diritti, rivoluzione. Non deve così sorprendere che una recente ricerca dell’University of Michigan, illustrata qui sopra, abbia avuto ampio risalto sui media occidentali (poco o niente nei Paesi musulmani) ma solo per il «capitolo velo».
Condotto in sette Paesi di credo islamico, necessariamente limitato perché escludeva un’immensa parte del mondo che crede in Allah, lo studio ha il pregio di aver posto a migliaia di persone domande dirette e molto concrete su questioni normalmente tabù, come il rapporto fede-politica, la democrazia e i militari, le relazioni con le altre religioni. Tutti temi caldissimi nella regione. E anche nel capitolo «generi», la domanda sul velo («qual è il più appropriato per una donna in luoghi pubblici?») era solo la sedicesima. Preceduta da quesiti sulla poligamia, l’indipendenza economica della moglie, la sua sottomissione, la custodia dei figli.
Questioni, direbbero Nawal e milioni di musulmane con lei (velate o no), mille volte più importanti del hijab, o burqa, chador o niqab che sia.
Corriere La Lettura 23.2.14
Chi è padre di chi? Chi è figlio di chi? Serve un umanesimo della fragilità
Secondo Vittorino Andreoli i ruoli si capovolgono confondendosi
E’ necessario riondare i legami sul bisogno dell’altro, che li rafforza
di Antonella Lattanzi
In principio erano i genitori, due figure atte, attraverso la mediazione di uno spirito che rendeva fertile la donna, a generarne una terza. Poi, diecimila anni fa, la scoperta dell’agricoltura portò alla diversificazione dei ruoli: uno dei genitori divenne molto più potente dell’altro. Nacque il pater , maschio, che faceva le veci di Dio e come lui «possedeva» la donna; unico detentore del patrimonio che lasciava in eredità al primogenito: maschio come lui. La «religione del padre» sembrava indistruttibile. Ma il Sessantotto vide i figli ribellarsi; il padre vacillava, e con lui barcollavano i ruoli e s’invertivano le domande: quali i doveri dei padri verso i figli?
Lo racconta lo psichiatra Vittorino Andreoli in L’educazione (im)possibile , interrogandosi su padri, figli e sull’educazione, dunque sulla società; dalla nascita dei genitori a quella dei padri ai nostri giorni, passando per Dea Madre, Positivismo e Umanesimo, famiglia, scuola e web, cercando di capire come e se sia ancora possibile educare. Cioè «insegnare a vivere in un mondo così vasto, così mutevole da ridursi a mistero. Educare un figlio misterioso a vivere dentro un mondo incomprensibile».
Ci sono libri che anticipano le domande degli uomini, altri che provano a indicare una strada. È questo il caso del saggio di Andreoli, partorito in un momento in cui padri e figli sono protagonisti delle storie come della cronaca. Per esempio nel film Nebraska di Alexander Payne, in cui un figlio adulto accompagna il vecchio padre lungo territori in bianco e nero, verso una meta tanto illusoria quanto futile (una falsa vincita alla lotteria), ma molto più verso il traguardo scivoloso e instabile delle relazioni parentali: l’accettazione della moralità, degli ideali e del modo di vivere di chi ci ha generato. O ne Gli sdraiati di Michele Serra, romanzo d’amore e d’ironia, di rabbia e smarrimento tra padri e figli adolescenti. O in Breaking Bad , serie tv cult ideata da Vince Gilligan in cui Walter, professore di chimica padre di un ragazzo affetto da handicap, scopre che sua moglie aspetta la loro secondogenita proprio poco prima che a lui venga diagnosticato un cancro, mentre la situazione finanziaria della famiglia precipita. Dopo l’incontro con un ex studente (una sorta di figlio altro?), Walter decide di usare le proprie competenze per produrre metamfetamina di alta qualità, in modo da riacquistare — o conquistare — il ruolo di capofamiglia, o meglio capobranco; oltre che di uomo.
O ancora nella cronaca: è di queste settimane la notizia che anche Palermo, dopo Bologna, si apre agli affidamenti per le coppie omosessuali.
In comune c’è il disordine dei ruoli, che si sgranano sino a scomparire o ribaltarsi, confondersi: il padre di Breaking Bad assume comportamenti da adolescente ribelle; il figlio di Nebraska si fa anche padre putativo che accompagna il proprio genitore (un vecchio figlio?) nel viaggio alla scoperta di sé; i padri de Gli sdraiati hanno bisogno dei figli per tentare di capire il mondo — come fossero figli loro stessi.
Per Andreoli la confusione dei ruoli crea un’educazione confusa in cui padri e figli si perdono, affogati da una crisi economica e psicologica perenne che ingrassa la politica arraffona e strappa ai figli non solo la speranza, ma pure la capacità d’immaginazione di un futuro. La storia contemporanea fa da reagente: a contatto con la realtà il rapporto padre/figlio esplode e si polverizza. Perso il ruolo patriarcale, l’uomo si percepisce ed è percepito sempre meno necessario e forte. Oscilla dal maschio liberato che ha imparato a piangere all’uomo-eterno-figlio che piange troppo, di nuovo all’uomo-padrone che se non ricopre un ruolo di maggior potere rispetto alla sua donna perde l’orientamento e crolla, o sviluppa verso di lei una rabbia travolgente fino ad accusarla del proprio fallimento. Nel momento in cui la legge sancisce — finalmente — che due padri possono fare una famiglia, come capire che padre si vuole diventare, se non si ha idea di che uomo si è o si vuol essere?
Per Andreoli la risposta è la fragilità; accettarla come attributo positivo vuol dire «fondare una civiltà che risponda all’uomo fragile, cioè a un uomo che (...) ha necessità dell’altro». Un’educazione è possibile dunque, secondo Andreoli, solo riedificando i legami d’amore, di amicizia, fino ad arrivare a scuola, politica e società — Padre per eccellenza — su un «umanesimo della fragilità».
Mi torna in mente il Philip Roth di Patrimony , storia vera della lunga malattia e poi morte di suo padre: «Se non nei miei libri o nella mia vita, almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre ma come il padre, per giudicarmi qualunque cosa io faccia».
Corriere La Lettura 23.2.14
Dien Bien Phu
Il 13 marzo 1954 il generale Giap avviò l’assedio che umiliò il colonialismo di Parigi
Ma alla vittoria non seguì un’epoca di pace
di Guido Santevecchi
Mattina del 13 marzo 1954, alla radio francese parla il generale Henri Navarre, comandante delle forze in Indocina: «La marea offensiva del Viet Minh si è fermata...». Nella valle di Dien Bien Phu il colonnello Christian de la Croix de Castries e i suoi ufficiali ascoltano e si sentono sicuri. Intorno a loro, sulle colline, sono di sentinella Gabrielle, Béatrice e Anne-Marie sul limite Nord; Huguette, Dominique, Françoise, Claudine, Éliane al centro; al sud, isolata, veglia Isabelle. La truppa dice che de Castries ha battezzato i capisaldi pensando alle sue non poche conquiste sentimentali (qualche legionario sostiene che in realtà sono anche loro «mercenarie»). Charles Piroth, l’esperto ufficiale che ha disposto nella valle i trenta pezzi dell’artiglieria francese, ha detto più volte ai colleghi di non preoccuparsi: i viet non riusciranno mai ad avvicinarsi, non potranno mai far arrivare i loro pesanti cannoni di fabbricazione cinese attraverso la giungla, a portata utile per infastidire gli avamposti francesi.
«... La marée est étale ». Capisce bene il francese anche il comandante del Viet Minh, l’armata di liberazione, Vo Nguyen Giap, che ha insegnato storia al lycée français di Hanoi ed è diventato generale da autodidatta, studiando le campagne di Napoleone. Giap sente quella frase del nemico e sorride. Dà un ordine e i cannoni «troppo pesanti per essere trascinati in posizione utile per battere i capisaldi francesi» aprono il fuoco.
Il colonnello de Castries era arrivato nella conca vietnamita di Dien Bien Phu il 20 novembre 1953, in esecuzione del piano militare di Navarre e della follia politica di Parigi. Finita la Seconda guerra mondiale, il governo francese aveva creduto di poter riprendere il controllo del suo Empire , dall’Algeria all’Indocina. Vive l’Indochine française , con la Cambogia, il Laos, le tre province vietnamite del Tonchino a nord con capitale Hanoi, l’Annam al centro con l’antica Hué e la Cocincina a sud, con la capitale Saigon. L’avventura coloniale in Asia era cominciata intorno al 1850; più di cent’anni dopo, Parigi credeva ancora di avere un diritto culturale e morale al dominio coloniale.
Nel 1945 comincia la guerra con il Viet Minh, la Lega per l’indipendenza del Vietnam guidata da Ho Chi Minh. All’inizio sono azioni di sabotaggio e guerriglia che i militari francesi pensano di poter reprimere. Nel 1949, con la vittoria di Mao Zedong in Cina, la strategia cambia e il Viet Minh comunista lancia i suoi combattenti nel Tonchino in attacchi a bassa intensità che costringono i francesi a chiudersi ad Hanoi, dove rischiano l’accerchiamento.
È in questo scenario che nella valle di Dien Bien Phu, vicina al confine con il Laos, alla fine del 1953 il comando dell’Armée d’Indochine fa spianare il terreno per una pista d’atterraggio, vengono lanciati i paracadutisti, i reparti della Legione straniera, battaglioni di fucilieri algerini e marocchini. In tutto, de Castries avrà ai suoi ordini oltre 15 mila uomini riforniti da circa 200 aerei al giorno. L’idea, misto di audacia temeraria e arroganza al servizio della grandeur imperiale, è di attirare le imprendibili forze del Viet Minh e distruggerle in una battaglia grazie all’artiglieria e al sostegno dei bombardieri.
C’era un inviato speciale di «Le Monde» al seguito di Christian de Castries. Si chiamava Robert Guillain e, dopo essersi guardato intorno, osservò: «Mon colonel , mi permetta, questa fortezza sembra costruita al contrario». Il nobile ufficiale di cavalleria rispose infastidito: «Prego, che cosa vorrebbe dire?». «Mon colonel , io ho letto il De bello gallico e ho capito che dai tempi di Alesia per vincere non si sta in basso ma sulla cresta delle colline per dominare il campo di battaglia». Nei ricordi di Guillain, il colonnello replicò che il giornalista evidentemente con sapeva nulla della guerra moderna, Giulio Cesare era superato: «Che vengano i viet, è qui che li attendo, è qui che il nostro fuoco incrociato li spazzerà via. Vede, il nostro problema è il contrario, è che i viet non vogliono rischiare, per questo da mesi non si sono mossi».
L’armata del Viet Minh invece si era mossa, per mesi, lungo i sentieri stretti e fangosi. E tutto sommato Giulio Cesare poteva ancora insegnare qualcosa e sicuramente lo aveva insegnato a Giap, quel professore che i liceali di Hanoi chiamavano Napoleone per la sua passione della storia militare. In quei mesi di silenzio che avevano illuso Navarre, Giap aveva portato intorno alla valle 50 mila uomini. Come? «Dove passa una capra, può passare un uomo e uno alla volta passa un battaglione», amava ripetere Giap, citando Napoleone e la campagna d’Italia. Il problema principale sono i rifornimenti: «Sì, per far arrivare un chilo di riso alla prima linea bisogna consumarne quattro durante il trasporto... noi abbiamo impiegato oltre 2o0 mila portatori, 400 camion, 500 cavalli e 20 mila biciclette». Le biciclette di fabbricazione Renault e Peugeot i viet le avevano comprate di nascosto ad Hanoi, in una sorta di riedizione dell’epopea dei taxi della battaglia della Marna. I cannoni furono smontati e trascinati a braccia sulle colline.
Siamo a quel 13 marzo 1954. Giap sente Navarre alla radio, ordina il fuoco. I cannoni viet cominciano a colpire. La presunzione degli ufficiali francesi si sgretola. Il colonnello Piroth chiede scusa ai colleghi, prende una bomba a mano, toglie la sicura e si fa saltare. Cadono subito Gabrielle e Beatrice. Il 16 marzo cede Anne-Marie e il 28 il campo d’aviazione è inutilizzabile. Ai francesi, senza rifornimenti, non resta che «finire bene», proprio come aveva detto ai suoi ufficiali il colonnello Galliano ad Adua nel 1896. I legionari sul campo si sacrificano con valore. Mentre cade Dominique, sono allo stremo Huguette e Éliane, il governo francese si umilia fino al punto di invocare il soccorso degli americani. Washington non risponde (il suo turno in Vietnam verrà dopo). Ad aprile durante uno squarcio nel cielo coperto dalle nuvole, Navarre fa lanciare un altro battaglione di parà. Servirà solo a ingrossare il numero delle perdite: 3 mila caduti e 10 mila prigionieri. Il Viet Minh perse oltre 10 mila combattenti su 50 mila.
Il 7 maggio 1954 l’artiglieria di Giap lancia l’ultimo fuoco di sbarramento e poi è l’assalto finale. De Castries, promosso generale durante l’assedio, mette uno straccio bianco davanti al suo bunker, non «finisce bene» come Galliano ad Adua. Con la resa di Isabelle si chiudono i 57 giorni di Dien Bien Phu. A Ginevra, durante il massacro, si negoziava. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio la firma: i francesi se ne vanno e il Vietnam viene diviso in due lungo il 17° parallelo. Per la riunificazione ci vorranno altri 21 anni e una guerra che ferì l’America nell’anima. Da allora, in un gioco del domino che si svolse in modo completamente opposto rispetto alle previsioni di Washington, l’esercito vietnamita ha combattuto e occupato a lungo la Cambogia e si è scontrato per un mese, tra il 17 febbraio e il 16 marzo 1979, con quello della Repubblica popolare cinese in una situazione di rivendicazioni nazionaliste e rivalità ideologiche che si sono meritate il titolo di Terza guerra d’Indocina. Con Pechino le tensioni restano, centrate sulle isole Spratly e Paracel, anche se in nome dell’economia di mercato «con caratteristiche socialiste», i due Paesi ora hanno anche imparato a collaborare. Per i 35 anni dall’invasione cinese, il 17 febbraio, solo poche decine di vietnamiti hanno cercato di manifestare ad Hanoi: sono stati bloccati dalle autorità. Gli eroi sono stanchi.
Ora il Vietnam insegue un modello di crescita anche nell’hi-tech, attrae investimenti di multinazionali ansiose di aprire nuove fabbriche con costi del lavoro inferiori a quelli cinesi, preferisce progettare la nuova Silicon Valley in zone dove si combatterono grandi battaglie. Sul web il giovane Nguyen Ha Dong, genio delle app, ha appena fatto furore con il gioco Flappy Bird , in cui un uccellino deve compiere evoluzioni su un percorso obbligato. Un successo mondiale, fino a quando Nguyen ha deciso di ritirarlo: «Creava assuefazione». Pochi giorni fa a Ho Chi Minh City (la vecchia Saigon) è stato aperto il primo McDonald’s del Vietnam: è in via Dien Bien Phu. Giap, che se n’è andato l’anno scorso a 102 anni, sarebbe stato soddisfatto.
Corriere La Lettura 23.2.14
«La Francia non capì il senso della sconfitta. E perse anche l’Algeria»
di Stefano Montefiori
La grande battaglia vinta dal generale Giap è stata l’inizio della fine dell’impero coloniale, ma i francesi non hanno voluto accorgersene. «Mentre in Marocco si festeggiava e in Tunisia e Algeria gli indipendentisti prendevano coraggio — se ce l’avevano fatta i vietnamiti potevano farcela anche loro — la Francia non ha tratto le conseguenze di quella disfatta e si è lasciata impantanare nella guerra di Algeria. Il colonialismo francese aveva e ha radici molto profonde, che si fanno sentire ancora oggi», dice lo storico Alain Ruscio, 66 anni, specialista della Francia coloniale e in particolare dell’Indocina.
La sconfitta di Dien Bien Phu fu una sorpresa totale per la Francia?
«Da un punto di vista militare sì, fu un episodio di guerra di posizione e non un atto di guerriglia, una débâcle coloniale senza precedenti, ma i francesi avevano già avuto molte prove che la loro presenza non era gradita nelle colonie. La prima sorpresa fu nel 1945, quando la fine della guerra mondiale portò le rivolte coloniali invece che pace: dalla sanguinosa repressione di Sétif, in Algeria, alla sollevazione del 1947 in Madagascar. Quanto all’Indocina, la sconfitta del 1950 alla frontiera cinese era stata già un avvertimento. Bisogna ricordare che la caduta di Dien Bien Phu è arrivata alla fine di una guerra che laggiù durava ormai da sette anni».
In seguito la difesa dell’Algeria francese avrebbe poggiato su un legame cominciato già nel 1830 e soprattutto sulla presenza massiccia degli «europei» (nel XX secolo Algeri divenne la seconda città francese). Qual era invece il fondamento ideologico dell’Indocina francese?
«Non poteva certo essere il numero dei coloni: c’erano solo 40 mila francesi in un territorio grande quanto tutta la Francia. Ma loro pensavano di essere lì in virtù di una gerarchia naturale tra le civiltà: alla Francia spettava dirigere e proteggere le popolazioni locali, facendo valere paternalisticamente la propria superiorità. Su questa base di colonialismo classico si è aggiunto poi l’anticomunismo: a differenza che in India o in Indonesia il movimento indipendentista indocinese era comunista. Difendere l’Indocina francese divenne un elemento della lotta globale contro il comunismo».
Lo pensavano anche gli americani.
«Nel 1945 Washington era anticolonialista, avrebbe preferito che i francesi se ne andassero. Ma quando gli americani hanno capito che Ho Chi Minh era comunista, e quando Mao Zedong nel 1949 ha proclamato la Repubblica popolare di Cina, hanno deciso di aiutare i francesi. Alla fine c’erano centinaia di consiglieri militari americani, e la guerra dei francesi era finanziata all’80 per cento da dollari americani».
In «Apocalypse Now» di Coppola c’è la famosa scena della «French plantation», prima espunta ma recuperata nell’edizione estesa («Redux»), in cui i soldati americani si imbattono in alcuni coloni francesi superstiti. È vicina alla realtà?
«È verosimile, soprattutto perché dipinge bene gli atteggiamenti delle due forze straniere. Gli americani consideravano i francesi come dei dinosauri, e in effetti avevano ragione: i nostri coloni facevano parte di un vecchio mondo, erano conservatori al limite della reazione, rappresentavano la vecchia Francia. Anticomunisti, ma soprattutto fieri difensori delle loro tovaglie immacolate e del loro savoir vivre trapiantato orgogliosamente nella giungla indocinese. Prima di Dien Bien Phu, quegli stessi francesi nelle città predicavano la politica del bastone contro le popolazioni locali, e protestavano ogni volta che il governo di Parigi faceva qualche concessione all’imperatore Bao Dai».
Il colonialismo francese è rimasto associato ai paracadutisti, all’immagine tetra di un Jean-Marie Le Pen con la benda sull’occhio, reduce di Indocina e Algeria.
«È un’immagine parziale, perché il nostro colonialismo non fu affatto espressione esclusiva dell’estrema destra. Al contrario, la sinistra francese è stata tradizionalmente colonialista, basti pensare al socialista Jean Jaurès, che poi cambiò idea, ma nel 1887 votò i crediti di guerra per il Tonchino, o al grande colonialista Jules Ferry. Tutti gli interventi coloniali della Francia sono sempre avvenuti abbracciando — con una parte di sincerità, va riconosciuto — una qualche bandiera nobile, dai diritti umani alla protezione delle minoranze oppresse: la lotta ai pirati nel Mediterraneo per l’Algeria nel 1830, la difesa dei cristiani perseguitati in Indocina o dei berberi contro gli arabi in Algeria, oppure dei cambogiani contro i vietnamiti. È un atteggiamento che si fa sentire ancora adesso».
Vede una forma di neocolonialismo nei recenti interventi di Nicolas Sarkozy (Costa d’Avorio, Libia) o François Hollande (Mali, Repubblica Centrafricana)? Ogni missione ha ragioni diverse, dal cacciare un dittatore alla lotta al terrorismo all’impedire un genocidio.
«Credo che per ogni intervento ci siano sempre più motivazioni, tra le quali certamente alcune puntuali e ragionevoli. Ma tutte queste guerre hanno in comune la vecchia idea che la Francia abbia una sorta di missione universale, accoppiata all’esigenza di mantenere le posizioni geostrategiche in un continente, l’Africa, in pieno sviluppo e conteso da altre potenze come Stati Uniti e Cina. Possiamo anche riconoscere la sincerità di questo o quell’uomo politico, ma non spiega tutto».
Lei ha incontrato più volte il generale Giap. Era consapevole del suo ruolo storico?
«Assolutamente sì. Era un uomo modesto, un vietnamita e un comunista che non pronunciava mai la parola io e, in un francese impeccabile, meticoloso, metteva sempre in avanti i meriti del popolo. Ma era cosciente che la sua vittoria aveva scosso il mondo intero. Sapeva benissimo di essere stato un precursore».
Corriere 23.2.14
«Questo mio Vietnam è bello e maleducato come un adolescente»
di Marco Del Corona
Quando i vietnamiti vinsero a Dien Bien Phu, Nguyen Huy Thiep aveva 4 anni. La battaglia non è dunque parte della sua storia, ma lo è del Paese di cui è oggi il narratore più significativo. I semi di quell’epoca ritornano nella sua opera, così come la guerra ha abitato il Vietnam ben oltre il 1954. «Ero troppo piccolo... Ma lo scrittore — spiega a “la Lettura” — deve opporsi a violenza e guerre. Però in Vietnam quelli che hanno beneficiato della guerra sono coloro che hanno creato la guerra. Lo stipendio dei militari è molto alto, anche le pensioni. Un sostegno non solo materiale ma anche morale. Mi fa paura. Mentre una persona normale cerca un modo per vivere, la pensione di un maggiore può arrivare a 10 milioni di dong al mese (circa 350 euro, ndr ), che corrisponde al guadagno di tutta una famiglia per un anno».
Di Thiep, Alessandra Chiricosta — filosofa interculturalista che insegna anche all’Università di Hanoi — sostiene che «quando nel 1987 uscì il suo racconto Il generale in pensione , rappresentò uno scandalo politico e letterario». Come in altri scritti di Thiep, dice Chiricosta a «la Lettura», la retorica eroica della guerra «lascia spazio al dramma del quotidiano nella ricostruzione postbellica, quando pure i generali devono lottare per il diritto alla pensione. Lo stile letterario di Thiep riflette le contaminazioni interculturali della letteratura moderna vietnamita: influenze della tradizione orale dei racconti nei villaggi intessute con tecniche narrative postmoderne».
Un convergere di elementi che si ritrova nelle prudenti parole dell’autore, abituato a essere un «osservato speciale» da parte delle autorità (le sue risposte sono state fatte avere a mano, non per email): «La storia di un Paese — aggiunge — è come quella di una persona. In gioventù si è forti ed entusiasti. Tanti sogni, ambizioni. Si fanno cose pericolose e stupide. Da quanto vedo, anche la politica in Vietnam è così. La prima fase è meravigliosa, poi inizia il declino e viene la morte. Mi sono sempre stupito del fatto che il Vietnam abbia 4 mila anni di storia. Ci siamo liberati dalla Cina solo nel 1802. Il regime comunista, dal 1945 a oggi, è ancora nella sua gioventù: è maleducato, ma anche bello. Per la cultura è diverso. A me interessa più la vita, perché anche la cultura cade nelle illusioni. Non ho mai capito che cosa sia veramente la cultura. Conta comunque e sempre il senso morale».
Com’è il suo stato d’animo ora?
«Capirà cosa intendo quando avrà 64 anni. Di recente sono passato davanti a casa di Nguyen Khuyen, un poeta dell’Ottocento, del periodo in cui sono arrivati i francesi. La casa è tenuta bene, con bei ricordi: un albero di longan cresciuto da un nocciolo donato dall’imperatrice al poeta. Quando hanno preso a cannonate il villaggio, hanno evitato di colpire la sua casa e l’area intorno, e il suo paese s’è salvato. Nguyen Khuyen a 64 anni ha scritto il suo testamento letterario, rivolgendosi non al Dio cristiano ma agli spiriti: “La mia età è arrivata a 8x8, / il numero 9 porta fortuna. / Dio mio, la morale è sottile ma ho questa longevità. / Oh Dio mio, le mie capacità sono modeste / ma sono arrivato al quaderno del drago”, quello dove si registravano i nominativi di chi superava tutt’e tre i livelli degli esami mandarinali. Questo è l’esempio di un intellettuale vietnamita, forse il migliore dell’epoca, e cosa pensava a 64 anni...».
Il Vietnam continua a essere un Paese fortemente impregnato di valori tradizionali, forse più della Cina...
«La cultura comprende tutto, da Buddha a Confucio e Lao Zi, e anche il cristianesimo. La cultura è innanzitutto religione. Il problema non è mantenere, ma creare. Oggi non si può buttare via e neanche mantenere. Sono lezioni apprese da tutte le religioni. C’era un’epoca in cui hanno distrutto le chiese, ora le ricostruiscono. Quindi il problema secondo me sta nel modo in cui la gente vive questa vita in ogni singola famiglia. Quando si parla di cultura, si parla troppo della cultura che trova espressione “fuori”, non di quella interna. Mentre quando si parla di Buddha, ci si accorge che Buddha è dentro il cuore: Buddha c’è dove Buddha non c’è. La sua domanda è più sulle attività esterne: sono cose importanti, sì, ma a me interessa la cultura interna».
Anche alla luce di queste riflessioni, lei ritiene che il Vietnam abbia trovato una sua modalità particolare nel filtrare le influenze occidentali e globali?
«Non sono un politico, non ho responsabilità a livello sociale: quindi non ho competenze per rispondere. La gente parla troppo della libertà, anche i giovani. Il problema non è la libertà, ma il confine interno nel proprio cuore. Non sono i margini esterni, ma quelli interni a dover essere superati. In una situazione in cui gli stupratori non scoperti giudicano quelli scoperti, la libertà non c’è, e nel contempo c’è ovunque. Comunque, quando una persona sta bene di salute e ha una buona cultura, si sente più sicura di sé e della propria libertà».
Citavamo la guerra. Il Vietnam ha un pericoloso contenzioso con la Cina per le isole Spratly e le Paracel...
«Il rapporto tra Cina e Vietnam è stato sempre complicato. A volte le cose vanno male a causa delle condizioni esterne, nonostante la volontà dei singoli di farle andare bene. Fa parte del destino di due nazioni, di due popoli. Sono destini che nascono da tante vite precedenti. Come tra marito, moglie e figli nella stessa famiglia: si amano e si odiano anche, si danno l’uno all’altro ma si distruggono, anche. Si riscaldano ma si bruciano. Bisogna quindi accontentarsi e arrendersi. Anche se si risolve una singola questione, ci saranno poi altri problemi. Un po’ come il rapporto tra l’Italia e i suoi vicini. Non mi interesso delle cose oltre a me e alla mia famiglia».
Nel mondo, e anche in Asia, le tendenze cosiddette nazionaliste sono in crescita. Accade anche in Vietnam?
«Non mi interessa».
E non la preoccupa l’atteggiamento della Cina nella regione?
«Non ho opinioni in merito».
Quali sentimenti e quali pensieri le suggerisce il riavvicinamento anche militare con gli Stati Uniti?
«Non sono leader politico. Se lo fossi avrei modo di esprimere un’opinione».
Corriere La Lettura 23.2.14
Adesso globalizziamo il passato
Cina, India, mondo arabo: le civiltà da rivalutare
L’Europa non è stata l’unico centro del mondo
di Marco Meriggi
La consuetudine di identificare la storia principalmente con le vicende e le scansioni periodizzanti caratteristiche dell’Europa ha radici assai profonde. E la cosa non stupisce, se si pensa che a dare i natali alla moderna storiografia scientifica è stato il nostro continente, nel cuore dell’Ottocento, subito valorizzandola come importante strumento di legittimazione del dominio occidentale sul mondo. In quell’epoca un’Europa contraddistinta dalla rivoluzione industriale e dalla liberalizzazione delle istituzioni politiche costruì i propri grandi imperi coloniali in Asia e in Africa, sottomettendo grandi civiltà e elaborando il mito della propria «missione civilizzatrice» su scala planetaria. Andare alla ricerca degli antefatti di una superiorità allora tanto schiacciante da sembrare quasi genetica significò per gli storici europei dare consacrazione definitiva all’idea di progresso (materiale, civile, culturale) e ancorare in esclusiva la dimensione della storia (cioè, in ultima analisi, dello sviluppo e della trasformazione) alla civiltà occidentale, da contrapporre orgogliosamente a quelle — reputate stagnanti e immobili — fiorite nelle altre parti del globo.
La storia, come perlopiù la conosciamo, è dunque contraddistinta da un vizio originario di eurocentrismo. E tende da un lato a servirsi di un modello di periodizzazione che enfatizza alcune scansioni tutte interne alla vicenda occidentale (Antichità/Medioevo/Età moderna/Età contemporanea), dall’altro a inglobare nel proprio racconto altre civiltà presentandole come semplici scenari periferici prima dell’espansione, poi del dominio europeo. Essa si muove alla ricerca delle possibili anticipazioni plurisecolari (o addirittura plurimillenarie) di un rapporto di forza su scala planetaria che è stato caratteristico dell’età contemporanea e sembra però oggi destinato a una metamorfosi dagli esiti incerti.
Ma il mondo anteriore alla svolta ottocentesca, come la storiografia che si ispira al metodo della World History ha durante gli ultimi decenni cercato di dimostrare, era in realtà assai più policentrico di quello nel quale si è svolto il nostro passato recente. E, se si considera la scala globale in prospettiva plurisecolare, appare davvero problematico continuare a assegnare una sorta di primato permanente all’Europa. Al punto che, come ha scritto qualche anno fa Immanuel Wallerstein, per accostarsi oggi proficuamente alla storia sarebbe opportuno dimenticare preventivamente tutto ciò che in materia si è appreso a scuola. Un’affermazione, naturalmente, paradossale, ma non priva di suggestioni preziose. Perché da un lato è vero che a partire dal Cinquecento gli europei furono i più efficaci tessitori di una trama di connessioni planetarie di scala e intensità inedite, e offrirono un contributo determinante alla costruzione di quel mondo a quattro (e, in seguito, a cinque) parti che rimpiazzò la tradizionale ecumene tricontinentale formata da Asia, Africa e Europa. Però è altrettanto vero che, all’interno di questo nuovo spazio planetario interconnesso, le singole grandi civiltà continuarono a seguire per lo più, come in passato, il proprio filo. Facciamo qualche esempio.
Si tende a parlare, quando si narra dell’ondata di esplorazioni e poi dell’espansione europea avviata all’inizio della (nostra) Età moderna da Cristoforo Colombo e da Bartolomeo Diaz, di decollo di una inedita globalizzazione, contraddistinta dalla supremazia europea su scala planetaria. Ma ci si dimentica che in precedenza vi erano state, in realtà, altre straordinarie esperienze di irradiazione territoriale e culturale diffusa, di cui erano state protagoniste civiltà diverse dalla nostra. La rete della globalizzazione araba, tra VII e XII secolo, era giunta ad avvolgere spazi sconfinati, che si distendevano dalla penisola iberica al cuore dell’Asia, transitando per le coste mediterranee africane; e quella della globalizzazione islamica, a partire dal XIII secolo, giunse a depositarsi anche su una porzione rilevante dell’immenso subcontinente indiano, dilatandosi inoltre verso l’Asia sud-orientale. Quando, tra l’XI e il XII secolo, le repubbliche marinare di Venezia, Genova, Pisa, che da una prospettiva eurocentrica siamo abituati a considerate le avanguardie protocapitalistiche della storia mondiale dell’epoca, ebbero la possibilità di operare in quegli spazi, prima sostanzialmente preclusi agli europei, lo fecero assumendo un ruolo da comprimarie, all’interno di una rete i cui punti nodali si trovavano nel cuore dell’Asia.
In quella rete la scienza, di cui gli arabi avevano raccolto il filo greco-classico smarrito nel frattempo dall’Europa, intrecciandolo con le raffinate conoscenze elaborate in India e in Cina e integrandolo con la propria ulteriore speculazione, godeva di un invidiabile stato di salute, mentre in Europa stentava a emanciparsi dalla teologia. A quella araba si affiancò tra Due e Trecento — senza cancellarla — la globalizzazione mongola, che Gengis Khan e i suoi successori realizzarono a partire dalla dorsale della via della seta, un percorso che attraversava, come ha scritto il geostorico Christian Grataloup, «la più grande costruzione politica terrestre di ogni tempo». Vi si incamminò, tra i tanti, anche il nostro Marco Polo, raggiungendo Khanbaliq (l’odierna Pechino). Lì, due secoli più tardi, sopravvisse per qualche tempo nei giardini della corte dei Ming una giraffa, che l’ammiraglio Zheng He, capo della maestosa flotta imperiale cinese, aveva trasbordato con successo in patria nei primi decenni del Quattrocento, prelevandola dall’entroterra di quelle coste africane alle quali più volte era approdato, nel corso di viaggi che lo portarono a solcare gli immensi spazi di quello straordinario mare multiculturale, multietnico, multireligioso — l’Oceano Indiano — che si distendeva tra Africa e Asia. Ma Zheng He e la sua flotta non avevano fatto vela solo verso l’Occidente. Orientando il timone in direzione nord, in quegli stessi decenni si spinsero fino alla Kamchatka.
Non solo il mondo era policentrico, dunque, ma le sue parti dialogavano intensamente tra loro, prescindendo dall’intermediazione europea. E la stessa svolta cinquecentesca, se comportò un fenomeno di disseminazione degli europei sul globo (in America, ovviamente; ma in proporzioni assai più contenute anche in Asia; in misura quasi impercettibile, invece, in Africa), non si tradusse, a lungo, nell’avvio dell’egemonia occidentale. Sotto molti punti di vista, le grandi civiltà asiatiche rimasero superiori a quella europea sino alla fine del Settecento. E gli europei che visitavano quei luoghi ne erano, per lo più, pienamente consapevoli.
Così, se quella tra Medioevo e Età moderna è una cesura che ha naturalmente un senso per l’Europa e per la rimodulazione gerarchica dei suoi valori, mentre meno (o addirittura nulla) ha da dirci in relazione alla storia delle grandi civiltà asiatiche, diverso è indubbiamente il rilievo che, su scala planetaria, assunse quella tra Sette e Ottocento, per i motivi che abbiamo illustrato all’inizio. Diversamente da quello che l’aveva preceduto, il mondo globale che prese allora forma lo fece sotto il segno di una superiorità europea che si lasciava avvertire tanto, in primo luogo, sotto il profilo degli armamenti, quanto sotto quello della crescita diseguale della ricchezza e delle opportunità materiali e civili.
Ma quel mondo da tempo ormai sta cambiando. E certo anche per questo la metodologia della World History, basata sul riconoscimento del pluralismo e del policentrismo culturale e insofferente delle rigidità etnocentriche, ha oggi davanti a sé compiti importanti.
Corriere La Lettura 23.2.14
Non più arcaici retaggi
La nuova antropologia si proietta nel futuro
di Adriano Favole
Le società umane sono legate da una fitta trama di fili che, direttamente o indirettamente, le connettono le une alle altre, sosteneva Arjun Appadurai nel libro del 1996 Modernità in polvere (Raffaello Cortina, 2012). La globalizzazione degli ultimi trent’anni ha accelerato la corrente che percorre le culture, dando vita, allo stesso tempo, a «gobbe» e «ostacoli» che, in alcune parti, ne rallentano i percorsi. Fuor di metafora, la corrente è rappresentata dagli ingenti flussi di merci, persone e soprattutto rappresentazioni e immaginari che si dipanano nell’ecumene globale con sorprendente velocità. Ciò che è rilevante, per Appadurai, non sono tanto i contenuti che viaggiano sulle reti (le reti online del web o le reti offline della comunicazione tradizionale), quanto le forme. Tra queste spiccano la «forma nazione», le costituzioni e la democrazia a livello politico; i giornali, le soap opera e più recentemente i social network a livello mediatico. Anche nelle aree del pianeta considerate più remote e periferiche (dal Nepal alla Papua Nuova Guinea), gli esseri umani oggi «producono località», ovvero costruiscono società e culture posizionate localmente, ma a partire da dialoghi, conflitti e negoziazioni con quei format politici e mediatici che viaggiano senza sosta sulle reti globali.
Di Appadurai esce il 26 febbraio in Italia Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale (Raffaello Cortina). Conosciuto a livello internazionale come uno degli autori più importanti nel vasto campo interdisciplinare dei post-colonial studies , Appadurai ha di recente intensificato i legami con il nostro Paese, intervenendo in seminari accademici e in incontri con il pubblico (il suo intervento al Festival Dialoghi sull’Uomo di Pistoia, dal titolo Così vicini, così lontani , è in pubblicazione nel volume a più mani, L’oltre e l’altro , Utet).
Gentile, affabile ed affabulante, profondo conoscitore di Vico e della storia dei Comuni, sottilmente ironico e pungente, Appadurai incarna la figura «prototipica» dell’antropologo contemporaneo. Un antropologo che viene da «altrove» — l’India — e parla di «noi» e della globalizzazione che ci circonda e ci assedia, dando concretezza a quella reciprocità o inversione di sguardi tanto spesso evocata. L’antropologo che rompe i confini disciplinari e si addentra nei territori dell’economia, della sociologia e dei cultural studies . Lo scrittore che, conforme al clima post-moderno, evita di dare vita a un paradigma teorico forte e onnicomprensivo, ma è capace di mettere a punto concetti («flussi», «produzione di località», «democrazia profonda», «etica della possibilità» contro «etica della probabilità») che aprono nuovi sentieri nelle complesse foreste di significati che ci avvolgono.
Il futuro come fatto culturale nasce dalla scommessa di rilanciare una teoria e una pratica della modernizzazione, ripartendo da Max Weber. Appadurai comincia però col criticare la modernizzazione «europea» laddove si è connessa al progetto imperialista e laddove ha confuso l’universalismo con l’imposizione delle proprie traiettorie storiche. Occorre, secondo l’antropologo della New York University, tenere ben presente le «sorprese» che la modernizzazione d’ancien régime ci ha riservato: «Il rifiuto della religione di essere sacrificata sul tavolo dello sviluppismo della scienza moderna; la paradossale tendenza delle nuove tecnologie di comunicazione a incoraggiare la differenza culturale invece di rincorrere la somiglianza; la propensione della voce popolare a pretendere sangue, vendetta, guerra ed etnocidio (…) provando in questo modo la falsità delle correlazioni che ci si attendeva tra istituzioni democratiche e crescita della tolleranza e della pazienza come virtù politiche».
La globalizzazione non ha annullato le diversità culturali, come si era paventato, ma, ugualmente, non ha indebolito le diseguaglianze. Gli slum di Mumbai in cui Appadurai compie le ricerche etnografiche che presenta nel libro sono esemplari. La crescita in tutto il mondo di megalopoli, che assumono l’aspetto di nuove «città-Stato», ha creato grandi sacche di non cittadini, abitanti delle città senza diritto a condividerne le risorse. I poveri di Mumbai abitano baracche o giacigli provvisori, vagano in cerca di cibo e non hanno posti in cui depositare gli escrementi. Le società opulente producono affamati e li costringono a una nudità simbolica e reale nel momento in cui li privano dell’intimità persino nel defecare.
Il panorama dipinto da Appadurai, tuttavia, non è così fosco. La costruzione di pratiche inclusive e condivise di modernizzazione sarà possibile se gli scienziati sociali, specie gli antropologi, sapranno guardare al futuro. In un’epoca di «pace fredda», caratterizzata da un basso livello di conflittualità internazionale, ma da forti tensioni interne, il discorso sul futuro è stato monopolizzato da economisti e speculatori. L’economia dei disastri (finanziari e ambientali) è un’attività quanto mai lucrosa, basata sul calcolo probabilistico del rischio che qualcosa di grave possa succedere in futuro in qualche parte di mondo .
Riappropriarsi del futuro inteso come «fatto culturale» significa invece passare da un’etica della probabilità a un’etica della possibilità, guardando alle speranze e alle immagini della «buona vita» che ogni società elabora. L’antropologia ha dato priorità in passato allo studio delle culture come retaggi, alle tradizioni, ai costumi: perlopiù ha camminato con lo sguardo volto all’indietro. È ora di indagare le costruzioni culturali del futuro, le aspirazioni, i progetti, i sogni che germogliano nelle località del mondo globalizzato. A Mumbai sono in primo luogo i poveri a immaginare vie di uscita dalla miseria, a partire dalla loro esperienza, ma anche dalle connessioni con i poveri di altre mega-città, rese possibili dalle nuove tecnologie (il «cosmopolitismo» dei poveri).
Possibilità, speranza, immaginazione, futuro sono le parole chiave che Appadurai consegna agli studiosi delle nuove generazioni, invitandoli a cogliere «dal basso» l’improvvisazione e la creatività culturale.
Il Sole Domenica 23.2.14
Kierkegaard
Søren legge nel futuro
di Valerio Magrelli
qui
Il Sole Domenica 23.2.14
Ildegarda di Bingen
La monaca visionaria
di Maria Bettetini
qui
Il Sole Domenica 23.2.14
Scienza & fede
Il business della santa reliquia
Dall'Alto Medioevo ci fu un'esplosione di ritrovamenti di corpi di santi e di spoglie mortali: davano prestigio alla comunità, servivano ai giuramenti, favorivano miracoli
di Guido Barbujani
Lungo il basso corso del Brenta c'è la massima concentrazione mondiale di evangelisti: due su quattro, Luca a Padova e Marco a Venezia. Un momento, avrei dovuto usare il condizionale. Ci sono infatti pochi evangelisti, molte comunità desiderose di rivendicarne le spoglie, cioè i corpi santi della tradizione cristiana, e ne nascono controversie. È stato detto che con i pezzi della vera croce sparsi per l'Europa si potrebbe costruire un piccolo naviglio. Qualcosa del genere vale anche per i corpi dei santi: mettendo insieme i resti attribuiti a ciascuno di loro ci si ritrova con parecchio materiale in eccesso.
La moltiplicazione dei santi tramite dispersione delle reliquie inizia nell'Alto Medioevo, e non sembra incidesse sulla capacità dei santi stessi di operare miracoli. Gente pragmatica, i fedeli avevano un metodo sicuro per valutare l'autenticità delle reliquie: se funzionavano, cioè se emanavano profumi fragranti, risanavano malati o sventavano naufragi, erano autentiche, se no, no; e spesso funzionavano.
Ma Patrick Geary, che ne ha tratto un libro molto serio e molto divertente, spiega che il loro valore non si limitava a questo. Come ai giorni nostri le collezioni d'arte o le orchestre stabili, le reliquie erano un ottimo investimento, e per parecchi motivi. Prima di tutto contribuivano in maniera decisiva al prestigio della comunità a cui appartenevano, il che voleva dire affari e quindi soldi; poi attiravano pellegrini, cioè altri soldi. Inoltre, con Carlo Magno erano diventate obbligatorie per i giuramenti, prestati con la formula «Possano Dio e i santi, a cui queste reliquie appartengono, giudicarmi».
Dunque i corpi santi erano parte dell'ordinamento giuridico, costituivano un anello indispensabile della catena che teneva insieme la società feudale, oltre che una fonte di miracoli, di visibilità e in definitiva di reddito. Come se non bastasse, nel Basso Medioevo la curva demografica comincia a salire: le città si ripopolano, ne vengono fondate nuove, si costruiscono nuove cattedrali e conventi, e ogni cattedrale o convento reclama il suo corpo santo, o almeno un pezzetto. Da questi presupposti non poteva che nascere un vasto commercio; carovane attraversavano le Alpi e scendevano in Italia per riportare ai monasteri francesi e tedeschi, e al re d'Inghilterra che ne era appassionato collezionista, le preziose reliquie; a loro volta, mercanti italiani si rivolgevano a est, ai Balcani e al Medio Oriente.
In un solo viaggio in Italia, nell'838, un chierico franco di nome Felice portò al monastero benedettino di Fulda, in Germania, le spoglie di undici santi: Agapito; Callisto, Cecilia; Colombana, Cornelio, Digna; Emerita, Eugenia, Giorgio, Massimo e Vincenzo. È ovvio che con i certificati d'autenticità non si andava troppo per il sottile; ci si doveva fidare: della serietà del mercante, o di documenti che però, quando non disponibili, si potevano fabbricare. Le difficoltà di comunicazione fra città e conventi e la limitata e lenta circolazione delle notizie rendevano tutto piú agevole, perché consentivano di rivendere a più clienti un santo già venduto. Il risultato fu un vero boom delle reliquie, un incremento che, se il termine non fosse oggi usato a casaccio, si potrebbe correttamente definire esponenziale.
È celebre la vicenda del prepuzio di Gesù Cristo, derivante dalla sua circoncisione: nel Medioevo in Europa se ne contavano diciotto, il più celebre dei quali a Calcata, in provincia di Viterbo (altri erano rivendicati da Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Hildesheim, Conques, Langres e Anversa); di uno era entrata in possesso santa Caterina da Siena, che lo portava all'anulare come segno di fidanzamento mistico col Cristo.
Quando non si poteva ottenere il santo comprandolo, si poteva rubarlo. Fra i diversi vantaggi, primo fra tutti quello di non costare niente, le reliquie trafugate avevano anche una maggiore probabilità di essere autentiche, scrive Geary, rispetto a quelle spuntate da chissà dove e messe in vendita dai mercanti. Sarà anche per questo che le cronache riportano quasi cento furti nel solo periodo compreso fra il regno di Carlomagno e le crociate. Le modalità sono spesso bizzarre; è noto l'espediente dei veneziani Bono da Malamocco e Rustico da Torcello, che per far uscire da Alessandria il corpo di san Marco lo nascondono in mezzo a carne di maiale e cosí sfuggono ai controlli dei doganieri saraceni. Ma ancor piú bizzarra, per chi legga oggi queste storie, è l'approvazione incondizionata che l'impresa riceveva: i ladri venivano festeggiati come eroi, le reliquie accompagnate alla loro nuova sede da una folla festante guidata dalle autorità religiose e civili. Spesso i ladri raccontavano che si erano manifestati segni della volontà del santo di abbandonare la precedente, disagiata collocazione, e loro non avevano potuto che assecondarli: luci inspiegabili, voci dal nulla, lamenti. Venivano creduti, e anzi, spesso bastava la semplice descrizione di chiese in rovina, inadatte a un culto dignitoso, o di tombe intorno a cui si svolgevano vergognosi commerci, perché il furto si giustificasse, anche in assenza di richieste esplicite da parte del diretto interessato, cioè del santo. Evidentemente, i vantaggi dell'acquisizione erano tali che il settimo comandamento passava in secondo piano, o era interpretato con grande flessibilità (qualcosa del genere succederà col quinto al tempo delle Crociate, quando ammazzare diventerà non solo accettabile, ma doveroso per guadagnarsi il Paradiso).
Poi, con gli anni, la memoria delle vicende si offuscava. Ciò che era stato tramandato come possibile era diventato probabile, ciò che i padri consideravano probabile era diventato indiscutibile per i figli. Veniva allora il tempo delle dispute, anche perché, se possedere le spoglie di un santo portava concreti benefici materiali, il monopolio ne portava ancor di piú. Ma mettere tutti d'accordo, dimostrare che un corpo stava lí e solo lí, non era semplice, e si finiva per passare, diremmo oggi, alle carte bollate. Così all'emergere dal passato di corpi di provenienza comprovata, dubbia o estremamente dubbia, avvocati ne rivendicavano stupefacenti identità, intere comunità di fedeli ne proclamavano i poteri taumaturgici, e presunti esperti venivano chiamati a dare giudizi senza disporre di alcuno strumento per giudicare. Da tutto questo non potevano che nascere controversie interminabili. Fra gli evangelisti, il caso piú ingarbugliato è quello di Matteo: forse in Etiopia, forse in Georgia, forse a Salerno. Quanto agli altri, di Giovanni si sa poco o niente, e Marco è, o sarebbe, a Venezia nella basilica omonima, ma in parte, pare, anche a Cortona.
E poi c'è Luca. Oggi molti pensano che le sue spoglie siano state traslate clandestinamente da Costantinopoli al cimitero paleocristiano di Santa Giustina, a Padova, nel 360, durante il regno dell'imperatore Giuliano (anche noto come Giuliano l'Apostata). Altri però ritengono che le ossa di Luca siano arrivate più tardi: durante la lotta iconoclasta, fra il 741 e il 770, oppure col bottino dei crociati nel 1204, all'indomani del saccheggio di Costantinopoli. I veneziani, poi, hanno a lungo sostenuto che non siano mai state a Padova, quelle ossa, perché due francescani le avevano trafugate in Bosnia (dove sarebbero arrivate chissà come) e portate da loro, a San Giobbe. Fatto sta che, per mettere tutti d'accordo, nel 1463 papa Pio II costituì una commissione presieduta dal suo amico cardinale Bessarione, legato pontificio a Venezia. Finí come finiscono queste cose in Italia: il corpo di Padova, pur privo di cranio, apparteneva a un uomo morto in tarda età, in accordo con quanto tramandato su san Luca; quello di Venezia era il corpo di un giovane; ma la convenienza politica prevale su tutto, compresi i dati di fatto. Bessarione pensò bene di non irritare il governo della Serenissima per una questione di vecchie ossa e diede ragione ai veneziani, proibendo qualunque culto pubblico del corpo di Padova. La cosa non finì lì, però, perché a Roma ritenevano di averlo loro, il cranio di san Luca, e non sarebbe più stato di san Luca se veniva dichiarato autentico il corpo di Venezia, che il cranio ce l'aveva. Un anno dopo moriva Pio II, e il suo successore Paolo II, su pressione della curia di Roma e della diocesi padovana, accettò di rivalutare il caso. Al termine di un vero e proprio processo, il giudizio venne capovolto. La cittadinanza di Padova accolse con feste e processioni la sentenza, i cui effetti pratici non tardarono a manifestarsi: parecchi ciechi riacquistarono la vista, un ragazzo di Terralonga che aveva una «mano secca» fu risanato per virtú del «beatissimo Luca», e un Giovanni Buono di Caldera fu guarito dalla scrofola. Rapidamente i benefici si espansero alla regione circostante, tanto che un certo Almerico fu anch'egli risanato, addirittura a Montagnana, 52 chilometri piú a sud.
Il Sole Domenica 23.2.14
il libro
Genetista cerca evangelista
di Sylvie Coyaud
L'incipit «Giuro che è tutto vero» va preso alla lettera anche se il nuovo libro (in uscita in settimana) del genetista Barbujani, collaboratore di queste pagine, sembra uno dei suoi gialli, più esotico dei precedenti. È proprio lui, «quello che ha spaccato i denti a Luca», l'Evangelista. Su mandato del vescovo di Padova, deve dire se le ossa (umane, ce ne sono altre) trovate nella sepoltura sono di un maschio anziano vissuto tra il II e V secolo d.C. Non è credente, chi glielo fa fare? Un p0' di soldi per i dottorandi, la difficoltà di prelevare Dna mitocondriale da un antico dente, l'emozione di entrare "nell'intimità" di un estraneo distante nel tempo.
Però deve confrontare il Dna di Luca con Dna turco, greco e siriano attuale e quello siriano non c'è. No problem. Pascal, il conoscente di un collega, si offre di raccogliere sul campo campioni di sangue che per misteriose ragioni, non può spedire. Il genetista parte per pochi giorni assecondato da un amico fidato, per una missione e una gita turistica in capitoli che mischiano comicità sgangherata e tensione. Come tutti e di più perché appartiene a una delle «sette sette cristiane» di Aleppo, Pascal ha paura della polizia segreta. Come tutti e di più, ricorda millenni di soprusi e vessazioni reciproche, vecchi conti in sospeso da regolare alla prima occasione.
I campioni vengono trafugati, l'indagine si sposta nel laboratorio del l'università di Ferrara, alla ricerca meticolosa di prove che dimostrino luogo e data d'origine di quel dente oltre ogni ragionevole dubbio, cioè con una buona probabilità. Il metodo statistico viene dagli Stati Uniti, dove Barbujani ha fatto ricerca come post-doc. Un flash-back ce lo mostra smarrito, lasciato a se stesso dal prof che ammira. Sotto l'autoironia, ci sono riflessioni sulla scienza, le sue mode, i suoi clan, le sue gare tra concorrenti che lasciano poco tempo per pensare, per conoscere davvero.
All'inizio del libro, la storia dei resti dell'Evangelista è narrata veloce con brio, in uno slalom da ateo fra poteri che si contendono reliquie vere e false. Nel finale, dalle ricerche consegnate al vescovo emerge una storia intrisa di malinconia. Un sentimento che affiora anche prima, in brevi frasi qua e là, e quasi sfugge mentre si ride per le battute , trascinati dall'allegria della scrittura.
Guido Barbujani, Lascia stare i santi, Einaudi, Torino, pagg. 174, € 14,50
Il Sole Domenica 23.2.14
Giampaolo Pansa
La Resistenza oltre il Pci
di Gennaro Sangiuliano
Lo storico Renzo De Felice nel saggio Rosso e Nero, uno dei suoi ultimi scritti, avverte: «La Resistenza è stata un grande evento storico. Nessun "revisionismo" riuscirà mai a negarlo. Ma la storia, al contrario del l'ideologia e della fede, si basa sulla verità dei fatti piuttosto che sulle certezze assolute». Il professore precisa: «Una vulgata storiografica, aggressivamente egemonica, costruita per ragioni ideologiche (legittimare la nuova democrazia con l'antifascismo), ma usata spesso per scopi politici (legittimare la sinistra comunista con la democrazia), ha creato, invece, una serie di stereotipi che ci hanno impedito di dipanare i nodi irrisolti degli ultimi cinquant'anni…».
Più o meno contemporanea a quella di De Felice è la riflessione di un altro grande storico, Claudio Pavone, ex partigiano che scrive il volume Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, introduce il concetto di "guerra civile" fino ad allora negato dalla storiografia dominante. E si spinge oltre ponendo un interrogativo sulla moralità della Resistenza stessa. La guerra partigiana fu certamente una guerra patriottica contro l'invasore tedesco ma fu anche una guerra civile fra italiani fascisti e antifascisti, e una guerra di classe dove la frangia comunista propugnava la prosecuzione del conflitto, anche dopo la sconfitta nazifascista contro le classi borghesi fino alla vittoria del proletariato.
Pavone, come De Felice, non discute il valore della Resistenza ma ne coglie una «immagine apologetica, levigata e rassicurante» che si era formata nel tempo come base legittimante della democrazia italiana.
Giampaolo Pansa che alla riflessione sulla Resistenza dedicò i primi passi di studioso (la sua tesi di laurea) torna dopo lunghi viaggi nella politica e nella storia d'Italia ad affrontare quella che definisce una «questione assai più grande e cruciale nella storiografia della Resistenza: il predominio assoluto dei memorialisti e degli storici comunisti». Un titolo di due parole, Bella ciao, canzone simbolo, per proporre storie inedite che tentano di «rimediare a qualche buco della storiografia», troppo legata al Pci che «aveva imposto il proprio punto di vista» nascondendo la realtà di una parte della Resistenza proiettata esclusivamente a «imporre una dittatura popolare d'impronta sovietica». L'egemonia del Pci nella Resistenza fu subito chiara, i comunisti erano gli unici che disponevano nelle loro fila di ex combattenti come quelli confinati a Ventotene che avevano partecipato alla guerra civile spagnola, avevano comandanti duri e autorevoli come Luigi Longo e Pietro Secchia, disponevano anche di cospicue risorse economiche. «I primi a sparare e uccidere furono i comunisti di Reggio Emilia», racconta Pansa, che ricostruisce la lunga serie di agguati messi in atto dai Gap, la punta avanzata e più ideologica del comunismo armato. Questi gruppi colpirono non solo i fascisti ma anche personaggi ritenuti nemici di classe o potenziali ostacoli della rivoluzione. Uno dei reduci della Spagna, Francesco Scotti, poi ammetterà: «Qualche compagno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale, perché questo era contrario ai principi marxisti leninisti». E Giorgio Bocca scrive: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio».
Il Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale, la struttura politica in cui erano rappresentati in posizione paritaria tutti i partiti antifascisti e articolata sul territorio, contò nei fatti sempre poco, i comunisti decidevano, facevano, e poi al massimo chiedevano la ratifica di quanto già eseguito. Fu così per l'assassinio di Gentile.
La storia, però, è fatta di contestualizzazioni. Pansa, opportunamente, insiste anche sul clima delle violenze fasciste, le fucilazioni di giovani inermi renitenti alla leva ordinate da Graziani, il collaborazionismo odioso con i nazisti, l'oppressione tedesca, le deportazioni, le persecuzioni vili e assurde degli ebrei.
Gli spicchi di verità si susseguono nelle pagine del libro, aprendo polemiche, dalla vicenda di Francesco Moranino, il comandante Gemisto, condannato all'ergastolo dalla magistratura, fatto eleggere più volte dal Pci in Parlamento e graziato da Saragat, al mistero dei sette fratelli Cervi, forse non aiutati dai vertici della Resistenza perché troppo autonomi rispetto al Pci.
«Il diavolo si nasconde nei dettagli», annota in una delle ultime pagine Pansa. E su questi dettagli si misurerà un lungo confronto.
Giampaolo Pansa, Bella ciao. Controstoria della Resistenza, Rizzoli, Milano,
pagg. 430, € 19,90
Il Sole Domenica 23.2.14
Rigidità comunitarie
E se l'euro fosse un golpe?
Giuseppe Guarino stronca il regolament0 che rafforza i vincoli di bilancio: «Un colpo di Stato fatto con fraudolenta astuzia»
di Paolo Savona
Giuseppe Guarino ha scritto numerosi saggi critici sugli accordi europei e, in particolare, sull'euro. Questo, fresco di stampa, non è, come egli stesso afferma, un testo giuridico, né tantomeno economico, ma si prefigge di individuare i «fattori che generano il movimento complessivo delle due entità, l'Unione europea e l'eurozona o di singole parti delle stesse, e degli effetti prodotti da tale movimento». Egli avverte che «perverrà a risultati inattesi, sorprendenti, anche sconvolgenti» e aggiunge che essi «lo sono stati anche per me».
Il lavoro può essere analizzato da molti punti di vista, quello suggerito dall'autore è che, se «la disciplina che si va a introdurre e la situazione sostanziale in atto (la costituzione materiale)» sono disomogenee, la scelta delle norme deve essere tale da evitare l'acuirsi di tale imperfezione, altrimenti l'evoluzione sarà negativa sul piano politico, economico e sociale. Poiché gli accordi europei si sono calati in un habitat disomogeneo, essi si sono rivolti contro gli ideali che li avevano ispirati. L'euro, calato in un'area monetaria non ottimale – ossia caratterizzato da divari strutturali di produttività, come quelli del Nord-Sud dell'Italia – ha prodotto un allontanamento dall'oggetto-obiettivo indicato nell'articolo 2 del Testo Unico Europeo, ossia il miglioramento del benessere civile e materiale delle popolazioni europee. Come se non bastasse questo errore di architettura istituzionale, è stato compiuto anche un illecito giuridico: gli accordi di natura fiscale (deficit e debito pubblico sul Pil) previsti dal Trattato sono stati resi ancora più rigidi e disomogenei con un regolamento, il 1466/97, sul quale si appuntano gli strali di Guarino perché una norma di rango inferiore non può modificare quelle di rango superiore. Si è così aperta la strada a «un fenomeno depressivo, perdurante e crescente, come i dati statistici hanno poi implacabilmente confermato». Come se non bastasse questo severo giudizio, l'autore afferma con sarcasmo «Non ci vuole una zingara per indovinare la ventura!»
Ripercorrendo le sue esperienze di settant'anni di professione, Guarino enuncia un principio cardine del suo metodo di analisi: «un organismo giuridico, una volta creato, può svilupparsi anche al di là degli scopi dei fondatori». Nasce una «creatura biogiuridica», che vive cioè di forza propria, dei cui comportamenti egli si dà carico come reporter. Creiamo, egli afferma, un'istituzione incoerente con la realtà da regolare ed essa si mette a vivere in direzione indesiderata. Il regolamento 1466/97 – egli afferma – «ha colpito e continuerà a colpire "nel cuore" la democrazia" e ha sostituito "due "doveri" al posto di due "poteri". Fu un vero "colpo di Stato", un "golpe", fatto "non con la forza, ma con fraudolenta astuzia"».
Dopo aver riconosciuto i vantaggi raggiunti dalla Cee afferma che «è necessario metter da canto il bagaglio pur così ricco e storicamente importante, frutto delle idee e delle discipline anteriori. È necessario sgombrare la mente ed esaminare senza paraocchi quanto è accaduto e sta accadendo in Europa dal 1999 in poi», tenendo ben presente che «l'Europa è componente importante del sistema economico mondiale» e non può trascurare gli effetti che in esso causa. Specifica che l'euro non è la moneta dell'Unione Europea, ma dei paesi che l'hanno scelto e presentavano le caratteristiche stabilite nei celebri «parametri di Maastricht»; come pure precisa che l'Ue non è l'unione politica richiesta dal l'esistenza stessa dell'euro, ma solo un mercato unico (o quasi). Non sono quindi bastati né gli effetti benefici dell'abbattimento delle barriere doganali, che furono stimati nell'ordine dal 2 al 6% del Pil, né la riduzione dei costi di transazione tra paesi aderenti alla moneta comune, stimati nell'ordine dello 0,7% annuo, ma è emersa la mancata soddisfazione dell'oggetto degli accordi europei, lo sviluppo economico e democratico.
Su questo argomento l'analisi di Guarino si fa incalzante e non riassumibile in poche parole. I toni sono aspri e nascono dalla passione civile di questo grande Maestro. Dedica un intero capitolo alla soppressione della democrazia avvenuta con il varo del regolamento 1466/97, avendo eliminato «l'unico spazio di attività politica soggetto all'influenza dei cittadini dei singoli Stati membri», quella di decidere la propria politica per la crescita subordinandola a regole illecitamente introdotte. Se questa è la diagnosi – e l'A. attende solo che sia oggetto di critiche, invece di un silenzio colpevole – egli si domanda che fare e come farlo. Sul che fare osta «l'inesistenza di un vertice politico» europeo, sostituito da un organismo «robotizzato» incaricato di far rispettare le regole, anche illegittime. Egli spera che i responsabili di questi illeciti e mancato rispetto degli accordi abbiano essi per primi interesse a promuovere quella che chiama una restaurazione innovativa, ma in ogni caso chiede a ciascuno degli attuali vertici della Ue di indicare su quale norma di rango superiore «ritiene di poter basare la sua condotta». E continua «se la indicazione non risulta esatta va richiesto con fermezza il riconoscimento dell'errore, riservandosi di farne valere le responsabilità». Occorre, conclude Guarino, «diffondere il convincimento della necessità del ritorno alla legalità». Sul come farlo, egli suggerisce che un piccolo gruppo di Stati membri dell'Ue convinti di questa situazione si debbano riunire e pretendere che venga riconosciuto il diritto di perseguire la crescita dell'occupazione come obiettivo prioritario dell'Unione.
Giuseppe Guarino, Cittadini europei e crisi dell'euro, Editoriale Scientifica, Napoli, pagg. 188, € 14,00
Il Sole Domenica 23.2.14
Le avventure dell'arte
Salvate il tesoro di Montecassino!
Ricostruite le vicende dell'esodo verso Roma gestito dai tedeschi delle opere e dei cimeli dell'Abbazia
Un documento inedito rivela che il vero salvatore fu Frido von Senger
di Marco Carminati
Mentre nelle sale cinematografiche impazza il film Monuments Men di George Clooney (gran successo di pubblico, un po' meno di critica), gli editori italiani cavalcano l'onda mediatica e sfornano libri sulle peripezie delle opere d'arte durante l'ultima guerra mondiale.
Uno dei libri più avvincenti e originali è senz'altro quello scritto da Benedetta Gentile e Francesco Bianchini per la casa editrice Le Lettere di Firenze. Il volume ha un titolo e sottotitolo da feuilleton («I Misteri dell'Abbazia. La verità sul tesoro di Montecassino») che nascondono, in realtà, un rigoroso saggio storico di brillantissima scrittura il quale ribalta addirittura, con nuove prove alla mano, la versione dei fatti fin qui generalmente accettata riguardo al salvataggio delle opere d'arte conservate nell'Abbazia di Montecassino prima dei bombardamenti alleati che la rasero al suolo il 18 febbraio 1944, settant'anni fa esatti.
Secondo una vulgata più o meno consolidata la salvezza dei cimeli e delle opere d'arte conservate nell'Abbazia fu opera di due nazisti "buoni", il tenente colonnello Julius Schlegel e il capitano Maximilian Becker, entrambi appartenenti alla famigerata Divisione Hermann Göring. Sarebbero stati loro a organizzare l'esodo dei tesori conservati nell'Abbazia per portarli al sicuro in Vaticano, poco prima che i "barbari alleati" radessero al suolo il faro della civiltà benedettina.
Le cose andarono veramente così? In verità, da decenni si dubita di questa sommaria versione dei fatti, anche se il tenente colonnello Schlegel è stato ufficialmente celebrato come il "salvatore" dei tesori di Montecassino. Quando morì, nel 1958, tutte le campane dei monasteri benedettini d'Europa suonarono contemporaneamente in suo onore, e Vienna, la sua città natale, gli dedicò un monumento in un parco, una targa sulla casa di residenza e addirittura una via. A Montecassino, invece, gli anziani monaci testimoni diretti degli avvenimenti, pur avvallando la versione ufficiale del salvataggio, si opposero sempre all'affissione sui muri dell'abbazia ricostruita di una targa a ricordo del "salvatore Schlegel".
Ma allora, che cosa accadde veramente attorno al tesoro di Montecassino? E a chi si deve la sua salvezza dalla furia della guerra?
Come già hanno sospettato storici attenti quali Sergio Romano e Carlo Gustavo di Groppello, il merito del salvataggio dei tesori di Montecassino non poteva essere ascritto a Julius Schlegel e a Maxilimian Becker, per il semplice fatto che essi appartenevano alla Divisione Göring, cioè erano alle dirette dipendenze dell'avido e potentissimo Feldmaresciallo, uno dei più famigerati ladri di opere d'arte attivi in quegli anni in Europa. Anche se i due ufficiali trascorsero la vita a mentire sui fatti e cogliere gli allori dei «salvatori dei tesori di Montecassino», sia Schlegel che Becker (che, detto per inciso, fornirono sempre due diverse versioni dei fatti), in realtà evacuarono Montecassino con l'intento sottaciuto di spedire in Germania il meglio dei "capolavori salvati" presso il loro famelico Feldmaresciallo.
Chi sventò questo piano di furto? Un altro tedesco. Fu il comandante del XIV Corpo d'Armata corazzato tedesco in Italia, il barone Frido von Senger und Etterlin. Costui era un signore d'altri tempi, un nobiluomo poliglotta che aveva studiato ad Oxford, che proveniva dalla cavalleria ed avversava i nazisti. Era inoltre cattolicissimo e vestiva le insegne dell'ordine terziario benedettino. Appena giunto in Italia, nell'autunno del 1943, sventò il piano di Göring accorgendosi che le 180 casse di opere prelevate con autocarri a Montecassino da Schlegel e Becker tra l'ottobre e il novembre del 1943 avevano già oltrepassato Roma per essere nascoste in un deposito della Divisione Göring a Spoleto, pronte per venir spedite "al sicuro" a casa del Feldmaresciallo a Carinhall in Germania. Fu dunque Frido von Senger und Etterlin il vero salvatore di Montecassino perché intimò perentoriamente a Schlegel di consegnare a Roma e al Vaticano il tesoro di Montecassino, secondo i piani stabiliti.
Senger ha sempre taciuto sul reale andamento dei fatti. Da nobile e anziano militare, volle forse evitare di gettare altro fango sulle truppe tedesche, tendendo conto che l'esito della vicenda fu comunque positiva e fu forse l'unico punto a favore dei tedeschi in Italia: il fatto di aver oggettivamente svuotato Montecassino per tempo, evitando che tutto andasse distrutto del disastro del bombardamento alleato.
La figlia di Frido von Senger ha consegnato pochi anni fa all'Imperial War Museum di Londra le carte appartenute a suo padre, e in una di esse è contenuta la prova scritta di quanto già si sospettava: che fu il barone von Senger il responsabile del salvataggio del tesoro di Montecassino.
Sottoposto nell'immediato dopoguerra al processo di "denazificazione", von Senger poté contare su numerose testimonianze che confermarono il suo corretto operato durante la guerra. Una di queste testimonianze, rilasciata da Achim Oster (un oppositore del nazismo, la cui famiglia era stata decima da Hitler), parla senza mezzi termini del ruolo diretto rivestito da von Senger nello sventare la rapina dei tesori di Montecassino, e dell'ordine impartito da lui stesso a Schlegel di consegnare la maggior parte degli oggetti artistici dell'Abbazia ai Musei Vaticani.
Così, in effetti, avvenne. Anzi, Schlegel, vistosi costretto a obbedire a von Senger, volle che – tra il dicembre '43 e il gennaio '44 – le consegne avvenissero platealmente, davanti a fotografi e cineoperatori, in modo da pubblicizzare al massimo il "nobile gesto" sul quale poi l'ufficiale austriaco costruirà la sua fama abusiva di "buon nazista salvatore dell'arte".
In realtà, sappiamo che Schlegel riuscì egualmente a spedire in Germania una quindicina di casse per la gioia del suo comandante-collezionista. Sì, perché il tesoro di Montecassino era in realtà un insieme di molti, mirabolanti tesori. Quando Schlegel bussò alle porte dell'Abbazia nell'ottobre del 1943, il Cenobio non custodiva solo la propria mirabile Biblioteca, il proprio fantastico Archivio con documenti e codici millenari, le reliquie di San Benedetto, le opere d'arte e gli arredi liturgici. Montecassino era diventato un "deposito" (ritenuto sicurissimo fino all'8 settembre 1943) di altri strepitosi "tesori". Come ad esempio, il Tesoro di San Gennaro di Napoli, i principali capolavori della Pinacoteca di Capodimonte, le statue più celebri del Museo Archeologico di Napoli, emerse dagli scavi di Pompei ed Ercolano. Vi erano persino due cassette con i cimeli di Keats e di Shelley.
Quando i tedeschi convinsero l'abate Gregorio Diamare a consegnare loro tutte le opere presenti nell'Abbazia per salvarle dalla possibile distruzione del cenobio riparandole in Vaticano, l'abate e i monaci si fidarono, ma fino a un certo punto. Ad esempio nascosero ai tedeschi la presenza del Tesoro di San Gennaro e delle cassette con i cimeli di Keats e di Shelley. Queste meraviglie vennero portate direttamente dai monaci a Roma, celate tra i loro effetti personali. E fecero bene, perché, come s'è visto, i piani di Schlegel erano diversi, e se non fosse intervenuto pesantemente von Senger, i tesori di Montecassino, già ammassati a Spoleto, avrebbe probabilmente preso in gran parte la via del Brennero.
Sedici casse in realtà giunsero in Germania. Nella sua residenza di Carinhall, Göring fece in tempo ad aprirne alcune e a mangiarsi con gli occhi («quasi turbato», dirà al processo di Norimberga) alcuni capolavori di Capodimonte (come la Danae di Tiziano o la Parabola dei ciechi di Brueghel) e i cervi ercolanensi del Museo Archeologico di Napoli.
Poco dopo, gli eventi militari precipitarono e la Germania nazista tracollò. Le casse provenienti da Montecassino con i tesori dei musei di Napoli, finirono nell'ultimo nascondiglio del Terzo Reich, la miniera di Altausee vicino a Salisburgo. E lì verranno ritrovati, per fortuna intatti, da due mitici Monuments Men: Ernest De Wald e Ward Perkins.
Benedetta Gentile-Francesco Bianchini, I misteri dell'Abbazia. La verità sul tesoro di Montecassino, con prefazione di Francesco Perfetti, Le Lettere, Firenze, pagg. 196, € 14,00
Il Sole Domenica 23.2.14
L'Errore, Signore dell'universo
...È l'evoluzione che continua in campo sociale, si seleziona il peggiore, che però risulta il più adatto; è colpa di questo universo, sbagliato all'origine, venuto male, senza seguire il libro di Ada Boni delle ricette
di Ermanno Cavazzoni
L'errore è una questione di interferenza; una forza agisce su un'altra e la devia dal suo cammino; e poiché nel mondo (e nell'universo) ci sono tante forze in azione, si può dire che ci possono essere solo errori.
Ma come può Dio Onnipotente aver fatto a un certo punto del tempo (o del non tempo) un errore? Beh, l'errore è sempre un'interferenza di forze; dunque immaginiamo Dio assopito, miliardi di miliardi di anni. Sognava? No, non sognava, era imbambolato, non ancora nella fase Rem, che è piena di sogni; era in quel dormiveglia demente che somiglia a uno stato di anestesia. Poi cosa è successo? Un'esplosione, dicono, quindici miliardi di anni fa. L'ipotesi che oggi prevale è che Dio avesse accanto una bombola di gas, cioè non di gas molecolare come il metano o il propano, ma di plasma supercompresso che ha un rendimento rispetto al metano molto superiore, anzi, massimo, Dio va pensato come un super ricco che ha sempre il meglio. E poi dicono che Dio stesse fumando, cioè si era addormentato con la sigaretta in bocca, non si sa quando, prima del tempo. Dio era un gran fumatore, lo era sempre stato, accanito, ed essendo onnipotente fumava una sigaretta che non finiva mai, la brace sempre nello stesso punto, e lui che tirava una boccata eterna, senza far sosta per espirare. L'obiezione è: se era onnipotente come mai non aveva smesso di fumare con un atto onnipotente di volontà? La risposta è che Dio era a favore del fumo, sia nei cinema che nei locali pubblici, nelle scuole, in autobus; ossia Dio non riteneva che il fumo fosse nocivo; infatti teneva sempre una sigaretta pendente dalle labbra, come si vede che fanno i gangster nei film, e in più dormiva. Ora si sa che dormire con la cicca in bocca è pericolosissimo; Dio era anche onnisciente: come mai non lo sapeva? Beh, la risposta è che lo sapeva ma se ne fregava, cioè era un irresponsabile, ed è logico che lo fosse, non aveva famiglia, figli; l'avrà poi un figlio da mantenere, disoccupato, adottato da altri, perché lui, Dio onnipotente, non si curava molto dei figli, li lasciava delinquere e sproloquiare; e quindi col metro umano era un asociale, e fumava senza riflettere sui danni alla salute sua e dei circostanti col fumo passivo. Dunque dobbiamo immaginare Dio semi sdraiato, con la cicca in bocca, solo in tutto l'universo, tranne la bombola di gas vicino a lui. Come mai c'era la bombola? Beh, l'ipotesi oggi più accreditata è che gli universi fossero due, in uno c'era Dio che fumava, nell'altro c'era una bombola. Come mai una bombola? è stato detto. Beh, è stato risposto, era la forma della divinità dell'altro universo, dove credevano in una bombola, non ci trovo niente di male, ci sono universi che credono in un maritozzo, che credono in una cipollina sott'aceto, ogni universo ha il suo simbolo, e quando si contrae si riduce a questo; per cui galleggiano nell'infinito questi oggetti incomprensibili, una cassapanca, un paio di forbicine da unghie, un filo di nailon.
Dunque nel nostro caso i due universi hanno interferito, qualcuno aveva lasciato la bombola aperta (dicono sia stato il demonio, che abitava un terzo universo ed era disordinato e distratto); fatto sta che quando a Dio è caduta la cicca di bocca c'è stata un'immane esplosione, circa quindici miliardi di anni fa, cioè il nostro universo è nato da un errore, l'hanno anche chiamata fluttuazione quantistica, che si poteva evitare, certo, se qualcuno svegliava Dio dal suo torpore, ma non c'era nessuno, neanche un segnalatore automatico di fughe di gas, Dio abbiamo detto che era un irresponsabile, ma d'altronde non poteva immaginare di avere vicino una bombola, era sorta da un'interferenza, e le interferenze sono all'origine di tutti gli errori. Se Dio avesse fumato in solitudine, che poteva succedere? Niente. Qualcuno dice un tumore ai polmoni. Ma non è provato ci sia un rapporto di causa effetto; Dio l'avrebbe saputo, sarebbe passato alla pipa, o alla sigaretta elettronica. Se non l'ha fatto, nella sua onnipotenza, significa che fumare per lui non era dannoso; anzi, magari gli faceva bene, che ne sappiamo noi di Dio, metafisicamente? Ha i polmoni? i puri spiriti hanno i polmoni? o una vescichetta di galleggiamento? o sono anfibi? Niente! Non se ne sa niente.
Comunque abbiamo appurato che al l'origine c'è stato un errore; e poi nell'errore si è continuato. La Terra ad esempio lanciata nello spazio a 113mila chilometri l'ora andrebbe in linea retta per sempre, se la forza del Sole non la tirasse a sé; per cui si è arrivati al compromesso che la Terra al Sole ci gira attorno, cioè è in uno stato reiterato e continuo di errore. Da questo errore ne ha dei benefici, ad esempio viene scaldata a spese del Sole; ma se viaggiasse in linea retta nello spazio nero, potrebbe scaldarsi in maniera più autarchica con il suo nucleo incandescente; i mari potrebbero essere caldi grazie ai vulcani sottomarini, circa trenta gradi (i vulcani sono però un errore rispetto all'uniformità della crosta, come i brufoli); l'atmosfera sarebbe tiepida, e il tepore mantenuto da nubi permanenti che fan da soffitto, o involucro atermico. Non vedremmo le stelle; poco male … ci sarebbe buio, cioè non usufruiremmo delle onde elettromagnetiche nella gamma del visibile dispensate dal Sole; anche qui poco male; avremmo sviluppato un sistema percettivo come i pipistrelli, cioè un sonar, col quale avremmo una visione analoga, leggermente rallentata per gli oggetti lontani; sono sicuro che ci troveremmo bene, autonomi, in linea retta nello spazio, sempre giorno (perché il sonar non ha bisogno di luce esterna), temperatura costante; anche l'uomo avrebbe le idee più chiare, sarebbe migliore, magari volerebbe, e le sue città sarebbero nate attorno ai vulcani, che producono acqua calda e varie sostanze, come zolfo, le automobili andrebbero a zolfo, o a idrogeno per non inquinare; ci fosse un monte come su Marte, il monte Olympus, alto 27mila metri; ci affacceremmo oltre le nubi, e da lì, con apparecchi sensibili alle onde elettromagnetiche, potremmo andare a vedere le stelle, che percepiremmo come suoni, ogni stella una nota, bellissimo, l'universo come un concertino, non ci sarebbe il concetto di panorama, di bel panorama, ma di concerto, che bel concerto! che vibrazioni!
Saremmo esenti da errore? No, perché se si rimedia a un errore, ne nasce un altro. Ad esempio prendiamo l'evoluzione: il fatto che l'umanità è fatta di tanti individui, tutti leggermente diversi, ognuno con i suoi gusti, le sue idee; gli Stati cercano di rendere tutti uguali e intercambiabili; ma è fatica vana; lo stesso sistema di riproduzione della specie, tramite la duplicazione del Dna e la combinazione di un maschio e una femmina, genera individui diversi, cioè errori, ogni individuo è geneticamente un errore. E poi nella vita ogni individuo, per quanto retto, integerrimo, costante, coerente, subisce l'influsso degli altri, pure loro retti, integerrimi, ma in modo diverso, per cui tutti e due deviano dalla loro via, e se si moltiplicano le deviazioni per il numero dell'umanità, si capisce quanto un povero essere è sballottato di errore in errore. Per questo un monaco andava in mezzo al deserto; ma anche lì è fatica vana perché uno si porta dietro gli orrendi discorsi sentiti, gli esempi infami visti, le immagini, che prendono corpo e sono le tentazioni, cioè l'attrazione verso una via storta, erronea.
E se l'errore fosse la legge fondamentale dell'universo? Magari ci sono universi dove tutto è perfetto e simmetrico, una particella ogni metro, ovunque; ma qui da noi si parla di grumi, già all'origine; cioè la bombola poteva esplodere uniformemente, invece ha formato grumi irregolari, come un budino mal fatto, dai quali sono venute le galassie, dicono; che sono errori, un universo da buttare via … poi ci stupiamo che ci sono ladri, farabutti, una classe politica corrotta, nepotista, sodomita, sbagliata; lo si poteva immaginare subito, quindici miliardi di anni fa; se un budino vien male, cosa vuoi stare a mescolare?
Infatti in genetica l'errore è rimasto fondamentale. Il Dna viene copiato di padre in figlio, se non ci fossero errori saremmo ancora amebe o protozoi o semplici virus, e ci duplicheremmo sempre identici; invece di errore in errore si sono create le differenze, individui più adatti, nati dal caso, e quindi le specie. Un pesce ad esempio anomalo che usciva dall'acqua; era considerato asmatico dagli altri pesci, gli avevano dato pochissimi anni di vita, e invece scopre che può respirare; suo padre lo chiama e gli dice: Cos'è che ci trovi là fuori, nello spazio siderale? (perché per i pesci lo spazio siderale incomincia appena fuori dall'acqua), che cosa ci trovi in quel vuoto disidratato? Il figlio, che rispetto alla media dei figli era un po' scemo, era cioè un errore, altrimenti non usciva dall'acqua come tutti i pesci assennati, non sa cosa rispondere e dice: Niente papà, non ci trovo niente, però delle volte quando mi voglion menare, io scappo là fuori, e ci sto fin che non si sono calmati. - Perché invece non lo dici al maestro? (supponendo che anche tra i pesci ci sia qualcuno come un maestro di ruolo). - Eh papà … perché anche il maestro mi mena. - Perché ti mena? - Dice che non studio. - Come? non studi? con tutti i sacrifici che facciamo per farti studiare?... eccetera eccetera. E il pesce padre corre dietro a suo figlio per menarlo, così il figlio guizza fuori dall'acqua e ha un enorme vantaggio sul padre, sul maestro e sui coetanei che gli danno sempre del fesso, del minorato, mentre il maestro gli da dell'ignorante, e il padre del disgraziato dice che finirà delinquente. Questo pesce è un errore, e là fuori sta solitario nel deserto disabitato, trovando non male la respirazione aerea, finché trasmetterà i suoi difetti ai figli, che di errore in errore si metteranno a gracidare. - Dove hai imparato questi modi volgari? - dirà il pesce capostipite ai figli. - Finirai delinquente! Ma i figli dopo un milione di anni saranno rane, e guarderanno i pesci dall'alto in basso, i pesci non smetteranno di considerarli dei degenerati, nell'acqua si sta così bene! si annulla la gravità, mentre fuori uno è schiacciato dal peso, bel gusto saltare e cadere giù!
E così siamo arrivati all'uomo, che dicono sia il vertice della scala zoologica, cioè sia la massima degenerazione. Scimpanzé e gorilla ci guardano con compatimento, loro che dal punto di vista di una proscimmia sono già dei degenerati.
Ma prendiamo la storia: gli uomini vivevano di caccia e pesca, era bello! alla sera accendevano il fuoco, le donne cucivano dei pellicciotti, in fondo alla grotta un pittore disegnava i mammut, niente conservanti nei cibi, cottura media delle carni, pochi grassi, dopo cena niente televisione, neanche il telegiornale, perché i fatti erano pochi, non c'erano partiti, quindi niente dibattiti elettorali, se qualcuno era stato investito da un mammut lo sapevano già, «poveretto!» dicevano, anzi «che fortuna!» dicevano, piuttosto che finire con la badante, mal tollerato; poi cori alpini, braccio di ferro, questi erano gli svaghi; non venivano in mente a nessuno le ferie, perché si consideravano in ferie sempre, né avevano quell'orribile istituzione che sarà il weekend, di cui già Leopardi diceva che è un'illusione malefica, anche se ai suoi tempi non c'erano ancora le file in autostrada, se no non avrebbe detto della domenica «diman tristezza e noia»; avrebbe detto «diman liti e bestemmie», ma anche del sabato non avrebbe detto che è il più gradito; maledizioni sia al sabato che alla domenica.
E quindi nacque la civiltà, che fu tutta un errore. Schiavi, frustate, piramidi; i monarchi volevano soprattutto piramidi, era la mania del tempo, con tutte le conseguenze per la popolazione. Poi ci fu l'impero romano, Nerone, Caligola, Eliogabalo, che si presentava come figlio del Sole, o comunque nipote o discendente, e di errore in errore l'impero crollò. E continua a crollare, anzi direi che è sempre crollato e crolla tuttora, a volte anche in modo penoso, tra festini danzanti, nanetti e baiadere. È l'evoluzione che continua in campo sociale, si seleziona il peggiore, che però risulta il più adatto; è colpa di questo universo, sbagliato all'origine, venuto male, senza seguire il libro di Ada Boni delle ricette, che dice di mescolare il budino sul fuoco, e non lasciarlo lì abbandonato; perché anche non avesse fatto i grumi (cioè le galassie), si sarebbe bruciato e risulterebbe comunque immangiabile. Quindi dall'errore impariamo a cavarci il bene possibile, come dicevano gli stoici, la più giusta ed erronea delle filosofie.