mercoledì 19 febbraio 2014

Repubblica 19.2.14
Gli autodafè dei democratici
di Barbara Spinelli


PER il modo in cui è stata congegnata, per le doppiezze che l’hanno contraddistinta, per i regolamenti di conti con cui s’è conclusa, l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo ha il sapore di certi cambi di guardia al Cremlino. Un esorbitante partito- Stato si fa macchina di potere, usa i propri uomini come pedine, li uccide politicamente se ingombrano, tradisce la parola data senza spiegazioni.
Il tutto avviene «a porte chiuse», come nel dramma claustrofobico di Sartre: lontano dal Parlamento, dalla prova elettorale che era stata assicurata, da una società che il partito-Stato non sa più ascoltare senza vedere, dietro ogni cittadino, l’inferno molesto di qualche populismo. La liquidazione di Enrico Letta è avvenuta in streaming, ma sostanzialmente fuori scena: secondo Carmelo Bene, questa è l’essenza dell’osceno. Non sarà forse così, Renzi riuscirà forse a realizzare quel che promette: un piano lavoro entro marzo, soprattutto. Ma l’inizio incoraggia poco. Per la terza volta, in un Parlamento di nominati, il Pd designa per Palazzo Chigi un nominato.
È già accaduto in passato: basti ricordare il sotterraneo lavorio contro il governo Prodi, nel ’98. E più di recente, in aprile, il tradimento di 101 parlamentari Pd che avevano giurato di votare Prodi capo dello Stato e in un baleno l’affossarono. Colpisce la coazione a ripetere il gesto violento, e a scordare subito i traumi lasciati dalle coltellate. Una famosa giornalista francese, Françoise Giroud, scrisse una volta: «Ogni capo politico deve avere l’istinto dell’assassino». Il coltello non è più un incidente. S’è fatto istinto, tendenza innata.
La cosa straordinaria, e solo in apparenza paradossale, è che la macchina del Pd cresce in potenza, man mano che organizza autodafé e perde i contatti con la società. Già da tempo ha smesso di identificarsi con la sinistra: parola da cui fugge, quasi fosse un fuoco che scotta e incenerisce. Già da tempo non si preoccupa di parlare in nome degli oppressi, degli emarginati, ed è mossa da un solo obiettivo: il potere nello Stato, attraverso lo Stato. Letta ha preparato il terreno, ma non guidava il Pd. Ora è un capo-partito a ultimare la metamorfosi: l’abbandono della rappresentatività, la governabilità che diventa movente unico, l’oblio della sinistra e della sua storia.
Ovvio che l’istinto a tradire si tramuti in normalità. Può darsi che Renzi cambi l’Italia in meglio, che renda lo Stato addirittura più giusto. Che non si spenga in lui la memoria del consenso popolare ottenuto alle primarie. Ma il come ancora non lo sappiamo, la coalizione è quella di ieri, e la macchia della defenestrazione di Letta gli resta appiccicata al vestito. Difficile dimenticarla. Difficile dimenticare le parole carpite lunedì a Fabrizio Barca. Il quale grosso modo ha detto questo: «C’è chi mi vuole ministro dell’Economia. Ma per fare che? Per imporre una patrimoniale di 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta e però non è nei piani? ».
Questo svanire della sinistra è un fenomeno europeo diffuso, ma in Italia è particolarmente accentuato. Nell’Unione sono ormai undici i Paesi governati da Grandi Coalizioni, in teoria non siamo molto diversi. Quel che è anomalo, nei connubi ideologici italiani, è il discredito profondissimo gettato sulla stessa parola sinistra, l’annebbiarsi della sua storia, del suo patrimonio, della sua vocazione alla rappresentanza. Altrove la sinistra classica, quella che dà voce ai deboli, possiede ancora uno spazio. Perfino laddove ha le tenebre alle spalle, come in Germania (la Linke è erede di un regime totalitario, nell’Est tedesco) non cancella d’un colpo quel che la lega alla società. Nel Congresso sull’Europa dello scorso fine settimana la Linke ha provato a cambiare la propria storia evolvendo, ha aperto all’Unione che esecrava. Ma il nome che porta non lo cambia.
Non così in Italia, dove la sinistra precipita dalle scale e si ritrova vocabolo non grato. È la vittoria postuma di Bettino Craxi ed è il lascito di Berlusconi, con cui il Pd diRenzi intende riformare la Costituzione. Della grande idea avanzata da Prodi negli anni Novanta - unire il solidarismo universalista cristiano e quello comunista - non resta che brace spenta.
La scomparsa della sinistra non significa tuttavia che siano scomparsi i mali che la giustificarono in passato: la questione sociale è di ritorno, la disuguaglianza di redditi e opportunità s’è estesa in questi anni di crisi, nessun Roosevelt è in vista che la freni. E la riduzione della disuguaglianza, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, rimane il più antico e vivo retaggio della sinistra. È sperabile che il piano-lavoro di Renzi non sacrifichi per l’ennesima volta una lotta che deve essere di rottura, e non per motivi ideologici ma perché l’Italia è rottada sofferenze e avvilimenti. Che non lasci il proprio elettorato inerme, senza rappresentanza, e non ascolti solo quegli economisti politici che Marx chiamava «bravi sicofanti del capitale», dediti «nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale a cercare mezzi artificiosi per produrre la povertà delle masse». Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia. Se le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente, se si parla oggi di un 1% della popolazione che continua imperturbato ad arricchirsi e di un 99% di impoveriti (classi medie comprese), lo si deve alle destre più legate ai mercati ma anche alla Terza Via di Blair. Le ricette di Margaret Thatcher non morirono con il Nuovo Labour, e sopravvissero nella battaglia accanita contro un’Europa più unita e solidale. L’idea thatcheriana che «la società non esiste se non come concetto», che esistono «solo individui e famiglie con doveri e convinzioni», è interiorizzata dal Pd nel preciso momento in cui la realtà l’ha smentita e sconfitta.
L’homo novus di Firenze suscita grandi aspettative, ed è vero quel che dice: leadership non è una parolaccia. Ma fin dalla prime sue mosse, negoziando con il pregiudicato Berlusconi la legge elettorale, il leader ha fatto capire che la rappresentatività è un bene minore. Il suo Pd stenta a mediare fra società e Stato. È degenerato in «cartello elettorale stato-centrico», sostiene Piero Ignazi: è parte dello Stato anziché controparte; ha un potere che tanto più si dilata al centro, quanto più si sfilaccia il legame con gli iscritti, le periferie, la democrazia locale (Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza 2012). Per questo l’odierno sviluppo partitocratico è solo in apparenza paradossale. Mandare in fumo l’eredità della sinistra - la lotta alla disuguaglianza, la difesa del bene pubblico - induce il Pd a trascurare l’arma principale evocata da Barca: la tassazione progressiva dei patrimoni più elevati (articolo 53 della Costituzione). L’economista Joseph Stiglitz fa calcoli più che plausibili, anche per l’Italia: «Se chi appartiene al primo 1 per cento incassa più del 20 per cento del reddito della nazione, un incremento del 10 per cento dell’imposta sul reddito (senza possibilità di sfuggirvi) potrebbe generare entrate pari a circa il 2 per cento del Pil del Paese».
Renzi punta sulla propria lontananza dai giochi partitici, sul successo che gli ha garantito la base. Ma quel che avviene nelle ultime ore rischia di vanificare la sua diversità: il Parlamento costretto a tacere sulle modalità bolsceviche della liquidazione di Letta, il cambio deciso «fuori scena», sono segnali nefasti. Torna alla ribalta la politica, ma impoverita democraticamente. Tornano i partiti; mentre i cittadini coi loro rappresentanti stanno a guardare. Come meravigliarsi che la società si radicalizzi, quando è la realtà a farsi sempre più radicale?

Il Sole 19.2.14
Vaticano: auguriamo a Renzi di realizzare il programma
di Carlo Marroni


CITTÀ DEL VATICANO Da Oltretevere arrivano segnali di incoraggiamento per Matteo Renzi, impegnato nelle consultazioni per la formazione del governo. «Auspico che il futuro governo possa realizzare il programma, che mi pare molto impegnativo» ha detto l'arcivescovo Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano al termine dell'incontro annuale per l'anniversario dei Patti Lateranensi, dove ha incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il premier dimissionario Enrico Letta, i presidenti del Senato Pietro Grasso e della Camera, Laura Boldrini, e alcuni ministri, tra cui Angelino Alfano, Emma Bonino e Mario Mauro. A Palazzo Borromeo, sede dell'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, si è svolto il summit annuale Italia-Vaticano, ed è stato l'esordio di Parolin, che sabato prossimo sarà creato cardinale da papa Francesco, di cui è primo collaboratore. «Un cristiano deve essere sempre ottimista – ha detto – ovviamente ci sono difficoltà ma anche una solidità che dà speranza».
Negli incontri si è esaminata la situazione italiana: «Abbiamo parlato del Paese e dei suoi problemi – ha spiegato Parolin – ma anche delle molte potenzialità di questo Paese. Il tessuto Italia tiene. Inoltre abbiamo dato importanza alla famiglia, e certo anche al lavoro».
Parlando con alcuni cronisti il capo del governo pontificio ha tenuto a sottolineare che non si è discusso delle tematiche fiscali sempre sul tappeto tra Stato e Chiesa: «Sono questioni che affronteremo con il futuro governo» ha precisato. Conosce Renzi? «No, non lo conosco personalmente, ma in passato sono stato assistente spirituale degli scout, magari ci siamo incontrati...» ha scherzato. In effetti un primo incontro potrebbe esserci già sabato prossimo in occasione del concistoro a San Pietro: se per allora il nuovo governo avrà già prestato giuramento allora Renzi potrebbe assistere in prima fila alla cerimonia. Un incontro – quello nella residenza dell'ambasciatore presso la Santa Sede, Francesco Maria Greco – che è servito anche per ribadire l'impegno della Chiesa italiana (rappresentata dal presidente e dal neo segretario generale della Cei, Angelo Bagnasco e Nunzio Galantino, quest'ultimo al suo esordio nel summit bilaterale) sul territorio, in campo sociale: su questo punto si è soffermato l'interesse di Napolitano, che ha tenuto a sottolineare come anche il futuro esecutivo rimarchi l'importanza di questa presenza.
Da parte ecclesiastica, erano presenti il Sostituto Angelo Becciu, e il "ministro degli esteri", Dominque Mamberti, accompagnati dai due "vice", l'assessore Peter Brian Wells – che si occupa in particolare in questo momento delle questioni finanziare interne – e di Antoine Camilleri, sottosegretario agli esteri. Tra i porporati il vicario Agostino Vallini, il suo predecessore Camillo Ruini, Giuseppe Versaldi, Renato Martino, James Harvey, Domenico Calcagno, Antonio Maria Vegliò, Salvatore de Giorgi, e Renato Baldisseri, che sabato sarà creato cardinale.
Un incontro svoltosi mentre dentro le mura vaticane sono in pieno svolgimento gli incontri del G-8 cardinalizio per la riforma della Curia: «I lavori proseguono bene, mi pare che ci sia un clima molto buono, in questi giorni abbiamo sentito le due commissioni referenti, ora i cardinali devono dare un parere e poi sarà il Papa a decidere» ha detto Parolin, che alla domanda se lo Ior sarà chiuso ha risposto con un "no comment" mentre anche sui tempi delle decisioni ha spiegato di non poterli prevedere: «Spero siano brevi». Ieri è stato il turno dell'esame dello Ior – sui cui ha relazionato la commissione presieduta dal cardinale Farina – mentre oggi i cardinali affronteranno il tema del funzionamento dei dicasteri economici, a partire dall'Apsa, il "ministero del tesoro" che al pari dello Ior è sotto due diligence.

Corriere 19.2.14
Il Vaticano apre a Renzi: speriamo, con l’aiuto di Dio
di M.Antonietta Calabrò


Le parole del segretario di Stato Napolitano oltre un’ora all’incontro Poi dice: ho troppe cose per la testa ROMA — «Il nostro auspicio è che possa realizzare il programma, mi sembra sia un programma molto impegnativo ma spero che con l’aiuto di Dio ci riesca». Il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin lascia l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede al termine della tradizionale cerimonia celebrativa dei Patti Lateranensi, visibilmente disteso e fiducioso «nonostante i problemi, che ci sono». Per Parolin è il primo bilaterale Italia-Vaticano, dopo la nomina a capo della diplomazia di papa Francesco. A Palazzo Borromeo — dove ha incontrato le più alte autorità italiane a cominciare dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dai presidenti di Senato e Camera, Piero Grasso e Laura Boldrini, e il presidente del Consiglio dimissionario, Enrico Letta — il segretario di Stato ha lo sguardo rivolto al futuro e dà un incoraggiamento per l’esecutivo nascente del premier incaricato Matteo Renzi. Tutto avviene però in modo diverso rispetto alle liturgie del passato. Non c’è proprio nessuna aura di incenso e di benedizione, si respira semmai un’atmosfera da apertura di credito.
«Siamo contenti — ha spiegato Parolin — abbiamo parlato soprattutto del Paese, dei suoi problemi e delle sue molte potenzialità. Il tessuto Italia tiene, ci sono famiglie e giovani che danno un contributo fondamentale allo sviluppo e al futuro del Paese». Quindi lei è ottimista? «Il cristiano deve essere sempre ottimista. Naturalmente ci sono delle difficoltà, ma c’è anche solidità che dà speranza». Quanto agli impegni del futuro governo, ha sottolineato, «abbiamo parlato dell’importanza di dare un sostegno alla famiglia e al lavoro».
Il ricevimento quest’anno — era il primo vertice a Palazzo Borromeo del pontificato di Bergoglio — è stato un po’ sottotono rispetto agli anni precedenti, con l’Italia che si è presentata con un governo a fine corsa. Per questo, nel bilaterale tra le due delegazioni, non si sono affrontate pratiche da risolvere, né questioni particolarmente specifiche del rapporto Stato-Chiesa. A Enrico Letta, accompagnato dai ministri Alfano, Bonino e Patroni Griffi, la delegazione ecclesiastica (con Parolin sedevano, per il Vaticano, il sostituto Angelo Becciu e il «ministro» degli esteri Dominique Mamberti e, per la Conferenza episcopale italiana, il presidente Angelo Bagnasco e il neosegretario Nunzio Galantino) non ha mancato di esprimere apprezzamento per il lavoro svolto, mettendo poi l’accento sui temi più urgenti per la Chiesa: appunto, «famiglia e lavoro».
Il presidente Napolitano si trattiene a lungo in ambasciata, resta oltre un’ora. E nei colloqui avrebbe sottolineato quella che considera una necessità: che anche nei discorsi programmatici del futuro premier e dei rappresentanti del nuovo governo venga sottolineata l’importanza del rapporto e della collaborazione tra Stato e Chiesa. All’uscita a chi gli chiede commenti sulla situazione si limita a rispondere: «Ho troppe cose per la testa». Anche Letta resta a lungo. Ma i giochi in questo momento si stanno facendo altrove: lo stesso Renzi, pur invitato al ricevimento come segretario del Pd, non si presenta. Naturalmente è impegnato dalle consultazioni per il nuovo esecutivo. Ma non presenziare è stato comunque un atto di cortesia istituzionale nei confronti del premier uscente, Letta.
Da Oltretevere, comunque, dove pure l’Osservatore Romano aveva manifestato perplessità sulle modalità della «staffetta» di governo, si guarda ormai con toni di apertura ai risultati che potrà portare la futura esperienza di governo del premier incaricato. Ieri sera insomma è apparso chiaro che Renzi, pur come scommessa sul futuro, ha messo a segno un punto, nonostante l’assenza. E se è noto il desiderio di papa Francesco di tenere la Santa Sede lontano dalle beghe della politica italiana, si guarda comunque con curiosità e interesse al cambiamento imposto da Renzi.

Repubblica 19.2.14
All’anniversario dei Patti Lateranensi il debutto del segretario di Stato vaticano e l’ultima uscita pubblica di Letta
I vescovi aprono un credito a Renzi Parolin: piani ambiziosi, Dio lo aiuti
di Marco Ansaldo


VATICANO. Famiglia e lavoro. Questo, soprattutto, chiede la Chiesa italiana al nuovo governo. L’esecutivo di Matteo Renzi non è ancora formato, ma i vescovi avvertono già il presidente del Consiglio incaricato sui punti su cui chiedono di incidere fin da subito. «Per ogni rinnovamento abbiamo il diritto di avere delle attese - ha detto ieri il nuovo segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, presente all’incontro bilaterale Italia-Vaticano nella ricorrenza dei Patti lateranensi - . Per quanto ci riguarda le attese forti sono per la famiglia e per il lavoro. Il governo dovrà anche operare per un riequilibrio delle realtà che costituiscono la società, evitando ideologismi, a partire dalla famiglia».
I vescovi guardano dunque a Renzi con un atteggiamento misto, di interesse e di cautela. L’apertura di credito è stata comunque segnata durante l’incontro fra le due delegazioni a Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, dal presidente della Cei, Angelo Bagnasco. L’arcivescovo di Genova ha tenuto a dire al capo dello Stato italiano, Giorgio Napolitano, che la Chiesa è molto presente sul territorio. E ha pregato di trasmettere le osservazioni emerse nella riunione, a cui ha partecipato anche il presidente del Consiglio uscente, Enrico Letta, a chi guiderà il nuovo esecutivo.
I vertici della Cei si esprimono a favore. E anche un vescovo di calibro come monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia, guarda al nuovo esecutivo con ottimismo e fiducia. Esistono, però, anche modulazioni diverse. In pochi hanno infatti dimenticato la freddezza mostrata dall’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, verso il sindaco della città. E viceversa. Un confronto poi risolto in una rappacificazione. Eppure, parlare oggi di sintonia e di unità di intenti sarebbe del tutto sviante.
Un altro fiorentino, monsignor Gualtiero Bassetti, attuale arcivescovo di Perugia, apre con favore Renzi, oltre a riconoscerlo come proprio concittadino. Un giudizio di peso, poiché proviene dall’uomo che negli ambienti ecclesiastici è considerato come «l’astro nascente della Chiesa italiana», già dato da alcuni come futuro presidente della Cei e nel cuore di Papa Francesco.
La linea verso Renzi è in ogni caso quella marcata domenica su
Avvenire, il quotidiano dei vescovi, con le parole del direttore Marco Tarquinio. L’invito è quello di dare «segnali precisi, forti, efficaci di sostegno alla famiglia», con una «partenza davvero “bruciante”, che spazzi via le scorie accumulate e faccia capire che l’ordine delle priorità per l’Italia e gli italiani non si può capovolgere».
Al ricevimento ospitato dall’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Francesco Greco, di fronte a un governo italiano rappresentato dai ministri uscenti (oltre a Letta, Bonino e Alfano), il Vaticano era schierato al gran completo, con una delegazione guidata dal Segretario di Stato, prossimo cardinale al Concistoro di sabato, Pietro Parolin. «Il nostro auspicio - ha detto il nuovo braccio destro di Bergoglio - è che il futuro governo possa realizzare il programma, che mi pare un programma molto impegnativo. Spero che con l’aiuto di Dio lo possa fare. Abbiamo parlato soprattutto del Paese, dei suoi problemi, delle sue varie potenzialità. Il tessuto Italia tiene. Ci sono molte famiglie, persone, giovani, anziani che danno un contributo fondamentale alla sviluppo della vita del Paese». Alla domanda se conoscesse Renzi, Parolin ha risposto scherzando: «Forse, quando ero assistente scout». Per cardinali e vescovi il punto di riferimento appariva in ogni caso Napolitano. Se Renzi riuscirà a giurare venerdì, già sabato potrebbe rappresentare il governo italiano al Concistoro.

il Fatto 19.2.14
La lobby deelle aziende Usa che sostiene Matteo Renzi

L’American Chamber of Commerce (piena di berlusconiani) difende gli affari degli Stati Uniti in Italia e punta sul sindaco
di Camilla Conti


Milano. Yes, he can. Or not? La questione terrà banco questa sera nella Capitale alla light-dinner organizzata dall’American Chamber of Commerce a Villa Nomentana. Fra uno stuzzichino e l’altro si potrà discutere di privatizzazioni, cartolarizzazioni di crediti bancari, grandi alleanze sull'asse Italia-Usa. Ma soprattutto chiacchierare di Matteo Renzi. A scambiarsi opinioni e azzardare pronostici saranno alcuni amministratori delegati di aziende italiane e multinazionali americane insieme a banchieri e politici: dall’ex presidente Antitrust e viceministro dello Sviluppo economico Antonio Catricalà , all'ambasciatore Giovanni Castellaneta, oggi presidente Sace, da Leopoldo Attolico di Citigroup, all’ex presidente di Telecom Franco Bernabè.
A FARE GLI ONORI di casa sarà l’“ambasciatore” romano della AmCham, Davide Cefis, chiamato dal presidente Vittorio Terzi al posto dell'avvocato Marco Gubitosi (fratello del direttore generale Rai, Luigi) nel luglio dell’anno scorso. Pochi giorni dopo la nomina del nuovo ambasciatore degli Stati Uniti, John R. Phillips. Nato a Chicago e nipote di Eugenio Cefis, numero uno di Eni e Montedison degli anni Sessanta nell’era post Mattei, Davide è stato capo delle relazioni esterne di Microsoft e Bnl prima di approdare dai cacciatori di teste di Eric Salmon, di cui è partner. Pur avendo un’agenda fitta di contatti, è uomo riservato che non ama comparire sui giornali. Il suo nome è spuntato in un’intervista rilasciata lo scorso settembre a L’Espresso da Francesca Immacolata Chaoqui, unica donna fra gli otto membri della Commissione istituita da Papa Francesco per riordinare gli uffici economici del Vaticano. “Nel marzo del 2013 mi affido a Davide Cefis, gran cacciatore di teste: mi organizza vari incontri anche con Ernst &Young”, raccontava la Chaoqui.
Il “gran cacciatore di teste” ora ha messo la sua rete a disposizione dell’American Chamber of Commerce in Italia, organizzazione privata senza scopo di lucro affiliata alla Chamber of Commerce di Washington D.C., la Confindustria statunitense, alla quale fanno parte oltre tre milioni di imprese. La sede centrale è a Milano, ma AmCham è presente nelle maggiori città italiane attraverso una rete di rappresentanti locali. Il club è esclusivo, basta scorrere i componenti del “board of directors” presieduto da Terzi, gran capo per l’Italia della McKinsey: i suoi quattro vice sono David Bevilacqua di Cisco Systems, Maria Pierdicchi di Standard & Poor’s, Eugenio Si-doli di Philip Morris Italia e Stefano Venturi, di Hewlett-Packard. Nell’elenco anche Cesare Romiti e Enrico Sassoon, che dell’American Chamber è stato amministratore delegato oltreché ex socio di Gianroberto Casaleggio prima che il “guru” grillino si concentrasse sulla politica.
Oggi al timone, come consigliere delegato, c’è invece il berlusconiano Simone Crolla, storico braccio destro di Marcello Dell’Utri. Coordinatore cittadino di Forza Italia ad Arona, in provincia di Novara, Crolla è stato anche deputato nell’ultimo anno del governo Monti, dopo essere stato ripescato nelle liste lombarde dei non eletti del Pdl in sostituzione di Valentina Aprea, nominata assessore all'istruzione della giunta Formigoni. Fra Crolla e Cefis non ci sarebbe molta sintonia, sostengono fonti romane aggiungendo che il primo non avrebbe nemmeno accolto con molto entusiasmo la staffetta di Palazzo Chigi. A differenza di gran parte dell’establishment americano riunito nella AmCham che invece è affascinato dal new deal renziano. Soprattutto da quando ha appoggiato la battaglia contro la Web Tax voluta invece da Letta.
Già qualche anno fa, l’ex-ambasciatore Usa in Italia, David Thorne, definì in un’intervista “molto interessante” il “caso” di Matteo Renzi “che ha usato Internet per essere eletto sindaco di Firenze e sa gestire bene la sua città”. Del giovane sindaco gli americani hanno poi apprezzato l’entusiasmo con cui ha salutato l'arrivo del nuovo ambasciatore americano John Philips (presidente onorario della American Chamber), l'avvocato di Washington che insieme alla moglie Linda ha comprato un intero borgo, quello di Finocchieto, nel comune di Buonconvento, alle porte di Siena. Il 15 novembre del 2013 Renzi lo aveva accolto a Palazzo Vecchio con una cravatta di Ferragamo e un foulard di Gucci per la consorte. Phillips aveva ricambiato con un libro dedicato a Villa Taverna, sede dell’ambasciata Usa a Roma. A farli conoscere è stato Marco Carrai, l'imprenditore edile del Chianti considerato il Gianni Letta renziano, che si professa apertamente amico dell’America e di Israele. In molti ricordano anche la trasferta renziana a Charlotte (North Carolina) dove a settembre del 2012 si tenne la convention democratica che vide Obama lanciarsi per la candidatura al secondo mandato della Casa Bianca. Unico sindaco europeo presente, Renzi aveva partecipato a un panel di giovani democratici americani e ai lavori del National Democratic Institute, think-tank dell’ex segretario di Stato Madeleine Albright.
ORA CHE RENZI NON È PIÙ SINDACO ma sta per diventare premier, gli americani sono curiosi di capire come si muoverà. Soprattutto sul fronte della politica economica ed estera. L’ambasciatore Phillips sta aggiornando l’agenda italiana di Barack Obama che il 27 marzo sarà a Roma e che avrebbe dovuto incontrare Letta. La Confindustria Usa tasterà il terreno con la cena di stasera. Dove si parlerà anche di Expo2015 visto che l’AmCham ha la supervisione della costruzione del padiglione Usa ed è anche responsabile della raccolta di fondi necessari a finanziarlo. Circa 5 milioni da recuperare entro lo scorso 16 gennaio che però non sarebbero stati ancora trovati. Tanto da imporre una proroga di qualche mese.

Corriere 19.2.14
Senato, vertice dei 6 civatiani: faremo pesare i nostri voti
La non fiducia valutata solo come carta estrema
di Dino Martirano


ROMA — Si sono visti a pranzo, al ristorante del Senato, per discutere le priorità del programma di governo e per «portare alla luce del sole il disagio che serpeggia tra gli scranni del Pd». I «civatiani», cioè i senatori che alle primarie hanno preso posizione contro Matteo Renzi votando Pippo Civati (anche lui si è unito alla tavola apparecchiata a Palazzo Madama), sono dunque usciti allo scoperto con un «pro memoria» per il presidente del Consiglio incaricato. Un documento che fa perno sui temi della legalità (conflitto di interessi, falso in bilancio, corruzione) e dei diritti (unioni civili, ius soli, ecc). I «civatiani» — dopo un tam tam durato giorni che ha avuto punte, poi rientrate, su presunte scissioni e ipotetici voti di non fiducia al governo Renzi — in qualche modo rientrano nel solco tracciato dall’altra minoranza interna guidata da Gianni Cuperlo, che ieri con uno strappo al protocollo è stato ricevuto dallo stesso presidente incaricato nella Sala del Cavaliere allestita per le consultazioni delle forze parlamentari.
La novità, tuttavia, non è tanto il documento annunciato di 4 pagine (Lavoro, Europa, Democrazia e Riforme) consegnato da Cuperlo a Renzi ma, piuttosto, il «pro memoria» dei «civatiani». A tavola al Senato, ieri c’erano, oltre a Civati, i senatori Felice Casson (ex pm di Venezia, un mastino in commissione Giustizia), Walter Tocci (mitico vicesindaco e assessore ai trasporti della giunta Rutelli in Campidoglio), Corradino Mineo (già direttore di RaiNews24), Sergio Lo Giudice professore di Filosofia al liceo Copernico di Bologna), Donatella Albano (ligure, funzionaria della Confederazione italiana agricoltori), Lucrezia Ricchiuti (socia di un’azienda famigliare a Desio, Monza).
A sentirli, i sei senatori che incalzano Renzi sulla strada della legalità, non minacciano scissioni e relegano nelle ipotesi dell’irrealtà il «niet» alla fiducia per Renzi. Piuttosto, i sei che hanno pranzato con Civati entrano nel merito di temi che hanno a cuore. Chiarisce infatti il senatore Lo Giudice: «Nessuno tra di noi ha come obiettivo quello di non votare la fiducia al governo. Piuttosto chiediamo a Renzi risposte nel merito sul tema dei diritti: per esempio, vorremmo sapere se ha già affrontato con Alfano il nodo delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, che pure figurava nel suo programma delle primarie». Felice Casson, invece, vira sui temi della legalità: «Cosa intende fare il governo su conflitto di interessi, lotta alla corruzione, autoriciclaggio, falso in bilancio, riforma della prescrizione, sicurezza sul lavoro? Che ne pensa Renzi?».
Tutti temi cari ai grillini che, infatti, ieri sono andati ad omaggiare i colleghi del Pd riuniti a pranzo al Senato. Osserva, dunque, Corradino Mineo indicando a Renzi un modulo di gioco: «Se mantiene lo schema di Letta non si va da nessuna parte. Invece, ponga più attenzione ai temi della legalità e dei diritti, altrimenti si preclude un intero mondo cui guardano anche Sel e M5S». L’ex direttore di RaiNews24 fa un esempio, aritmetico: «Il reato di voto di scambio politico mafioso è stato introdotto qui al Senato grazie a una maggioranza Pd, Sel, M5S con Alfano in minoranza insieme a Forza Italia e Lega». Per cui, insiste Casson, «Renzi ci ascolti e non si faccia influenzare troppo da Alfano. Noi comunque faremo pesare i nostri sei voti...». Ma c’è chi giura che, su diritti e legalità, sarebbero di più i senatori del Pd pronti ad esternare il proprio disagio.

l’Unità 19.2.14
Felice Casson
«Un governo non si fa in due giorni. Non so come voterò»
intervista di Andrea Carugati


Felice Casson, senatore Pd, ex magistrato, ha sostenuto Pippo Civati all’ultimo congresso Pd. Insieme ad altri cinque senatori ha espresso dubbi sul nascituro governo Renzi e non ha ancora deciso se votare la fiducia.
Senatore, sembra che il percorso di Renzi si stia allungando e complicando...
«Mi pare evidente che ci siano più difficoltà del previsto, contraddizioni e anche forti contrapposizioni. Non è la marcia trionfale che qualcuno aveva previsto. I peana sono rapidamente spariti. Del resto, i meccanismi parlamentari sono complessi, è illusorio pensare di fare un governo in due giorni».
La sua valutazione resta negativa?
«Con Civati e gli altri stiamo valutando. Prima di decidere come votare bisogna vedere il programma e la squadra di governo. E capire se le nostre proposte saranno accettate». Il vostro disagio ha ricevuto attenzione dai vertici del Pd? «Per ora non mi pare. E tuttavia i temi che proponiamo non sono fantasie, fanno parte del programma del Pd: conflitto d’interessi, lotta alla corruzione, prescrizione, ius soli, unioni civili, taglio degli F35. Tutte proposte di legge che il gruppo del Pd ha già presentato. Manca solo la volontà politica per farle andare in porto».
Si parla di un allargamento della maggioranza a destra, con alcuni senatori di Gal...
«È un problema. Un allargamento deve esserci, ma nella direzione opposta, verso Sel e il M5S. Come si fa a riformare il lavoro con le proposte di Sacconi?». Se la maggioranza resterà quella con Ncd lei voterà la fiducia?
«Aspettiamo di vedere i contenuti. Parlare di come voteremo in questo momento è prematuro». Civati sembra decisamente orientato verso il no. «Ogni parlamentare è libero. Io non ho nessun pregiudizio contro Renzi, in Veneto con i renziani lavoriamo benissimo... ».
C’è l’ipotesi di lasciare il Pd, di una scissione?
«A me pare che i presupposti per una scissione non ci siano. Voglio ragionare di politica, e rispettare il lavoro che Renzi sta facendo. Capisco che si sia creato un piccolo giallo sul nostro voto, che si voglia sapere come andrà a finire, ma ora è prematuro. Ribadisco che verso Renzi io non ho nessun pregiudizio di tipo personale». Vede uno spazio politico a sinistra del Pd? «In questi giorni sto partecipando a molte assemblee nei circoli, uno spazio di sinistra e laico c’è ed è molto ampio. Poi, certo, bisogna capire se c’è una personalità in grado di fare da calamita...».
Dunque ragionate su opzioni alternative al Pd?
«Sto dicendo che c’è una forte domanda di politiche laiche e di sinistra, che arriva da tanti militanti ed elettori del Pd e anche da persone che non sono del Pd. Il nostro compito è cercare di rappresentare questi contenuti dentro il partito, essere un polo di attrazione anche per chi ora è fuori».
Dunque lei intende restare nel partito in ogni caso?
«Non è necessario costruire qualcosa al di fuori. Il Pd ha il compito di recuperare tutte le persone che ha perso alla sua sinistra».
Dunque lei non condivi della linea dura di Civati?
«Stiamo a vedere. L’etichetta di moderato mi sta stretta. Su alcuni temi, come ad esempio gli F35, io ho mantenuto una posizione netta anche quando altri hanno ammorbidito la linea. In direzione ho votato no all’operazione che porta al governo Renzi. E resto contrario a quella ipotesi perché un governo di legislatura con Ncd non è quello che avevamo promesso durante la campagna elettorale. Un governo di legislatura con Alfano resta un errore, e va evitato».

l’Unità 19.2.14
Cuperlo vede Renzi: qual è il programma?
L’ex presidente: «Non proponiamo nomi voglio solo sapere qual è l’asse politico su cui
si reggerà il governo»
Domani si riunisce la direzione del partito
di Maria Zegarelli


«Quello che ti chiedo, l’unica cosa che ti chiedo è di conoscere l’asse politico-programmatico su cui si reggerà il governo ». Mezz’ora a colloquio, tra le cinque e mezzo e le sei, Matteo Renzi e Gianni Cuperlo si studiano con discrezione sul passaggio immediatamente successivo. La minoranza Pd è spaccata al suo interno e il presidente incaricato lo sa bene. Renzi prova a sondare la disponibilità dei cuperliani-bersaniani a entrare in esecutivo, un ministro, dei sottosegretari. Cuperlo chiarisce: «Non chiediamo niente e non proponiamo nomi». Ma se il premier intende proporre un incarico a qualcuno della minoranza non c’è il niet, sarà semplicemente «una decisione personale». E Renzi assicura che di programma si parlerà domani in direzione, a lungo, diretta streaming, poco prima di sciogliere la riserva. In quella sede, fa sapere Cuperlo, la minoranza presenterà il suo contributo al premier su materie economiche, lavoro e welfare. Il documento è pronto, un parto difficilissimo, un testo visto e corretto decine di volte, a cui hanno lavorato Cesare Damiano, Stefano Fassina, Guglielmo Epifani, lo stesso Cuperlo dopo aver ricevuto materiale anche dai Giovani turchi. Ma parlare di versione definita è esagerato, da qui a stasera, quando probabilmente verrà inviato per cortesia al segretario premier, è possibile che venga di nuovo ritoccato. Una minoranza dilaniata, che passa di riunione in riunione con Cuperlo che cerca di tenere insieme i pezzi. Ma quando Orfini, finalmente, legge il contributo da presentare a Renzi lo boccia. «È debole, lungo, quindi poco impegnativo». Chiede, nel corso dell’ennesimo incontro, che si scelgano 4-5 punti che interpretino la discontinuità rispetto al passato e basta.
I Giovani turchi d’altro canto hanno una posizione di maggiore disponibilità verso Renzi, «vediamo cosa propone», è la linea. Tanto che hanno fatto sapere che il loro nome per il governo è quello Andrea Orlando, ministro dell’Ambiente uscente, il cui lavoro è apprezzato da Renzi e che rientra tra coloro che saranno confermati. Se poi arriveranno altre richieste di disponibilità da parte del segretario per altre caselle da riempire valuteranno e faranno le loro proposte sui nomi. Gelido il commento di un renziano: «Cosa vogliono di più di un ministro? E allora ai bersaniani che 90 deputati che gli dobbiamo offrire?». Loro, i bersaniani avrebbero gradito il Ministero del Lavoro, per esempio. Ma Renzi ha fatto sondare la disponibilità di un altro giovane volto democrat: quella Roberto Speranza, capogruppo alla Camera, il quale, però, non intende lasciare il suo incarico e quindi ha declinato. Sarebbe stato un colpaccio per il premier, un modo per tirare nel governo la minoranza proprio attraverso uno dei giovani dirigenti a cui la stessa minoranza guarda come futuro riferimento, oltre al fatto che si sarebbe liberata la casella di capogruppo.
Ma la verità nuda e cruda è che Cuperlo fa una fatica bestiale a tenere insieme il suo 18%, ancora più lacerato dopo quel voto in direzione a molti pesato parecchio. Basta trascorrere qualche ora in Transatlantico per capire quale è l’aria che tira. In mattinata quando ancora non si è deciso che fare del documento, la discussione è accesa. «Noi il documento che Cuperlo intende presentare a Renzi non lo abbiamo visto», ripete da due giorni Matteo Orfini. «Io l’ho visto, ma non abbiamo ancora deciso se presentarlo oppure no», aggiunge il collega Francesco Verducci. «Non chiedete a me, non ne so nulla, non ho partecipato ad alcuna riunione», glissa veloce il bersaniano Davide Zoggia. Andrea Manciulli dice che non c’era e quindi non sa di cosa si parla. Silvia Velo, annota con amarezza che anche nella riunione ristretta di fine serata c’è una ricca presenza maschile, come al solito. Dalla maggioranza le critiche al documento arrivano da Marina Sereni:
«Trovo almeno intempestivo che le minoranze interne al partito, per le quali nutro rispetto, si preoccupino di fare documenti e di porre condizioni al premier incaricato. Come se non bastassero quelle che provano a porre gli alleati, a testimonianza di un quadro politico che assegna al Pd una enorme responsabilità».
Dal fronte civatiano rilanciano, pur ammorbidendo i toni rispetto alla fiducia: «Non abbiamo pregiudiziali rispetto alla valutazione del voto di fiducia - dice Sergio Lo Giudice - ma vorremmo una risposta dal premier incaricato sui contenuti del programma, dalla moralizzazione della vita pubblica al falso in bilancio alla corruzione. Gli chiediamo, inoltre, cosa intende fare sui diritti civile, lo ius soli, mentre sul welfare e lavoro per noi è importante che questo governo intervenga sul reddito minimo garantito, la riforma degli ammortizzatori sociali e un sistema fiscale più progressivo ». Tutto si deciderà durante la direzione di domani, dice Lo Giudice, quando Renzi dirà esattamente cosa intende fare. Ma difficile che dicano no al governo. Vorrebbe dire andarsene dal partito. Verso dove?

Repubblica 19.2.14
Le condizioni di Alfano a Renzi “La maggioranza non può cambiare e se c’è la patrimoniale noi usciamo”
Cuperlo: garanzie sull’economia. Oggi vertice di coalizione
di Giovanna Casadio


UN’ORA. Dalle 19 alle 20 l’atteso faccia a faccia a Montecitorio tra Angelino Alfano, leader del Ncd, e il premier incaricato Matteo Renzi.
Sul foglio in mano ad Alfano viene evocata la “rivoluzione liberale promessa e mai realizzata”. Sopra, il titolo dedicato a Renzi ieri sulla prima pagina del Financial Times
ROMA.  La consultazione più spinosa Renzi la lascia alla fine. Nel primo giorno da premier incaricato, alle prese con il difficilissimo puzzle della costruzione di un governo di cambiamento con la stessa maggioranza ereditata da Letta, il segretario democratico deve vedersela con i “paletti” piantati da Angelino Alfano. Il leader del Nuovo centrodestra chiarisce subito che niente è scontato. E se il governo nascerà è perché saranno rispettate alcune condizioni di programma. Per cominciare, «mai la patrimoniale: se si ha in mente di farla, Ncd non entra in questo governo». E mai un esecutivo spostato a sinistra o di centrosinistra, dice Alfano, soddisfatto perché «è emerso abbastanza chiaramente che Vendola non c’è. Primo scoglio superato». E ottiene che questo pomeriggio si tenga un tavolo della maggioranza sull’agenda del nuovo governo.
Renzi acconsente e tratta, sicuro che tra 48 ore ci sarà il patto di programma e la squadra. È una giornata senza fine per il premier incaricato. Nella sala del Cavaliere a Montecitorio, accompagnato da Graziano Delrio e Lorenzo Guerini, il segretario dem inizia con le consultazioni dei “piccoli” (il Centro democratico di Tabacci e Pisicchio, il Psi di Nencini, i Popolari per l’Italia, Gal e Scelta civica, Fratelli d’Italia) e prosegue con la Lega e Sel di Vendola. Avrà il governo di Renzi una maggioranza uguale a quella del passato governo, con l’eccezione di una apertura di Gal. Con la Lega distanza assoluta. Matteo Salvini, il segretario del Carroccio, dichiara: «Non siamo d'accordo praticamente su niente. Un confronto interessante e utile da cui esco preoccupato». Sull’euro e Bruxelles è scontro, e i leghisti alzano i toni anche sul federalismo: «Se Renzi riaccentra, la guerra sarà totale». Il “no” a Renzi viene anche da Vendola: «Faremo un’opposizione non faziosa, ma per Sel le larghe intese complete o miniaturizzate non sono una risposta ai problemi del paese». Il M5Stelle è fino all’ultimo indeciso se andare o meno alle consultazioni: decide il web per il sì, Grillo oggi incontrerà Renzi.
C’è il tempo tra un incontro e all’altro anche per un faccia a faccia con Gianni Cuperlo, il leader della minoranza dem che annuncia a sua volta un documento di programma e chiede garanzie sull’economia. Oggi è la giornata cruciale: alle 10 è fissata la consultazione con Berlusconi alla guida della delegazione di Forza Italia, che parla di opposizione responsabile. Quindi il Pd, con cui fare il consuntivo. Il ministro Delrio è ottimista: «Stiamo lavorando bene sul programma, e per la parte che mi riguarda sarà terminato entro il fine settimana. Non sarà una crisi lunga, alla tedesca, ed è importante che tutti i componenti la coalizione prendano gli impegni di fronte agli italiani». Ottimismo anche di Tabacci, leader del Centro democratico, per il quale «il governo Renzi è assolutamente utile per la dimensione di speranza che ha creato nel Paese e per la prospettiva di legislatura che si dà». Bene l’avvio della nuova fase, per Nencini. Qualche problema in più con Casini: i Popolari per l’Italia scioglieranno la riserva solo dopo un altro confronto con Renzi. Mentre il segretario di Scelta civica, Stefania Giannini garantisce: «Ci mettiamo la faccia e la responsabilità». A sera Renzi lascia Montecitorio e, a piedi, va al Nazareno, la sede del Pd. Ancora riunioni e incontri.

Repubblica 19.2.14
Il retroscena
Lo scoglio della giustizia nella trattativa “Bisogna rivedere le intercettazioni”
No dell’Ncd al Job act. Matteo: niente veti. Incontro con D’Alema
di Goffredo De Marchis


ROMA. Il segnale del cambiamento arriverà. «Non sarà un governo fotocopia», garantisce Matteo Renzi. Non sarà un Letta bis senza Letta. Anche se la maggioranza rimarrà la stessa: Pd, Ncd e Scelta civica. Sono le garanzie che il premier incaricato aveva dato fin dall’inizio ad Angelino Alfano e ha confermato ieri durante le consultazioni, concluse proprio con il partito del vicepremier. «La coalizione non cambierà». L’arma di nuovi ingressi, soprattutto da destra, rimane chiusa nel cassetto e non verrà usata. Ma le maggioranza variabili e allargate saranno invece la base della legge elettorale. Che Renzi non vuole rimandare, nonostante le richieste giunte da più parti. «Si va avanti sull’Italicum e nei tempi previsti. Non è la legge elettorale la prima cosa che chiedono gli italiani ma un ritardo non verrebbe capito».
Dunque Renzi accoglie le delegazioni a Montecitorio con una specie di mantra. «Bisogna correre, correre, correre». Nessun problema con Scelta civica. Il capogruppo Andrea Romano sintetizza così il feeling tra i montiani e il segretario del Pd:«Renzi ha deciso di rischiare tutto e noi con lui. È la nostra ultima occasione». Alfano invece frena e pone delle condizioni. «Ci sono degli scogli», racconta alla fine della riunione. Il primo è «il mercato del lavoro. Il Jobs act non ci piace, non è quello che serve». Il secondo ruota intorno alla grande questione degli ultimi anni: la riforma della giustizia. Il premier incaricato ha fatto sapere agli alleati che il progetto fa parte del pacchetto dei primi quattro mesi. «La faremo tra maggio e giugno, è già nel programma», annuncia Renzi aggiungendo un capitolo al cronoprogramma esposto al Quirinale. Ma non basta. Il punto è cosa metterci dentro. Alfano detta le sue condizioni: «Va fatta la riforma della custodia cautelare, bisogna mettere mano alle intercettazioni e varare la responsabilità civile dei giudici ». Tre passaggi considerati indispensabili all’Ncd e ora scritti nell’agendina di Renzi, che nella sala del Cavaliere a Montecitorio usa per prendere appunti.
Con questa mossa il leader del Nuovo centrodestra fa capire che la partita dei ministri si gioca anche sui programmi da realizzare. E che il ministro della Giustizia deve avere il profilo giusto per incardinare queste proposte. «Gli ultimatum non servono a nessuno - spiega Renzi ai suoi fedelissimi - . Non li accetteremo, ma io non voglio alimentare temi che dividono ». Il vertice di programma fissato per domani può essere subito il segnale di una maggioranza che marcia unita e che è pronta a rispettare quello che il premier incaricato chiama “Orizzonte 2018”.
I colloqui di oggi con Berlusconi e con il Pd chiudono il giro di consultazioni e aprono la strada verso il giuramento. Il giorno fissato è domenica per avere il voto di fiducia del Senato lunedì. Al Cavaliere Renzi spiegherà i tempi dell’Italicum. «Voglio un voto della Camera entro i primi di marzo. Poi al Senato possiamo fare la prima lettura della legge costituzionale per l’abolizione del Senato e solo dopo votare l’Italicum. In questo modo riforma elettorale e riforma del Senato vanno insieme ». Un modo per dire che il segretario non immagina nessun blitz per andare alle elezioni. La carta che ha scelto è quella del Renzi 1 e intende giocarla senza scartare. La consultazione con il Partito democratico invece è avvenuta già ieri quando Renzi ha incontrato in segreto Massimo D’Alema. Un faccia a faccia tra il rottamatore e il rottamato tornato un punto di riferimento dopo le spaccature interne alla minoranza di Cuperlo. Un incontro che serve per ricompattare le anime democratiche. Renzi non ne ha bisogno visto il consenso di cui gode dentro il Pd certificato dal voto di “sfiducia” a Letta. Ma non vuole trascurare alcuna sponda. E se la minoranza ha dato il via libera alla staffetta Renzi sa che si prepara a dare battaglia sulla legge elettorale sull’Itali-cum. E può unire le sue forze ad Alfano, a Pier Ferdinando Casini e in teoria a Sinistra e libertà. Sel ha ritrovato la compattezza sulla linea della non disponibilità a entrare nella maggioranza confermata da Nichi Vendola. Ma sulla legge elettorale le posizioni continuano a non coincidere. «Sono dell’idea che si possono fare modifiche ma l’impianto non si cambia - dice il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore -. La riforma deve essere approvata senza rinvii».

Repubblica 19.2.14
Forza Italia

L’altolà di Berlusconi sulle riforme “Subito l’Italicum, il Senato viene dopo”
di Carmelo Lopapa


ROMA. Pacta sunt servanda, è lo slogan con il quale questa mattina Silvio Berlusconi si ripresenterà al cospetto di Matteo Renzi. Rimette piede in Parlamento per la prima volta dopo il 27 novembre. Aveva promesso a sé stesso di non farlo mai più, dopo la decadenza votata dal Senato. Lo farà, invece, e con grande soddisfazione: torna a Montecitorio (per di più nella Sala del Cavaliere) dopo le consultazioni al Colle di sabato, per il secondo faccia a faccia in un mese (era il 18 gennaio) col leader Pd, nel frattempo incaricato premier.
Il Cavaliere è rientrato ieri pomeriggio a Palazzo Grazioli dopo il pranzo a Milanello con la squadra e dopo aver ricevuto la notizia del divorzio con Veronica. Raccontano che guardi già con minore simpatia alla scalata al governo di Renzi, complici le lunghe trattative per la sua formazione. «Non mi sta piacendo per nulla come si sta muovendo Matteo, assistiamo a nuova sospensione della democrazia, trame ordite nel chiuso dei palazzi romani» è la linea che ha dettato nel breafing serale ai capigruppo Romani e Brunetta (con i quali si presenterà alla Camera stamattina) e con Giovanni Toti, tra gli altri. A Renzi il leader di Forza Italia confermerà la piena disponibilità a sostenere le riforme. E non solo quelle istituzionali. Ma porrà alcune condizioni, suggerite dai consiglieri più fidati. Prima: la legge elettorale va affrontata subito dopo il voto di fiducia in Parlamento, con un esame a oltranza alla Camera finché il testo non sarà approvato. Evitare melina e ulteriori rinvii sull’Italicum, insomma. Seconda: in aula dovrà arrivare l’accordo già chiuso dai due leader un mese fa, senza concessioni alle richieste di Alfano per rivedere ad esempio le soglie di sbarramento. Ieri pomeriggio un’indiscrezione non confermata ha destato allarme al quartier generale berlusconiano, quella cioè che l’emendamento alla legge elettorale del democratico Lauricella - e finalizzato ad agganciare la riforma a quella che modifica il Senato - sarebbe stato fatto proprio dal futuro premier. Vorrebbe dire congelare tutto per almeno un paio d’anni. «Inaccettabile» per Forza Italia. Se Berlusconi riceverà stamattina garanzie su questi due punti, allora verrà confermata piena disponibilità sul resto. «Vedremo che riforme economiche porterai in aula, quella sul lavoro e sul fisco, e le valuteremo, da opposizione responsabile » sarà l’apertura di credito. Alla gittata al 2018 il Cavaliere non vuole nemmeno pensare, convinto com’è che «dureranno poco, già si capisce: entro un anno si vota». Ma nessuno scherzetto sulla fiducia, smentite le voci di una possibile astensione forzista. Storia a sé fanno invece gli undici senatori di centrodestra accomunati dalla sigla Gal (Grandi autonomie e libertà). Nella consultazione con Renzi, ieri mattina, il capogruppo Mario Ferrara, che portava in dono Il giorno della civetta e il pamphlet Allegro ma non troppo, ha spiegato che «al nostro interno c’è una certa dialettica, che sarà sviluppata con attenzione nei prossimi giorni, una volta letto il programma e sentito il governo in Parlamento». E sulle loro istanze, ha aggiunto il suo vice Vincenzo D’Anna, «sia Renzi sia Delrio hanno manifestato non solo interesse ma un'assonanza di visione». Assai variegata la compagine. Ferrara, con Giovanni Mauro e Lucio Barani, rispondono a Berlusconi e si muoveranno di conseguenza. Fanno capo a Nicola Cosentino e al suo Forza Campania (e indirettamente a Verdini) D’Anna, Antonio Milo e Pietro Langella. I due Scavone e Compagnone sono dell’Mpa di Lombardo e con l’ex leghista Davico hanno già votato la fiducia a Letta. Infine, Giulio Tremonti. Non è passata inosservata la colazione in piazza San Lorenzo in Lucina del duo Verdini-Cosentino (ripreso da ilfattoquotidiano.it), proprio un paio d’ore prima che il Gal andasse dal premier. «Con molta probabilità quella decina diventerà un’utile riserva di caccia di Renzi per eventuali tempi duri» ragiona un senatore forzista di lungo corso.
Nel partito intanto, dopo la batosta in Sardegna, è allarme rosso in vista delle amministrative del 25 maggio. Un sondaggio recapitato a Berlusconi dà per persi quasi tutti i 27 capoluoghi in cui si voterà. In sede, prima riunione della Commissione enti locali presieduta da Matteoli e composta da Abrignani e Napoli tra gli altri. Hanno deciso che tutti i sindaci uscenti forzisti saranno ricandidati (con l’eccezione forse di Pescara). Ma ora bisognerà correre ai ripari stringendo ovunque alleanze con leghisti e alfaniani.

il Fatto 19.2.14
Renzi in mezzo alla palude Per ora comanda Alfano
I dolori del giovane incaricato

Tra le pretese di Napolitano (5 ministri) e i diktat dell'alleato Angelino
Oggi alle consultazioni arriva il Caimano
di Wanda Marra


"Correre, correre, correre”: a tutti gli interlocutori, nelle consultazioni, Matteo Renzi ha ripetuto il suo mantra. Quasi un programma per il governo in formazione. Eppure le consultazioni nella sala del Cavaliere, la stessa dove Pier Luigi Bersani, da premier pre-incaricato, fece le sue, sono un rito stanco. Sfilano i gruppi. Ma gli incontri e le trattative vere si fanno fuori. Fuori il premier in pectore parla con Massimo D’Alema e Luca Cordero di Montezemolo. Fuori va avanti una trattativa, che riconosce a Ncd il ruolo di alleato centrale di governo. Fuori da oggi pomeriggio partiranno i colloqui definitivi per arrivare a chiudere in settimana.
NEGLI INCONTRI, quelli ufficiali, Renzi ribadisce che l’orizzonte è il 2018. E si immagina pure il profilo della sua premiership: simile a quello del sindaco d’Italia; una volta a settimana in giro per una regione, scegliendo una scuola, un’azienda, un museo da visitare. “Io sono sindaco sul serio, non come voi due”, andava ripetendo a Guerini e Delrio. Pensieri e progetti che evidentemente lo proiettano al di là di giornate complicate, paludose, con una trattativa nella quale rischia di cedere molta della sua identità, visto che il governo che si va profilando a molti sembra un Letta bis. O un governicchio con poche possibilità. Anche se i fedelissimi sono pronti a scommettere che ci sono carte coperte , sorprese in arrivo. Nella giornata di ieri, si va dal sì di Scelta civica al governo a quello “condizionato” dei Popolari europei, dal no della Lega, a quello “non fazioso” di Vendola. E alle condizioni di Alfano. Uno dopo l’altro leader maggiori e minori parlano alle telecamere. Ognuno pianta la sua bandierina, mette i suoi paletti. Le consultazioni ufficiose iniziano in mattinata, quando Renzi parla con Massimo D’Alema. C’è chi dice che si sono visti, chi che si sono solo sentiti. Fatto sta che si sono parlati a lungo. D’Alema vorrebbe la riconferma di Massimo Bray alla Cultura, un modo per continuare a pesare nel governo. E forse c’è il suo zampino anche nell’ipotesi Carlo Padoan, presidente dell’Inps, che continua a circolare per l’Economia. A un certo punto Renzi chiama Gianni Cuperlo, fuori dal calendario ufficiale. Lui gli porta un documento della minoranza: vuole che sia esaminato nella direzione di domani. Una grana per il presidente del Consiglio incaricato: la minoranza riunita in assemblea permanente è lacerata. Ma Renzi non può permettersi di non tenerne conto. E per lasciare Alfano al Viminale, Franceschini vuole la Cultura, quindi Bray va sacrificato. Questioni aperte.  Com  ’è aperta la questione dello Sviluppo economico: a Roma Renzi ha incontrato Montezemolo (altra consultazione parallela). Per ora, non ha detto ancora ufficialmente di no. Ed è aperto il nodo Tesoro: ieri si sono rincorse tutte le voci possibili e immaginabili. Con un Piero Fassino in ascesa. Insistente quella che voleva Graziano Del-rio: un politico, soprattutto uno dei pochi di cui Renzi si fida veramente . Un modo per accentrare a Palazzo Chigi molto potere. Per i vice ministeri si potrebbe far ricorso a due tecnici, uno sul versante interno, uno su quello estero. A Napolitano l’ipotesi non piace. Infatti avrebbe chiesto garanzie su cinque ministeri: Interno, Esteri, Giustizia, Economia e Difesa. A proposito di questioni aperte.
ALTRE sembrano ormai chiuse. Come la necessità di cedere a buona parte delle richieste dell’Ncd. Alle 20 e 15 Alfano mette sul tavolo le sue richieste: “Se c’è la patrimoniale, Ncd non ci sta”, tuona a uso delle telecamere. Spiegano i renziani che la patrimoniale non c’è mai stata, uno dei motivi – dicono – per cui Fabrizio Barca non sarebbe potuto diventare ministro dell’Economia. “Vogliamo la stessa maggioranza del governo Letta, senza la sinistra”. Anche questo, un dato già acquisito.
Resta il nodo di poltrone e ministeri. Ma tutto succede prima, durante e dopo l’incontro ufficiale: Alfano chiede 4 ministeri per ottenerne 3 (la riconferma di lui stesso all’Interno, Lupi a Trasporti e Infrastrutture e Lorenzin alla Salute) e un vice ministro di peso. Sul programma fa fede quello che dice Graziano Delrio, presente ad ogni incontro con il premier incaricato: “Stiamo lavorando bene, sul programma chiudiamo in settimana” . La tendenza è quella di mettere in secondo piano tutti i temi divisivi (dalle unioni civili per i gay allo ius soli) e iniziare con provvedimenti che possano andar bene a Ncd. Il vero braccio di ferro è sull’Italicum (che Berlusconi vuole approvato così com’è) e sulle riforme, sulle quali fa fede l’asse con Forza Italia. Gli alfaniani, infatti, chiedono che sparisca il ministero delle Riforme: se Renzi lo tiene per una fedelissima come la Boschi e poi parla con Berlusconi loro sono tagliati fuori. Oggi, tanto per mettere i puntini sulle i, ci sarà un vertice di maggioranza. Dopo che in mattinata Renzi si sarà consultato con Berlusconi e Grillo.

La Stampa 19.2.14
Il guru di Blair: “Attento Renzi il cambiamento è una lotta dura”
Mandelson: “Anche lui parte da zero, dovrà scontrarsi con chi vuole mantenere il potere”
di Claudio Gallo


Il «Times» di Londra, quello a cui un tempo si affiancava, con riflesso un po’ provinciale, l’aggettivo «prestigioso», ha scritto qualche giorno fa che Matteo Renzi è il Tony Blair italiano. Una specie di investitura, prima ancora che dall’ufficio dell’ex premier britannico uscisse la dichiarazione di caloroso sostegno. Blair tuttavia non è diventato Blair da un giorno all’altro: ha avuto bisogno di qualcuno che gli spiegasse come fare, non tanto a prendere il potere, ma soprattutto a conservarlo. In questo, più di ogni altro, lo aiutò Peter Mandelson, il «consigliere» (in italiano), tra i primi a essere definito dai giornalisti «spin doctor», uno cioè capace a dare al pallone della notizia un effetto che lo faccia andare dove vuole lui. Una vita ai vertici della politica britannica ed europea, dal 2008 è diventato Lord Mandelson, con un seggio a vita alla camera dei Pari. Attualmente è presidente dell’azienda di consulenza Global Counsel.
Lord Mandelson, Matteo Renzi è ormai diventato il Tony Blair italiano. Secondo lei, che conosce bene anche la politica italiana, è un paragone sensato? «Come per Blair nel 1997, nel caso di Renzi l’esperienza di governo è una completa novità: parte da zero, senza macchie di fallimenti passati. Come Blair, Renzi è interessato alla leadership, non si accontenta di navigare e non vuole niente di meno del consenso popolare. Ma come Blair presto si accorse, il vecchio ordine è capace di grande determinazione nel conservare le sue posizioni. Se si vuole un governo di cambiamento, ogni giorno è una lotta».
Nel suo libro di memorie «Il terzo uomo», lei ricorda che all’inizio Blair era abbastanza insicuro e dovette ricorrere spesso ai suoi consigli: qual è la cosa più importante che un leader emergente deve imparare? «Un leader deve sapere che senza progetto è come un marinaio senza bussola, è la cosa più importante. Senza una squadra forte e unita e una struttura di potere decisionale è facile essere ignorati. Questo perché se anche uno è consapevole di quello che fa, non significa che gli altri lo siano altrettanto. Una comunicazione costante è fondamentale».
Mentre molti politici cedono alla tentazione di circondarsi di yesmen, Blair scelse con grande cura i suoi collaboratori. Quanto contano dei buoni consiglieri per un leader? «È cruciale avere una squadra forte. La squadra migliore è quella composta da persone intelligenti, leali tra di loro e oneste con il capo. Il loro compito è di gettare uno sguardo dietro l’angolo per scorgere i pericoli nascosti e anticiparne l’impatto».
La gente preferiva il sorriso accattivante di Blair al broncio di Gordon Brown: quanto conta la faccia per un leader? «Una personalità dinamica che traspare in un volto, deve emanare fiducia ma non arroganza, ottimismo ma non compiacimento. Deve comunicare convinzione ma allo stesso tempo saper ammettere i propri errori. Questo richiede maturità, ma in tal caso non è l’età che conta quanto l’intelligenza emotiva».
Nell’arena politica delle nostre società, così determinate dall’economia locale e globale, pensa che un leader possa veramente cambiare qualcosa? «Oggi ogni leader occidentale ha il compito di guidare una società giusta e tollerante, insieme con un’economia aperta e liberale. Non ci sono alternative in un’era di globalizzazione. Una democrazia ben funzionante e il mercato sono i due pilastri indispensabili al successo di una nazione dinamica e moderna. L’Italia ha tutti gli ingredienti per farcela. Però senza riforme il paese non può trarre il meglio da questi ingredienti e rischia di cadere al di sotto del proprio potenziale».

La Stampa 19.2.14
Dalle mosse di D’Alema all’era Renzi
Quando la politica sguazza nella palude
Nella Seconda Repubblica l’immagine del “pantano” è stata evocata più volte:
ecco un campionario delle più famose dichiarazioni dei leader
di Marco Bresolin

qui

il Sole 19.2.14
AAA ministro cercasi


(f.for.) Il «totoministri» è un genere letterario che appassiona da sempre l'informazione italiana. Oggettivamente minore, ma con un suo piccolo pubblico di estimatori, che poi sono in gran parte i diretti interessati. E tuttavia il turbinoso alternarsi di nomi improbabili, che in questi giorni vengono associati alla guida del ministero dell'Economia, testimonia qualcosa di diverso. E di più grave. È la cartina di tornasole di una classe dirigente politica, e non solo, talmente impoverita da non riuscire più a esprimere personalità in grado di ricoprire ruoli così delicati. Alla guida del Mef servono competenze indiscutibili, autorevolezza, prestigio internazionale. Ma chi è oggi in Italia che risponde a questo ritratto? Ti guardi in giro, ti consulti, ma un nome davvero credibile non vien fuori. E non per veti o interessi di parte. Ma proprio perché non sembra più esistere in natura. In Italia, oggi. E questo è il dato più preoccupante.

il Fatto 19.2.14
Nuove tendenze
Ministro a me? Non si permetta
di Antonello Caporale


Ministro a chi? Nessuno più vuole servire la Patria. Il fenomeno sta assumendo i caratteri disperati della caccia al tesoro e prefigura per Renzi una doppia emergenza: salvare l’Italia anzitutto, e salvarla poi con un gruppo di persone dalla competenza affievolita, opaca, nascosta, indagabile. I nomi lucenti stanno purtroppo scomparendo alla vista, sono stelle cadenti, bagliori che si spengono nel buio di quest’ora. La lista dei competenti o supposti tali, imprenditori di rango, economisti di vaglia, intellettuali dalla parola scintillante e dalla mente indomita, dunque con idee in movimento, quelle che piacciono tanto al nostro futuro premier ipercinetico e iperstimolante, sembrano sconfortati dall’impresa, o distratti dagli affari, comunque riottosi di dare prova della propria maestria.
Non conosciamo il numero delle proposte avanzate, ma già facciamo il conto dei rifiuti annunciati. Fanno impressione le parole di Lucrezia Reichlin: “Non ho ricevuto alcuna offerta. Comunque conosco poco le idee di Renzi e quel poco che conosco non lo condivido”. Ha detto no anche Renzo Rosso: “Mi piace fare”. Proprio lui che è un amico, e proprio a Renzi, il fare in persona, concretista insaziabile? C’è di peggio di queste parole? E leggerle mentre è in corso il rito delle consultazioni, con le trattative che si devono dispiegare anche attraverso l’appoggio di Gal (è la sigla di un minuscolo sotto-agglomerato partitico di centro), la promessa all’onorevole Vincenzo D’Anna, intimo di Cosentino, oggi a piede libero, che qualcosa per lui uscirà fuori dal grande calderone governativo, e anche per Bruno Tabacci, democristiano disperso, e per il concittadino Nencini, socialista superstite. Purtroppo appare quel che ieri mai sarebbe stato pensabile: le seggiole di governo danno sete solo alla categoria b, alla poltiglia argentata del sottopotere. Appena si alza l’asticella, cala lo stress da nomina. E negli incroci ipotizzati persino quello di portare Fabrizio Barca e Luca di Montezemolo insieme al governo sembra naufragato. Una coppia così stravagante che avrebbe fatto pensare a un premier dotato non soltanto della capacità post-ideologica di conquistare gli opposti, ma anche dotato di influssi paranormali. Quale comunione d’intenti avrebbe potuto vedere Montezemolo, leader del partito dei carini, del lusso e del lifestyle (qui è Crozza), accanto al penitenziale Barca che proprio ieri ha rivelato la sua idea: imporre ai ricchi una patrimoniale da 400 miliardi.
Niente da fare, “sono degli avventuristi”, ha detto Barca. Baricco ha invece dichiarato di stare bene nella sua Holden, la scuola creativa, ed essere così innamorato del suo mestiere di scrittore da non vedere altra possibilità di fuga. E pure il facoltoso Adriano Guerra non rinuncia alla Luxottica, Romano Prodi ha fatto sapere di essere out, e anche Colao. Persino, e se lo citiamo solo è per dare il senso della disfatta, Farinetti, il vate renziano di Eataly riesce a smarcarsi. “Quando conoscerete la lista vedrete quali nomi Matteo proporrà!”. È possibile che gli effetti speciali siano tenuti nascosti per non affievolire lo stupore che verrà.
RESTA L’IMPRESSIONE che fare il ministro è divenuto un cattivo mestiere, una fatica di Sisifo, una sfida contro la legge di gravità. Elsa Fornero è ancora scioccata per quel che ha visto e ha patito, per la distanza il suo corpo tra il prima e il dopo. Riverita, affermata docente esperta di politiche del lavoro, ha conosciuto la tragedia della trasfigurazione in seviziatrice, in affamatrice del popolo. Non è andata meglio a Mario Monti e a chiunque abbia provato il rischio di sedere su un qualunque strapuntino ministeriale. Per conservare l’onore mai fare il ministro. Tesi così inscalfibile che il punto certo del disonore, l’esatto luogo in cui il nostro agire si intorbidisce fino a perdersi nelle viscere dell’inferno delle clientele, è la stanza da sottosegretario. È un incarico che solo una ristretta cerchia di umani può ricoprire con gioia, restando sicuro che il resto del mondo rabbrividisce al pensiero di essere scambiato per una di quelle figure.
Non era così un tempo. Renzi però annuncia il nuovo mondo. E anche se sarà costretto a pigliarsi Angelino Alfano e tenerlo al vertice della linea di governo, inaugurerà l’esecutivo del monoconduttore. La sua è una fuga solitaria, l’abbiamo detto. E non ci importerà niente degli altri. Lui e lui solo. Forever.

Corriere 19.2.14
Dario Nardella: i poteri costituiti temono il leader pd Si sentono in pericolo perché rompe i rituali «I tempi sono maturi per non chiamarci più partito ma soltanto Democratici»
«Noi barbari contro i poteri E il Pd adesso cambi nome»
intervista di Aldo Cazzullo


«L’establishment italiano considera Renzi un barbaro che rompe i rituali e rappresenta un rischio per la conservazione dello status quo ». Dario Nardella, braccio destro del premier incaricato, dice al Corriere : «Matteo è un vero leader di popolo. Delrio all’Economia? Non ci troverei nulla di strano. I sindaci conoscono l’Italia reale, mentre la distanza tra le istituzioni centrali e la società continua a crescere». Tra queste istituzioni include la Banca d’Italia? «Per certi aspetti, sì — risponde Nardella —. La Rai? Merita una rivoluzione. E il Pd cambi nome: via “partito”, solo “Democratici”».

Dario Nardella, il governo Renzi non nasce da un voto ma da un’operazione di Palazzo. Questo lo indebolisce fin dall’inizio, non crede?
«Matteo ancora una volta ha scelto con altruismo la strada più rischiosa. Sono stato testimone della sua crescita in questi anni, e posso assicurarle che ha sempre fatto così. Oggi Renzi subisce un danno di immagine, ma evita il danno massimo per il Paese: l’ingovernabilità. In questi giorni è venuto un drammatico appello dal mondo delle imprese e dei lavoratori. Non ci chiedevano di andare a votare. Ci chiedono cambiamento e discontinuità».
Non siete stati ingenerosi con Enrico Letta?
«Letta ha rappresentato bene l’Italia all’estero. Ma non è riuscito a mettere in campo il coraggio indispensabile per rompere quel grumo fatto di burocrazia, corporazioni, poteri costituiti che da anni non permette all’Italia di tirar fuori le sue energie migliori».
Sta dicendo che l’establishment deve temere l’arrivo di Renzi?
«Esatto. E non mi stupisce che proprio l’establishment italiano in questi giorni si sia espresso più o meno implicitamente contro questo passaggio. Considerano Renzi come un barbaro».
Un barbaro?
«Il termine è forte, ma calzante: un barbaro che rompe i rituali e rappresenta un rischio per la conservazione dello statu quo. Come se l’Italia sonnolente, abituata a lucrare sulle posizioni di rendita economica, sociale e culturale, si trovasse improvvisamente e radicalmente messa in pericolo».
A chi si riferisce? Banche, sindacati, finanza, Rai?
«Mi riferisco a un insieme di mondi, anche all’apparenza in contrasto tra loro, che sono sopravvissuti in questo clima di lento declino, accontentandosi di mantenere posizioni dominanti, e oggi percepiscono lo stile, i contenuti, il messaggio di Renzi come qualcosa di estraneo. Matteo è un vero leader popolare. Un leader di popolo come da tanti anni non se ne vedono in Italia, e per questo capace di penetrare quella cortina di poteri costituiti, per comunicare direttamente con i cittadini. Renzi è visto come elemento destabilizzante; e dal loro punto di vista lo è. Proprio per questo rappresenta una grande opportunità per l’Italia per vivere un nuovo Rinascimento, se vogliamo usare un termine che appartiene alla storia di Firenze».
Non le pare un’espressione enfatica? Si può rifare l’Italia in tre mesi?
«Le parole di Renzi non vanno fraintese. Non sono soltanto un segnale di velocità e prontezza. Annunciando una riforma al mese, il nuovo premier ha dimostrato di avere una visione. Quando collochi al centro il progresso culturale del Paese, come ha fatto da sindaco e da segretario Pd; quando con proposte dirompenti metti in discussione i modelli di rappresentanza sindacale; quando prendi di petto riforme rimaste per anni sulla carta, come l’abolizione del bicameralismo, vuol dire che ti muovi in una prospettiva di medio e lungo periodo».
Crede davvero che il governo durerà fino al 2018?
«Il rinnovato vigore di un esecutivo a guida Renzi può dare più stabilità alla politica. I Medici amavano dire: “Festina lente”. Sii tempestivo, ma con giudizio».
Quando avremo il governo?
«Non sta a me dirlo. Nei tempi più rapidi possibile, senza sacrificare la qualità dell’esecutivo alla velocità».
Lei è stato il primo a dire che all’Economia ci vuole un politico. Perché?
«Perché l’era dei “tecnici a prescindere” è ormai alle nostre spalle, e ha dimostrato purtroppo di non aver corrisposto alle attese. L’Italia è uno strano Paese: i politici scaricano sui tecnici le proprie responsabilità. È sbagliato affidare la spending review a un tecnico, per quanto capace. Non esiste scelta più politica che decidere quali voci di spesa pubblica tagliare. E il problema non riguarda solo i ministri, ma i ministeri».
Si riferisce all’alta burocrazia?
«Sì. Noi dobbiamo riformare radicalmente la burocrazia dello Stato, a partire dai vertici. Troppe volte nei corridoi si sente dire: “I ministri passano, i tecnici restano”. Dobbiamo aggredire l’iper-regolamentazione e le concentrazioni di potere e di privilegi, stipendi compresi. Basta decreti milleproroghe, specchio di un’Italia che getta sempre la palla in tribuna. Spezziamo la spirale drammatica di una burocrazia che di fronte a un problema, invece di risolverlo, inventa l’ennesima norma».
Delrio potrebbe fare il ministro dell’Economia?
«Non ci troverei nulla di strano. Anzi, ritengo che i sindaci oggi siano la migliore espressione della politica italiana; non fosse altro perché conoscono meglio di tutti l’Italia reale, mentre la distanza tra le istituzioni centrali e la società reale continua a crescere».
Tra queste istituzioni include la Banca d’Italia?
«Per certi aspetti, sì. La questione ci obbliga a una riflessione più generale dell’Europa. Il problema della distanza tra politica e società civile è ancora più vistoso sullo scenario europeo. Per questo sono preoccupato per le prossime elezioni di maggio».
Teme per il Pd?
«Più che per il Pd, temo per le famiglie tradizionali della politica europea, che hanno consentito a tecnocrazia e finanza di sconfinare dai propri ambiti di competenza, e ora rischiano di perdere il polso delle loro comunità».
In Rai cosa farete?
«La Rai merita una rivoluzione. La politica deve occuparsene non per cambiare qualche direttore, ma per stabilire in modo chiaro quale servizio pubblico radiotelevisivo si deve fare. Dopo capiremo chi serve per gestirlo. Sono certo che Renzi affronterà radicalmente anche questo tema. Facendo quel che si dice da sempre e non si fa mai: fuori i partiti dalla Rai».
La riforma elettorale andrà avanti?
«La prospettiva di una legislatura che prosegue ci dà un po’ di tranquillità. Ma la legge elettorale e le riforme costituzionali restano una priorità».
L’Italicum si può cambiare?
«Si può migliorare, mantenendo lo schema di Renzi: le regole del gioco si scrivono anche con le opposizioni».
Non teme una scissione nel Pd? La sinistra interna sarà leale con Renzi?
«Penso proprio che non ci saranno scissioni. Il Pd deve dar seguito a una decisione di cui è stato protagonista, senza sacrificare la discussione interna. Anche se la parola partito non mi piace. Forse non abbiamo colto appieno la novità del congresso in cui il partito socialista europeo cambierà il nome, per diventare il partito dei socialisti e dei democratici. Stiamo vivendo un cambio epocale del modo di fare politica. Ci sono nuove forme di partecipazione che non possono essere racchiuse nella forma tradizionale del partito dello scorso secolo. Prendiamo esempio da movimenti emergenti come i 5 Stelle. I tempi sono maturi per chiamarci solo “Democratici”, senza la parola “partito”».

l’Unità 19.2.14
Caro Renzi, è ora di puntare sulla scienza
di Pietro Greco


Caro Presidente Renzi, è iniziata la sfida per il futuro. Dobbiamo decidere il ruolo che avrà il nostro Paese nel nuovo ordine mondiale. Se vogliamo che sia di primo piano, come ci compete, dobbiamo puntare sulla scienza.
Perché la scienza è la leva per lo sviluppo economico, oltre che per la sicurezza sanitaria e militare, delle nazioni. Noi non abbiamo un programma nazionale di sviluppo scientifico. Nel nostro Paese la scienza è rimasta dietro le quinte, mentre andrebbe portata al centro dell’attenzione, perché a essa si legano le speranze per il futuro. Non possiamo attenderci che questa lacuna venga colmata dall’industria privata. L’industria si occupa d’altro. L’impulso per la ricerca può venire solo dal governo. È il governo che deve investire molto di più e molto meglio se vogliamo vincere la sfida del futuro. Caro Presidente Renzi, ho elaborato un rapporto che è anche un programma per la rinascita della nostra nazione. Glielo invio a parte. Ora provo a sintetizzarlo, in quindici punti.
1. INNOVAZIONE. Il Paese ha bisogno di innovazioni costanti, non solo in politica ma anche in campo economico. Solo con la produzione di beni e servizi innovativi possiamo sperare di avere una piena occupazione e un tenore di vita più alto. 2. SPECIALIZZAZIONE. Per competere con i Paesi più avanzati occorrerà puntare sulle industrie a più alta tecnologia, capaci di innovazione continua. Non otterremo nulla rimanendo immobili, continuando a fabbricare gli stessi articoli e non avanzeremo nel commercio internazionale se non offriremo prodotti nuovi e meno costosi. 3.CAMBIAMENTO. La scienza è la leva necessaria per il cambiamento della specializzazione produttiva. Da dove arriveranno, infatti, i nuovi prodotti? Come produrre manufatti migliori a costi inferiori? La risposta è ovvia. Per far funzionare i meccanismi dell’impresa pubblica e privata occorreranno nuove conoscenze scientifiche. 4. POTENZIAMENTO. La scienza ha già dato prova di quello che può fare per la società in ogni settore. Ciò vale soprattutto per l’economia. Se continuiamo a studiare le leggi naturali applicando il nostro sapere per fini pratici, potremo avviare nuove industrie e potenziare quelle più vecchie.
5. VANTAGGI PER TUTTI. Per lo sviluppo del Paese occorre un flusso costante di nuova conoscenza scientifica all’interno di un gioco di squadra che coinvolga tutta la nazione. Occorre un rapporto cooperativo tra scienza e società: la scienza, da sola, non è la panacea di tutti i mali, individuali, sociali ed economici. 6.RICERCADI BASE. Occorre riconoscere l’importanza della ricerca di base. La ricerca di base procede senza preoccuparsi degli scopi concreti. Essa produce una comprensione generale della natura e delle sue leggi. Non fornisce una risposta specifica ed esaustiva a ogni singolo problema. Ma le conoscenze nuove e fondamentali che produce alimentano la ricerca applicata e lo sviluppo tecnologico. Pertanto le università e gli istituti di ricerca, pubblici o privati, che sono centri della ricerca di base sono le principali fonti del sapere e della conoscenza.
7. INDIPENDENZA SCIENTIFICA. Un Paese leader in economia non può dipendere dall’estero per la conoscenza scientifica di base. Una più ampia e migliore ricerca scientifica sarà fra gli elementi fondamentali che permetteranno di raggiungere un regime di piena occupazione.
8. LE UNIVERSITÀ. L’industria, privata, non ce la fa a sostenere la ricerca di base. Lo dimostra la storia economica: per esempio, anche negli Stati Uniti, l’industria contribuisce solo in misura limitata al finanziamento della ricerca medica di base. Ma lo dimostra anche l’analisi teorica: nell’industria c’è sempre la pressione degli obiettivi da conseguire, del mantenimento di criteri predeterminati e delle esigenze commerciali. A parte alcune notevoli eccezioni, le università restano le più generose dispensatrici di quella libertà che è oltremodo indispensabile alle scoperte scientifiche.
9. LO STATO. Per lo sviluppo economico di un Paese fondato sulla conoscenza occorre l’azione intelligente dello Stato. Visto che è necessaria e visto che i fondi privati non la sostengono, la ricerca di base dovrà essere potenziata con l’uso di fondi pubblici. Ma il flusso dovrà essere intelligente e ben direzionato verso i luoghi dove si fa ricerca di base. Lo stato deve finanziare la ricerca di base ma anche la catena di trasmissione, ivi inclusa la ricerca applicata, che porta le nuove conoscenze fino al portone delle industrie.
10. LE IMPRESE. Lo sviluppo tecnologico deve essere a carico delle imprese. Arrivato al portone delle imprese cessa il suo compito: lo Stato non deve finanziare lo sviluppo tecnologico e la commercializzazione di nuovi prodotti.
11. UN PROGRAMMA NAZIONALE. Per modificare la specializzazione produttiva del sistema Paese facendo leva sulla scienza, occorre che il Paese si dia una “politica della ricerca” e che il governo federale elabori un organico programma d’azione che sia in cima all’agenda politica del Paese. Non abbiamo un programma nazionale rivolto allo sviluppo scientifico. Non esiste, a livello governativo, una figura che abbia l’incarico di formulare o attuare una politica scientifica nazionale. Non ci sono, in parlamento, comitati permanenti addetti a questo compito fondamentale. La scienza è rimasta dietro le quinte. Andrebbe portata al centro dell’attenzione.
12. CAPITALE UMANO. La nuova “politica della ricerca” dello Stato deve puntare ad aumentare il capitale scientifico del Paese. Ma il capitale scientifico aumenta se cresce il capitale umano. In soldoni, il Paese ha bisogno di più scienziati e di più tecnici. Perché la rapidità o lentezza di qualsiasi progresso nella scienza dipende dal numero di professionisti esperti e altamente qualificati che esplorano i suoi confini. Il vero limite alla produttività e allo sviluppo, nel campo del sapere scientifico e della sua applicazione è il numero di esperti che abbiamo a disposizione. Occorrono più scienziati e tecnici. E, ovviamente, università e centri in grado di farli lavorare sempre al meglio. Naturalmente il flusso, alto e costante, di risorse pubbliche non deve in alcun modo erodere l’autonomia degli scienziati. La libertà d’indagine va tutelata.
13. SOLO IL MERITO. La selezione degli scienziati e dei tecnici fondata solo sul merito è decisiva: perché la responsabilità della creazione di nuovo sapere scientifico ricade su quel piccolo gruppo di uomini e donne che sono in grado di comprendere le leggi fondamentali della natura e le tecniche della ricerca scientifica.
14. RIMUOVERE LE BARRIERE. Per mobilitare i migliori scienziati che il Paese può offrire, occorre che l’universo della selezione sia la più ampia possibile. Includa tutti, in modo che tutti i più bravi possano sottoporsi alla prova. Ma ci sono barriere sociali che impediscono ai “bravi ma poveri” di concorrere. L’istruzione superiore, in questo Paese, è sempre più destinata a chi ha la possibilità economica di procurarsela. In ogni segmento della popolazione esistono individui dotati ma, salvo rare eccezioni, chi non ha la possibilità di procurarsi un’istruzione superiore è costretto a rinunciarvi. Risulta così vanificata la più grande risorsa di una nazione: l’intelligenza dei suoi cittadini. Dobbiamo abbattere queste barriere e offrire agli uomini e alle donne di ogni tipo e condizione l’opportunità di migliorare se stessi. Per sviluppare il talento dei giovani italiani, il governo dovrebbe stanziare un numero ragionevole di borse di studio e assegni di ricerca.
15. UN’AGENZIA NAZIONALE per la ricerca. Suggerisco che venga istituita, quindi, una nuova agenzia preposta a tutti questi scopi. Si tratterebbe di un organo indipendente, con l’esclusivo compito di sostenere la ricerca di base e la formazione scientifica avanzata. Caro Presidente Renzi, lo confessiamo. Abbiamo rubato questo programma a Vannevar Bush, il consigliere scientifico del Presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt. Lo abbiamo fatto perché è sulla base della politica indicata da Vannevar Bush che gli Stati Uniti sono entrati nella società della conoscenza e hanno conseguito la leadership economica del mondo. Ma lo abbiamo fatto soprattutto perché questo programma in 15 punti è l’ultima opzione che abbiamo per uscire della condizione di declino in cui versiamo da venti anni e forse più.

La Stampa 19.2.14
Ma il paese rimane lontano dalla scienza
di Piero Bianucci

qui

il Fatto 19.2.14
La tessera n° 1 del Pd e la passione del burattinaio
Carlo De Benedetti e la lunga storia dei consigli, più o meno richiesti, al partito

Intanto Sorgenia è melassa
di Giorgio Meletti


A novembre ne compirà 80, ma ancora Carlo De Benedetti non trova pace. Colpa del carattere. E anche della sfortuna. Mentre vorrebbe fare solo ciò che ama – sputare sentenze sullo stato deplorevole in cui versa la Patria – deve rintuzzare l'accusa di essere il “grande burattinaio” dell'opaca operazione Renzi Uno. E anche occuparsi del figlio Rodolfo, alle prese con una possibile bancarotta di dimensioni ligrestiane. Ieri la holding di famiglia, la Cir, ha dovuto emettere su richiesta della Consob un comunicato pieno di inquietanti notizie.
PRIMO: Sorgenia, controllata che produce energia elettrica, ha un mese di vita se le banche non concedono ulteriore credito. Secondo: il debito è di 2,2 miliardi di euro (pari circa al fatturato), e il gruppo è impegnato in una serrata trattativa con le banche per la cosiddetta “ristrutturazione”. Terzo: le banche non potranno in ogni caso rifarsi sulla holding della famiglia De Benedetti che, spiega la nota, “non ha rilasciato garanzie” in favore di Sorgenia. Insomma, la solita storia, come un imprenditore italiano qualsiasi: le banche erogano, le garanzie non ci sono, quindi gli azionisti Cir si rilassino, se va male si può fare ciao ciao con la manina. Comunque ieri il titolo Cir ha perso in Borsa il 3,11 per cento. L'Ingegnere ha chiarito che sono cavoli di Rodolfo: “Non c'entro nulla, non sono in consiglio e non sono più azionista Cir”. E se non c'entra con il bubbone Sorgenia, c'entrerà con il governo Renzi? Ha sbagliato Fabrizio Barca, ministro dell'Economia nel pectore di molti, a chiamarlo in causa? Nella telefonata rubata del finto Nichi Vendola ha protestato contro le pressioni di chi lo vuol trascinare nella opaca operazione Renzi Uno, indicando nell'Ingegnere il mandante. Replica secca: “Non mi occupo di nomine politiche perché non è il mio mestiere. Ho sempre rispettato l'autonomia della politica”. Ecco, questa è una balla. È il carattere che lo frega. Diventò celebre una quarantina d'anni fa quando l'avvocato Gianni Agnelli lo chiamò a guidare la Fiat e lo mise alla porta tre mesi dopo: voleva insegnare il mestiere al capo. È da almeno un quarto di secolo che l'incontinenza verbale gli vale l'accusa di essere (o voler essere) il “grande burattinaio” della politica italiana. A fine anni '80, quando si instaurò il cosiddetto Caf (Craxi-Andreotti-Forlani ), De Benedetti era accusato di tirare i fili di un antipartito facente capo all'ex segretario Dc Ciriaco De Mita e al leader del Pci, poi Pds, Achille Occhetto. E dopo l'ascesa politica di Silvio Berlusconi gli toccava l'accusa di tessere la trama della controffensiva.
DOPO IL TRIONFO elettorale di B. nel 2001 non resistette alla tentazione di rivelare, in un'intervista al Corriere della Sera (quando ha una notizia ama dare il buco, come si dice in gergo, a Repubblica , sua creatura prediletta) che si era immischiato nella scelta di Francesco Rutelli come candidato contro il Caimano. Gianni Cuperlo, allora attendente di Massimo D'Alema, protestò su l'Unità: “Il prossimo leader non lo sceglierà De Benedetti”. Anche perché la designazione di Rutelli non si rivelò tra le più felici.
E qui torna il tema della sfortuna. Quando De Benedetti si lascia prendere dall'ansia di battezzare un nuovo condottiero non è che ci prenda tanto. Però sa prendere atto e cambiare idea. Nel 2007 chiese la tessera numero uno del Pd, dicendo che Rutelli e Walter Veltroni erano i due uomini giusti per portare a meritati trionfi il centrosinistra. All'improvviso la parabola dei due promettenti strateghi si fece discendente. Arrivò Pier Luigi Bersani, e De Benedetti disse che il Pd lo aveva deluso, ma anche Bersani, appena nominato segretario, lo aveva deluso. Poi cambiò idea e disse che alle primarie del 2012 avrebbe votato per Bersani contro Matteo Renzi, fulminando il sindaco con un lungimirante “di Berlusconi ce n'è bastato uno”. Poi cambiò idea e scelse Renzi per le primarie 2013, provocando, dieci anni dopo, la stessa reazione di Cuperlo: “È in corso un'Opa di Repubblica sul Pd”.
E LA STORIA continua infinita, l'Ingegnere invecchia e parla, parla e invecchia, le sue intemperanze imbarazzano i giornalisti di Repubblica che prima di digitare un aggettivo si chiedono: “Diranno che me l'ha dettato il padrone?”. E tutti a dirgli “burattinaio” senza che nessuno dei cavalli su cui ha scommesso abbia mai vinto una corsa. Saranno tutti così i poteri forti?

l’Unità 19.2.14
Quei banali paragoni tra Renzi e Machiavelli
di Bruno Gravagnuolo


RENZI COME MACHIAVELLIO COME IL PRINCIPE? SI SPRECANO I PARAGONI TRA IL SINDACO E ILSEGRETARIO FIORENTINO. Nel segno del decisionismo e sotto la suggestione del blitz che ha portato il capo del Pd a Palazzo Chigi. Svetta in questo sport Carmine Donzelli, che ha pubblicato una bella edizione del Principe con traduzione italiana a fronte e saggio di Gabriele Pedullà. I punti a sostegno, nel paragone di Donzelli sul Corriere della Sera del 16 febbraio, sono tre. L’«impetuosità» machiavelliana contro i tatticismi. L’«appello al popolo» del Principe (con la milizia), e quello al «Redentore d’Italia» nell’ultimo capitolo del Trattato del 1513-1514. Ma sono punti sbagliati e generici, di là dell’anacronismo tra l’oggi e il 500. L’impetuosità in Machiavelli è sempre bilanciata con la «respettività» e l’«occasione» da cogliere per il Principe va sempre inserita in un disegno organico e chiaro a sudditi e cittadini. Il disegno era un regno, o Principato o Repubblica del centro-nord a partire dalle Romagne sotto Cesare Borgia o Cosimo dei Medici. Basato su un’alleanza tra popolo, contado e borghesia mercantile. Contro baroni e agrari feudali. Per questo ci voleva una milizia non mercenaria ma fidelizzata: come in un partito scrisse Gramsci nelle . Dunque: blocco storico, alleanze, idea dello stato. E fini trasparenti. Solo tutto ciò giustificava per Machiavelli, in tempi di assolutismo e invasioni, la messa da parte della morale. Non c’entrano nulla carismatismo e furbizia. Ma infine Machiavelli non avrebbe mai consigliato al Principe di allearsi col nemico principale (oggi resta Berlusconi) come fece il Borgia con Giulio II. Perché così gli si consegnò, gli dette forza e poi «ruinò». Leggiamolo bene Machiavelli, e lo legga Renzi tra un blitz e l’altro.

l’Unità 19.2.14
Disarmare Berlusconi
di Claudio Sardo


RENZI DOVRÀ FARE MIRACOLI PER FARSI PERDONARE I MODI CON IQUALI HA LIQUIDATO LETTA. Molti italiani sono critici e attendono di misurare il nuovo premier sul lavoro, sul rilancio dell’economia, sulla lotta alle rendite, sull’efficienza della pubblica amministrazione. Ovviamente speriamo che il miracolo avvenga.
E che abbia un segno chiaro di equità e di uguaglianza sociale. Ma c’è una questione politica che condizionerà la vita del futuro governo, dunque la solidità e la continuità del suo programma.
E che Renzi farebbe bene a non sottovalutare. Anche perché richiede a lui di «cambiare verso» rispetto alla strategia seguita dopo la vittoria alle primarie. Fin qui il leader Pd ha cercato, e costruito, un rapporto preferenziale con Berlusconi. Sull’asse con Forza Italia è nata la proposta di riforma elettorale, che conferma sostanzialmente il maggioritario di coalizione. Una volta gettate le basi dell’Italicum, sono stati poi apportati correttivi minimi per evitare una frattura immediata con il Nuovo centrodestra e con le forze centriste. Tuttavia, l’esito di questa operazione è stato un ribaltamento delle posizioni nella destra. Se Berlusconi aveva subìto una pesante sconfitta quando ha tentato di sfiduciare Letta in Parlamento, la trattativa con Renzi lo ha reso di nuovo protagonista. Se Alfano, Mauro e Casini avevano mostrato autonomia politica rispetto all’estremismo berlusconiano, la prospettiva di un ritorno al bipolarismo coatto tipo Porcellum ha drasticamente ridotto quell’autonomia e riconsegnato i «ribelli» al comando del Cavaliere.
Per durare, per evitare di consegnare a Berlusconi le chiavi del governo e della legislatura, ora Renzi deve cambiare gioco. E recuperare il lavoro di Letta. Nelle consultazioni di ieri il problema è stato posto dai centristi e da Alfano. Oggi il presidente incaricato se la vedrà con Berlusconi. Confidiamo che anche il Pd dia buoni consigli al suo segretario e non giochi per «mandarlo a sbattere». L’asse preferenziale con Forza Italia va spezzato. Le destre sono due, e solo un istinto suicida può indurre il Pd a sanare quella rottura politica. Ciò non vuol dire che bisogna escludere il partito di Berlusconi dall’intesa sulle riforme: quando si parla di regole, solo chi disprezza la Costituzione può pensare di fare da solo. Renzi e ilPd però non possono immaginare un’alleanza di legislatura con i centristi e il Nuovo centrodestra, e al tempo stesso negare loro autonomia elettorale, consegnandoli legati e imbavagliati a Berlusconi. Il governo Renzi è incompatibile con una riedizione del bipolarismo coatto e con la logica del doppio binario (governo con Alfano e riforme con Berlusconi come interlocutore privilegiato). Non basta tenere il Cavaliere fuori dal governo. Se Alfano e Mauro saranno obbligati all’alleanza con Forza Italia in condizioni di subalternità, vuol dire che il governo di Renzi poggerà di fatto su un’intesa con Berlusconi, e che Berlusconi deciderà (tramite Alfano) la data delle elezioni quando le riterrà comode.
Bisogna cambiare i contenuti dell’intesa dei giorni scorsi tra Renzi e Berlusconi. I segnali lanciati ieri dai centristi e da Alfano vanno presi in seria considerazione: è preferibile intendersi con loro sui temi istituzionali piuttosto che cedere sulle proposte economiche di segno liberista. Peraltro, la legge elettorale rischia di produrre effetti catastrofici, se non sarà ancorata a una seria riforma del bicameralismo. E speriamo che finalmente, accanto alla revisione del titolo V, si ponga il tema del rafforzamento del premier, attraverso la sfiducia costruttiva, anello mancante del nostro sistema parlamentare (e dell’accordo con Berlusconi).
 Rimettere mano all’Italicum è una condizione per la buona riuscita di Renzi. Forse la retromarcia sarà impossibile in pochi giorni. Per scaricare Berlusconi ci vuole un po’ di tattica. Forse il primo voto alla Camera sarà molto ravvicinato, e dunque avverrà sul testo peggiore. Poi però, nel passaggio al Senato, l’Italicum va rivoltato come un calzino. Se si potesse cambiare l’intero impianto, sarebbe meglio: il maggioritario di coalizione in un sistema diventato almeno tripolare è una camicia di forza per l’Italia. Come ha scritto Massimo Luciani su l’Unità, bisognerebbe ripensare il modello elettorale in relazione ai grandi obiettivi politici e sociali del Paese.
Si può davvero immaginare di premiare l’impresa e il lavoro, sconfiggendo le corporazioni e le rendite, se la legge elettorale continua a imporre coalizioni lunghe e incoerenti attraverso premi che non hanno uguali in Occidente? Qui sta una delle ragioni dell’immobilismo italiano, che nessuna leadership personale riuscirà mai da sola a riscattare.
Anche restando nello scomodo alveo dell’Italicum, comunque, qualcosa si può fare per dare ai partiti più autonomia e al sistema maggiore dinamicità. Si può fissare, ad esempio, un’unica soglia di sbarramento (invece delle 5-6 attualmente esistenti) per chi sta in coalizione e chi no. Si può rendere il secondo turno più probabile, evitando di conteggiare (ai fini del 37%) i voti delle liste-civetta e di coloro che non superano la soglia minima. Si può consentire l’apparentamento tra il primo e il secondo turno, in modo che i partiti siano più liberi e che gli elettori contino di più. Renzi deve cogliere le occasioni per migliorare la legge e liberarsi dall’abbraccio berlusconiano. Peraltro, almeno sul terreno democratico, potrebbe così riaprire un dialogo positivo con Sel. Dai partiti intermedi bisogna prendere il meglio, invece che il peggio. Per fare un altro esempio: meglio dire sì al voto di preferenza che dire sì alla reintroduzione delle candidature multiple.

l’Unità 19.2.14
Europee
Lista Tsipras, il web ha scelto nome e simbolo
Ora la raccolta firme


«L’altra Europa con Tsipras». È questo il nome scelto attraverso una consultaione on line per la lista che in Italia alle prossime europee si richiamerà ad Alexis Tsipras, leader della formazione greca di sinistra Syriza. Hanno votato il sondaggio proposto in rete 18.416 persone e il simbolo «L’altra Europa con Tsipras» ha ottenuto il 41,7 per cento dei voti. Il progetto grafico del logo, con scritta in bianco in campo rosso, «verrà sottoposto a un restyling grafico e reso definitivo entro la fine della settimana», è stato fatto sapere. La lista è stata promossa con un appello lanciato da Andrea Camilleri, Paolo Flores d'Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale e tra le formazioni politiche ha raccolto l’adesione della maggioranza di Sel, di Rifondazione comunista e del Pdci. Per presentare la lista dovranno essere raccolte circa 150 mila firme, di cui almeno tremila in ogni regione. Le candidature verranno definite a partire dalle proposte «dal basso», che dovranno essere presentate entro venerdì 21 febbraio. Non potranno essere candidati consiglieri regionali e parlamentari nazionali o europei dal 2004 ad oggi e politici di lungo corso.

il Fatto 19.2.14
Assenze

Le imprese in piazza, il sindacato no
di Salvatore Cannavò


NON È STATA la nuova “marcia dei quarantamila” come annunciato alla vigilia. Non solo perché alla fine sono stati di più ma perché, stavolta, non c’era un nemico da battere. Quello che è accaduto ieri a Roma, con la manifestazione di Popolo, con circa 60 mila artigiani e commercianti, è invece indicativo di un’altra tendenza importante che pervade la società italiana e che si può apprezzare soprattutto per contrasto. Mentre le categorie tipiche della “classe media” hanno dimostrato una notevole capacità di mobilitazione, impensabile in altri periodi, assistiamo, allo stesso tempo, al mutismo sindacale e all’assenza dalla scena sociale di Cgil, Cisl e Uil. I quali sono ormai associati da molti a quei partiti e a quella “politica” individuate come una delle cause profonde della crisi. Le associazioni della piccola e media impresa, invece, si sono guadagnate, grazie anche a una stampa benevola (che dimentica completamente i livelli di evasione fiscale che riguardano queste categorie), il ruolo di organizzazioni virtuose. Portatrici di un “ bene comune” che oggi è facile da indicare e ha costituito il cuore della manifestazione di ieri: la riforma fiscale. La chiedono gli artigiani , i commercianti, la invoca Confindustria, la promette Matteo Renzi. Come avrebbe detto il vecchio Gramsci è questa parola d’ordine a esercitare oggi “l’egemonia” politica. Sono queste categorie che riescono a interpretare la richiesta fondamentale che sale dalla società rivolta alla “politica”. La riduzione delle tasse è divenuta quella che, ai tempi d’oro del movimento operaio, era la richiesta salariale oppure la riduzione dell’orario di lavoro. In Francia, dove l’offensiva della destra è fortissima anche perché al governo c’è la sinistra, la componente radicale che fa capo al leader del Front de Gauche, Jean-Luc Melenchon, ha organizzato una tipica manifestazione della sinistra con al centro la richiesta di ridurre le tasse. Il tema è ricorrente ovunque. In questo scenario, il sindacato italiano appare smarrito e, quando non lo è, si abbarbica anch’esso alla richiesta della riduzione delle tasse per il lavoro dipendente mediante taglio del cuneo fiscale. Una richiesta che, finora, è apparsa poco chiara ma, soprattutto, poco incisiva sulle buste paga. Anche ai tempi del secondo governo Prodi, fu finanziata con circa 10 miliardi di euro. Potremmo dire che del ventennio berlusconiano questo è il lascito più importante perché ha rimodellato le idee e le priorità dell’agenda politica: le imprese hanno il pallino in mano e se il sindacato vorrà recuperare un ruolo, invece di accontentarsi di andare a rimorchio, dovrà inventarsi e proporre qualcosa di altrettanto forte.

il Fatto 19.2.14
La Superprocura lascia solo Di Matteo
Nella relazione annuale della Direzione antimafia, "perplessità" sull'impostazione del processo sulla trattativa
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Il reato di violenza e minaccia a un corpo dello Stato? “Pone nuovi problemi giuridici al giudice”. L’assoluzione di Mori e Obinu? “Non puo’ non destare oggettivi motivi di preoccupazione in relazione all’impostazione del processo della trattativa”.
Nella relazione annuale diffusa ieri dalle agenzie, la Direzione Nazionale Antimafia di Franco Roberti prende le distanze dai pm di Palermo esprimendo apertamente la sua “perplessità” sull’impostazione giuridica del dibattimento in corso nell’aula bunker dell’Ucciardone.
E LA REPLICA è immediata: “Se il dato corrispondesse alla realtà – ha detto Nino Di Matteo, scorrendo le agenzie – non potrei che manifestare il mio profondo stupore per il fatto che si esprimano giudizi di merito di questo tipo su procedimenti ancora in corso”.
Ancora più amareggiato il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che dal 3 febbraio sarebbe oggetto di un procedimento disciplinare, aperto su richiesta del Pg di Cassazione Gianfranco Ciani, proprio per aver espresso giudizi sulla sentenza di assoluzione di Mori e Obinu: “Mi chiedo – ha detto Teresi – che competenza istituzionale abbia un semplice sostituto procuratore nazionale antimafia per esprimere così taglienti giudizi su un processo in corso di cui credo non conosca pressochè nulla”.
Teresi si riferisce all’autore della parte della relazione che riguarda il processo, e cioè il sostituto della Dna Maurizio De Lucia, molto vicino all’ex capo dell’ufficio Piero Grasso. Applicato da qualche anno a Palermo, De Lucia segnala che la Dda di Francesco Messineo “ha ritenuto di dover inquadrare alcune delle condotte da provare nei confronti di alcuni degli imputati nella fattispecie astratta di cui all’art. 338 codice penale (violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, ndr), ponendo in tal modo nuovi problemi di natura giuridica e fattuale al giudice che dovrà decidere sulla corretta ricostruzione dei fatti operata nell’inchiesta”.
FRASI CHE SUONANO come una bocciatura se lette insieme alle considerazioni successive sul processo che ha assolto gli ufficiali dei carabinieri Mori e Obinu per la mancata cattura di Provenzano: “Tale processo – si sottolinea – presenta significativi momenti di collegamento, sia probatorio che sostanziale, con quello in argomento ed il suo esito non può non destare oggettivi motivi di preoccupazione in relazione all’impostazione del processo cosiddetto trattativa”.
Da quando Grasso respinse al mittente (il Pg Ciani, attivato dal Quirinale su sollecitazione di Mancino) le pressioni per intervenire nell’inchiesta di Palermo, la Dna non si era più occupata del processo sulla trattativa.
Fino alla “preoccupazione” manifestata adesso da De Lucia.
Che pare allinearsi alle posizioni del giurista Giovanni Fiandaca e dello storico Giuseppe Lupo, coautori di un nuovo saggio (“La mafia non ha vinto”, in uscita il 20 febbraio per Laterza) che mette in dubbio i fondamenti giuridici del processo di Palermo e legittima il negoziato tra lo Stato e le cosche con la tesi che tra il ‘92 e il ‘93 far cessare le stragi era una necessità.
DURO e sconfortato il commento di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili: “É ovvio che non esiste il reato di trattativa”, dice, “ma esiste il delitto morale di chi difende l’indifendibile. Chiediamo quindi il cambio di imputazione, anche nel sentire comune, da ‘trattativa Stato–mafia’ a ’concorso in strage’”.

l’Unità 19.2.14
Razzismo, Roma: chiuso un altro pezzo di Olimpico
di Libero Caizzi


NEL BRACCIO DI FERROFRA I TIFOSI DELLA ROMA E LA GIUSTIZIA SPORTIVA, NON PUÒ CHE VINCERE LA LEGGE. GIUSTA O SBAGLIATA, C’È. E la sfida dei tifosi che continuano a cantare cori contro i napoletani, finisce per penalizzare lo spettacolo e la stessa Roma, che contro l’Inter - questo ha deliberato il giudice Tosel - sarà senza il sostegno anche degli inquilini del settore «distinti sud» dell’Olimpico. In più la società pagherà un’ammenda di 80.000 euro. Questo perché, in occasione della partita contro la Sampdoria, disputata con entrambe le curve chiuse per i precedenti fattacci, i sostenitori giallorossi che occupavano quel settore intonavano il coro «oh vesuvio lavali con il fuoco».
Così la Roma giocherà un match importante senza il proprio pubblico, in uno stadio in cui rischiano di essere più numerosi i tifosi nerazzurri. È inevitabile, non può esserci sospensiva della sanzione perché i nuovi cori costituiscono «specifica recidività», dopo i casi precedenti. Mail problema è più ampio, e non si esaurirà con la nuova disposizione (che la Roma è pronta ad appellare). I tifosi non accettano il cambio di passo della giustizia sportiva. E alcuni calciatori si lamentano di questa ottusità, come Morgan De Sanctis («Bisogna rendersi conto che non è più il caso di continuare con questi cori») e non è escluso che altri giocatori o il tecnico Garcia possano dar seguito al messaggio.
Ma la società Roma deve fare i conti anche con le tante posizioni diverse in cui si dividono i fedelissimi giallorossi. La corrente di chi insiste nel cantare quei cori ha fatto di questa battaglia una crociata: violare la norma per «provocare » la coscienza collettiva fino a proporre di non entrare allo stadio per Roma- Inter: «Ti Amo ma non entro», lo slogan, con l'obiettivo di lanciare un segnale forte alle istituzioni e al club stesso. Ma si sono fatti sentire anche quei tifosi abbonati a cui restare fuori pur di continuare a offendere l’avversario non interessa. E rivorrebbero la quota dei soldi dell’abbonamento per le partite che hanno dovuto guardare in tv.

Repubblica 19.2.14
Giuramento di Ippocrate con sponsor i medici si ribellano: un sacrilegio
Omaggio di Big Pharma alla cerimonia per i neo dottori, Ordini divisi
di Michele Bocci


GIURAMENTO di Ippocrate con regalo della casa farmaceutica. Il mitico “Roversi”, un testo medico uscito per la prima volta settant’anni fa e ancora apprezzato, è il gentile omaggio che la multinazionale Sanofi ha deciso di fare a tutti i neolaureati nel giorno in cui si iscrivono agli albi professionali provinciali. Con il consenso della stessa Fnomceo, cioè della Federazione che riunisce tutti gli Ordini dei medici italiani. L’iniziativa è stata resa nota a fine gennaio e sta provocando polemiche feroci. Oggi il mondo dell’industria e quello dei camici bianchi si incontrano di continuo e sarebbe da illusi pensare di evitare questi contatti per cancellare i conflitti di interessi. Ma il momento scelto per quel dono, che vale alcune decine di euro, è altamente simbolico. E la prima frase che pronuncia il nuovo iscritto è questa: «Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento».
Il presidente e il segretario della Federazione, cioè il senatore Pd Amedeo Bianco e Luigi Conte, sono stati criticati duramente. Li hanno attaccati ad esempio Roberto Rossi, presidente del potente Ordine di Milano, e Bruno Di Lascio presidente di Ferrara. Ma si è mosso anche il Segretariato italiano degli studenti di Medicina, che raccoglie 7mila giovani iscritti alle facoltà italiane, cioè coloro a cui prima o poi è destinato quel regalo. «Da anni ormai ci adoperiamo per la sensibilizzazione verso il tema del conflitto di interessi - scrivono gli studenti - cioè la condizione che si instaura quando considerazioni economiche e personali hanno il potenziale di compromettere e di pregiudicare il giudizio e l’oggettività professionale ». Si è schierato contro la novità anche il gruppo “No grazie”, impegnato tra l’altro per arginare lo strapotere delle case farmaceutiche in sanità.
Il “Roversi” viene consegnato a tutti gli ordini dentro una confezione di cartone. All’interno c’è il libro incellofanato con una brochure di Sanofi dove si spiegano le attività dell’azienda, il cui nome compare anche sulla copertina. «La vicenda ci lascia esterrefatti - ha scritto Rossi a Fnomceo - Proprio nel momento in cui si immettono nella professione molti nuovi giovani colleghi, si viene di fatto a sponsorizzare il nome di una ditta farmaceutica, pur con una iniziativa di per sé apprezzabile come la distribuzione di un noto manuale di medicina». L’Ordine di Milano ha così deciso di non richiedere i libri. A Ferrara invece promettono di consegnare i volumi dopo averli tolti dal chellophane e aver messo via la brochure dell’azienda.
Tra l’altro la federazione ha previsto anche la possibilità per gli ordini «di avvalersi di un incontro con un funzionario Sanofi », magari nel giorno in cui si riunisce il consiglio direttivo che effettuerà le iscrizioni all’albo dei futuri medici. C’è chi teme che l’azienda sia presente anche quando avviene il cosiddetto “giuramento di Ippocrate”, una cerimonia ormai piuttosto snella ma dal valore simbolico in cui i nuovi medici leggono alcuni passaggi del loro codice deontologico (ovviamente diversi da quelli del testo della Grecia antica). «Ma ci siamo chiesti perché Sanofi fa questa cosa?», dice Rossi.
Bianco risponde alle accuse con una certa veemenza: «Abbiamo avuto questa offerta di Sanofi e fin dal primo momento abbiamo fatto attenzione: capiamo il significato istituzionale di un omaggio di un manuale di grande tradizione ai giovani ma siamo molto gelosi della assoluta autonomia dei nostri Ordini». Il presidente di Fnomceo espone quanto fatto fino ad ora. «Ai nostri convegni non c’è mai stato alcuno sponsor, siamo al di fuori di qualunque sospetto. La polemica nasce da un’interpretazione forzata della lettera con cui abbiamo presentato l’iniziativa. Abbiamo parlato del funzionario perché gli Ordini, se vogliono, si possono confrontare valutando in modo autonomo se accettare o non accettare l’omaggio. Non abbiamo scritto che l’incaricato dell’azienda è presente il giorno del giuramento».

Il Sole 19.2.14
Le vendite dei veicoli in Europa
L'auto riparte ma Fiat è ferma
A gennaio il mercato Ue cresce del 5,2%, quello italiano del 3,2%: -1,8% del Lingotto
di Augusto Grandi


TORINO Dopo 6 anni di continua flessione, ma anche con il quinto risultato mensile positivo, il mercato europeo dell'auto – secondo Roberto Vavassori, presidente dell'Anfia - può guardare con ottimismo al 2014. Gennaio, infatti, si è aperto con 967.778 immatricolazioni nei 28 Paesi dell'Unione europea e nei tre dell'Efta (Islanda, Norvegia e Svizzera), con un incremento del 5,2% rispetto al primo mese del 2013.
«Non considerando i Paesi Efta che, complessivamente, cedono il 3%, il dato dell'Unione europea – aggiunge Gian Primo Quagliano, presidente del Centro studi Promotor – evidenzia un incremento del 5,5%. Ma la crescita si ferma al 4% per i Paesi dell'area euro mentre raggiunge il 9,7% per chi non adotta la moneta unica». Quagliano sottolinea come solo ora l'eurozona, «appesantita dalle politiche di austerity, stia uscendo da una situazione economica fortemente penalizzante anche per la domanda di autovetture».
All'Unrae ricordano però che i dati del mese scorso sono positivi ma nel confronto con il gennaio del 2013 che aveva registrato il peggior risultato da quando vengono effettuate le rilevazioni. Tuttavia il rilancio appare piuttosto diffuso. Tra i Paesi dell'Ue registrano flessioni delle consegne solo Austria, Cipro, Olanda, Estonia e Belgio. A cui si aggiungono Norvegia e Svizzera tra quelli dell'Efta. Ma tra i mercati in crescita, nota Filippo Pavan Bernacchi (presidente di Federauto), l'Italia è al quartultimo posto: peggio han fatto solo Bulgaria, Lussemburgo e Francia.
Proprio la Francia, secondo l'Unrae, potrebbe crescere quest'anno con un trend non molto superiore al progresso dello 0,5% messo a segno a gennaio. Un dato che consente al mercato transalpino di confermarsi comunque al terzo posto in Europa Occidentale, alle spalle della Germania – che si conferma al primo posto ed è cresciuta del 7,2% con previsioni di un +5% alla fine del 2014 – e della Gran Bretagna, in crescita del 7,6% dopo altri 25 incrementi mensili consecutivi. L'Italia (+3,2% il mese scorso) è ormai al quarto posto tra i mercati europei e precede la Spagna che a gennaio ha registrato un progresso del 7,6%, con previsioni di un incremento dell'11% per l'intero anno.
Ma se l'Europa ha ripreso a crescere, per la Fiat-Fca non è ancora arrivato il momento. L'azienda italiana ha ceduto, a gennaio, l'1,8% e la quota è scesa dal 6,6 al 6,2%. Con i marchi Fiat e Alfa Romeo in difficoltà e con Lancia-Chrysler e jeep in crescita. Confermando come gruppo il sesto posto tra i costruttori. In pole position è sempre Volkswagen che ha visto tutti i marchi crescere a gennaio, per un progresso complessivo dell'8,2% ed una quota salita dal 24,6 al 25,4%. Crescono anche le francesi, con Psa che incrementa le consegne del 6,9% (positive sia Peugeot sia Citroen) e Renault del 13% con l'ennesimo boom di Dacia. Andamento opposto per le americane: Ford cresce dell'8,8% e Gm perde il 5,4%.
Alle spalle di Fca-Fiat la Bmw si rafforza dell'1,2 e Daimler cede lo 0,3% penalizzata da Smart. Tra le asiatiche crescono Toyota, Kia, Mazda, Suzuki e Mtsubishi mentre gennaio è negativo per Nissan, Hyundai, Volvo e Jaguar Land Rover.

Repubblica 19.2.14
Il governo spagnolo si prepara a offrire per legge la cittadinanza ai discendenti degli ebrei cacciati nel 1492.
Quella legge spagnola che ripara a un misfatto

di Adriano Prosperi

MILANO. Un tedesco a Ponzano Veneto. Per traghettare la Benetton group fuori dalle secche e in vista di una separazione dell’azienda in tre divisioni la famiglia veneta, per guidare il rilancio della società che porta il proprio nome, avrebbe scelto Bruno Salzer, attuale numero uno di Escada ed ex amministratore delegato di Hugo Boss durante la gestione del marchio sotto la proprietà della famiglia Marzotto.
Salzer sarebbe il primo amministratore del gruppo di Ponzano Veneto con un’esperienza pluriennale nel settore abbigliamento e anche il primo top manager straniero in casa Benetton. Tutti gli altri amministratori che dalla quotazione ad oggi hanno gestito l’azienda provenivano invece da un percorso professionale diverso che con l’abbigliamento tout court non avevano molto a che vedere. Per l’azienda è un forte segnale di discontinuità con il passato, anche perché chi conosce Salzer da tempo lo descrive come un manager molto determinato e sicuro di sé, che ha fatto della distribuzione e della logistica uno dei punti di forza nel rilancio di Hugo Boss che ha gestito dal 1995 al 2008. Dopo l’acquisto del marchio tedesco da parte del fondo Permira, Salzer è andato a guidare Escada, griffe finita in amministrazione controllata e poi acquisita da Megha Mittal, nuora di Lakshmi Mittal magnate dell’acciaio e dell’immobiliare.
La nomina dovrebbe essere ufficializzata a fine marzo, quando il consiglio dovrà approvare il bilancio più disastroso della storia del gruppo veneto di abbigliamento. Dalla quotazione del 1986 fino al delisting da Piazza Affari che risale al maggio 2012, Benetton ha chiuso in perdita solo una volta per motivi tecnici e di natura straordinaria. Nel 2002 a causa della svalutazione dei marchi sportivi Nordica, Prince e Rollerblade, il gruppo registrò una perdita di 10 milioni, mentre nel 2013 il rosso dovrebbe essere di entità ben maggiore. Nonostante le plusvalenze legate alla cessione di due importanti cespiti immobiliari come quello di Roma e quello di Tokyo, la società ha risentito in maniera pesante della crisi dei consumi che ha colpito più duramente i Paesi del mediterraneo dove Benetton realizza la maggior pare dei suoi ricavi. È anche vero però che nelle stesse aree rivali come Zara e H&M hanno sofferto meno il crollo dei consumi, pertanto il gruppo italiano oltre a una migliore distribuzione geografica dovrà rivedere anche il suo modello di business. In quest’ottica la famiglia sarebbe determinata a fare un passo indietro delegando a un management indipendente il delicato processo di risanamento dell’azienda che porta il proprio nome.
A questo proposito il presidente con deleghe Alessandro Benetton, figlio del fondatore Luciano, non ha ancora sciolto le riserve sul suo futuro impegno nel gruppo. Alessandro in questi ultimi anni si è speso il prima persona nel rilancio del gruppo ed è tra coloro che all’interno della famiglia ha spinto per una profonda trasformazione dell’azienda, incaricando Boston Consultig Group di studiare un piano di rilancio. La società di consulenza a dicembre aveva presentato a Edizione un progetto di scissione in tre della Benetton Group, che ora Salzer sarà chiamato a eseguire anche se il suo mandato dovrebbe prevedere un focus sulla parte commerciale del gruppo di abbigliamento. Nell’ambito del riassetto votato ad unanimità dalla famiglia è inoltre previsto la separazione in un divisione ad hoc delle attività industriali e di quelle immobiliari del gruppo.

l’Unità 19.2.14
Battaglia a Kiev, 9 morti Mosca: «Colpa di Ue e Usa»
Il Parlamento rinvia la discussione sulle riforme costituzionali per ridurre i poteri presidenziali
Bruxelles e Washington: «Stop alle violenze»
di Marco Mongiello


Dopo alcuni giorni di calma apparente in Ucraina è tornata la violenza e i blindati hanno fatto irruzione in piazza Maidan. Ieri a Kiev la protesta contro il presidente filorusso Viktor Yanukovich è tornata a infiammarsi quando in Parlamento si è arenata la riforma costituzionale proposta dall’opposizione. In aula alcune decine di deputati hanno bloccato la tribuna dell’emiciclo, ma il vero caos è scoppiato fuori. Circa 300 tra i 5000 manifestanti presenti hanno tentato di forzare il cordone di blocco della polizia dando fuoco a tre camionette e scontrandosi con gli agenti. Altri combattimenti sono avvenuti in due punti del centro non lontano dal Parlamento. La polizia ha sparato proiettili di gomma e granate assordanti, mentre la folla ha risposto con una sassaiola. Le forze speciali antisommossa Berkut sono scese in strada armate di kalashnikov. Alla fine della giornata più tragica dall’inizio delle proteste il bilancio degli scontri è pesantissimo. Secondo il ministero dell'Interno hanno perso la vita sette dimostranti, alcuni a causa di ferite da arma da fuoco, e due poliziotti. Ma il numero potrebbe salire. Tra gli oltre 150 dimostranti feriti almeno una trentina sono in gravi condizioni. Feriti anche 37 poliziotti e 15 giornalisti, tra cui i reporter delle agenzie di stampa Associated Press e Reuters. A gennaio erano morte altre cinque persone in seguito agli scontri.
L’ULTIMATUM. Nel pomeriggio di ieri le autorità ucraine hanno lanciato un ultimatum ai manifestanti per sgombrare piazza Maidan, dove si trova il cuore della protesta. «Avvertiamo le teste calde dell'opposizione - ammonisce una nota - il potere ha i mezzi per ristabilire l’ordine. Saremo costretti a ricorrere a misure più forti se le violenze non cesseranno entro le 18». Uno dei leader dell’opposizione, l’ex campione di pugilato Vitali Klitschko, ha invitato donne e bambini a lasciare la piazza. Oggi i leader delle opposizioni incontreranno il presidente Yanukovich, che continua ad alternare piccole concessioni politiche a irrigidimenti autoritari, spesso in seguito ai contatti con il Cremlino.
Le proteste sono iniziate lo scorso 29 novembre quando dopo mesi di negoziati per un accordo di associazione con l’Unione europea, che prevedeva aiuti economici in cambio di riforme democratiche, Yanukovich ha deciso all'ultimo momento di cedere alle pressioni russe. L’accordo con Bruxelles non è stato firmato e il presidente Ucraino è volato a Mosca per sottoscrivere un’intesa economica con la Russia. Questa prevedeva tra l’altro un prestito per 15 miliardi di dollari che è poi stato messo in dubbio vista l’incertezza della situazione politica. Lunedì scorso, dopo che i leader delle opposizioni hanno incontrato a Berlino la Cancelliera Angela Merkel, il Cremlino ha annunciato la disponibilità a versare entro la settimana 2 miliardi di dollari dei 15 promessi.
Secondo alcuni commentatori sarebbe questa la ragione dell’improvviso irrigidimento di Yanukovich, che attraverso la sua maggioranza parlamentare ha silurato la riforma costituzionale destinata a ridurre i poteri del capo dello Stato e ad aprire la strada alla nomina di un governo tecnico. Un nuovo esecutivo sarà possibile solo dopo la riforma della costituzione, ha ribadito ieri l’ex pugile Vitali Klitschko, che ha chiesto al presidente ucraino di anticipare le elezioni presidenziali previste per il 2015 e quelle parlamentari in programma per il 2017. «Mi rivolgo al Presidente ucraino - ha detto il leader dell'opposizione - la responsabilità e l’autorità è nelle sue mani. E solo lui può risolvere la situazione. Mi rivolgo a lui come politico responsabile affinché indica nuove elezioni parlamentari e presidenziali. Questo farà stemperare le tensioni».
Secondo il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov invece la causa della nuova escalation di violenza è l'ingerenza dell’Europa nelle vicende interne ucraine. «Le violenze sono la conseguenza del fatto che l’Occidente ha chiuso gli occhi sulle azioni degli estremisti », ha accusato Lavrov in una nota in cui ha chiesto all’opposizione di «evitare minacce e ultimatum» e in cui ha denunciato che «l’opposizione non controlla il movimento di protesta». La rappresentante Ue per la politica estera, Catherine Ashton, e il segretario generale della Nato Rasmussen e la Casa Bianca hanno espresso «profonda preoccupazione» per le violenze a Kiev e chiesto a Yanukovich di mettere fine alle violenze.

Repubblica 19.2.14
La sconfitta dell’Europa
di Andrea Bonanni


BRUXELLES. I NUOVI gravissimi incidenti a Kiev sono una sconfitta per l’Europa, che sperava di essere riuscita a trovare un compromesso per mettere fine agli scontri. Un tentativo tuttora in corso. Evidentemente Bruxelles condanna le violenze e potrebbe anche riconsiderare l’imposizione di sanzioni.
MA PRENDE le distanze dagli Stati Uniti che accusano esclusivamente il regime di Yanukovich. Nella notte il vicepresidente Usa, Joe Biden, telefona allo stesso Yanukovich per chiedergli di ritirare le forze di polizia. E per esprimere la grave preoccupazione americana per il precipitare degli eventi. L’alto rappresentante per la politica estera della Ue, Catherine Ashton, che si dice «molto preoccupata», condanna «l’uso della violenza in tutte le sue forme, inclusa quella contro gli edifici pubblici o dei partiti», un riferimento agli assalti dei manifestanti contro il Parlamento e contro le sedi dei partiti di governo.
È chiaro che la Ue spera ancora di poter svolgere un ruolo di mediazione tra le due fazioni in lotta. E insiste sul fatto che la soluzione della crisi non può essere che politica. «Le decisioni politiche vanno prese in Parlamento e l’Ucraina deve tornare urgentemente al processo parlamentare - insiste la Ashton - . La soluzione dovrebbe includere la formazione di un governo inclusivo, riforme costituzionali e la preparazione di elezioni presidenziali trasparenti». È più che un generico appello alla calma: è quasi una road map per indicare una via di uscita all’escalation di violenze che rischia di diventare incontrollabile.
Anche il commissario europeo all’allargamento Stefan Fuele, che ha giocato un ruolo importante fin dall’inizio della crisi, quando Yanukovich improvvisamente cancellò gli accordi di associazione che doveva firmare con la Ue, ha confermato che i canali di comunicazione con il regime di Kiev sono sempre aperti. «Oggi ero al telefono con il primo ministro ad interim, e gli ho detto che vedere la polizia con i kalashnikov mi riempiva di preoccupazione. Mi ha assicurato che farà tutto il possibile perché i fucili restino in silenzio. Per il bene degli ucraini e per il futuro di quel Paese, prego perché sia vero».
Intanto però le nuove violenze hanno riacceso il dibattito interno all’Ue tra quanti sono favorevoli a sanzioni personali contro gli esponenti del regime e quanti invece difendono una linea più morbida. Le sanzioni sono state chieste due settimane fa dal Parlamento europeo. E ieri il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha messo in guardia Kiev su «possibili ripensamenti a proposito delle sanzioni » da parte della Ue. Steinmeier ha anche avvertito che le forze di sicurezza «hanno responsabilità precise» per mettere fine agli scontri.
Sulla questione è intervenuto anche il premier polacco Donald Tusk: «Se le sanzioni devono essere applicate, che non siano solo di facciata. Bisogna che siano veramente dolorose per il potere ucraino. Bisogna essere coscienti che, dal punto di vista dell’Europa, è pressoché una extrema ratio. L’Unione europea non dispone verosimilmente di altri mezzi e la Polonia è tra quelli che spingono l’Ue a utilizzare le sanzioni ».
Anche Tusk, però, condivide l’approccio negoziale di Bruxelles e il tentativo di trovare una mediazione: «Continueremo a operare per un compromesso in Ucraina, perché una guerra civile di piccola o grande scala, o un conflitto rampante e permanente, non è sicuramente nell’interesse di nessuno».

La Stampa 19.2.14
Fra i combattenti di Maidan “Qui si muore per l’Europa”
Indossano i passamontagna, pregano e curano i feriti: “Scriviamo la storia”


Slava Ucraini. «Gloria all’Ucraina». Incalcolabili le centinaia di feriti. Slava Nazii, smert vraga. «Gloria alla nazione, morte al nemico». Quanti di noi mancano, quanti sono morti, quanti arrestati? Bog s nami. «Dio è con noi». Calcolate il numero dei cecchini sui palazzi, ragazzi. Chiamate i dottori, ragazzi. Preparate altre molotov, ragazzi. Non indietreggiate, Ucraini. Streljaut, «anche se sparano». «Non abbandonate Maidan, non abbonate il simbolo della libertà». Eto serze Ucrainii, ribjata. «Questo ormai è il cuore dell’Ucraina, ragazzi». 
Maidan brucia. Mentre in poche ore perdono i territori occupati, quelli che sono stati eletti generali tra i ribelli impartiscono ordini nel caos delle barricate, gestiscono l’anello di fuoco che mangia la piazza e non smettono di ricordare ai ragazzi nati dopo la caduta del muro di Berlino, sotto caschi e passamontagna, mazze ferrate tra le mani, perché sono qui: «Per la libertà, per la terra, per l’Ucraina». Intanto, mentre sulle barelle vanno verso le tende della croce rossa i feriti, ti chiedono: «In quale altro posto hai visto gente morire sotto la bandiera europea?». 
Intorno a loro i preti benedicono le persone che pregano mentre anche il terreno trema per le deflagrazioni, alzano gli occhi al cielo e puntano la croce dove a pochi passi puntano fucili. Chiedono che finisca «il terrore satanico della violenza». I passamontagna che indossano i migliaia di occupanti lasciano intravedere occhi di vecchie guerre, l’ Afghanistan del ’79, cicatrici di allenamenti in Unione Sovietica, e sono quegli occhi che nei giorni scorsi organizzavano in truppe ragazzini arrivati da tutte le province, da Lvov a Odessa, per combattere contro quello che sembra il nuovo patto di Varsavia. «Noi non faremo la fine della Bielorussia. Questa rivoluzione non è arancione. È blu per chi cerca l’Europa e nera per chi cerca indipendenza. Ma sappiamo di non avere una terza strada: l’Europa è l’unica alternativa per sopravvivere a Mosca». 
Volodja è qui dal primo giorno e non indietreggia. Legge la bibbia inginocchiato mentre bruciano ruote che hanno circondato la capitale di una nuvola di fumo. A 5 metri da lui le milizie sono pronte a colpire: Valodja smette di combattere solo per pregare. Bardato da protezioni che appartenevano ai poliziotti, con la sua fedele mazza ferrata e la maschera antigas, Volodja, come molti Ucraini, continua da mesi a non aver paura.
È lui che dà inizio al coro delle mazze che battono sugli scudi di ferro e sui caschi verdi: «Devono sapere che siamo sempre qui, che non ce ne andiamo, non abbiamo mai smesso di combattere: vedi, i nonni hanno dato ai nipoti le maschere antigas dell’epoca sovietica, quando Mosca poteva dettare legge. Ma oggi non può farlo più. Yanukovic il fantoccio deve andare in prigione».
Il palazzo che era Museo di Lenin fino a 20 anni fa, dove era stata appesa la gigantografia di Putin sotto la scritta «Togli le tue mani insanguinate dal nostro paese», è andato perduto e ripreso dagli uomini del presidente. Fino a ieri si riunivano studenti universitari, dormivano gli ultras divisi per squadre, si organizzavano i volontari, si proiettavano film, si distribuivano cibo, bevande calde e vestiti. Ora è cenere e macerie il nido di quegli occupanti che erano il prematuro feto di una classe media che vuole rinascere sotto le stelle della bandiera europea e ha il terrore dell’aquila russa. 
I portieri dei palazzi del Kreschatik serrano le porte. Sono vecchi che piangono senza lacrime il ritorno dell’apparato, dei tempi della cortina di ferro come ritorsione all’anelito di una libertà mai veramente conquistata. Sono le babushke che ricordano le repressioni di guerre mondiali, civili, fredde e silenziose. Ora al caldo delle fiamme della guerriglia ti guardano e chiedono «Allora adesso dove siete? L’Europa ci ha abbandonato, stanotte ammazzeranno questo popolo». Serrano le porte: nessuno esce, nessuno entra.
Mentre i ribelli ripiegano e perdono terreno, le divise nere di Yanukovic hanno circondato la zona occupata: è a loro che donne e uomini continuano a urlare dagli altoparlanti «non sparate ai vostri figli, non sparate ai vostri genitori, non spezzate la schiena a questo paese».
Sulla bandiera blu a stelle gialle si appoggiano fronti insanguinate, sguardi di uomini neri sporchi di carbone. Sono le voci dalla città che brucia, dove quando uno solo invoca gloria all’Ucraina, in migliaia rispondono gloria agli eroi. 
Misha è tornato da Napoli, dove ha vissuto dieci anni, «perché qui c’è crisi davvero, non come da voi: sono in prima linea per il mio paese». Milita nel gruppo Udar, di Vitalij Klicko. Ogni volta che il pugile si affaccia sul palco della piazza, non smette mai di stringere i pugni: «Non ce ne andremo, mai». Maidan continua a essere circondata dalla Berkut, le squadre d’assalto addestrate, come pensano in molti, dai russi. Ma Kiev non si arrende. «Da questo lato del mondo è sempre con le molotov che si è scritta la storia», dice Volodja. Nessuno sa cosa resterà domani di Maidan, di Kiev, dell’Ucraina. Questa notte rimarrà sveglia tutta la nazione per saperlo, ripetendo a denti stretti Gloria all’Ucraina. 

il Fatto 19.2.14
I Giochi a 5 manette
Dopo Luxuria, a Sochi fermate le Pussy Riot: e l'Occidente si mobilita
di Leonardo Coen


Succede che le famose Pussy Riot, irriducibili attiviste dell’opposizione, scelgano Soci per filmare il videoclip della loro ultima canzone intitolata ironicamente “Putin ti insegna come amare la madrepatria”. Un’iniziativa sul filo del rasoio. Il rischio minore è di finire come Vladimir Luxuria: arrestata ed espulsa. Quello peggiore, di tornare dentro l’arcipelago gulag dei terribili penitenziari femminili russi.
MARIA ALYEKHINA e Nadezhda Tolokonnikova, le leader del gruppo punk, non hanno paura: hanno passato 22 mesi di duro penitenziario. Sanno che il palcoscenico dei Giochi è sotto gli occhi del mondo intero. Sanno pure che il peggio arriverà quando i Giochi si concluderanno. Avevano promesso che la loro lotta non si sarebbe spenta dopo l’amnistia e la scarcerazione del 23 dicembre. Quale migliore platea, se non quella di Soci? E lì atterrano domenica. Il tempo di scaricare i bagagli, che subito sono fermate e schedate dalla polizia. Chiaro gesto intimidatorio.
Le ragazze pigliano alloggio in un albergo a trenta chilometri dalle installazioni dei Giochi. Sono rassicuranti: dicono che non hanno alcuna intenzione di visitare il Parco Olimpico, o fare performances durante le gare. Vogliono solo promuovere quel filmato e cantare. Le autorità non ci credono. E non le lasciano in pace, alla faccia dello spirito olimpico e del “Codice etico del Cio”, il Comitato Olimpico Internazionale, in cui la prima regola è lapidaria: “La salvaguardia della dignità della persona umana è un’esigenza fondamentale dell’Olimpismo”.
Invece, lunedì le Pussy Riot sono di nuovo vessate: 10 ore di interrogatorio, stavolta coi funzionari dell’Fsb, i servizi di sicurezza federali - l’erede del Kgb. Ieri mattina, terzo atto. La polizia intercetta le cantanti sul lungomare di Soci, a due passi dalla chiesa dell’Arcangelo Michele. La retata colpisce almeno una dozzina di persone, oltre le Pussy Riot. Come Eugene Feldman, fotografo di Novaja Gazeta (il giornale in cui lavorava Anna Politkovskaja). O come Anastasja Kirilenko, giornalista di RadioSvoboda (Radio Libertà). Testimoni dell’azione parecchi giornalisti americani, francesi e russi, salvati dall’accredito.
Stranamente, la polizia non sequestra i telefonini delle Pussy Riot. Le quali utilizzano in tempo reale Twitter per scandire la cronaca del loro fermo. Il primo tweet è delle 10 e 46, ora locale: “Siamo state arrestate e siamo accusate di furto”, scrive Nadezhda, “stavamo solo passeggiando a Soci”. Alle 11 e 12 arriva la prima immagine della camionetta in cui le Pussy Riot sono state usando “la forza”, con modi “violenti e offensivi”.
Una prima versione dell’arresto rimbalza in un dispaccio d’agenzia, il fermo delle Pussy e degli altri rientrerebbe nel quadro di un’indagine per via di un furto avvenuto nel loro albergo. Una seconda versione è meno arzigogolata, le Pussy non avrebbero ottemperato all’obbligo della registrazione presso le autorità di polizia entro 24 ore dal loro arrivo a Soci, che riguarda tutti i non residenti.
Verso le 2 e mezzo, le Pussy Riot sono rilasciate. Lasciano il commissariato indossando l’abito di scena dei loro concerti, la testa avvolta da una sorta di calzamaglia, che i russi chiamano balaklava. Appena superano i cancelli, gridano in russo: “Danno in mano la torcia olimpica... nelle colonie insegnano a piangere”. In inglese, spiegano: “Si commettono tante violazioni dei diritti umani... è chiaro che non si tratta solo di un evento sportivo, è un evento politico”. Quanto ai padroni dei 5 cerchi tutto ciò sia indigesto lo dimostra Mark Adams, il portavoce del Comitato Olimpico Internazionale : “Speriamo che i Giochi non saranno utilizzati per qualsiasi manifestazione”, ha dichiarato ieri, commentando il caso Luxuria. Ora un certo malumore sta scuotendo le squadre di Canada e Usa e alcune nazioni europee. Non tutti ci stanno a far finta che Soci sia il paradiso dello sport. Anche perché, in russo, la parola Olimpiada si può scomporre: Olimp, gloria. Ad, inferno.

il Fatto 19.2.14
Leopoldo il nuovo eroe del Venezuela anti Maduro

Scortato dalla folla, riappare e si consegna il leader dell'opposizione
di Alessandro Oppes


Megafono in una mano, la bandiera venezuelana nell'altra, Leopoldo López si dirige alla folla di militanti dell'opposizione da un palchetto improvvisato accanto alla grande statua in bronzo di José Martí, l'eroe nazionale cubano, nella piazza centrale del quartiere di Chacaíto, nel cuore di Caracas: “Potevo restare nella clandestinità, potevo fuggire dal paese, ma io non me ne andrò mai dal Venezuela. Mi presento di fronte a una giustizia ingiusta. Se il mio arresto può servire alla libertà di un popolo, sarà valsa la pena”.
LA TENSIONE è altissima, il leader del movimento Voluntad Popular, che nelle ultime settimane aveva ridato forza nelle strade alla voce dei rivali del “chavismo” - in parte delusi dall'eccessiva prudenza del candidato unitario sconfitto alle ultime due tornate presidenziali, Henrique Capriles (anche lui presente, questa volta, in piazza) - si fa strada tra una marea di magliette bianche e raggiunge il cordone di agenti della Guardia Nacional bolivariana. La polizia lo prende in consegna e lo carica su un blindato: viene eseguito così il mandato di cattura contro la bestia nera del regime (già nel 2008 Chávez ne ordinò la inabilitazione per sei anni con dubbie accuse di corruzione per impedire che si candidasse alla presidenza) emesso da un tribunale di Caracas che lo considera responsabile e organizzatore degli incidenti di mercoledì scorso durante le proteste studentesche, in cui sono morte 3 persone e ci sono state decine di arresti e feriti.
Il presidente Maduro, sempre più in difficoltà per una situazione di crisi economica che gli sta sfuggendo di mano (inflazione al 56%, penuria dei prodotti alimentari di base, mercato nero e fuga di capitali, il tutto aggravato da un tasso di omicidi tra i più alti al mondo) rischia di ritrovarsi con una patata bollente impossibile da maneggiare. López in carcere può risultare più scomodo che a piede libero.
Anche perché i dubbi sul reale andamento degli scontri della scorsa settimana hanno costretto proprio ieri mattina il presidente a destituire il direttore della polizia politica, che potrebbe essere coinvolta nella morte di almeno uno dei tre manifestanti uccisi, secondo quanto emerge dalle immagini di video amatoriali diffuse dal quotidiano Ultimas Noticias. Maduro ha dovuto ammettere che i servizi di intelligence non hanno rispettato l'ordine di restare nelle caserme durante le manifestazioni. Nonostante la Ley habilitante con la quale il Parlamento ha concesso in novembre al presidente poteri speciali che gli consentono di governare per decreto per un anno intero, il “chavismo” è sempre più sull'orlo di una crisi di nervi. Lo si è visto in questi giorni con l'espulsione di 3 diplomatici Usa, accusati di ordire un complotto in combutta con l'opposizione (misura che si ripete periodicamente, ma che difficilmente potrà sfociare in una rottura delle relazioni diplomatiche: gli Usa sono un socio commerciale fondamentale) e con i provvedimenti di censura nei confronti della stampa, ultimo l'oscuramento del canale colombiano Ntn24, che trasmetteva in diretta le violenze contro gli studenti. Immancabile, alla stessa ora in cui la “marea bianca” accompagnava López all'appuntamento con i suoi carcerieri, la prova di forza dell'altra piazza, quella “bolivariana”: un'immensa “marea rossa” riunita dal regime nelle zone simbolo della Caracas “chavista”, fino alle porte del palazzo presidenziale di Miraflores. Dove Maduro ha preso il microfono per arringare i suoi “contro il fascismo” e denunciando un fantomatico complotto “golpista”. Sugli schermi di Telesur, la tv fondata da Chávez, una scritta annuncia in modo sinistro: “Il popolo e le forze armate lavorano insieme”.

Corriere 19.2.14
Ultimatum ai turisti: «Via dall’Egitto»
Gruppo islamico dà 48 ore di tempo. Il governo: «Minaccia seria»
di Cecilia Zecchinelli


Domenica scorsa c’era stato il primo attacco terroristico contro obiettivi stranieri nell’Egitto post Fratelli musulmani, ovvero dal colpo di Stato del generale Abdel Fattah Al Sisi in luglio. Tre turisti sudcoreani su un bus erano stati uccisi con il loro autista da un kamikaze nel Sinai, nella cittadina di Taba al confine con Israele. Ieri l’allarme è salito ulteriormente di tono: il gruppo qaedista Ansar Beit Al Maqdis, autore dell’attentato di tre giorni fa e basato nella stessa penisola tra Europa e Asia, fuori da ogni controllo delle autorità egiziane, ha lanciato un ultimatum di 48 ore: «Raccomandiamo ai turisti di lasciare in sicurezza il Paese prima della scadenza fissata per giovedì», si leggeva in inglese. «La strage di Taba compiuta da uno dei nostri eroi è stata solo un avvertimento».
Gli Ansar, i Partigiani di Gerusalemme che dopo la deposizione del raìs islamico Mohammed Morsi hanno ridiretto la loro strategia di morte da obiettivi israeliani al nuovo «regime usurpatore» egiziano, uccidendo centinaia di poliziotti e soldati, hanno negato di utilizzare i social network. Ma in passato avevano già usato Twitter per rivendicare le loro azioni e lanciare messaggi. E il governo ad interim del Cairo ieri sera ha dichiarato alla Bbc di ritenere seria la minaccia. E di dare credito a quell’ultimatum.
«Non sottovalutiamo le minacce ma siamo in contatto costante con il ministero del Turismo egiziano e abbiamo rassicurazioni che il governo del Cairo sta tenendo sotto controllo la situazione», ha dichiarato Fortunato Giovannoni, presidente della Federazione italiana del turismo Fiavet. «Consigliamo ai nostri turisti di rimanere nelle strutture ed evitare escursioni fuori dai resort perché sono pericolose», ha aggiunto, chiedendo loro di «proseguire la loro settimana con tranquillità». Sarebbero 7/8 mila gli italiani in vacanza sul Mar Rosso e nell’enclave di Sharm El Sheikh, sulla punta meridionale del Sinai: dal golpe di luglio quasi nessuno ha scelto per meta il Cairo e le altre città dove gli scontri tra forze dell’ordine e sostenitori del raìs deposto non si sono mai fermati, con migliaia di morti. In luoghi come Luxor o Abu Simbel, una volta sommersi da fiumi di stranieri, si va in giornata e in convoglio, sotto scorta. E la maggior parte rinuncia a visitarli.
Già dopo la rivoluzione del 2011 il turismo era crollato in Egitto, privando molti stranieri di un viaggio speciale ma soprattutto il più grande Paese arabo di entrate vitali e lasciando senza lavoro, o quasi, milioni di persone. Nel 2012 il settore aveva iniziato a riprendersi, per poi crollare di nuovo. «Il 2013, con 9,5 milioni di presenze e 6 miliardi di dollari di entrate ovvero la metà del 2010, è stato l’anno peggiore in assoluto della nostra storia», ha detto il ministro del Turismo Hisham Zazou. Segnalando però una lenta ripresa a partire da settembre. E le previsioni degli esperti del settore erano in fondo ottimiste. Perfino dopo l’attacco di domenica i tour operator occidentali ipotizzavano un calo limitato al 20% e temporaneo. Perché in Egitto, già in passato, ci sono stati periodici attacchi agli stranieri, da quello mai scordato del 1997 a Luxor (58 turisti uccisi) ai più recenti come a Dahab, nel 2006 (23 vittime). Il fascino del Paese poi torna a prevalere. Ma è difficile dire questa volta quanto tempo ci vorrà: nonostante la repressione massiccia, le proteste antigolpe non si fermano, rendendo le città off limits per gli stranieri. E i qaedisti del Sinai stanno alzando il tono dello scontro senza trovare, per ora, nessun vero ostacolo alla loro jihad.

Il Sole 19.2.14
Pechino. Ritirati quasi 8 miliardi di dollari
La Cina frena sul credito facile
di Rita Fatiguso


PECHINO. Tutti a chiedersi come la Banca centrale cinese possa bacchettare il sistema creditizio invitandolo a tenere sotto controllo i prestiti facili per poi annunciare, a ruota, l'impennata dei nuovi prestiti di gennaio che arriva la gelata agli animi (e alle borse nonché alle divise asiatiche).
È stata la stessa Banca centrale a lanciare un segnale fortissimo: ieri ha chiuso i cordoni della liquidità con il più duro intervento dal mese di giugno scorso.
Non solo. In periferia, nel cuore nero dello shadow banking, nella Wenzhou dei giri di soldi innescati dalle guanxi (le relazioni amicali) ed esportate all'estero (specie nelle comunità immigrate cinesi in Italia, originarie del Sud Est della Cina), le autorità locali hanno annunciato che dal 1° marzo regolamenteranno il sistema informale dei prestiti.
Un segnale forte parte anche dal basso, dunque. The party is over, è lotta contro i prestiti facili specie nelle aree in cui il fenomeno alligna da tempo immemorabile e, quindi, se un singolo prestito supererà il limite dei 3 milioni di yuan (494.400 dollari) o se più prestiti toccheranno i 10 milioni o infine più di 30 persone saranno coinvolte nel prestito stesso dovrà partire la denuncia alle autorità locali.
Una doppia mazzata, proprio mentre lo scorso weekend la stessa banca centrale rivelava che l'ammontare dei nuovi prestiti è stato di 1.320 miliardi di yuan (l'aggregato è di 2.580) il livello massimo dal 2010. La mannaia è scesa sui pronti contro termine, per la prima volta dal mese di giugno ha drenato liquidità in maniera pesante, lanciando un segnale al circuito interbancario con una mossa che ha subito mandato in tilt le borse cinesi: tutte hanno chiuso in negativo e lo yuan ha frenato. Fanno paura i prestiti in sofferenza a 592 miliardi di yuan nell'ultimo trimestre 2013, pari all'1% dei prestiti totali, come nel 2008.
Così la Banca centrale del Paese ha offerto 48 miliardi di yuan, pari a 7,9 miliardi di dollari di repo a due settimane: l'ultima volta che si è ricorso a un simile drenaggio è stato a giugno del 2013 nel pieno del credit crunch. L'economia frena e proprio ieri il ministero dell'Industria ha limato l'obiettivo di produzione industriale 2014, al 9,5 contro la previsione del 10 (nel 2013 è stato del 9,7).

Il Sole 19.2.14
Investimenti italiani in Cina tra i migliori
di Rita Fatiguso


PECHINO. L'Italia è tra i Paesi i cui investimenti diretti in Cina stanno funzionando meglio. L'ha detto ieri Shen Dayang, portavoce del ministero del Commercio cinese (Mofcom) nella conferenza stampa dedicata agli investimenti diretti del mese di gennaio 2014, importanti indicatori di tendenza sia sul fronte delle aziende straniere in Cina sia su quello della Cina nel mondo.
Ebbene, secondo il Mofcom, pur nel calo generale (e pesante) dei nuovi investimenti diretti esteri – specie europei in Cina, contrassegnati da un meno 41,25% a gennaio su dicembre 2013 – l'Italia è tra i Paesi con i migliori margini operativi della presenza cinese. L'Italia, insomma, «è un Paese con il quale stiamo lavorando bene», dice il portavoce al Sole 24 Ore a margine del briefing.
ll contesto generale non è particolarmente frizzante, 1.719 le aziende estere che hanno investito a inizio 2014 in Cina, -8,7% rispetto a un anno fa, con un valore in dollari di 10 miliardi (esclusi gli investimenti finanziari). Una decina di paesi asiatici svetta, tra cui Hong Kong con 9,5 miliardi di dollari; l'America è in ripresa ma l'Europa ha raggranellato un misero importo, 400 milioni di dollari. Al contrario la Cina è ultra-presente in 128 paesi, con 865 aziende operative, valore degli investimenti 7,2 miliardi a gennaio, le costruzioni per l'estero volano a più 11,6%, 31mila gli operai spediti per il mondo, duemila in più di un anno fa.
Eppure è una via obbligata per crescere, l'internazionalizzazione, anche per le aziende italiane. Commenta Roberto Spinedi, di A+network, che a questo tema ha dedicato uno studio che sarà presentato domani a Milano in un convegno di Banca Sistema: «Si deve crescere ancora in qualità. Come? Le Pmi soprattutto devono definire una strategia di medio lungo termine, capire i mercati, conoscere il Paese, avere partner in loco da selezionare in modo accurato, dotarsi in una struttura di management e aggregarsi anche con modalità diverse, flessibili».
Consigli che possono essere utili in un frangente caratterizzato da incertezza politica, e con una serie di negoziati in corso tra Italia-Cina inevitabilmente rallentati a causa della crisi di Governo. La commissione mista guidata dal viceministro Carlo Calenda e, poi, l'arrivo dell'ex premier Enrico Letta con una nutrita delegazione di imprese, auspicata a Sochi dal presidente cinese Xi Jinping in persona («Vi aspettiamo a Pechino») non ci saranno. Ma il negoziato sottostante resta apertissimo, allo scopo di incentivare soprattutto nuovi, mirati, arrivi in Cina di aziende del made in Italy specie nei settori della green economy, della sanità, dell'urbanizzazione e dell'agroalimentare, tutti settori nei quali l'Italia vanta competenze riconosciute.
In realtà, la Cina è uno sbocco privilegiato per le imprese italiane anche dal punto di vista commerciale. I dati dell'ultimo trimestre Istat parlano di un incremento del 9,5% sul versante cinese. Dato ripreso ieri da Assocamerestero: negli ultimi due anni la bilancia commerciale italiana ha raggiunto un attivo complessivo di 40,3 miliardi di euro, a testimonianza del contributo positivo dato dalla domanda estera alla crescita del Paese, a fronte della continua flessione della domanda interna per consumi e investimenti. Tra i principali mercati di destinazione, guadagnano terreno aree come il Mercosur (+14,7%), la Cina (+9,5%) e la Russia (+8,2%).

l’Unità 19.2.14
Come raccontiamo gli «altri» da noi
Da Albinati a Geda e Catozzella: i nostri scrittori e le storie sui migranti
di Paolo Di Paolo


BISOGNEREBBE SEMPRE PARTIRE DALL’IGNORANZA. DA CIÒ CHE NON SAPPIAMO, DA CIÒ CHE NON CAPIAMO. È L’UNICO MODO PER ROMPERE L’INGANNO DEGLI STEREOTIPI E DEI PREGIUDIZI, PER METTERSI AL RIPARO DAL RISCHIO DELLA PRESUNZIONE. Dagli anni Ottanta in poi la figura dello straniero, del migrante, dell’«altro» si è fatta largo nella letteratura italiana. Pionieristico fu Edoardo Albinati, che nel 1989 nelle pagine di Il polacco lavatore di vetri tenta di calare il proprio sguardo in quello di un immigrato che passa le sue giornate in strada, fra le auto degli altri: «Roma gli pareva un enorme magazzino di merci e automobili, attraversato da un fiume di gente indaffarata e da un fiume vero di acqua torbida, che si strofinava sulle rive sporche come un cane rognoso... A Roma erano tutti occupati a comprare, espandere, sostituire, gettare via, quasi nessuno discuteva o pregava». Lo sforzo di Albinati, all’epoca trentenne, è stato anche quello di raccontare il razzismo sotterraneo, nascosto anche dietro al desiderio sessuale per giovani donne polacche trattate come oggetti. Quando si racconta l’altro, gli ostacoli sono infiniti. Si inciampa anche senza volerlo. Si dice «africani», per esempio, dimenticando che l’Africa è un continente. E anche quando si prova a raccontare con le migliori e più generose intenzioni, si rischia di cadere con tutte le scarpe nello stereotipo. I romanzi italiani degli ultimi decenni sono affollati di stranieri, diciamo pure di «immigrati», ma è raro che siano protagonisti: fanno parte del paesaggio, piuttosto. E accade, anche o soprattutto nei noir, che indossino i panni di delinquenti. Scrittori come De Cataldo o Pallavicini hanno già anni fa sperimentato la via del racconto di amicizia fra italiano e straniero, ma - come hanno notato Maria Cristina Mauceri e Maria Grazia Negro nell’illuminante Nuovo immaginario italiano (Sinnos), uscito nel 2009 - faticando a scrollarsi di dosso piccole o grandi ossessioni pregiudiziali. Fosse pure, in forma di morbosa leggenda, la potenza sessuale dell’uomo di colore.
DALLE TESTIMONIANZE ALLA FICTION All’inizio degli anni Novanta arrivano sui banchi delle librerie italiane le prime testimonianze autobiografiche di migranti, in alcuni casi raccolte da autori italiani, come fu per Mario Fortunato con il tunisino Salah Methnani (Immigrato, 1990). La letteratura dei migranti in lingua italiana è ancora un’altra storia, più recente e piena di sorprese. Perché è in questo spazio che i pregiudizi vengono ribaltati, fatti esplodere. Oppure laddove preesiste alla scrittura una relazione tra italiano e migrante: come nel caso di chi, per esempio, sperimenta l’insegnamento della lingua italiana a una platea di studenti stranieri. E scopre che insegnare è anche imparare: Beatrice, nel romanzo di Paola Presciuttini Il ragazzo orchidea, dà lezioni di italiano a Nazim e Nazim, analfabeta, in cambio le insegna come si prepara il tè nel suo Marocco. Scoprono così una fratellanza insperata: «Intuiva qualcosa di più profondo, una radice intricata che si sviluppava dentro e oltre quell’uomo, qualcosa che da qualche parte si intrecciava anche con la sua storia, col suo passato remoto». Il punto è forse proprio questo: scambiarsi storie. Nella Città dei ragazzi di Eraldo Affinati (lo scrittore insegna in una comunità per ragazzi in difficoltà che arrivano da tutto il mondo) le storie sono tante e diverse, spesso disperate: raccontandole, raccontandosele, ci si specchia gli uni negli altri: «il segreto che molti esseri umani scoprono ogni giorno senza riuscire a farlo proprio, perché, qualora ciò accadesse, la vita non sarebbe più la stessa: se io aiuto te, è come se tu assistessi me, e lui venisse incontro a lei, e noi appoggiassimo voi, e loro sostenessero tutti gli altri». La paura, la fuga, la nostalgia, il cambiamento, la scoperta, la possibilità, la delusione, il riscatto, sentirsi stranieri nel paese vecchio e in quello nuovo. Affinati «adotta» tutti i suoi allievi, ne adotta le vite e le storie, le camicie mai lavate, le lettere piene di errori ortografici e di dolore, i sorrisi tristi. È un libro bellissimo e commovente, onesto come pochi altri.
Nel 2010 Fabio Geda ha raccolto la storia vera di un ragazzo afghano in Nel mare ci sono i coccodrilli, la sua odissea terribile per fuggire dal regime dei talebani e arrivare in Italia passando per Iran, Turchia e Grecia. Il libro ha avuto un successo straordinario e continua a essere letto in molte scuole. La scommessa di Geda è stata quella di dare voce a un’altra voce: lo scrittore diventa non solo testimone ma «nastro magnetico ». Registra e salva l’esperienza altrui, rispettandone la verità, senza farla diventare romanzo. L’esperimento recentissimo di Giuseppe Catozzella - Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) - è interessante perché passa dalla «registrazione » di un’esperienza reale alla sua traduzione romanzesca, non in terza ma in prima persona. Catozzella diventa cioè Samia Yusuf Omar, la giovanissima atleta somala con il sogno di diventare campionessa olimpica morta nel tentativo di raggiungere le coste italiane nell’agosto del 2012. L’azzardo è notevole. Uno scrittore italiano di trentasette anni si impossessa della voce di una ragazzina rimasta tale, una voce straniera e assente.
Catozzella in sostanza, per usare l’espressione di Celan, sceglie di testimoniare per i testimoni. È lecito? Me lo sono domandato per tutta la lettura. Per poi concludere che la scommessa di Catozzella è necessaria: coincide con il tentativo di sfidare la propria stessa «ignoranza» dell’Altro, di «inventarlo» dentro sé stessi, in una forma estrema di immedesimazione che annulla qualunque distanza. Io sono l’altro, io sono Samia - sembra dire dunque Catozzella, e ciò non ha nulla di bovaristico. Lo scrittore intende superare ogni stereotipo proprio perché fa i conti con l’unicità di una esistenza - quella esistenza e non un’altra, quel destino e non un altro, quella voce e non un’altra. Catozzella dilata al massimo la sua capacità di immaginazione: e immaginare significa mettersi nei panni, fare proprio il dolore degli altri. Da «salvati», prendersi cura della voce inabissata dei «sommersi»: «Mentre sbatto le braccia contro le onde mi canto in testa la canzone di Hodan, la nostra canzone sulla libertà. Me la canto mentre faccio su e giù, provo a cantarla con la bocca ma non ci riesco, allora la ripeto nella mente».

Repubblica 19.2.14
Dai filosofi greci ai quanti e alle stringhe

Nel nuovo saggio di Carlo Rovelli una versione personale dello sviluppo teorico della fisica e dei modelli di descrizione del reale
Con un interrogativo: è tutto vero?
L’apparenza inganna

Così la scienza ci insegna che il mondo non è ciome sembra
di Piergiorgio Odifreddi

Alziamo gli occhi e osserviamo il Sole e la Luna girare in cielo, ma in un caso ci sbagliamo e nell’altro no. Guardiamo le stelle e ci illudiamo di vederle come sono ora, ma stiamo osservando la loro luce di anni o millenni fa. Passeggiamo nel silenzio di un bosco, ma siamo avvolti da innumerevoli onde radio che solo un apparecchio ci permette di udire. Ci chiniamo a osservare un fiore colorato, ma non scorgiamo gli stessi colori di un’ape che vede nell’ultravioletto. Tiriamo un pallone a poche decine di metri, ma non pensiamo che nel vuoto il calcio l’avrebbe spedito all’infinito. Alziamo con fatica un peso, e non ci rendiamo conto che è quasi tutto costituito di vuoto. Gli atomi non li vediamo neppure al microscopio, che ci rivela però un mondo alieno in cui un insetto ci appare come un mostro da film dell’orrore.
E così via, di illusione in abbaglio, perché le cose sono molto diverse da come immaginiamo o crediamo che siano. Ma qualunque libro di divulgazione scientifica decostruisce la nostra ingenua e fallace immagine del mondo, mostrandoci in maniera sorprendente che La realtà non è come ci appare. Così fa appunto l’omonimo libro di Carlo Rovelli (Cortina), un fisico quantistico e filosofo della scienza che dalle pagine del Sole 24 Ore allieta spesso le nostre domeniche con profonde meditazioni e acute recensioni, che aspettano di trovare la loro unità in quella che sarà una memorabile raccolta.
Rovelli ci ha già regalato, un paio di anni fa, una ricostruzione del pensiero di Anassimandro in Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (Mondadori). Ponendosi, allora, sulla scia dei classici Fisica e filosofia di Werner Heisenberg e La natura e i greci di Erwin Schrödinger, che fin dalla nascita della teoria dei quanti si rivolsero al pensiero dei presocratici per trovarvi le radici della nuova fisica che avevano creato.
Con il suo nuovo libro Rovelli ci fornisce ora la propria versione dello sviluppo teorico della fisica, dalle origini ai nostri giorni. Ponendosi, questa volta, sulla scia degli innumerevoli divulgatori che hanno raccontato in tutti i modi la stessa storia, da L’evoluzione della fisica di Albert Einstein e Leopold Infeld a L’universo elegante di Brian Greene, come un pianista che si confronta con gli altri grandi interpreti del passato o del presente sul terreno dell’interpretazione di un classico.
La musica è dunque quella nota, che parte dalle intuizioni presocratiche di due millenni e mezzo fa e arriva alla relatività e ai quanti del Novecento, passando attraverso la meccanica del Seicento e l’elettromagnetismo dell’Ottocento. Anche se poi ciascun interprete, dopo essersi cimentato nella propria esecuzione, si concede una cadenza o una serie di libere variazioni. Nel caso di Rovelli, queste variazioni sono suonate sul tema dell’unificazione delle due grandi teorie del Novecento nella cosiddetta
gravità quantistica, al cui sviluppo egli stesso e i suoi collaboratori hanno contribuito.
Per quanto riguarda l’esecuzione dei temi classici, Rovelli si è ispirato, consciamente o inconsciamente, al Cartesio dei Principi di filosofia, che lo stesso autore suggeriva di «leggere come se fossero un romanzo». Ed effettivamente così si legge, d’un fiato, la prima parte del libro, che racconta con tocco leggero e convincente i fatti salienti della storia della fisica teorica.
Ad esempio, alle pagine 44-45 si ricorda che Galileo misurò l’accelerazione di gravità sulla Terra, trovando il famoso valore di 9,8 metri al secondo quadrato. Poi Newton immaginò una piccola Luna che ruotasse all’altezza delle montagne, ne calcolò con la terza legge di Keplero il periodo in un’ora e mezza, e con la formula dell’accelerazione centripeta trovò che questa era esattamente l’accelerazione calcolata da Galileo. Dunque, la piccola Luna viene tenuta in orbita dalla stessa causa che fa cadere i corpi sulla Terra.
Newton non amava però i romanzi di Cartesio, ai quali imputava di essere (come tutti i romanzi) verosimili, ma non veritieri. E a Rovelli avrebbe ricordato che in realtà Galileo aveva misurato un valore completamente sbagliato, di circa 4,6: dunque, quando Newton provò a fare il suo giochetto, si accorse che non funzionava. Fu solo quando trovò lui stesso il valore corretto, che poté riprovarci. Ma non usando la terza legge di Keplero, che non si poteva verificare per un corpo come la Terra, con un solo satellite. Bensì, calcolando l’accelerazione della Luna vera e trovando che era in proporzione inversa al quadrato della sua distanza rispetto alla Terra.
La prima parte del libro di Rovelli deve dunque essere presa cum grano salis,ricordando che è una poetica trasposizione letteraria e non un prosaico resoconto scientifico. L’esatto contrario della seconda parte, in cui invece le storie su “Isaac e Albert”, come vengono amichevolmente chiamati i protagonisti, cedono il passo ala storia della “gravità quantistica”: un tentativo di mettere insieme la gravitazione einsteniana e la meccanica quantistica, cercando di rimanere il più possibile coi piedi per terra.
Si tratta di uno dei due tentativi estremi di soluzione del problema dell’unificazione delle due grandi teorie novecentesche: l’altro è la più nota, ma anche più fantascientifica, “teoria delle stringhe”, divulgata nel citato libro di Greene. A differenza di quest’ultima, che i seguaci della prima accusano di essere un castello in aria e invidiano per il suo successo quasi monopolistico, la gravità quantistica procede con i piedi di piombo e a passettini guardinghi, senza lanciarsi in speculazioni avventate. Anche così, i risultati non sono comunque meno eccitanti, e certo sono più affidabili. L’equazione di Wheeler-DeWitt su cui si basa la teoria permette di descrivere le linee del campo gravitazionale in maniera analoga a quelle del campo elettromagnetico, ma quantizzata come le orbite degli elettroni negli atomi. Esistono limiti precisi e calcolabili alla divisibilità dello spazio (lunghezze, aree e volumi), ed esso si dissolve insieme al tempo, mentre l’infinito scompare. In una parola, la realtà cessa veramente di essere come ci appare, com’eravamo stati avvertiti fin dal titolo.
La conclusione è però sorprendente, perché dopo aver raccontato la sua storia da fisico Rovelli ricorda di essere anche filosofo, pone la domanda: «Siamo sicuri di tutto questo?», e risponde con un sonoro: «No». Ora, che gli scienziati non siano ancora sicuri delle teorie ancora in divenire, e in particolare della gravità quantistica, è ovvio. Ma che siano invece perfettamente sicuri di quelle ormai confermate oltre ogni ragionevole dubbio, come appunto la relatività generale e la meccanica quantistica, è altrettanto ovvio. Che queste teorie diano soltanto «le migliori risposte trovate finora e disponibili al momento», non significa che un giorno quelle risposte saranno sovvertite: significa, invece e soltanto, che pur continuando a rimanere valide nei loro ambiti, saranno inglobate in risposte più ampie che le includeranno come casi particolari. Naturalmente, Rovelli queste cose le sa benissimo e le ammette nel corso del libro, quando parla da fisico. Ma quando indossa i panni dell’umanista scrive parole più adatte a un postmoderno che non crede all’esistenza di verità definitive, che non a uno scienziato che non solo ci crede, ma addirittura le conosce.

Repubblica 19.2.14
La Chiesa secondo Francesco

La rivoluzione di Francesco contro i mandarini del Vaticano
È trascorso quasi un anno da quando Jorge Bergoglio è stato eletto papa. E già sono evidenti gli effetti delle sue riforme
di Eugenio Scalfari


È PASSATO quasi un anno dall’elezione di Jorge Bergoglio al soglio di Pietro ed ora tutta la Chiesa ha fiducia in lui, i fedeli soprattutto per la sua grande capacità di comunicatore, la sua apertura al dialogo, le sue immagini di una Chiesa povera e missionaria, la sua fede nel Dio misericordioso con tutti.
Ma non solo i fedeli affollano le chiese e le piazze per ascoltarlo; anche le strutture istituzionali, in Italia e in tutto il mondo, lo appoggiano senza più le riserve iniziali che non erano né poche né marginali. Lo appoggiano e puntano sul successo della sua azione riformatrice i Vescovi di tutte le nazioni cristiane nell’America Latina, in quelle americane del Nord, in Europa, in Africa, in Asia, in Oceania; lo appoggiano i cardinali, la Curia, le Conferenze episcopali, i presbiteri, le Comunità, gli Ordini religiosi, le Università cattoliche, gli Oratori, i Protestanti. Lo stimano e vogliono dialogare con lui i rabbini e le comunità ebraiche, gli imam che predicano il Corano e perfino - perfino- i non credenti.
Roma è ridiventata la capitale del mondo. Non l’Italia, ma Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo; non Washington, non Brasilia, non Pechino, non Nuova Delhi, non Mosca, non Tokyo, ma Roma. Non avveniva da duemila anni, ma adesso è così.
Dunque un trionfo in appena un anno non ancora compiuto. Apparentemente è così. Sostanzialmente anche, ma solo in parte e, aggiungo, in piccola parte almeno per ciò che riguarda la struttura vaticana e che Francesco chiama l’Istituzione: la Chiesa che ha come principale obiettivo la sua conservazione e il potere, il temporalismo che ne derivano. Quella che Francesco ha in notevole misura degradato al rango di “intendenza”, quella che deve fornire i necessari servizi alla Chiesa combattente e missionaria. Insomma i mandarini, come li chiamerebbero in Cina.
I mandarini nella Chiesa cattolica ci sono sempre stati dopo i primi tre secoli della Chiesa patristica. Hanno certamente avuto una funzione storica tutt’altro che trascurabile; hanno evangelizzato l’Europa e le Americhe, hanno continuamente aggiornato e riformato, modernizzato l’Istituzione e il suo linguaggio, il suo modo di proporsi al popolo dei fedeli e alle potenze politiche europee. Hanno combattuto guerre non solo teologiche ma con lance e spade e spingarde e cannoni e navi e cavalieri e inquisizioni e persecuzioni. Sconfitte e vittorie e scismi, eresie e vendette e intrighi e diplomazie e dogmi e scomuniche.
Questa è stata la storia del Papato e della Chiesa; non ad intervalli, ma continuativamente. Una Chiesa verticale assai poco apostolica. Ventuno Concili in duemila anni; molti sinodi ma con pochi poteri. Intrecciata alla storia dei regni e dei poteri politici, Francia, Spagna, Inghilterra, principi elettori di Germania, Bizantini, Saraceni, imperatori e califfi. Spesso la Chiesa ha perso, spesso ha vinto, da sola con le scomuniche, o con le armi alleandosi col vincitore.
Ma non è stata soltanto questo. È stata anche la Chiesa missionaria, la Chiesa povera, la Chiesa martire, la Chiesa dell’amore e della misericordia. Ma il nucleo di questo ampio ventaglio è sempre stato tenuto in mano dall’Istituzione.
Ora – e per la prima volta – l’Istituzione è a rischio di perdere il rango di guida. In parte l’ha già perso ma non del tutto. I mandarini ci sono ancora. Hanno fatto atto di sottomissione, si sono allineati, ma ancora combattono. Come? Credono di convincere Francesco ad attuare buone riforme ma non una rivoluzione, giocando sulla doppia natura di papa Bergoglio che come tutti gli uomini che hanno testa e cuore e quindi contraddizioni dentro di sé possono da quelle contraddizioni ricavare ricchezza, pienezza e armonia tra intelletto ed anima oppure confusione e incoerenza.
I mandarini sono sempre stati al passo dei tempi ma con cautela, prudenza, compromessi nel rafforzamento del loro ruolo. Francesco, non dimentichiamolo, è nato e cresciuto nella Compagnia di Gesù. Si sente ancora gesuita? Ma ha scelto di chiamarsi Francesco, come finora non era mai avvenuto. Che cosa significa questa miscela? Come si può mettere insieme il poverello di Assisi e Ignazio di Loyola? Basta la fede in Cristo? Ma chi è Cristo per papa Francesco e chi è per i mandarini che ancora allignano e non solo in Vaticano.
Ad una delle domande qui formulate una risposta me la sono data; naturalmente è la mia e deriva soltanto da quanto credo di aver capito di papa Francesco che, secondo me, è tuttora identificato con la cultura e la testimonianza che la Compagnia di Gesù ha dato della Chiesa per cinque secoli.
Oggi la Compagnia è molto meno potente di un tempo, altre forze sono nate nel tessuto dell’Istituzione, il clero regolare ha perso parte del suo ruolo e i gesuiti non hanno più il primato della cultura e dell’educazione della gioventù cattolica. Il cosiddetto Papa nero, cioè il generale della Compagnia, è definitivamente tramontato e il “perinde ac cadaver”, che è ancora il motto della Compagnia, non ha più alcun reale significato.
Del resto non l’ha mai avuto perché i contrasti tra il Papato e la Compagnia sono stati frequenti e per ben due volte portarono all’isolamento dei gesuiti e alla loro cacciata da alcuni paesi europei a cominciare dalla Francia, col beneplacito del Vaticano.
Tuttavia la cultura gesuitica e soprattutto la prassi comportamentale che viene insegnata ai loro novizi e ai cattolici che frequentano le loro scuole, le loro università ed i loro esercizi spirituali è ancora di alto livello e di notevole suggestione. Consiste soprattutto in tre punti: la vocazione missionaria fondata non sul proselitismo ma sull’ascolto e sul dialogo con i diversi; la capacità di guidare, capire e in qualche modo influire sui processi della società dove la Compagnia è presente; dividersi tra di loro identificandosi con processi così diversi l’uno dall’altro restando tuttavia profondamente legati alla Compagnia e ai suoi organi centrali. Insomma una sorta di gioco delle parti nel quadro d’una rappresentazione della quale sono gli attori principali.
Un tempo, l’ho già detto, la loro potenza nella Chiesa e nei paesi cattolici del nostro continente fu di altissimo livello; del resto la Compagnia fu fondata da Ignazio per combattere lo scisma luterano e limitarne le conseguenze. In che modo? Non opponendogli il conservatorismo ma una forte riforma. I laici e i protestanti la chiamarono controriforma dando un significato conservatore a quella parola, ma non era così e basta ricordare l’azione pastorale dei Borromeo, Carlo e Federico, del quale ultimo c’è ampio racconto nei Promessi Sposi del Manzoni.
Papa Bergoglio è intrinseco della cultura e della prassi della Compagnia e non è certo un caso che sia il primo Pontefice che da essa proviene in una fase di estrema laicizzazione del mondo e di estremo isolamento della Chiesa. Vuole una Chiesa missionaria così come la Compagnia l’ha voluta e praticata; esorta i preti regolari e quelli secolari a comprendere l’ambiente in cui operano e adeguare ad esso la loro cura d’anime, ma li esorta anche a confrontarsi con culture religiosamente diverse, con particolare attenzione ad aperture di dialogo con non credenti e atei. E vuole, papa Bergoglio, trasformare in questo senso la Chiesa, il ruolo dei Vescovi e delle Conferenze episcopali, il ruolo della Curia, senza mai abbandonare la dottrina né smontare l’architettura dogmatica, semmai interpretarne il significato.
I gesuiti sono maestri nella casistica, anzi ne sono addirittura gli inventori e Bergoglio è, in quanto Papa, il maestro dei maestri. Nelle sue mani la casistica ha compiuto un salto di qualità ed è diventata una visione plurima del mondo, un ventaglio amplissimo di posizioni diverse e contraddittorie da gestire indirizzandole verso una convivenza proficua e di reciproca comprensione e rispetto.
Ecco, una fedeltà alla Compagnia a 24 carati. Ma il gesuita Bergoglio eletto al soglio di Pietro non si chiama, come pure avrebbe potuto, Ignazio, bensì Francesco, con esplicito riferimento al santo di Assisi. Nessuno aveva mai preso quel nome nella storia del papato. Un gesuita si chiama papa Francesco. Qual è il significato e il senso di questa apparente contraddizione?
Molti pensano che Francesco d’Assisi, dopo una “jeunesse dorée” finita piuttosto male, cui seguì una radicale conversione almeno agli inizi vissuta per il suo valore espiatorio, sia stato una sorta di fondamentalista della Chiesa dei poveri: piedi scalzi o con sandali anche nei più rigidi inverni, risorse individuali nessuna, risorse della comunità dei frati scarsissime e frutto di elemosine più spontanee che cercate e chieste, fedeltà totale a Cristo, fratellanza e amore tra i seguaci di Francesco, assenza di conventi accoglienti anteponendo un’itineranza pressoché continua, amore per il prossimo da soccorrere, scarsi contatti con la Chiesa ufficiale e istituzionale, identificazione con la virtù, la natura, la preghiera, la poesia che sgorga dall’anima, nessun timore per “sora nostra morte corporale” perché l’anima è immortale e la vita solo un transito.
Questo racconto dell’iniziazione di Francesco e dei suoi compagni coglie senza dubbio alcuni aspetti comuni della Chiesa povera da loro praticata e predicata, ma ne tralascia altri non meno importanti.
Per esempio i contatti che da un certo momento in poi Francesco ebbe e coltivò con i dignitari della Chiesa e col Papa quando decise di consolidare in un Ordine e nelle sue regole le comunità dei suoi seguaci, di dargli una sede, ferma restando la pratica itinerante intervallata però di soste non di riposo ma di contemplazione dello Spirito e di se stessi.
I contatti con la Chiesa ufficiale furono lunghi e piuttosto complessi. La Curia non era molto propensa a riconoscere un Ordine di quella natura nel momento stesso in cui la Chiesa era già nel pieno delle sue lotte temporali e ancora alle prese con la secolare questione delle investiture, dopo la piena vittoria a Canossa di papa Gregorio VII. Una lotta per il potere dalla quale Francesco e i suoi seguaci erano del tutto estranei, anzi del tutto avversi.
Alla fine fu il Papa stesso a ricevere Francesco colmandolo di lodi e condividendo l’idea che ci fosse un Ordine come egli proponeva, ma condizionandone l’approvazione a modifiche non marginali delle regole proposte da Francesco. La trattativa durò a lungo.
Alla fine gran parte delle modifiche furono accettate dalla comunità francescana e l’Ordine nacque. Sarebbe lungo e fuori posto in questa sede dar conto di questa complessa vicenda che del resto è stata ampiamente esaminata dagli storici della Chiesa. Ricordo però che Francesco ha avuto contatti col Papa e con i suoi dignitari ma la sua itineranza lo portò in varie regioni d’Italia e perfino in Terrasanta dove le Crociate avevano da tempo messo quelle terre a ferro e fuoco creando principati cristiani, eserciti stanziali e Ordini militari e religiosi insieme. Francesco ne conobbe i capi e molti cavalieri, ma conobbe anche alcuni dei capi saraceni e con alcuni di loro pregò il Dio che è universale e del cui nome nessuno dovrebbe appropriarsi e farne bandiera di guerra. Alcuni dei cristiani di Terrasanta si convinsero a quanto Francesco predicava e se ne convinsero perfino alcuni dei capi saraceni da lui incontrati che lo frequentarono ed anche lo ospitarono per qualche giorno dimostrando amicizia alla persona e rispetto per la fede da lui manifestata verso il “Dio di tutti”.
Questi sono i tratti salienti sia pure accennati in modo estremamente sintetico, della Compagnia fondata da Ignazio e della Chiesa povera guidata dal santo di Assisi. Ci sono, tra i due Ordini e soprattutto tra i loro fondatori alcuni tratti comuni; soprattutto la fede in Gesù Cristo e nella Chiesa sua mistica sposa; ma le differenze sono di gran lunga prevalenti. Papa Francesco porta con sé e dentro di sé entrambe queste due possenti manifestazioni di religiosità, di ruolo e di comportamenti.
Mi sono chiesto se si tratti di una contraddizione apparente o sostanziale e la risposta che mi do è: sostanziale.
Ignazio ebbe anche alcuni momenti di misticismo ma non è su di essi che poggiò la sua azione; amava i mistici, li riteneva indispensabili alla Chiesa, ma la sua fede era radicata nella sua testa e non soltanto nel suo cuore. Da questo punto di vista papa Francesco gli somiglia molto.
Il santo di Assisi visse invece in uno stato di misticismo e di identificazione con Cristo quasi permanenti. Basterebbe il suo rapporto di dolcezza e di dialogo continuo con la natura “sive Deus”, le stimmate sulle sue mani, l’amore spirituale con Chiara che fu accanto a lui nel momento saliente della sua esistenza.
Che io sappia per quello che ho colto in papa Francesco, quest’aspetto saliente di misticismo e trasfigurazione in lui non ci sono. C’è l’ammirazione e vorrei dire l’adorazione per il santo di cui ha preso il nome. L’identificazione tra queste due figure si realizza tuttavia su un piano altrettanto importante ed è quello dell’amore per il prossimo, della misericordia diffusa a tutte le anime, della Chiesa povera e missionaria che dialoga con tutti, che è vicina a tutti i deboli, a tutti i poveri, a tutti gli esclusi, dell’identificazione di questa Chiesa con il popolo di Dio e dei suoi presbiteri con cura di anime, dei Vescovi successori degli apostoli, delle Comunità dedicate al volontariato, delle pecore smarrite e dei “figli prodighi” che tornano perché hanno sentito nel loro profondo d’essere cercati.
La Chiesa-istituzione non è stata quella predicata da Gesù se non in parte. Per secoli e anzi millenni la priorità di ruolo l’ha avuta l’Istituzione consapevole del valore della Chiesa povera ma dedicata soprattutto all’esercizio del potere e quindi della temporalità, comunque aggiornata ai tempi ma dedita al rafforzamento e all’ampliamento della temporalità.
Papa Francesco è sempre stato in guerra con la primazia della temporalità. È flessibile e consapevole ed esperto della forza dei suoi avversari, è astuto nella gradualità e nella necessità di compromessi, ma è anche sagace nel cogliere il momento dell’attacco radicale agli ostacoli che i mandarini gli oppongono. Insomma è una guerra e durerà a lungo.
Ratzinger non si era accorto di questa realtà. I brevi anni del suo pontificato li ha vissuti come una sorta di Truman Show, una città del tutto fittizia costruita da una potente società televisiva e abitata da dipendenti di quella società della quale il protagonista era il solo a non sapere che tutto era finto, finte le famiglie, finto il lavoro degli artigiani, finta l’amicizia e il rispetto che tutti gli dimostravano in quel sito della terra che sembrava il più felice, onesto e agiato del mondo. Finto e inesistente fino a quando...
Fino a quando Benedetto XVI si trovò coinvolto nello scandalo del “Corvo”, delle malefatte del suo maggiordomo, nelle ruberie dello Ior e nella complicità della Curia. E scoprì che il mondo in cui credeva d’aver vissuto celava un pantano morale. Ne capì la vastità e il radicamento; misurò la vastità di quel mondo e le proprie forze e decise che la sola cosa che doveva fare era denunciarne l’esistenza e dimettersi. L’energia di affrontare una guerra così lunga e complessa il suo corpo non l’aveva. Sperò e pregò affinché il Conclave seguito alle sue dimissioni scegliesse la persona adatta e così accadde un anno fa.
Il Papa che oggi conduce l’opera di bonifica e di trasformazione che Ratzinger non poté fare ha dentro di sé l’obiettivo del santo d’Assisi e la metodica di Ignazio. La contraddizione è questa: la bonifica della palude è uno scopo che anche Ignazio aveva ben presente ai suoi tempi ma la sua metodica si svolgeva nella palude, utilizzava la palude per rendere ancora più necessaria la presenza della Compagnia. Dopo Ignazio, la Compagnia trasformò la metodica da strumento in obiettivo sicché una parte di quell’Ordine alimentò la palude per sguazzarvi dentro.
Ora si dà il caso che il gesuita Bergoglio abbia riportato la metodica gesuita da metodica a strumento. Per questo ha preso il nome di Francesco. Ma questa non è una posizione riformista che i mandarini tollererebbero e addirittura appoggerebbero. Questa è una rivoluzione. Un gesuita che sceglie quel nome è, forse contro le sue intenzioni, forse anche senza che ne sia interamente consapevole, una bomba. Non era mai accaduto nella storia della Chiesa. Era accaduto invece che la Chiesa, dopo i primi secoli, si fosse impestata, corrotta, penetrata da quello che Dostoevskij chiama, lo “Spirito della terra” e cioè il demonio, la corruzione, la lotta per il potere.
Papa Francesco lo sa ed è questa la sua battaglia. Ha molte doti papa Francesco: carità spirituale, curiosità dei diversi, estrema socievolezza ed allegria di spirito, simpatia ed empatia. È la persona adatta per lo scopo che si prefigge. Oltre il novanta per cento dei fedeli è con lui, ma gli ostacoli sono numerosi e lo Spirito della terra, comunque lo si voglia identificare, è una muraglia di gomma difficilissima da sradicare.
I non credenti dal canto loro, hanno anch’essi un muro di gomma che protegge i malgoverni, gli interessi illeciti, la vanità dei potenti, la demagogia, il semplicismo, l’inconsapevolezza, l’irresponsabilità, il dispotismo e il privilegio.
Francesco è amico dei non credenti che combattono questa battaglia ed essi a loro volta sono suoi amici. Per quanto mi riguarda, io mi sento legato da profonda amicizia con papa Francesco e sono da tempo ammirato dalla predicazione e dalla vita di Gesù che considero un uomo e non un Dio, ma certo un personaggio d’eccezione quale ce lo raccontano i Vangeli che sono la sola fonte della sua esistenza storica.
Ammesso che sia esistito un personaggio di quella fatta, l’Istituzione da lui ispirata dura da due millenni e dentro di essa se ne sono viste di tutti i colori ma anche quei principi di carità fraternità, responsabilità, sofferenza e gioie, desideri, amore, debolezza e forza che insieme ai loro contrari convivono dentro gli animali pensanti che noi siamo.
Caro papa Francesco, su sponde diverse noi combattiamo la stessa battaglia. Purtroppo durerà fino a quando esisterà la nostra specie. I leoni e le formiche, i topi e le gazzelle non hanno i nostri problemi e le nostre contraddizioni. Anch’essi sopportano la fatica del vivere, la paura e la soddisfazione quando appagano i loro bisogni primari. La nostra fatica è diversa e forse maggiore della loro e questa è la nobiltà delle nostre umane vicende.

Corriere 19.2.14
Uno sguardo nuovo sulla povertà
di Francesco


«Vi è un originale legame tra profitto e solidarietà, una circolarità feconda fra guadagno e dono» In questo c’è una grande verità. Il denaro è uno strumento che in qualche modo – come la proprietà – prolunga e accresce le capacità della libertà umana, consentendole di operare nel mondo, di agire, di portare frutto. Di per sé è uno strumento buono, come quasi tutte le cose di cui l’uomo dispone: è un mezzo che allarga le nostre possibilità. Tuttavia, questo mezzo può ritorcersi contro l’uomo. Il denaro e il potere economico, infatti, possono essere un mezzo che allontana l’uomo dall’uomo, confinandolo in un orizzonte egocentrico ed egoistico.
La stessa parola aramaica che Gesù utilizza nel Vangelo – mammona , cioè tesoro nascosto (cf. Mt 6, 24; Lc 16,13) – ce lo fa capire: quando il potere economico è uno strumento che produce tesori che si tengono solo per sé, nascondendoli agli altri, esso produce iniquità, perde la sua originaria valenza positiva. Anche il termine greco, usato da San Paolo, nella Lettera ai Filippesi (cf. Fil 2, 6) – arpagmos – rinvia a un bene trattenuto gelosamente per sé, o addirittura al frutto di ciò che si è rapinato agli altri. Questo accade quando dei beni vengono utilizzati da uomini che conoscono la solidarietà solo per la cerchia – piccola o grande che sia – dei propri conoscenti o quando si tratta di riceverla, ma non quando si tratta di offrirla. Questo accade quando l’uomo, avendo perso la speranza in un orizzonte trascendente, ha perso anche il gusto della gratuità, il gusto di fare il bene per la semplice bellezza di farlo (cf. Lc 6, 33 ss.).
Quando invece l’uomo è educato a riconoscere la fondamentale solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini – questo ci ricorda la Dottrina sociale della Chiesa – allora sa bene che non può tenere per sé i beni di cui dispone. Quando vive abitualmente nella solidarietà, l’uomo sa che ciò che nega ad altri e trattiene per sé, prima o poi, si ritorcerà contro di lui. In fondo, a questo allude nel Vangelo Gesù, quando accenna alla ruggine o alla tignola che rovinano le ricchezze possedute egoisticamente (cf. Mt 6, 19-20; Lc 12, 33).
Invece, quando i beni di cui si dispone sono utilizzati non solo per i propri bisogni, essi diffondendosi si moltiplicano e portano spesso un frutto inatteso. Infatti vi è un originale legame tra profitto e solidarietà, una circolarità feconda fra guadagno e dono, che il peccato tende a spezzare e offuscare. Compito dei cristiani è riscoprire, vivere e annunciare a tutti questa preziosa e originaria unità fra profitto e solidarietà. Quanto il mondo contemporaneo ha bisogno di riscoprire questa bella verità! Quanto più accetterà di fare i conti con questo, tanto più diminuiranno anche le povertà economiche che tanto ci affliggono.
Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all’economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo «dai nostri beni» (cf. Lc 12, 15). Originariamente l’uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente dal bisogno e dall’aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell’impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere «creature»: non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere.
In ogni caso, dipendiamo da qualcuno o da qualcosa. Possiamo vivere ciò come una debilitazione del vivere o come una possibilità, come una risorsa per fare i conti con un mondo in cui nessuno può far a meno dell’altro, in cui tutti siamo utili e preziosi per tutti, ciascuno a suo modo. Non c’è come scoprire questo che spinge a una prassi responsabile e responsabilizzante, in vista di un bene che è allora, davvero, inscindibilmente personale e comune. È evidente che questa prassi può nascere solo da una nuova mentalità, dalla conversione ad un nuovo modo di guardarci gli uni con gli altri! Solo quando l’uomo si concepisce non come un mondo a sé stante, ma come uno che per sua natura è legato a tutti gli altri, originariamente sentiti come «fratelli», è possibile una prassi sociale in cui il bene comune non rimane parola vuota e astratta!
Quando l’uomo si concepisce così e si educa a vivere così, l’originaria povertà creaturale non è più sentita come un handicap , bensì come una risorsa, nella quale ciò che arricchisce ciascuno, e liberamente viene donato, è un bene e un dono che ricade poi a vantaggio di tutti. Questa è la luce positiva con cui anche il Vangelo ci invita a guardare alla povertà. Proprio questa luce ci aiuta dunque a comprendere perché Gesù trasforma questa condizione in una autentica «beatitudine»: « Beati voi poveri! » (Lc 6, 20).
Allora, pur facendo tutto ciò che è in nostro potere e rifuggendo ogni forma di irresponsabile assuefazione alle proprie debolezze, non temiamo di riconoscerci bisognosi e incapaci di darci tutto ciò di cui avremmo bisogno, perché da soli e con le nostre sole forze non riusciamo a vincere ogni limite. Non temiamo questo riconoscimento, perché Dio stesso, in Gesù, si è curvato (cf. Fil 2, 8) e si curva su di noi e sulle nostre povertà per aiutarci e per donarci quei beni che da soli non potremmo mai avere.
Perciò Gesù elogia i «poveri in spirito» ( Mt 5, 3), vale a dire coloro che guardano così ai propri bisogni e, bisognosi come sono, si affidano a Dio, non temendo di dipendere da Lui (cf. Mt 6, 26). Da Dio possiamo infatti avere quel Bene che nessun limite può fermare, perché Lui è più potente di ogni limite e ce lo ha dimostrato quando ha vinto la morte! Dio da ricco che era si è fatto povero (cf. 2 Cor 8, 9) per arricchirci con i suoi doni! Egli ci ama, ogni fibra del nostro essere gli è cara, ai suoi occhi ciascuno di noi è unico ed ha un valore immenso: «Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati... voi valete più di molti passeri » ( Lc 12, 7) .