l’Unità 28.9.12
Oggi in piazza chi crede nel pubblico
Il corteo da piazza Esedra a Santi Apostoli, con Susanna Camusso
Statali, Cgil e Uil in sciopero: «Basta tagli»
Sciopero generale di Cgil e Uil contro i tagli della spending review
di Laura Matteucci
Sciopero generale degli statali di Cgil e Uil, oggi, per protestare contro i tagli e gli esuberi previsti dalla spending review: «Una manovra pesante che riduce drasticamente il perimetro dell’intervento statale sul territorio, e che l’ultimo incontro con il ministro Patroni Griffi non è affatto servito a ridimensionare», sintetizza Rossana Dettori, segretaria generale della Fp-Cgil. È prevista anche una manifestazione nazionale a Roma che partirà intorno alle 9,30 da piazza Esedra per arrivare in piazza Santi Apostoli, dove a fine mattinata saliranno sul palco, insieme a sindacalisti greci e spagnoli, i leader di Cgil e Uil, Susanna Camusso e Luigi Angeletti. Per i leader della Cgil, della Fp e della Flc lo sciopero «è il naturale sbocco di un lungo percorso di mobilitazione che il sindacato ha messo in campo in opposizione alle scelte del governo Monti sul lavoro pubblico», oltre ad essere «un’occasione per rilanciare un’idea di riorganizzazione e valorizzazione del lavoro pubblico in risposta agli effetti devastanti della crisi in atto». Per Alberto Civica, segretario generale della Uil Rua, «lo sciopero rimane l’unica possibilità per dichiarare il nostro dissenso».
La Cisl, che aveva condiviso la prima fase della protesta, resta invece contraria allo sciopero. Con l’inevitabile scia di polemiche, suscitate dalle parole del segretario confederale Cisl Gianni Baratta che, a commento dello sciopero, ha detto di Cgil e Uil «tradiscono i lavoratori per interessi di bottega». Gli risponde secco il segretario confederale della Cgil, Nicola Nicolosi: «In un Paese dove vive il pluralismo sindacale, è buona regola per i sindacalisti non interferire nell’azione sociale delle altre organizzazioni».
Nella giornata di sciopero è coinvolto l’intero settore pubblico, eccezion fatta per la scuola, che invece scenderà in piazza il 12 ottobre. Della lunga mobilitazione contro l’azione di governo in tempo di crisi fa parte anche l’annunciato «grande appuntamento» organizzato dalla Cgil per il 20 ottobre, centrato sul lavoro e sulle tante solitudini create dalla crisi economica. Oggi, intanto, è previsto lo stop per i servizi dei Comuni (ma non il trasporto pubblico), della sanità, dell’Inps, di prefetture e università: garantiti comunque i servizi pubblici essenziali. Incrociano le braccia anche i lavoratori aderenti alla Confsal, mentre l’Ugl ha sospeso lo sciopero dopo l’incontro di tre giorni fa con il governo, mantenendo comunque inalterato «lo stato di agitazione di tutte le categorie del pubblico impiego». Nel complesso si tratta di circa 3 milioni di lavoratori coinvolti.
CAMBIARE ROTTA
I numeri che motivano la protesta fanno impressione: le stime fatte finora dal governo (le proposte vere e proprie verranno dichiarate il 31 ottobre) parlano di 60 miliardi in meno per gli Enti locali, 21 in meno per il Servizio sanitario nazionale, e di qualcosa come 24mila esuberi, di cui 13mila negli Enti locali (ma senza considerare i dipendenti delle Province da abrogare), e 11mila che oggi lavorano in ministeri ed enti pubblici non economici. Mancano ancora all’appello gli eventuali esuberi della Sanità, per non parlare dell’indotto, mentre resta aperto anche il problema dei 100mila precari statali. «Il problema, ancora una volta, sono i tagli lineari che penalizzano lavoratori, servizi e cittadini riprende Dettori Il governo deve cambiare linea. Non può passare l’idea di ridurre il perimetro del welfare pubblico allo stadio minimale, e favorire in questo modo associazioni ed enti privati. L’obiettivo non sembra quello di razionalizzazione e miglioramento dell’azione pubblica, ma, al contrario, di ridimensionamento e destrutturazione delle pubbliche amministrazioni, dei servizi pubblici in generale».
l’Unità 28.9.12
Basta cieca austerità
Il pubblico può essere leva di cambiamento
Sbagliate le scelte del governo: la spending review altro non è che una serie di tagli, in linea con quanto ha fatto il precedente esecutivo
di Guglielmo Epifani
Scendono oggi in sciopero i dipendenti delle Pubbliche amministrazioni di Cgil e Uil. Quello che colpisce, oltre all’assenza della Cisl, è l’oggetto della protesta.
Si chiede di farla finita con il considerare il lavoro pubblico, e i servizi pubblici, come una zavorra per il Paese e per i suoi conti, e l’apertura di una fase nuova in cui come leva di cambiamento, di sviluppo, di difesa dei diritti fondamentali di cittadinanza, sia proprio la centralità di questi settori.
La scelta di abbandonare la trincea della difesa di interessi corporativi e di ripartire dal valore civile e generale delle attività pubbliche rappresenta il terreno in grado di rovesciare il primo paradosso politico e morale della crisi in atto: originata dalla speculazione e dal malgoverno dei mercati privati della finanza e arrivata a colpire settori e condizioni del tutto incolpevoli, e a ridurre pesantemente investimenti, servizi e occupazione nel settore pubblico, oltre che in quello privato. E insieme di riproporre la insostenibilità anche logica di una linea di totale e cieca austerità che finisce per aggravare la crisi, ridurre i consumi, tagliare occupazione e nel contempo aggravare i deficit degli Stati. Per questo non convincono le ultime scelte del governo. La spending review è sostanzialmente una pratica di tagli lineari, che continua la linea del precedente governo; in materia di sanità, come hanno lamentato le Regioni proprio l'altro ieri, si rischia di interrompere l'equilibrio faticosamente avviato di un risanamento socialmente sostenibile; i tagli agli investimenti ed il ritardo non risolto dei pagamenti delle forniture mettono fuori dal mercato tante aziende private, comprese molte cooperative e tante piccole e piccolissime aziende.
Il continuo blocco della contrattazione di ogni livello colpisce innanzitutto qualsiasi processo di ammodernamento e di incremento della produttività. Il blocco delle assunzioni ritarda contro ogni criterio di buona gestione l’entrata dei giovani nel lavoro, e crea la categoria dei precari ex giovani che si trovano ad entrare in contraddizione con la esigenza del rinnovamento senza che si sia mai puntato sulla loro formazione e la forza della loro condizione giovanile di partenza.
Significativo di questa assenza di logica, che non sia solo quella dei tagli a prescindere, è il tema della produttività del lavoro. Nei settori privati da molte parti si richiede la fuoriuscita dai contratti nazionali per portare ogni scambio salario produttività in azienda, scelta che per la composizione della nostra tipologia aziendale avrebbe come conseguenza un ulteriore abbassamento dei valori delle nostre retribuzioni. Nei settori pubblici, dove esiste un problema di qualità dei servizi, e in tante parti, anche se non in tutte, di incremento della produttività il tema viene sostanzialmente ignorato, e risolto con una progressiva riduzione degli organici che da sola non garantisce più efficienza ma solo meno qualità e universalità delle prestazioni. Il grado di civiltà del nostro Paese, il rispetto dei diritti delle persone e delle aziende, la funzione di sviluppo e di crescita, la certezza dei doveri comuni, il livello della cittadinanza, sono questi i valori in gioco in questa partita. La sfera del privato e quella del pubblico non vanno contrapposte come ideologie ancora presenti ritengono di dover fare. Ma devono anche da noi tornare a svolgere ruoli e funzioni distinti e complementari secondo un criterio trasparente che assegna all'uno funzioni e ruoli che l'altro non può fare, o farebbe in misura insufficiente, e che non mette in contrapposizione l’obbiettivo dell' universalità con quello della maggiore efficienza.
E resta poi la vera domanda di questa stagione. Si può, si deve, aspettare che passi la tempesta dei mercati subendo per spirito di necessità e realismo tutto quello che arriva, o ci si prova a misurare, dentro la crisi, con scelte che abbiano un contenuto e una prospettiva di segno diverso? Nel bene e nel male, il governo ha seguito la prima strada, il futuro ci consegna il bisogno di una risposta più matura per quanto difficile.
Il festival dei diritti che si è appena aperto ha quest'anno per tema «Conflitto e solidarietà». Il primo è tipico nelle democrazie per segnare istanze e richieste di cambiamento e protesta. La seconda appartiene al novero delle parole che il pensiero unico ha tentato di nascondere me che puntualmente ritorna con la forza dei fatti, e soprattutto in Europa con la constatazione che i Paesi che affrontano meglio la crisi sono proprio quelli che hanno mercati più efficienti e trasparenti, e società più coese e giuste.
La Stampa 28.9.12
Monti apre a un bis
Dai vescovi un sostegno al Monti bis
Pesa la buona gestione del dossier Imu sugli immobili ecclesiastici
di Andrea Tornielli
CITTA’ DEL VATICANO La competizione resta aperta, e sarà bene che la politica non bruci alcun ponte dietro a sé…». Le parole, all’apparenza un po’ criptiche, pronunciate dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione di lunedì scorso, possono essere tradotte così: non date per liquidata l’esperienza dell’attuale governo. I vertici della Cei, dopo Monti, vedono ancora Monti. L’annunciata disponibilità che il presidente del Consiglio ha manifestato ieri per la prima volta così esplicitamente, va dunque nella direzione auspicata anche dalla Chiesa.
Nell’area moderata cresce il numero dei sostenitori del professore, soprattutto in campo cattolico. Il premier, che non fa mistero di essere credente, non è mai stato considerato «organico» al mondo ecclesiastico, e nonostante la stima di cui era circondato, al momento della nomina un anno fa venne accolto con qualche riserva da alcuni ambienti cattolici, preoccupati per l’accresciuta influenza della finanza europea in casa nostra.
In pochi mesi, Monti ha sbaragliato queste riserve. Un passaggio cruciale di questo processo di avvicinamento è stato l’emendamento del governo riguardante l’Imu per gli immobili ecclesiastici e degli enti no profit. La partita che si è giocata dietro le quinte all’inizio 2012 non è stata semplice: l’Europa era pronta a sanzionare l’Italia con multe salatissime richiedendo anche il pagamento degli arretrati. Monti ha giocato tutto il suo peso in sede europea, ed è riuscito a risolvere il problema. La Chiesa italiana e il Vaticano non l’hanno dimenticato.
CITTA’ DEL VATICANO La competizione resta aperta, e sarà bene che la politica non bruci alcun ponte dietro a sé…». Le parole, all’apparenza un po’ criptiche, pronunciate dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione di lunedì scorso, possono essere tradotte così: non date per liquidata l’esperienza dell’attuale governo. I vertici della Cei, dopo Monti, vedono ancora Monti. L’annunciata disponibilità che il presidente del Consiglio ha manifestato ieri per la prima volta così esplicitamente, va dunque nella direzione auspicata anche dalla Chiesa.
Nell’area moderata cresce il numero dei sostenitori del professore, soprattutto in campo cattolico. Il premier, che non fa mistero di essere credente, non è mai stato considerato «organico» al mondo ecclesiastico, e nonostante la stima di cui era circondato, al momento della nomina un anno fa venne accolto con qualche riserva da alcuni ambienti cattolici, preoccupati per l’accresciuta influenza della finanza europea in casa nostra.
In pochi mesi, Monti ha sbaragliato queste riserve. Un passaggio cruciale di questo processo di avvicinamento è stato l’emendamento del governo riguardante l’Imu per gli immobili ecclesiastici e degli enti no profit. La partita che si è giocata dietro le quinte all’inizio 2012 non è stata semplice: l’Europa era pronta a sanzionare l’Italia con multe salatissime richiedendo anche il pagamento degli arretrati. Monti ha giocato tutto il suo peso in sede europea, ed è riuscito a risolvere il problema. La Chiesa italiana e il Vaticano non l’hanno dimenticato.
Ormai al giro di boa del primo anno di governo, i rapporti del premier con Benedetto XVI sono costanti e molto cordiali. Monti li gestisce in prima persona, attraverso l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede o il suo rappresentante ufficioso nei palazzi ecclesiali, Federico Toniato. Anche i vertici della Conferenza episcopale, pur senza esporsi con inopportuni endorsement, hanno coltivato ottime relazioni con Palazzo Chigi. Al punto che il cardinale Bagnasco, di fronte al pessimo spettacolo che la politica italiana ha continuato a dare negli ultimi mesi, avrebbe deciso di puntare proprio su Monti, apprezzandone la sobrietà e la serietà.
Nella prolusione di lunedì il presidente della Cei è stato duro con i cattolici in politica. Ha parlato di «mediocrità» e di «relativa significanza» provocate da «una vita spirituale modesta». Ha spronato a una testimonianza più coraggiosa.
Le Acli di Andrea Olivero, insieme il ministro Andrea Riccardi e al presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai, dialogano con l’Udc di Casini e spingono per un’alleanza a sinistra, con il Pd.
Un’operazione che la possibile ricandidatura di Silvio Berlusconi ha finito per accelerare. Mentre altre associazioni che un anno fa avevano promosso il «conclave» di Todi, come l’Mcl guidato da Carlo Costalli, vogliono dar vita a un’iniziativa politica che rimanga ancorata nell’area moderata e al Ppe.
Sembra destinata a crescere, in questo ambito, la figura del ministro Lorenzo Ornaghi, dimessosi da rettore della Cattolica. La candidatura di Monti, da non dichiarare troppo presto per non creare problemi all’attuale esecutivo, potrebbe riunire anime diverse del cattolicesimo politico, spezzoni del mondo laico liberale e del mondo imprenditoriale delusi dal berlusconismo e in cerca di nuovi approdi. Per diversi partiti che oggi sostengono il governo non sarebbe facile dire di no o proporre alternative altrettanto valide in grado di rappresentare il Paese in Europa come ha fatto nell’ultimo anno l’ex rettore della Bocconi.
Ormai al giro di boa del primo anno di governo, i rapporti del premier con Benedetto XVI sono costanti e molto cordiali. Monti li gestisce in prima persona, attraverso l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede o il suo rappresentante ufficioso nei palazzi ecclesiali, Federico Toniato. Anche i vertici della Conferenza episcopale, pur senza esporsi con inopportuni endorsement, hanno coltivato ottime relazioni con Palazzo Chigi. Al punto che il cardinale Bagnasco, di fronte al pessimo spettacolo che la politica italiana ha continuato a dare negli ultimi mesi, avrebbe deciso di puntare proprio su Monti, apprezzandone la sobrietà e la serietà.
Nella prolusione di lunedì il presidente della Cei è stato duro con i cattolici in politica. Ha parlato di «mediocrità» e di «relativa significanza» provocate da «una vita spirituale modesta». Ha spronato a una testimonianza più coraggiosa.
Le Acli di Andrea Olivero, insieme il ministro Andrea Riccardi e al presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai, dialogano con l’Udc di Casini e spingono per un’alleanza a sinistra, con il Pd.
Un’operazione che la possibile ricandidatura di Silvio Berlusconi ha finito per accelerare. Mentre altre associazioni che un anno fa avevano promosso il «conclave» di Todi, come l’Mcl guidato da Carlo Costalli, vogliono dar vita a un’iniziativa politica che rimanga ancorata nell’area moderata e al Ppe.
Sembra destinata a crescere, in questo ambito, la figura del ministro Lorenzo Ornaghi, dimessosi da rettore della Cattolica. La candidatura di Monti, da non dichiarare troppo presto per non creare problemi all’attuale esecutivo, potrebbe riunire anime diverse del cattolicesimo politico, spezzoni del mondo laico liberale e del mondo imprenditoriale delusi dal berlusconismo e in cerca di nuovi approdi. Per diversi partiti che oggi sostengono il governo non sarebbe facile dire di no o proporre alternative altrettanto valide in grado di rappresentare il Paese in Europa come ha fatto nell’ultimo anno l’ex rettore della Bocconi.
Repubblica 28.9.12
Casa Bianca e Wall Street fanno il tifo per Mario “È lui il vero anti-Silvio”
di Federico Rampini
NEW YORK È QUELLO che l’America voleva sentirsi dire. Non solo l’America dei mercati ma anche l’Amministrazione Obama, e alcuni grandi gruppi industriali che potrebbero (oppure no) tornare a investire in Italia. Monti rassicura su tutti i fronti, nel parlare a New York invia messaggi alla Casa Bianca e all’Europa. Fa un passo più avanti del solito nell’evocare un Monti bis. Si conferma nel ruolo di anello di congiunzione tra Germania e Stati Uniti; tra Germania e periferia Sud dell’eurozona. Si lancia in una puntigliosa difesa dell’euro, nelle stesse ore in cui in Italia Silvio Berlusconi attacca la moneta unica. Il contesto è importante, il luogo dove avviene l’annuncio è al centro di un triangolo di relazioni internazionali. Il presidente del Consiglio è qui per l’assemblea generale dell’Onu, vetrina di statisti globali. Ma il raduno del Palazzo di Vetro serve anche per tessere altre relazioni, contatti, verifiche su più livelli. Il Council of Foreign Relations, il più importante think-tank bipartisan di politica estera, ha preparato per Monti un “parterre” speciale. Il moderatore che lo tempesta di domande, David Rubenstein, è uno dei capi del Carlyle Group, una potenza d’investimento nel private equity. E’ anche un grande mecenate progressista, ha legami storici col partito democratico, fu consigliere del presidente Jimmy Carter. Nell’audience molti sono come lui: grandi investitori e insieme personaggi dell’establishment politico. In prima fila sono rappresentati tutti i colossi di Wall Street (Bank of America, Morgan Stanley, Citigroup, Prudential, Paulson, Blackstone, Hsbc), le agenzie di rating S&P e Moody’s, i media più autorevoli dal New York Times al Wall Street Journal, diversi colossi industriali (Boeing, Lockheed, FedEx, Chevron), infine esperti di politica estera che fanno riferimento a Barack Obama o a Mitt Romney. L’establishment americano è rappresentato al massimo livello. Il giorno stesso il Wall Street Journal ha “introdotto” questa conferenza con un titolone sui guai della Spagna seguito da: «È svanito l’effetto-Draghi». Mancano solo cinque giorni al primo duello televisivo Obama-Romney, l’ultima cosa che la Casa Bianca vuole in questo momento è un riesplodere della crisi europea. Monti sente questa pressione legittima dell’establishment americano.
Lo confermerà anche nella successiva intervista a Bloomberg Tv, precisando che la sua dichiarazione di disponibilità a continuare si rivolge in tre direzioni: «Alle forze politiche italiane dopo le elezioni, alla comunità internazionale, ai mercati».
Davanti al Council, il premier tiene a precisare che lui non ha piani, tantomeno vuole schierarsi oggi con questa o quella parte: «Visto che ho tre partiti nella mia maggioranza, due dei quali non si parlano, sarebbe destabilizzante se io lasciassi intravedere che propendo verso l’uno». Subito dopo, però: «Se le circostanze li porteranno a credere che io dovrò continuare a servire il mio paese, non mi tirerò indietro». Gli interlocutori premono: «Può assicurarci che non tornerà Silvio Berlusconi?» Monti risponde che no, questa garanzia non può certo darla. Subito dopo però il presidente del Consiglio si esibisce in un’appassionata difesa dell’euro, che in quel preciso momento Berlusconi sta attaccando in Italia. «Senza l’euro – dice Monti – non solo noi ma tutta l’Europa starebbe molto peggio. Ci ha dato regole di equilibrio nelle finanze pubbliche, una banca centrale indipendente, una cultura del mercato. Sono regole talvolta sgradevoli ma ci costringono a una modernizzazione indispensabile».
La triangolazione di New York (leader mondiali, governo Usa, mercati finanziari). consente a Monti di esplicitare qual è il suo ruolo oggi; e quindi cosa potrebbe renderlo indispensabile. Obama glielo ha riconosciuto più volte, individuando in lui un «traduttore del pensiero tedesco». A Obama del resto Monti rende omaggio per il suo «ruolo utile nella crisi europea » (leggi: le costanti pressioni della Casa Bianca in favore di politiche a sostegno della crescita). Monti ammette di essere «uno strano italiano, per via del mio attaccamento alla disciplina germanica ». Tra i suoi compiti vede quello di «impedire che le altre nazioni d’Europa diventino anti-tedesche », e d’altra parte di «spiegare ad Angela Merkel le conseguenze di politiche economiche tradizionali (leggi: austerity) applicate nei paesi più deboli». Il suo cruccio è che «i politici non dedicano attenzione sufficiente ai pericoli dei risentimenti nazionalisti, ai danni che possono nascere se le nazioni si mettono l’una contro l’altra».
Ha un messaggio specifico da rivolgere ai mercati, nella piazza finanziaria più importante del mondo: «Sono troppo lenti nel riconoscere i progressi che abbiamo fatto, mentre il Fondo monetario e la Bce ce ne danno atto». Riconosce a se stesso un vantaggio sugli altri capi di governo che sono dei politici: «In una fase in cui l’unione politica dell’eurozona sta avanzando di fatto, molti leader sono frustrati perché il loro potere decisionale si rimpicciolisce. Ma io m’intendo poco delle manovre di politica interna, mentre sono a mio agio nella dimensione europea».
La Stampa 28.9.12
Gelo del Pd: cambia tutto
Bersani:se qualcuno vuole rendere le elezioni inutili, mi riposo. Renzi d’accordo con il segretario
di Carlo Bertini
ROMA Spesso il silenzio è più eloquente di tante chiacchiere: per tutto il giorno dallo stato maggiore del Pd non esce una parola sul fantasma di un Monti bis e già è un segnale del colpo incassato dai democratici, a cominciare dal leader Bersani e dal suo sfidante Renzi. D’ora in poi cambia tutto è il tam tam nel Pd, dove gli unici a definire questa disponibilità «una splendida notizia» sono i «supermontiani» come Gentiloni. Nessun altro dice nulla fino a quando a sera il segretario non se ne esce contro le larghe intese, svelando così tutta la sua irritazione verso Casini: perché «se qualcuno pensa di prenotare le elezioni, di rendere il voto inutile e che io mi ritrovo il giorno dopo a dover fare una maggioranza con Berlusconi o Grillo, allora mi riposo». E viceversa, «l’immagine di rigore e credibilità che Monti ha offerto al mondo è un punto di non ritorno, ma noi ci metteremo dentro più lavoro più equità, più diritti». Con una postilla consegnata non a caso all’agenzia tedesca Dpa, sul fatto che dopo Monti deve tornare la politica altrimenti l’Italia resterebbe in condizione di emergenza. E a far capire meglio come la pensi la pancia del Pd e il suo leader ci pensa Stefano Fassina che sul sito Huffington si scaglia contro «chi fa di tutto per promuovere una democrazia degli ottimati». E su twitter si rivolge all’amico Pier, chiedendogli «perché votare? La spending review taglia anche la democrazia e Monti rimane a vita a Palazzo Chigi... ».
Fino a sera, sulle agenzie compare solo Fioroni: che apprezza il primo passo, ma chiede a Monti di proporsi al paese prima delle elezioni e non dopo. «Certo è che Monti in campo è un dato politico di grandissima rilevanza», taglia corto l’ex Ppi, che mal digerisce le primarie con Vendola e Renzi. E non è un mistero che alcuni coltivino la speranza che si realizzi una grande lista dei moderati che investa Monti di una candidatura ufficiale alle elezioni.
Ma le implicazioni di quella che molti definiscono un’irruzione «a gamba tesa» investono in pieno la campagna per le primarie e le trame per cambiare il porcellum. Perché se tornasse un sistema proporzionale, quale che sia, si aprirebbe un’autostrada al Monti bis, ma il Pd non può restare col cerino in mano e deve mediare con gli altri. Dovendosela vedere con Casini, ancora più scatenato dopo l’uscita del premier. «Le nostre liste saranno per un Monti bis», gongola il leader Udc, che torna a chiedere «un documento di impegni vincolanti siglato dalla maggioranza che rassicuri la comunità internazionale che l’Italia continuerà sulla strada intrapresa».
Ma è la reazione di Renzi a far capire la minaccia che incombe sulle primarie, che di colpo assumono la veste di un esercizio quasi superfluo, se si desse per scontata una reinvestitura del professore a Palazzo Chigi. Dopo aver detto da giorni che vedrebbe bene Monti al Quirinale, Renzi va da Formigli a Piazzapulita e si mostra in sintonia con Bersani. «Non so se questo sia un messaggio ai mercati o ai partiti. Penso più ai mercati, dopodiché il premier lo devono decidere i cittadini alle elezioni che non sono “Scherzi a parte”. Insomma, non è pensabile che i partiti fingano di combattersi magari con una legge elettorale peggio del porcellum e poi tutti insieme richiamino Monti: sarebbe un’umiliazione per la politica». Ma lei accetterebbe di farsi da parte se vincesse le primarie? «La politica deve tornare a fare il suo mestiere e Monti ha restituito prestigio all’Italia ma, a parte alcune cose giuste fatte, su altre vedo il governo molto timido. E chi lo vota Monti? Di nuovo una grande coalizione? Ho rispetto per il centrodestra, ma io non voglio stare al governo con loro».
La Stampa 28.9.12
Ora di religione
La riforma cominci dai docenti
di Gian Enrico Rusconi
Ciclicamente
sorge il problema dell’insegnamento della religione nella scuola
pubblica. Tutti gli argomenti sono stati usati e spesi, con risultati
modesti, salvo la possibilità dell’esenzione dall’ora di religione. Sino
a qualche anno fa il problema veniva sollevato soprattutto in nome del
principio della laicità dell’educazione pubblica. Le richieste che ne
seguivano erano molto articolate – dalla soppressione pura e semplice
dell’ora di religione alla istituzione sostitutiva di una lezione di
etica, all’introduzione della storia delle religioni, Tutte le proposte
sono sempre state contestate e respinte dai rappresentanti (quelli che
contano) del mondo cattolico. Nel frattempo si sono aggiunte altre
problematiche: l’enfasi sulle «radici cristiane» della nostra cultura
(argomento poi vergognosamente politicizzato), la presenza crescente di
allievi di altre religioni ( con riferimento costante se non esclusivo a
quella islamica) e i discorsi sempre più frequenti sul ritorno e «il
ruolo pubblico delle religioni».
Il tutto si è accompagnato con
crescente deferenza pubblica verso la Chiesa la cui posizione dottrinale
poco alla volta ha acquistato la funzione surrogatoria di una
«religione civile». Si è creato l’equivoco di misurare i criteri
dell’etica pubblica sulle indicazioni della dottrina della Chiesa -
senza preoccuparsi della effettiva adesione ad essa dei comportamenti
dei cittadini che dicono di essere credenti. Il tasso di trasgressione
delle indicazioni ecclesiastiche da parte dei cittadini italiani non è
affatto minore di quella generale dei Paesi considerati più
secolarizzati.
In questo contesto il monopolio della Chiesa
nell’insegnamento religioso nelle scuole – comunque definito - è solo un
tassello, cui non intende minimamente rinunciare. D’altra parte oggi né
l’istituzione statale né la cosiddetta società civile sono in grado di
offrire alternative.
E’ possibile superare questo circolo vizioso?
Non già contro la Chiesa – come subito si accuserà – ma per rinnovare
profondamente o semplicemente dare concretezza alla libertà religiosa.
Nel
nostro Paese cresce paurosamente l’incultura religiosa, che non ha
nulla a che vedere con la laicità. Anche se gli uomini di Chiesa ne
danno volentieri la colpa al laicismo, al relativismo, al nichilismo
ecc. Solo i più sensibili si interrogano sul paradosso della crescente
incultura religiosa in un Paese dove la Chiesa è accreditata di
un’enorme autorità morale. Solo i più sensibili si chiedono se non c’è
qualcosa che non va in un magistero e in una strategia comunicativa che
rischia di impoverirsi teologicamente, perché tutta assorbita dalla
preoccupazione per quelli che sono chiamati perentoriamente «i valori», a
loro volta monopolizzati dai temi della «vita» e della «famiglia
naturale», sostenuti e trattati con fragili argomentazioni teologiche.
Una particolare (discutibile) antropologia morale ha preso il posto
della riflessione teologica. So che è un discorso impegnativo e
complicato, da rimandare ad altra sede. Ma c’entra con il nostro tema.
La
stragrande maggioranza delle famiglie italiane – loro stesse
caratterizzate da basso tasso di cultura religiosa – mandano i figli
all’ora di religione perché «fa loro bene». Lo considerano un surrogato
di insegnamento morale, senza troppo preoccuparsi dei contenuti. Anzi
sono ben contenti che i ragazzi non fanno «lezione di catechismo» - come
assicurano molti degli insegnanti cattolici. Ma qui nasce un altro
brutto paradosso. Certamente è giusto che non si faccia catechismo. Ma
la lezione di religione deve comunque fornire contenuti di conoscenza su
che cosa significa avere una fede. La sua origine, la sua storia, la
sua evoluzione, i suoi conflitti interni, le differenze rispetto alle
altre religioni ma anche il loro confronto positivo. Tutto questo per
noi è «storia delle religioni», anche a partire dalla centralità del
cristianesimo, che – sia detto per inciso - teologicamente parlando non
coincide con il cattolicesimo.
Suppongo che il cattolico che
leggesse queste righe, direbbe con cipiglio severo che è esattamente
quello che fanno (o dovrebbero fare) gli insegnanti ufficiali di
religione, quelli autorizzati dal vescovo, per intenderci. Non dubito
che ci sono molti insegnanti di religione «ufficiali» ottimi nel senso
delle cose che sto dicendo. Ma qui si apre un altro problema, forse il
più delicato e decisivo. Non ci si può fidare o affidare alla maturità
soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità
ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle
religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Si
obietterà che le norme attualmente vigenti sono concepite diversamente e
vanno rispettate. Bene. Ma è tempo di cambiarle, senza aspettare
l’esternazione del prossimo ministro dell’Istruzione o la prossima
congiuntura politica.
Il vero problema è che l’Italia ha urgenza
di formare laicamente un ceto di insegnanti di religione o delle
religioni – non già contro la Chiesa ma sperabilmente con la sua
collaborazione – che risponda seriamente alla nuova problematica del
pluralismo religioso. In molte università italiane ci sono buoni centri
di ricerca sui fenomeni religiosi, con opportuni collegamenti
interdisciplinari con le scienze antropologiche e di storia delle
civiltà. Si tratta di valorizzare tali centri, di metterli in
collegamento e renderli funzionali per la formazione di nuovi docenti
per la scuola. E’ un lavoro impegnativo, ma necessario e urgente. E’ un
vero peccato invece che molti influenti cattolici del nostro Paese si
chiudano a riccio con argomenti davvero molto modesti.
l’Unità 28.9.12
Sondaggio sulle primarie: no ai voti del centrodestra
«Primarie, non voti la destra»
I primi risultati del sondaggio su www.unita.it: il 78 per cento chiede che la consultazione sia aperta agli elettori di centrosinistra e a chi si impegna moralmente a votare il vincitore alle politiche
di Virgina Lori
Ma alle primarie del centrosinistra può votare la destra? E si può far appello al voto trasversale? L’Unità ha fatto un sondaggio tra i suoi lettori e i visitatori del sito web (www.unita.it) chiedendo direttamente a loro cosa ne pensano. In due giorni sono già migliaia le risposte cliccate. Alla domanda «a chi aprire le primarie del centrosinistra» il 78% (4.478 utenti) risponde senza dubbio: soltanto a coloro che si impegnano moralmente a votare il vincitore delle primarie anche alle elezioni politiche. Soltanto per il 12% dovrebbero essere aperte a chiunque voglia partecipare, dunque anche ad elettori che non si sentono impegnati con il centrosinistra, mentre il restante 11% ritiene che possano votare alle primarie sia gli elettori di centrosinistra sia i «non schierati». Si continua a votare, basta un click su www.unita.it
«Se lo scopo delle primarie è allargare quanto più possibile la nostra base di consenso ha scritto Ivan Scalfarotto (che appoggia Matteo Renzi) in questo particolare momento storico e vincere, allora bisogna favorire la più ampia partecipazione». Di parere opposto Tommaso Giuntella, del comitato pro-Bersani: «Non è una questione normativa, è una questione etica, ma ancora prima una questione di buon senso. Viviamo un tempo di estrema confusione nel quale siamo arrivati a immaginare un controsenso logico quale la contrapposizione tra società civile e società politica».
Sempre su queste pagine Michele Prospero descrive quanto sta accadendo nel centrodestra: «A destra ora c’è chi reclama il diritto (sic!) di votare alle primarie con l’avvertenza che però, se Renzi non dovesse spuntarla nei gazebo, alle urne del 2013 tornerà all’ovile e quindi non sosterrà mai Bersani. Parrebbe uno stralunato episodio della commedia all’italiana e invece è una tragedia che rivela la corruzione ideale di oggi».
Stefano Ceccanti la vede da un altro punto di vista: «La scelta delle primarie chiuse concentra il massimo delle controindicazioni: priva il partito o la coalizione dell'apertura di massa delle primarie dirette, allontanando le caratteristiche dell'elettorato delle primarie da quello delle secondarie, e lo priva anche dell'apertura mentale delle leadership interessate a vincere. Mette invece la scelta per intero nelle mani di minoranze ideologizzate, più interessate a confermare la propria identità che a conquistare consensi nuovi».
Ma intanto, in vista dell’Assemblea del sei ottobre, che dovrà stabilire le norme di “ingresso” e cambiare quella dello Statuto che individua nel segretario il candidato alle primarie di coalizione, gli sherpa di Pd, Sel e Psi (Migliavacca, Ferrara e Di Lello), che stanno lavorando all'organizzazione dei gazebo, provano a fissare dei punti fermi: se nessun candidato raggiungerà il 50 più uno dei consensi al primo turno si andrà al ballottaggio tra i primi due.
Le possibili date: il primo turno si terrebbe domenica 25 novembre, l'eventuale secondo turno domenica 2 dicembre. Chi parteciperà alle primarie, inoltre, dovrà iscriversi in un apposito elenco. Si presume pubblico, come è accaduto per quelle per il sindaco di Firenze.
E proprio il sindaco fiorentino ieri mattina è tornato sulla questione delle regole. Vuole «le stesse usate per Prodi, Veltroni e Bersani». E a tal fine, assicura di fidarsi di quelle «che sceglie il segretario del mio partito. Penso sia bene mantenere le consultazioni aperte». Quanto all’ipotesi di candidarsi come segretario del Pd, in caso di sconfitta per la premiership, la risposta in dialetto napoletano, con accento fiorentino, sgombra il campo da dubbi: «Manco pa’ capa!». Quello che gli passa per la testa, invece, è un timore: che sulle primarie scatti l’«effetto Napoli», riferendosi a quanto accaduto con Cozzolino. «So bene cosa è accaduto qui: un'esperienza utile... Nel senso che non deve più succedere, occorre fare il contrario». Spiega: «Mio figlio ha 11 anni e si dichiara bersaniano perché non vorrebbe il padre in giro per tre mesi. Temo che cambino le regole in corsa ma non credo che faranno votare pure i bambini». Pier Luigi Bersani, a cui viene chiesto di replicare a Renzi, risponde: «Devo dire, sinceramente, che sto utilizzando più tempo sulla vicenda esodati che sulle primarie».
il Fatto 28.9.12
Primarie del Pd a doppio turno per fermare Renzi
Le nuove regole stabilite dal partito che teme l’esodo verso il rottamatore
di Caterina Perniconi
Le carte in regola per vincere le primarie ora Pier Luigi Bersani le ha tutte. Anche le agognate regole su misura redatte dal fedelissimo Maurizio Miglia-vacca: doppio turno se uno dei candidati non raggiunge il 50,1% alla prima votazione.
Il camper di Matteo Renzi che gironzola per l’Italia non dovrebbe costituire più un problema. Ma portare i cittadini a votare due volte non può non apparire come un segnale di debolezza del segretario democratico in cerca di legittimazione come leader. I gazebo sono fissati per domenica 25 novembre. Se ce ne sarà bisogno, gli elettori del centrosinistra potranno tornare a pronunciarsi il 2 dicembre ma non è ancora chiaro se ci sarà un albo degli iscritti, se al secondo turno potrà votare solo chi l’ha fatto al primo e, soprattutto, se due votazioni significano anche due pagamenti (la crisi la sente pure il Pd e ogni votante dovrà scucire 3 o 4 euro). L’escamotage del secondo turno è stato necessario dopo la proliferazione delle candidature. Bersani potrà così contare, in caso di medio successo, sui consensi dei candidati “amici” Gozi, Tabacci e, naturalmente, Vendola.
LO STAFF del segretario si dice tranquillo, il partito tiene, non ci saranno problemi. Ma ci sono da fare i conti con le prime defaillance. “Qualche passaggio? A me sembra piuttosto un esodo biblico” commenta soddisfatto il regista della campagna renziana, Roberto Reggi. Negli ultimi giorni la corrente dei lettiani sul territorio è “franata” verso il campo del sindaco di Firenze, che li ha accolti a braccia aperte. Enrico Letta manterrà una posizione di “responsabilità” ma i suoi uomini sono già mobilitati: capofila il piemontese Davide Gariglio (già sfidante di Piero Fassino alle primarie) e il lombardo Alessandro Alfieri. Ci sono anche molti sindaci con un piede sul camper oltre a un nutrito gruppo di parlamentari destinato a crescere nei prossimi giorni. Tra i “transfughi” i Liberal Enrico Morando, Giorgio Tonini, Umberto Ranieri ma anche Stefano Ceccanti, Pietro Ichino e Salvatore Vassallo, poi gli ex Margherita Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti e Andrea Sarubbi, gli Ecodem Ermete Realacci e Roberto Della Seta, fino al vicepresidente dei deputati del Pd Alessandro Maran, che tende a definirsi “montiano” ma non disdegna le posizioni della sinistra liberale portate avanti dal giovane candidato con il quale non ha ancora mai parlato personalmente.
Siete contenti? “Di certo non ce lo aspettavamo così in fretta – spiega Reggi – erano smottamenti attesi per fine ottobre”. Non avete il timore che qualcuno cerchi l’ultima spiaggia rimasta libera? “Come no, infatti la nostra strategia non cambia, chi ci vuole appoggiare ben venga ma questo non significa niente”. Gli assi nella manica di Renzi sono altri, non vengono dal partito “ma dall’esterno”.
DI CERTO non si potevano aspettare le dichiarazioni di guerra di Arturo Parisi che ha sparato a zero contro Bersani accusandolo di essere “responsabile del disastro cui è stata portata la nostra democrazia” in riferimento alla legge elettorale. Parisi, che all’ultima assemblea aveva cercato di distogliere anche Renzi dalla candidatura, ieri ha annunciato che non darà il suo voto al segretario e che vigilerà sulla regolarità della riunione del 6 ottobre – quella che cambierà lo Statuto (oggi prevede il segretario naturale candidato premier) e le regole per le primarie – per avere la certezza che ci sia il numero legale per farlo.
Ad oggi Bersani ancora rincorre. Dopo la tappa napoletana del camper renziano, il segretario ha scelto uno sponsor per la Campania che potrebbe essere un boomerang: ieri la prima iniziativa “ufficiale” delle primarie era a Salerno a fianco di Vincenzo De Luca, sindaco con due rinvii a giudizio sulle spalle. Uno di quelli che Renzi rottamerebbe senza pensarci un momento. E forse anche molti elettori del suo partito.
l’Unità 28.9.12
Anticorruzione
Carlo Federico Grosso: «Non c’è più tempo. L’Europa aspetta da dieci anni»
Il giurista, ex vicepresidente del Csm: «Il testo della legge anti-corruzione è il migliore possibile nell’attuale contesto»
intervista di Andrea Carugati
ROMA «La legge anticorruzione? È assolutamente urgente che si arrivi rapidamente all’approvazione da parte del Parlamento. Quel testo risponde a degli impegni che l’Italia si è assunta firmando dei trattati internazionali. Sono dieci anni che quegli impegni attendono di essere onorati, ma il Parlamento non è mai riuscito a trovare una sintesi», spiega Carlo Federico Grosso, ordinario di Diritto penale all’Università di Torino, tra i più noti penalisti italiani.
Qual è il suo giudizio sul testo all’esame del Senato?
«Non è il testo migliore possibile in assoluto, ma certamente il migliore nell’attuale contesto italiano. Le differenti posizioni tra Pdl e Pd hanno reso difficile la ricerca di una sintesi, ma questa sintesi tutto sommato è stata trovata».
Quali sono gli aspetti più efficaci di questa norma e quelli più deboli?
«Ci sono una serie di interventi di tipo amministrativo e di controllo, di cui si parla poco, ma che ritengo assai utili per prevenire e disincentivare a monte i fenomeni corruttivi. Parlo ad esempio delle norme per rendere più trasparenti gli appalti e le offerte della Pubblica amministrazione, le liste dei fornitori, l’obbligo di inserire in Internet tutte le notizie relative agli appalti e i risultati degli stessi, le verifiche più stringenti sui possibili collegamenti mafiosi delle imprese».
Parliamo dell’aspetto penale...
«Su questo fronte c’è ancora un grosso nodo che non è stato risolto in modo adeguato, e che è stato al centro di roventi polemiche in Parlamento. Con la legge Cirielli la prescrizione per corruzione era stata drasticamente abbreviata, da 15 anni ai 7,5, che sono veramente pochi, visto che spesso le corruzioni vengono scoperte alcuni anni dopo. Sarebbe stato opportuno tornare a 15 anni, ma questo non è stato possibile per la durissima opposizione del Pdl. Si è dunque trovata una soluzione di compromesso, e cioè elevare il massimo delle pene previste dal codice. Ma questo ha determinato un impatto molto limitato, allungando i termini solo di qualche mese».
Insomma, anche in queste nuove norme c’è ancora un riflesso “ad personam” per Berlusconi?
«Evidentemente sì, ma questi tempi di prescrizione sono scandalosi. La rigidità del Pdl ha impedito qualsiasi ipotesi di ripristino di tempi adeguati».
E le nuove figure di reato introdotte?
«Le ritengo molto utili, a partire dalla “corruzione tra privati”. Così si potrà colpire i dipendenti delle aziende che, ad esempio, chiedono tangenti ad alcuni fornitori per favorirli rispetto ad altri. Un meccanismo che interferisce sulla concorrenza, creando un costo di produzione aggiuntivo e danneggiando la competitività delle nostre imprese, anche sul mercato internazionale. C’è poi la fattispecie del “traffico di influenze”, che punirà in modo specifico il pubblico funzionario che non compie un atto d’ufficio in cambio della tangente, ma che si mette a disposizione per agevolare gli interessi di una impresa nel rapporto con la PA».
Alcuni commentatori argomentano che le nuove norme non servirebbero ad evitare casi come quelli della Regione Lazio e dunque sarebbero sostanzialmente inutili...
«È ovvio che non riguardino le vicende del Lazio, perché in questo caso non si tratta di corruzione in senso tecnico, ma di ipotesi di malversazione per chi, muovendosi nelle pieghe della legislazione regionale, si appropria di denaro pubblico per utilità private. Si tratta di forme di peculato e di abuso d’ufficio, reati già previsti e puniti dal codice penale. Tutti questi sono fenomeni gravissimi e da combattere. Ma per punire le malversazioni e i peculati gli strumenti efficaci ci sono già, e non vedo perché confondere i due piani».
Ieri il Pdl ha presentato un emendamento cosiddetto “anti-Batman” per colpire chi utilizza in modo privato soldi pubblici.
«Mi pare più che altro una operazione d’immagine, per tentare di mostrarsi più realisti del re e recuperare sul terreno della credibilità. A mio parere le norme già in vigore sono sufficientemente efficaci per combattere quel tipo di malversazione. E tuttavia è vero che introdurre una forma specifica di reato eliminerebbe ogni dubbio sulla rilevanza penale di alcuni comportamenti che potrebbero essere giustificati in base alle leggi regionali. Renderebbe dunque più facile l’azione repressiva».
Colpisce lo scarto tra gli appelli del Capo dello Stato e del premier Monti e il tentativo di alcuni partiti di ostacolare l’approvazione della legge.
«Un ampio sistema di corruzione come quello che c’è in Italia penalizza fortemente la competitività delle nostre imprese: è un tarlo che corrode il sistema produttivo. Per questo non mi stupisce la tenacia con cui il presidente Monti batte su questo tasto».
Ritiene che il voto di fiducia sia una soluzione idonea per uscire dall’impasse? «Potrebbe essere uno strumento efficace per arrivare al risultato: ogni forza della maggioranza si troverebbe davanti alle proprie responsabilità...».
«I gruppi consiliari presenti in Regione non hanno fatto una grande figura nell’accettare fondi di migliaia di euro senza fiatare.
Gli unici a denunciare la gran messe di soldi che affluivano ai gruppi politici sono stati i due radicali, Rossodivita e Berardo.
A loro però viene imputata un’ulteriore colpa: se erano troppi, perché li avete presi?
Abbiamo girato le critiche a Rossodivita e al capogruppo di Sel in Regione, Luigi Nieri»
il Fatto 28.9.12
Rossodivita (radicali)
“Con i fondi ai gruppi regionali abbiamo fatto il congresso
di Andrea Managò
La prima denuncia sui fondi ai gruppi in Consiglio è partita dai Radicali. Cosa sapevate di quei soldi?
Prima di entrare in Consiglio, nulla. Immaginavamo solo ci fosse un contributo che ricalcava quello erogato in Parlamento ai singoli gruppi. Una volta insediati, ci hanno chiesto di aprire un conto corrente intestato al gruppo e abbiamo ricevuto i primi versamenti.
La Lista Bonino Pannella ha ricevuto 160.667 euro nel 2010 e 422.147 nel 2011.
Non proprio spiccioli.
Non facendo parte dell’ufficio di presidenza non conoscevamo l’entità complessiva del finanziamento che ci spettava. Le somme venivano accreditate una tantum, con scadenze non regolari: solo al momento di fare il nostro bilancio abbiamo capito quanti soldi erano. Nel 2011 poi ci siamo resi conto che aumentavano fino a salire vertiginosamente.
Perché non avete denunciato subito la cosa?
Sarebbe stato sciocco urlare, dopo un singolo versamento, “oggi ci hanno dato 50 mila euro”, volevamo aspettare di capire il totale.
Ma la spesa più alta (208.000 euro) l’avete fatta per finanziare il Congresso del Partito Radicale Transnazionale. Che c’entra con la Pisana?
Abbiamo finanziato una parte delle spese di quel Congresso perché una sessione era dedicata alla tutela dei diritti umani negli enti locali, con la presenza di consiglieri di autonomie locali provenienti da molti Paesi.
Perché i versamenti sono due?
Perché il Congresso del Partito Radicale Transnazionale, come da tradizione, si divide in due sessioni differenti: nel 2011 una si è svolta a Chianciano e l’altra a Roma. Per la seconda è stata scelta la Capitale anche perché sede del Consiglio regionale.
Certo, finanziare un Congresso a Chianciano, con politici di tante altre nazioni, con fondi della Regione Lazio...
Le norme non pongono un limite di utilizzo nel territorio laziale dei fondi ai gruppi. Molti consiglieri ne fanno un’interpretazione di questo tipo scatenando appetiti clientelari. Noi abbiamo sostenuto un’attività inerente alla politica del gruppo, dandogli seguito con la costituzione di un’intergruppo consiliare sui diritti umani.
Magari retribuito anche quello con un gettone?
No, totalmente gratuito.
Come è stata possibile la lievitazione dei fondi?
Perché qui non c’è trasparenza. Quando si riunisce l’ufficio di presidenza e delibera, ai consiglieri che non ne fanno parte arriva solo una mail con i titoli delle decisioni. Abbiamo chiesto il testo di varie determine, non lo abbiamo mai ottenuto.
il Fatto 28.9.12
Luigi Nieri (Sel)
“Non ci siamo posti il problema, ma non abbiano rubato niente”
“Come gruppo Sel abbiamo speso tutti i soldi che ci ha destinato il Consiglio nei limiti previsti dalla legge. Non mi nascondo dietro ai cavilli, chiunque li abbia usati per fini diversi dalle attività istituzionali ha sbagliato”. Luigi Nieri, capogruppo di Sel al Consiglio regionale del Lazio ed assessore al Bilancio durante la giunta Marrazzo è uno che i conti della Regione dovrebbe conoscerli bene.
È in Regione da molti anni, come avete fatto a non accorgervi di quello che stava succedendo nel Pdl?
Puoi denunciare quello che conosci, non quello che non sai. I bilanci, sia della giunta che del Consiglio, durante la presidenza Polverini non sono stati all’insegna dell’accessibilità e la trasparenza. I partiti che non facevano parte dell’ufficio di presidenza non ne conoscevano le de-libere, tantomeno l’aumento dei fondi ai gruppi rispetto a quelli previsti nel bilancio.
Potevate fare di più?
Chiaro, l’opposizione dovrebbe sempre fare di più. Ma senza trasparenza è difficile.
Mai nemmeno un sospetto?
Onestamente non ci siamo posti il problema di sapere quanti fondi ricevessero gli altri gruppi, abbiamo pensato piuttosto ad usare al meglio i nostri.
Sel ha ricevuto 160.665 euro nel 2010 e 356.610 per l’anno successivo. Non male.
È comunque meno di quanto hanno percepito altri gruppi con due consiglieri come il nostro.
Voi avete speso soprattutto in manifesti, 173.054 euro solo nel 2011. Tanti soldi.
Abbiamo fatto diverse campagne di informazione sul nostro lavoro in aula: contro la legge Tarzia, la chiusura degli ospedali, il piano casa. In qualche caso stampato anche degli opuscoli. In futuro questa voce potrà essere ridotta, ormai ci sono nuove forme di comunicazione che rendono i manifesti sempre più datati.
Allora siete pentiti di averli fatti?
La nostra è una forza politica con un leader affermato ma senza parlamentari, con una presenza sugli organi di stampa a corrente alternata: i manifesti servono anche a bilanciare queste cose.
Da assessore al Bilancio quanti fondi destinavate ai gruppi?
Premetto: in cinque anni la giunta Marrazzo ha trasferito in totale al Consiglio 265 milioni di euro, loro 188 milioni in due anni. Per i gruppi siamo partiti da 3,3 e abbiamo terminato a 4,5 milioni, prima che arrivassi io al Bilancio la trasparenza degli atti su internet era una cosa sconosciuta. Questa è una battaglia che rivendico.
a. m.
Repubblica 28.9.12
In Italia per adesso nessuna manifestazione anti-austerity come a Madrid e ad Atene
Roma non rischia il contagio della piazza
di Roberto Mania
ROMA — L’anomalia italiana si chiama “governo tecnico” sostenuto da una grande coalizione. Se le piazze nostrane restano vuote mentre si riempiono quelle madrilene e quelle di Atene e Salonicco per protestare contro le politiche di austerity è soprattutto perché da noi manca un’opposizione di sinistra che faccia da sponda ai movimenti sociali. La tesi emerge da un’indagine in progress (“La politica sotterranea”) che sta realizzando un gruppo di ricercatori, guidati da Donatella Della Porta, professoressa di sociologia presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, con il coordinamento della London School of Economics. C’è il contagio della speculazione, non quello della protesta. La moneta unica non ha unificato le piazze, un po’ come con lo spread.
Certo, ci sono le proteste dei lavoratori dell’Alcoa, degli operai dell’Ilva, dei minatori del Carbosulcis, dei cassintegrati della Fiat di Termini Imerese. Addirittura gli scioperi sono aumentati nell’ultimo anno del 25 per cento. Qua e là affiorano pure proteste dei precari. Ma ciascun gruppo protesta per sé, spesso scegliendo forme estreme: la discesa a quattrocento metri di profondità, le notti sui tralicci o sulle torri a sessanta metri di altezza. Qualche anno fa la salita sui tetti dei ricercatori. Nessuno, però, unifica le proteste. Non c’è un collettore. Nemmeno i sindacati lo sono, nonostante siano quasi sempre parti della protesta. Ma pesano le loro divisioni e lo scarso appeal tra i movimenti sociali di base.
Dice Della Porta: «Le politiche che gli economisti definiscono liberiste non hanno risentito del passaggio da Berlusconi a Monti, al netto della delegittimazione e dell’inaffidabilità del primo. Ma quanto c’era il governo di centro-destra tutta una serie di organizzazioni più o meno vicine al Pd andava in piazza, offriva le risorse logistiche, mentre ora frena».
Perché, al di là dello spontaneismo dei movimenti modello indignados od occupy, una protesta richiede uno sbocco politico. Chi va in piazza deve anche pensare che le proprie ragioni troveranno ascolto in Parlamento, quella che i ricercatori chiamano «opportunità politica». Altrimenti muta la natura della protesta che diventa testimonianza. Nel Parlamento italiano — sostiene Della Porta — «c’è una grande coalizione, anche se non si può dire dopo lo scontro nella stagione del berlusconismo». Questa è l’anomalia. Perché nella stagione dell’emergenza finanziaria, non c’è spazio per la formula antica dei “partiti di lotta e di governo”.
Repubblica 28.9.12
Le ultime ore del cardinal Martini
risponde Corrado Augias
Gentile Augias, sono un medico che da circa 20 anni lavora nell’accompagnamento dei pazienti a fine vita, tumorali e non. Ho letto la lettera di Mancuso e la risposta di Scalfari. Mi permetto alcune precisazioni. 1- Un lungo dibattito ha contribuito a costruire un “luogo comune” per cui la sedazione palliativa in fase terminale è spesso considerata erroneamente come “un intervento medico che pone la fine alle sofferenze accelerando la morte”. 2 – Non è così. La sedazione profonda terminale è una misura terapeutica di scelta estrema in casi di sofferenza intollerabile e viene praticata con un farmaco ipnotico. 3 - Il costo della sedazione palliativa profonda è la soppressione della coscienza cioè la morte relazionale. 4 -Viene eseguita negli ultimissimi istanti di vita (24-36 ore). 5 - Il consenso del paziente è irrinunciabile. 6 – La sedazione terminale ovviamente non è eutanasia. 7 – Il paziente sedato deve poter contare sulla presenza costante di uno dei curanti sino al momento della morte. 8 – Si tratta quindi di lasciare che la morte arrivi normalmente ma dormendo. L’argomento è vasto, mi scuso di averlo (forse) troppo sintetizzato.
Prof. Giorgio Tubere
Ringrazio il prof . Tubere per le sue utili precisazioni. Anche se non mi pare che cambino nella sostanza quanto è stato scritto sulla fine del cardinale Martini, il doloroso evento dal quale ha preso avvio questa discussione. Dalla testimonianza della nipote del presule, avvocato Giulia Facchini, sappiamo che Martini “quando non ce l’ha fatta più ha chiesto di essere addormentato”. Inizialmente alcune agenzie avevano battuto che il malato era stato “staccato dalle macchine” e su questa prima versione s’era basato anche il primo commento di Eugenio Scalfari. In realtà non c’era alcuna macchina, Martini era solo arrivato al limite di sopportazione della sofferenza fisica e intellettuale; liberamente, con lucida coscienza ha chiesto di essere sedato. Riprendo le parole di Scalfari: «Quando si è nello stato di salute in cui era lui, la sedazione è un eufemismo che significa darsi la morte». Il professor Tubere obietta che la sedazione profonda causa solo la “morte relazionale”, sopprime cioè la coscienza, ma aggiunge anche che quell’azione fa arrivare “normalmente” la morte mentre si dorme. A me pare, giudicando da profano, che tra queste informazioni diciamo tecniche e quanto scritto da Vito Mancuso ed Eugenio Scalfari non ci siano diversità di sostanza a parte forse il punto che la sedazione venga eseguita “nelle ultime ore di vita”. Non sappiamo se, quando il cardinale è stato sedato, fossero già cominciate le ultime ore a lui date dalla natura. Sappiamo solo che così ha chiesto che fosse. Ed è stato. È ciò che ognuno di noi si augura, se fosse necessario, se ce lo permetteranno.
Agi 27.9.12
Onu: Abu Mazen, Israele uccide speranze di soluzione 2 Stati
New York, 27 set. - Israele, con i suoi insediamenti nei territori occupati, sta uccidendo le speranze della soluzione dei due stati nel conflitto mediorientale. Lo ha affermato il presidente palestinese Abu Mazen nel suo intervento all'Onu che ha definito "razzista" la colonizzazione di Israele. Il presidente palestinese ha quindi chiesto una risoluzione del Consiglio di sicurezza che ponga fine al conflitto e ha ribadito la richiesta di stato "non membro" per la Palestina .
Corriere on line 28.9.12
Il presidente palestinese Abu Mazen ha accusato Israele di condurre una colonizzazione «razzista» dei territori palestinesi, spingendoli verso una «nuova catastrofe», ha denunciato le violenze nei Territori e in Gerusalemme Est. «Non c’è altra patria per noi che la Palestina» ha detto tra gli applausi «e non c’è altra terra per noi che la Palestina». Israele, con i suoi insediamenti nei territori occupati, sta uccidendo le speranze della soluzione dei due stati nel conflitto mediorientale, ha affermato Abu Mazen nel suo intervento all'Onu chiedendo una risoluzione del Consiglio di sicurezza che ponga fine al conflitto. E, affermando che esiste ancora una possibilità, «forse l'ultima», di salvare la soluzione dei due Stati, ha detto di aver avviato le consultazioni per ottenere dall'Assemblea generale dell'Onu il riconoscimento dello status di Stato non membro per la Palestina.
La Stampa 28.9.12
Colloquio
Il dissidente Chen “Anche la Cina diventerà democratica”
L’avvocato cieco ora vive con la famiglia a New York “Non avrei voluto partire, essere qui è una sconfitta”
di Ilaria Maria Sala
NEW YORK Chen Guangcheng, l’avvocato autodidatta non vedente, attivista cinese per i diritti umani fra i più noti, dopo la rocambolesca fuga dal suo villaggio nella regione costiera dello Shandong, la scorsa primavera è arrivato a New York, grazie a un compromesso dell’ultima ora raggiunto fra le autorità cinesi e la diplomazia statunitense, che l’aveva accolto nell’Ambasciata americana a Pechino.
Ora Chen, insieme alla moglie Yuan Weijing e ai due figli, abita al Village, in un appartamento approntato per loro dalla Facoltà di Giurisprudenza della New York University non lontano da Washington Square. Il contrasto con il piccolo villaggio in cui è stato tenuto agli arresti domiciliari per anni, con scagnozzi appostati davanti a casa pronti a picchiare lui e sua moglie o chiunque cercasse di andarlo a trovare, non potrebbe essere più grande. «Essere qui è un po’ una sconfitta», dice, seduto in un piccolo ristorante giapponese poco lontano da casa, con la moglie di fianco, sua eterna accompagnatrice e colonna. «Ma stiamo bene. Stiamo bene», ripete. Le giornate ora non trascorrono più nel chiedersi quando avrà fine l’incubo in cui l’aveva precipitato il mettersi contro le autorità locali, ma nel cercare di imparare l’inglese e inserire i figli nella nuova vita. Poi ci sono gli incontri con accademici americani e adesso anche il progetto di un libro autobiografico.
«Se mi guardo indietro… l’esperienza è stata tremenda. Ma questi anni non sono riusciti a terrorizzarmi. A farmi infuriare, sì, invece», dice, muovendo la testa in modo incerto, come se cercasse nell’aria il modo di sbarazzarsi dei terribili ricordi. A chiedergli se rifarebbe quello che ha fatto – aiutare i contadini del suo villaggio a denunciare le autorità locali per tasse inique ai disabili, battersi contro l’esproprio illegittimo di terre, i casi di inquinamento doloso, gli abusi alla politica del figlio unico – non si fa in tempo a sentire la sua risposta, che interviene Yuan Weijing, solitamente un po’ schiva: «No! Assolutamente no: non dovremmo rifarlo, non rifarei nulla di quello che abbiamo fatto! È stato troppo pericoloso», dice, nascondendo dietro una risata spontanea l’angoscia passata. Poi Chen riprende la parola: «Non si può cambiare la storia. Lai mi chiede se, tornando indietro, mi rimetterei a lavorare per la difesa dei diritti umani? Non è una scelta. È così e basta”, dice. Yuan lo osserva, riempiendogli il piatto delle cose migliori, spiegandogli che cosa gli sta servendo e incoraggiandolo a mangiare di più, perché da quando è negli Stati Uniti ha perso peso.
Pensando ai tanti dissidenti che si sono ritrovati in esilio incapaci di esercitare un’influenza in patria, Chen dice: «Partire non era il mio desiderio. Consideriamo però che quando ero a casa, nella provincia dello Shandong, durante i sette anni di arresti domiciliari e di prigione, non mi era concesso di fare nemmeno una telefonata. Non avevo nessun contatto con l’esterno: ora sono fuori dal Paese, ma almeno posso comunicare con molte persone, anche in Cina. Non con tutti: di mio nipote Chen Kegui, accusato di tentato omicidio per essersi difeso da un’incursione notturna della polizia dopo la mia fuga, non ho notizie. E sì che avevano promesso di lasciarlo in pace, di aprire un’inchiesta sugli abusi che abbiamo subito! » .
Il ristorante si è riempito e un gruppo di studenti cinesi venuti a pranzare qui, nel vedere Chen Guangcheng al tavolo d’angolo, comincia a fargli fotografie con il cellulare, un po’ in sordina. Contrariamente ad altri dissidenti divenuti noti per i loro scritti, Chen rappresenta la gente comune, i disabili, i contadini e gli espropriati, e ha molti sostenitori in Cina che lo conoscono e rispettano.
«Credo che sia molto importante che il mondo continui a fare pressione sulla Cina per il rispetto dei diritti umani, in tutto il Paese - continua, ignaro di essere al centro dell’attenzione -. La Cina non è solo Shanghai e Pechino. E quello che avviene nelle campagne è ancora molto duro». Da quando è in America si è impegnato affinché questa pressione sia fatta, senza preoccuparsi della polarizzazione della politica Usa e della possibilità di essere strumentalizzato da una parte o dall’altra. «Non m’intendo di politica americana, francamente mi interessa poco. Il mio lavoro riguarda la Cina e il suo futuro, e voglio di restare fedele a me stesso», dice.
Tra i programmi per l’anno prossimo c’è una visita a Taiwan: Chen ha accettato l’invito, anche se questo viaggio può complicare il suo sogno di tornare in Cina appena possibile. «Non ho dubbio alcuno - dice - che la Cina diventerà democratica. E credo che ciò avverrà presto,. Se tutti lavoriamo per questo obiettivo, il nostro domani sarà di certo molto migliore. Sono convinto che quello che Taiwan è oggi, la Cina potrà esserlo domani: una democrazia, dove la legge e i diritti umani sono rispettati». E ripete, con solare ottimismo: «No, non ho nessun dubbio al riguardo».
Repubblica 28.9.12
Cina
La compagna Liu prima donna al potere nella fortezza rossa
di Giampaolo Visetti
PECHINO Una “principessa rossa” bussa alla porta del potere nella Città Proibita. Per la prima volta, a 62 anni dalla Rivoluzione maoista, una donna si appresta a entrare nel club esclusivo dei nove uomini che comandano la Cina. Il suo nome è Liu Yandong e i pochi che hanno accesso alle camere con vista su piazza Tienanmen, dove in queste ore si decide il destino della seconda economia del mondo, assicurano che la “dama di ferro” della Gioventù comunista, iscritta al partito a 19 anni, sarà la grande sorpresa del 18° Congresso, previsto a metà ottobre.
I 2270 delegati, in un clima di mistero che allarma anche le Borse, saranno chiamati a rinnovare la leadership nazionale per i prossimi dieci anni. E proprio Liu Yandong, 66 anni, attuale ministro di Sanità, Istruzione, Cultura e Sport, compare in tutte le liste di indiscrezioni sui prossimi membri del Comitato permanente del Politburo. Per la Cina, abituata al potere di un gruppo di anziani tecnocrati dai movimenti a scatti e con i capelli tinti d’inchiostro, sarebbe un’altra rivoluzione e Liu Yandong balzerebbe in testa alla classifica delle donne più potenti dell’Asia.
A Pechino si dice anche qualcosa di più. L’irresistibile ascesa della figlia di Liu Ruilong, viceministro dell’Agricoltura all’alba della Repubblica Popolare, coronerebbe l’anno memorabile del Drago, che passerà alla storia del regime come quello “delle tre regine” che hanno deciso la sorte del nuovo Impero. L’ex compagna universitaria del presidente Hu Jintao alla Tsinghua, dove ha studiato anche il successore Xi Jinping, incarna infatti l’antitesi di Gu Kailai, moglie dell’ex leader neomaoista Bo Xilai, epurato a un passo del potere. L’avvocatessa in carriera, condannata a morte (pena sospesa) per l’omicidio Heywood, era il simbolo dell’occidentalizzazione della politica cinese, minata da corruzione e protagonismo personale. Liu Yandong andrebbe così a occupare la poltrona che sembrava predestinata a suo marito, a sottolineare come “costruire consenso tacendo e abbassando la testa” resti lo stile prediletto dalla nomenclatura rossa. La ter-
za “regina” del 2012 cinese è invece Peng Liyuan, 48 anni, stella del pop convertita al folk, generale dell’Armata del popolo, ma soprattutto moglie di Xi Jinping e futura First Lady di Pechino. Anche per l’ex ospite d’onore del gran galà di Capodanno della tivù di Stato,ora oscurata per ragioni d’etichetta, sarà un debutto assoluto. I leader cinesi sono, per definizione, politicamente single.
Nemmeno Jiang Qing, quarta e ultima moglie di Mao Zedong, ha mai assunto ufficialmente il ruolo di compagna del Grande Timoniere. Immagine che promette invece di acquisire la disinvolta Peng Liyuan, decisa a donare ai cinesi la prima “moglie in carica” di un presidente. Un’irreprensibile “principessa rossa” nel Comitato permanente e una popolarissima stella del varietà al fianco del leader, al posto di una spregiudicata
business woman che avrebbe tradito l’uomo che prometteva alle masse escluse dal successo la riscoperta della Rivoluzione culturale. Sarebbe questa la mossa della prima generazione di funzionari nati dopo la morte di Mao che si contendono i posti che contano, indecisi se ridurre a sette le “poltrone d’oro” e spaventati dall’addio di nonno Wen Jiabao, il premier più amato dei cinesi da oltre vent’anni.
La necessità di svecchiare il profilo di una dirigenza imbalsamata, superata da un Paese reale che naviga in Rete e detta la moda agli europei, non è però la sola ragione che per la prima volta spinge in alto l’“altra metà del cielo”. «La Cina — dice Pu Xingzu, docente all’Università Fudan di Shanghai — contende ormai agli Usa la leadership globale del secolo. Per parlare al mondo deve dotarsi di un’immagine che non ricordi quella della Corea del Nord. Ai vertici internazionali si incontrano sempre più donne, presidentesse, premier o segretarie di Stato, e le First Lady rubano la scena ai mariti». L’irreprensibile funzionaria Liu Yandong, oltre che arginare la compagna Peng, compatterebbe poi un partito scosso come mai da guerre intestine, corruzione e indecisioni tra riformisti e conservatori. È una “principessa” figlia del potere ma ha guidato la Lega della Gioventù, sostiene Hu Jintao ma è amica di Xi Jinping, è cresciuta a Pechino ma è intima dell’ex presidente Jiang Zemin, sponsor di Shanghai. Conserva un guardaroba da Deng Xiaoping, ma invita a fare jogging indossando una tuta americana. Un concentrato di profilo basso e contatti alti, regola numero uno nella scuola del partito: l’inconfessabile segreto di Liu Yandong, astro nascente di una Cina che per la prima volta spedirà una donna anche sulla luna.
Corriere 28.9.12
Il lungo silenzio di Stalin dopo l’invasione tedesca
risponde Sergio Romano
Il 21 giugno 1941 le truppe tedesche attaccano e invadono l'Urss. È solo ai primi di luglio che Stalin prende la parola per denunziare al popolo sovietico l'invasione e per esortare il popolo alla resistenza. Qual è il motivo per quel lungo periodo di silenzio?
Pietro Imperia
Caro Imperia,
Secondo molti studiosi, Stalin sapeva che Hitler avrebbe attaccato l'Unione Sovietica. Ma era convinto che l'aggressione sarebbe avvenuta soltanto nel 1942, dopo la sconfitta della Gran Bretagna. Gli sembrava impossibile che la Germania volesse ripetere l'errore della Grande Guerra, quando il suo esercito aveva combattuto su due fronti, e pensava di potere rinviare di qualche mese il programma per la riorganizzazione delle forze armate sovietiche. Più in là, non appena fosse giunto il momento di agire, l'Urss avrebbe preceduto i tedeschi e colpito per prima. Fu questa la ragione per cui il generalissimo, come amava essere chiamato durante il conflitto, rifiutò ostinatamente di dare retta ai numerosi segnali che provenivano dai confini occidentali del Paese. Fra il maggio e il giugno non passò giorno senza che qualche sconfinamento tedesco in territorio sovietico lasciasse trapelare le intenzioni ostili della Germania, e non passò settimana senza che gli agenti dei servizi sovietici confermassero i piani militari del Reich.
Ma a Stalin quelle notizie non piacevano. In un libro pubblicato nel 2007 da Corbaccio (Il silenzio di Stalin) Costantine Pleshakov racconta la tempestosa conversazione del leader sovietico, alla vigilia dell'attacco tedesco, con due generali, Semën Timošenko, commissario del popolo per la Difesa, e Georgij Žukov, capo di Stato maggiore. I generali gli proponevano un piano per la massiccia dislocazione di forze sovietiche verso Occidente e Stalin ribatteva bruscamente che non intendeva offrire a Hitler il pretesto di una provocazione. Dietro quell'atteggiamento vi era la coscienza dell'estrema debolezza di cui soffriva l'Armata Rossa dopo le purghe che ne avevano decimato i quadri superiori. Non voleva credere all'attacco tedesco perché sapeva che le forze armate dell'Urss, in quel momento, non erano in condizione di resistere.
I risultati dell'imprevidenza di Stalin furono catastrofici. Pleshakov scrive che l'Armata Rossa, nelle prime tre settimane del conflitto, perdette 28 divisioni e quasi un milione di uomini, di cui 600.000 uccisi (il numero dei morti italiani nella Grande Guerra) e 328.898 prigionieri. Il 1° luglio, otto giorni dopo l'inizio delle operazioni, 20 milioni di cittadini sovietici vivevano ormai in territori occupati dal nemico. Stalin, intanto, cadde in una sorta di cupa prostrazione. Questo non gli impedì di dare ordini importanti come quello per il trasferimento verso l'estremo Oriente sovietico dell'apparato industriale del Paese, ma temeva di avere perduto la sua autorevolezza ed era probabilmente preoccupato dalla possibilità di una congiura di palazzo contro la sua persona. Una guerra all'interno del partito dovette sembrargli più pericolosa della guerra contro Hitler. Quando capì che non vi erano concorrenti pronti a succedergli, uscì dalla prostrazione, riprese il controllo della situazione e parlò al Paese.
Corriere 28.9.12
«Avanti!», un secolo tra Mussolini e Nenni
di Paolo Franchi
Ci vogliono non solo molta passione, ma anche molto coraggio e molta pazienza per ricostruire un secolo quasi di storia italiana, europea e mondiale così come li ha raccontati, sofferti, interpretati un quotidiano tutto particolare come l'«Avanti!». A Ugo Intini, che ha cominciato a lavorarci da ragazzo e ne è stato direttore, la passione, a dispetto di tante sconfitte, non è mai venuta meno; il coraggio e la pazienza nemmeno. Da un lavoro intelligente e certosino, che immagino immane, è venuto fuori questo suo «Avanti!» Un giornale, un'epoca, appena uscito dall'editore Ponte Sisto (pp. 750, 30). Sono 750 pagine, tantissime, ma molte di queste si fanno leggere davvero, affollate come sono di grande storia politica e assieme delle vicende umane di tanti personaggi, grandi e minuti che, dalle parti dell'«Avanti!», questa storia l'hanno vissuta, e in molti casi fatta.
Dovendo scegliere, è forse il caso di consigliare, specie ai lettori più giovani, un passaggio terribile, e in parte inedito, della vita di Pietro Nenni e dei suoi rapporti con Benito Mussolini. Hanno fatto la galera insieme, Mussolini socialista rivoluzionario, Nenni repubblicano, nel 1911. Tutti e due sono stati dei grandi giornalisti, tutti e due hanno diretto l'«Avanti!». Mussolini l'interventista lo ha lasciato nel 1914, per fondare il «Popolo d'Italia» (per inciso, anche «L'Ordine Nuovo» di Gramsci nasce da una costola del quotidiano socialista). Nenni, nel dopoguerra, sosterrà che per guidare il Psi gli sarebbero bastati una segretaria, un telefono e, naturalmente, il suo «Avanti!». Ma nel 1941, clandestino nei Pirenei dove è sfollato con la famiglia, ne dirige un'edizione tutta particolare: un foglietto che si scrive e si stampa da solo («la bandiera è la bandiera», annota Intini), unico aiuto la figlia Giuliana. Da pochi mesi un'altra figlia, Vittoria, l'adorata Viva, è stata catturata dai tedeschi assieme al marito Henri Dabeuf. Lui viene fucilato quasi subito, lei deportata ad Auschwitz. Nenni sa dell'arresto, e questa angoscia se la porta addosso quando, l'8 febbraio del 1943, viene arrestato a sua volta dalla Gestapo. È convinto che lo uccideranno, in Francia o in Germania. Invece lo trasferiscono in Italia, via Brennero, destinazione prima Regina Coeli, poi Ponza. Dalla finestra, sull'isola, guarda con il binocolo il suo vecchio compagno diventato Duce del fascismo e adesso «ristretto» come tanti «suoi» confinati nell'isola: non avrà mai prove che sia stato Mussolini a salvargli la vita, ma lo sospetta sin dall'inizio.
Della morte di Vittoria, Nenni saprà solo a guerra conclusa, il 29 maggio del 1945. Ora l'angoscia si fa nera: non c'è solo il dolore terribile per la perdita della figlia, c'è anche il dubbio lancinante che, se avesse chiesto a Mussolini di salvarla, forse Vittoria sarebbe ancora viva. Il dolore resterà per tutta la vita, il terribile dubbio in parte, ma solo in parte, no: nel 1946, in un drammatico incontro all'ambasciata italiana a Parigi, Nenni apprende da una compagna di sventura che Viva ha voluto condividere il destino delle militanti del maquis arrestate con lei, e si è rifiutata di far valere la sua nazionalità italiana. C'è, in materia, un appunto vergato in fretta quella notte stessa da Nenni: le frasi sono tronche, la sintassi approssimativa. È nelle carte della Fondazione Nenni da quando lo ha ripescato, in fondo a un cassettone, il suo biografo e amico Giuseppe Tamburrano. Intini lo pubblica nel suo libro.
È una testimonianza drammatica. Eccola. «Il rifiuto di Viva di far valere la sua nazionalità italiana. Il mio pensiero primo in Germania: "Quando arrivo in Italia telegrafo a Mussolini che faccia di me quello che vuole ma salvi mia figlia". Sono arrivato al Brennero il 5 aprile. Viva è caduta malata una settimana dopo. Se avessi telegrafato a Mussolini sono sicuro che l'avrei salvata. Ho avuto la tentazione due o tre volte al cappellano (sic) del carcere di Bressanone. Ma non potevo, non riuscivo. Mi pareva di compiere un atto di viltà. Mi sono detto lo farò a Roma. Ma a Regina Coeli sono stato preso dall'atmosfera eroica della Resistenza e allora ogni idea del genere è caduta. Non oso chiedermi se ho avuto ragione o torto. Ma sento che non mi libererò mai più da questo pensiero terribile: "Forse, o quasi certamente, avresti potuto salvare tua figlia dall'orrore di Auschwitz. Ed è l'orgoglio che te lo ha impedito". Per fortuna mia oggi so che Viva avrebbe potuto salvarsi da sola e non lo volle per dignità di carattere». Almeno in questo caso, dirlo non è retorica. Ogni commento sarebbe davvero inutile. Specie di questi tempi».
Repubblica 28.9.12
Un libro di Ugo Intini racconta la storia del giornale del partito fondato alla fine dell’Ottocento
Dalle battaglie politiche agli anni di Mani Pulite
C’era una volta L’Avanti!
Da Turati a Craxi, un secolo di socialismo quotidiano
di Nello Ajello
L’Avanti! è stato, per quasi un secolo, un pezzo d’Italia. Quanto a memoria storica ne ha avuta da vendere. Basta (bastava) guardarne la testata, graficamente “datata” ma proprio per questo suggestiva. Quel ricciolo sulla “A” maiuscola sembrava un lascito liberty. Quel suo celebre punto eclamativo rifletteva l’ingenuità dei socialisti d’antan. Ma non sono solo questi i motivi per i quali ci si sente attratti dal volume di Ugo Intini,
Avanti!, un giornale, un’epoca (sta per uscire nelle edizioni Ponte Sisto, pagg. 750, euro 30). L’autore, oggi settantunenne, è un socialista di un’“autenticità” inconfutabile. Al quotidiano di cui parla ha lavorato per ventisette anni, cioè da ragazzo, appena uscito dal liceo, e per sette anni l’ha firmato come direttore. È stato parlamentare del Psi in due riprese, dal 1983 al 1994 e dal 2001 al 2006, sottosegretario agli Esteri con Amato e vice-ministro con Prodi. Uno, dunque, che sa di cosa parla. Lo sa perfino troppo, al punto di associare il lettore alle vicende anche minime che riguardano il suo argomento, e riuscirebbe a infastidirlo se non fosse per un equivoco che figura nell’introduzione. Questo libro, vi si legge, «cerca il più possibile di evitare le riflessioni politiche legate al momento in cui è stato scritto». Esso vuol essere «non un saggio ma una ricostruzione fedele della realtà, anno dopo anno». Si tratta di una “bugia d’autore”, e sia la benvenuta. Di fatto, tra i saggi politici che ci capita di leggere, pochi traboccano di altrettanta passione personale .(«È un libro fotografico», mi ha ripetuto a voce Intini, ma ammettendo che «anche i fotografi possono essere parziali, non fosse altro per la scelta di ambienti e soggetti»).
Lui, l’autore-fotografo, è sempre presente, sia che arda di entusiasmo o frema d’indignazione. Fra le pagine dedicate a episodi e personaggi antichi e quelle che trattano temi tuttora scottanti c’è una circolazione ininterrotta. Dietro Pietro Nenni – una specie di mito, il “sacerdote del socialismo” che invade le pagine – s’intravede la figura di Filippo Turati, così come la sagoma di Nenni s’indovinerà dietro le gesta di Bettino Craxi presidente del Consiglio: è, quest’ultima, una sorte a lui segnata fin dal tempo in cui veniva confidenzialmente chiamano “Nennino Craxi”.
Alcuni personaggi ricorrenti fungono, in tutto il libro, da bersagli abituali. Scavalcando le stagioni, si ripresentano in situazioni apparentemente fra loro lontanissime: i massimalisti, “dissacranti e rabbiosi”, che negli anni Dieci del ’900 congiuravano contro le “vecchie barbe” insediate ai vertici del partito, si sarebbero ripresentati mezzo secolo più tardi: nel ’68 con la contestazione studentesca e poi, nel ’92, con mani pulite. Altro ospite abituale del vecchio Avanti!, è l’emigrante: egli era allora “in partenza” dall’Italia, ma la sua sagoma richiama quei poveracci che da noi sbarcano oggi, e molto
analoghe sono le pulsioni razzistiche che talvolta suscitano all’arrivo. La centralità del’Avanti! nella vita italiana viene ribadita ad ogni passo: non a caso, nota l’autore, hanno avuto origine nelle sue stanze sia il fascismo che il comunismo, ad opera di Mussolini e di Gramsci. L’uno e l’altro, in epoca diversa, avevano diretto o scritto su quel giornale, prima di “tradire” o traslocare.
Ma continuiamo a sfogliare l’Avanti!, alla ricerca di coincidenze. Un “quasi centro-sinistra” fece la sua comparsa all’inizio del Novecento, con il governo Zanardelli prima, e poo più tardi con la lunga era giolittiana. Se a qualcuno, per ardita ipotesi, capitasse di pensare che le ruberie di singoli o di “caste” ai danni dello Stato rappresentino una penosa novità, gli andrebbe consigliato di soffermarsi sulle colonne del giornale socialista, piene, un secolo fa, d’invettive contro i “succhioni”, i responsabili di “mangerie”, i «divoratori di milioni» sottratti alla comunità. Ritratti eterni, ma istruttivi. Come di solito accade con la collezione d’un giornale, questo Avanti! di Ugo Intini si presta male a una lettura ininterrotta, che potrebbe ingolfare chi vi si dedica. Si
consiglia, invece, una consumazione a “sorseggio”.
Man mano che il racconto si accosta ai nostri tempi, la favola della “fotografia” si dilegua del tutto. Ecco adesso l’Intini che conosciamo: l’uomo di partito, il craxiano immarcescibile, l’assiduo polemista. Non sta più lì a sfogliare antiche collezioni,
parla d’un Avanti! che abbiamo letto in molti. È proprio ciò che si pensava di trovare in un libro a sua firma. La stagione craxiana viene rivissuta con un impeto a tratti velato di nostalgia. Si giudica irripetibile il tempo – gli anni Ottanta – quando il Psi governava sotto l’imperio di quel “Nennino Craxi” che duecento pagine fa veniva considerato un infante (ci si soffermi, in proposito, su una scenetta che mostra, sulla metà gli anni Trenta, Lelio Basso che, in casa del papà Vittorio Craxi, stringe fra le braccia un tenero infante: si tratta di Bettino. È mai possibile – ci si domanda – che un Craxi faccia tenerezza?).
Dai fatti d’Ungheria in poi, il testimone diventa attore. La polemica craxiana contro i comunisti, i “carristi” – cioè la sinistra interna al Psi – poi le benemerenze del governo a direzione socialista, le sferzate contro giornali e giornalisti, la rude contesa con la magistratura, il vittimismo di partito – rifulgono in piena luce. Fino al termine dell’avventura, per l’Avanti! (anno novantasettesimo) e per il partito. Siamo al 1993. Come fosse oggi.
Se lo si interroga sull’oggi in quanto tale, si scopre che Intini – bilioso per definizione o per pregiudizio – è a suo modo, un ottimista. «Adesso», dichiara, «c’è in Italia, una sinistra senza anima e senza identità. Per darsele, non può fare altro che legarsi alla socialdemocratica e al partito socialista europeo, seguendo le posizioni assunte da Giorgio Napolitano nel suo ultimo periodo di politica attiva prima di arrivare al Quirinale».
Pensa che ci riusciranno? «Alcuni passi li hanno già fatti. Adesso hanno un’opportunità in più». Quale? «È presto detto: dopo la disfatta del comunismo, è fallito, o sta per fallire, anche il liberismo», conclude Intini.
Parola di socialista doc.