l’Unità 29.9.12
Migliaia in piazza a Roma
Lo sciopero della Pubblica amministrazione indetto da Cgil e Uil riempie le vie del centro
La richiesta al governo di una svolta di politica economica
Camusso: con i licenziamenti non si crea occupazione
Repubblica 29.9.12
Vescovi e industriali, sì al Monti bis Marchionne: “Un passo avanti”
Centrodestra freddo. Bersani: fuori dalle contese
di Silvio Buzzanca
ROMA — È un sì unanime quello della Chiesa – che ieri si è espressa attraverso la Conferenza dei vescovi – e degli industriali all’ipotesi di un Monti bis. L’amministratore delegato di Fiat Marchionne ieri ha definito la disponibilità del premier a rinnovare il mandato “un passo avanti per il Paese”. Resta la freddezza del Pdl mentre Bersani avverte: lasciamo il professore fuori dalle contese dei partiti. Il segretario Cgil Camusso è netta nel dire no: sarebbe un messaggio di rassegnazione.
«Sarebbe un passo avanti per il Paese. Darebbe credibilità e toglierebbe molta incertezza ». Sergio Marchionne si schiera a favore del Monti-bis. Considera la permanenza del Professore a Palazzo Chigi «un grande valore in termini di credibilità internazionale». Io, spiega, «giro il mondo come una trottola e vedo la reazione degli altri capi di Stato: la reputazione che il Paese ha grazie a Monti è anche maggiore di quella che si merita ». Secondo l’ad della Fiat, «la continuità di gestione è importante. La scelta è ovviamente sua, ma aiuterebbe moltissimo tutti quelli che fanno industria». Un via libera che in buona parte condivide anche Sergio Squinzi. «Abbiamo bisogno di ritrovare credibilità e avere una visione per il futuro. Il Monti bis è una delle possibilità, ma al di la dei nomi quel che serve è un governo stabile che possa operare per l'intera legislatura», dice il presidente di Confindustria. Che però aggiunge: «In Italia abbiamo bisogno di un governo stabile, credibile e capace di operare. E quindi deve avere una base politica».
Quella base politica che continua ad invocare Pier Luigi Bersani. Il segretario del Pd, anche a Bruxelles deve fare i conti con la disponibilità del premier a tornare a Palazzo Chigi per un bis. Il leader del Pd ha già detto no nell’intervista a Repubblica.
Ieri prova un po’ a frenare, spiega, precisa. «Consiglierei a tutti di tenere fuori Monti da queste contese. Non credo che il destino di Monti sia nella mia disponibi-lità, o di Casini, o di Berlusconi, o di chiunque altro», spiega, Bersani ribadisce però che l’obiettivo del suo partito, cercata anche attraverso la nuova legge elettorale è di arrivare a «maggioranze coerenti in grado di fare non meno riforme di Monti, ma più riforme di quelle di Monti ». Dunque meglio lasciare perdere l’ipotesi del nuovo governo tecnico, meglio il ritorno della politica.
Il tentativo democratico di sopire, di spegnere, il dibattito sul Monti bis però non va a buon fine. Perché ormai si schierano tutti, Si dividono dentro i partiti, dentro i sindacati. Il centrodestra rimane però freddo. Fabrizio Cicchitto dice che «Monti rimane fermo sulla riva del fiume». La Lega invece è nettamente contro il bis.
Interviene anche la Cei: «Siamo preoccupati per la situazione e quindi siamo vicini a qualsiasi soluzione possa favorire un adeguato e rapido superamento della crisi», dice monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza dei vescovi italiani. Crociata non vuole indicare la personalità che deve fare uscire il paese dalle secche: «Noi - dice - non ci occupiamo di nomi ma auspichiamo una coesione accresciuta tra chi ha a cuore il bene del Paese. Tutto ciò che serve a questo scopo, in questi mesi e oltre la scadenza naturale della legislatura, è benvenuto».
Un ritratto che assomiglia molto ad un nuovo governo di larghe intese, guidato sempre dal Professore. L’esecutivo che auspica il leader della Cisl Raffaele Bonanni. Ma che Susanna Camusso boccia in toto. «Sarebbe un messaggio di rassegnazione e non di cambiamento. E noi abbiamo bisogno di cambiamento», dice il segretario della Cgil. Ma una parte del Pd, - Ceccanti, Fioroni - vorrebbero che Monti guidasse il prossimo governo. Alleato con il centrosinistra. Stefano Fassina no. E mentre Passera dice che «saranno gli italiani a decidere chi dovrà avere la maggioranza nel prossimo Parlamento», Gianfranco Fini auspica «che una Lista Italia abbia il consenso sufficiente per rendere possibile la prosecuzione di un esecutivo guidato da Monti».
La Stampa 29.9.12
“Liste per Renzi” se saltano le primarie
Il sindaco: “Bersani sarà di parola, altrimenti tutto diventa possibile”
Per EMG Matteo in testa Per il Pd Bersani in vantaggio di due punti
di Federico Geremicca
ROMA Mario Monti e la sua disponibilità ad un secondo mandato, non lo preoccupano granchè. Nemmeno l’ormai lanciata campagna di Bersani gli toglie più il sonno. Al punto in cui si è - e confortato da sondaggi in crescita da settimane - l’unico vero timore di Matteo Renzi resta quello che aveva segnato l’avvio della sua discesa in campo: e cioè che le primarie, alla fine, si facciano davvero. Con una novità, però, un interrogativo inedito, consolidatosi in queste due prime settimane di tour in camper: che fare dello straripante entusiasmo raccolto in giro per l’Italia se le primarie dovessero saltare? Come reagire, visto il sorprendente consenso trasversale registrato? Si può dire al crescente “popolo dei rottamatori” amici abbiamo scherzato, si torna tutti a casa?
Nonostante ripeta tutti i giorni «le primarie si faranno, di Bersani mi fido», Matteo Renzi ha elevato il livello di allarme e chiesto ai suoi sostenitori in Parlamento (aumentano di giorno in giorno...) di concentrare l’attenzione sul lavorìo in corso intorno alla legge elettorale. Infatti, essendo sicuro che al punto cui si è giunti Bersani ha un interesse almeno pari al suo a che le primarie si tengano davvero, Renzi è convinto che i pericoli arrivino solo da un’ipotesi di riforma del Porcellum che, nella sostanza, non preveda più l’indicazione più o meno diretta del premier. Con una riforma così, le primarie diventano inutili. E che fare, in quel caso? Si torna tutti a Firenze a occuparsi dei ponti e dei tombini?
E’ di fronte a interrogativi così che nello staff e tra i consiglieri di Renzi si sta tornando a valutare una ipotesi che è stata assai in auge in avvio di questa avventura, quando pareva che Bersani e il suo stato maggiore non volessero permettere (in ragione di quanto previsto dallo Statuto del Pd) la partecipazione del sindaco di Firenze alle primarie: sbattere la porta e andare ugualmente alle elezioni con una inedita “Lista per Renzi” presente in tutt’Italia e innervata da sindaci e assessori mobilitatisi in gran quantità a sostegno della campagna del “collega” fiorentino.
Matteo Renzi preferisce - in verità - non parlare di questa ipotesi, avendone chiaro il potenziale distruttivo. Ma non si nasconde dietro un dito: «Le primarie si faranno - dice dal suo camper in viaggio nelle Marche - ne sono sicuro. Se non si facessero, del resto, il colpo per il Pd sarebbe micidiale. Milioni di persone stanno aspettando di vedere come finisce: perfino Berlusconi vuole capire che fine fa quel “ragazzino” di Renzi. Dopodichè, è del tutto evidente che se si fanno saltare le primarie si aprono scenari completamente nuovi. E a quel punto tutto diventa realmente possibile... ».
Il più convinto sostenitore delle “Liste per Renzi” è Giorgio Gori (“consigliere mediatico” del sindaco di Firenze) sicuro del fatto che - libero da simboli e appartenenze - Renzi possa sviluppare tutta la sua potenziale attrattiva trasversale; il più prudente - se non contrario - è Roberto Reggi (coordinatore della campagna di Renzi) convinto che non si possa prescindere dal Pd. In mezzo, per ora, ci sono il sindaco e i sondaggisti, incerti sull’opportunità di una sfida apparentemente terribile. In più, c’è un precedente che pesa e preoccupa lo staff di Renzi: e riguarda proprio le ultime elezioni comunali di Firenze. Visto già nelle primarie che le precedettero Renzi rivelò grandi capacità di attrarre consenso nelle file del centrodestra, oltre a quella del Pd fu messa in campo - appunto - una “lista per Renzi”: ottenne il 5,4% e tre consiglieri, contro i 22 (e il 35%) del Partito democratico...
Fabrizio Masia, dell’istituto EMG (lavora solitamente per La7) continua a sfornare sondaggi entusiasmanti per Renzi, dato già in testa nella corsa per Bersani. In più, gli uomini del sindaco di Firenze fanno sapere che il migliore dei sondaggi commissionati dalla segreteria pd, vedrebbe Bersani in vantaggio di soli due punti. Nemmeno questi, però, bastano a convincere il sindaco di Firenze a lanciarsi nell’avventura. E qualche perplessità anima anche il ragionamento di un analista-sondaggista attento e stimato come Nando Pagnoncelli (Swg)...
«Per scendere in campo con proprie liste - spiega - Renzi ha bisogno di una motivazione fortissima, come la cancellazione delle primarie: in caso contrario, sarebbe accusato di incoerenza rispetto alle cose fin qui dette. E’ chiaro che, una volta in campo, raccoglierebbe voti in maniera trasversale: ma a preoccuparsi, più che il Pd, dovrebbero essere Casini e il centrodestra. In ogni caso, senza sapere con che legge elettorale si voterà, quali saranno le alleanze e che ruolo giocherà il presidente Monti, ogni previsione è scritta sull’acqua... ». Meglio attendere, dunque. Ma alla ipotesi principale (vincere le primarie) Renzi sembra pronto ad aggiungere una subordinata: liste autonome e caccia al voto trasversale. «Ma tanto - assicura vedrete che Bersani le primarie non le cancellerà... ».
Repubblica 29.9.12
Schierati o non allineati sindaci scettici sulle primarie “Il Paese vero è altrove”
Viaggio tra gli amministratori del Pd
di Concita De Gregorio
LA ROGNA di questa baldoria finirà per ricadere su tutti, dice Salvatore Adduce sindaco di Matera, 57 anni, politico di professione e dalemiano di lungo corso in una regione, la Basilicata, dove tutti nel Pd a domanda oggi rispondono: Bersani.
«IO SONO pronto a ritirarmi, se serve: non c’è nulla di male nell’andare in pensione. A
un certo punto, anzi, si deve».
È un giro d’orizzonte fra sindaci e amministratori locali del centrosinistra, questo, che riserva qualche sorpresa. Tra chi fa politica misurandosi coi fatti trovi sindaci dell’ortodossia Pci pronti a farsi da parte, sindaci usciti dalle primarie che chiedono un Monti bis, amministratori del sud desolati dallo scontro di potere interno al partito. Nello scontro vacilla l’Emilia, roccaforte del segretario: è sempre più lunga la lista di quelli che guardano a Renzi. Nella città di Bersani il sindaco è Paolo Dosi, che ha sconfitto alle primarie il candidato proposto da Migliavacca, l’ex Ds Francesco Cacciatore. Dosi, area cattolica, è delfino di Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza e oggi capo dello staff di Matteo Renzi. A Renzi hanno dato sostegno esplicito il sindaco di Finale Emilia, comune terremotato, Fernando Ferioli; il capogruppo Pd in consiglio comunale a Parma Nicola Dall’Olio; il modenese Matteo Richetti presidente del consiglio regionale emiliano; il sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci Graziano Del Rio. Un certo smottamento si avverte a Ravenna (il sindaco Fabrizio Matteucci sente forte “la richiesta di rinnovamento”), a Cesena e a Forlì. Roberto Balzani, attuale sindaco di Forlì, è un docente universitario eletto dopo aver sconfitto da outsider alle primarie la candidata sostenuta dal partito, Nadia Masini. Ha appena pubblicato col Mulino un libro, “Cinque anni di solitudine. Memorie inutili di un sindaco”. Non ha sciolto la riserva su Renzi, «al momento voterei scheda bianca, spero in un Monti bis. Conosco l’ancien regime di partito: c’è un blocco di ricambio da rompere ». Racconta a titolo d’esempio l’istruttiva vicenda dell’aeroporto di Forlì. Costruito negli anni ’30 da Mussolini «quando voleva trasformare i romagnoli in aviatori». La società che lo gestisce in concessione dall’Enac, la Seaf, è partecipata al 49 per cento dal comune. «Ci sono nel raggio di mezz’ora altri due aeroporti: Bologna e Rimini. Per mantenere aperto quello di Forlì si è fatto un accordo con la Wind Jet di Pulvirenti. Un certo numero di biglietti prepagati in cambio del mantenimento dello scalo. Così abbiamo comprato una montagna di biglietti per la Polonia e per la Russia, voli naturalmente vuoti. Poi Wind Jet è fallita. Il comune ha avuto perdite mostruose, 5 milioni di euro nel 2010. Seaf è un centro di potere che serve anche a ricollocare la vecchia classe dirigente. L’ultimo presidente è l’ex sindaco della città». Un andazzo, commenta Graziano Delrio sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, destinato a finire. «Si è militarizzato il primo livello ma non il secondo. Un quarto dei sindaci italiani hanno meno di 35 anni, moltissimi sono stati eletti nelle liste civiche anche a centrosinistra. Si sentono liberi». Delrio respinge come “velina di apparato” la notizia che lo vorrebbe sostenitore di una legge in favore di Renzi: l’abolizione della norma secondo cui sei mesi prima delle elezioni chi si presenta deve dimettersi da sindaco. «Una proposta presentata più volte da chi mi ha preceduto. Non riguarda Renzi, tra l’altro: non si sta candidando in Parlamento».
Sta con Bersani Salvatore Adduce, sindaco di Matera. A 17 anni segretario della Fgci, migliorista quando Ranieri era segretario della federazione regionale della Basilicata, poi dalemiano. Per 15 anni presidente della lega Coop. «La più grande corrente del Pd è quella che non esiste: quella di D’Alema», ride. Poi ricorda che quando il suo leader era al governo «facemmo l’accordo sul petrolio, i fondi sarebbero andati a finanziare il piano di mobilità per collegare Matera alla rete ferroviaria nazionale. E’ arrivato Berlusconi e si è fermato tutto, anche il treno». Ad agosto Adduce ha sciolto la sua giunta «fatta a regola d’arte con manuale Cencelli» fra Pd, Idv, lista civica, Sel, Udc e socialisti. «Era paralizzata dalla litigiosità interna. Ho messo dentro tre tecnici. Ho voluto dare un segno. Non si può più andare avanti se ciascuno usa il governo per costruire il consenso. La mia generazione, lo so, è l’ultima di un ciclo».
E’ donna di partito anche Ilda Curti, 48 anni, assessore a Urbanistica Integrazione e Periferie del comune di Torino. «Una donna del Novecento», dice di sè, cresciuta nell’ultima leva del Pci. Fa parte della rete di Pippo Civati “Prossima Italia”, guarda con interesse alla candidatura di Laura Puppato. «Ma non mi metto nelle tifoserie senza sapere qual è il gioco. Dei leaderismi diffido. Queste sono, per ora, primarie in supplenza di congresso. C’è una distanza siderale dalle cose. Qui abbiamo bisogno di risposte concrete: possiamo o no dare la cittadinanza ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri? Questo serve, non fare la conta».
Una conta oltretutto inutile a governare, dice Guglielmo Minervini. Assessore Pd nella giunta Vendola, cattolico con don Tonino Bello, dirigente di Pax Christi, fondatore delle edizioni la Meridiana. Tra i più votati nel Pd nel 2010. Siede in piazza, a Bari, tutti si fermano. «Viviamo uno scorcio di presente che fatica a morire. La riforma in senso proporzionale segnerà un ulteriore indebolimento della politica. La sera delle elezioni scopriremo di non avere un governo. La riforma conviene all’Udc e a quella parte del Pd che ha in mente l’alleanza con l’Udc, il governo di unità nazionale, qualche scambio con la presidenza della Repubblica. Quelle cose che si scoprono dopo. Dopo Monti vedo solo un altro Monti. La disperata domanda di alternativa e il bisogno di futuro del Paese non sono l’oggetto del confronto». Saranno primarie, dice, «utili solo a definire i nuovi rapporti di forza dentro il partito. Ciascuno parla al suo esercito. Ho già vissuto due volte, con le primarie di Vendola, lo scontro fra apparato ed energia vitale. Ma ogni volta
è più difficile, ogni volta la gente è più stanca». Gli piacerebbe, dice, che «si ascoltasse chi fa politica affondando le mani ogni giorno nelle piccole cose della vita. E’ nelle piccole cose il seme della grande speranza. Ma lo dico perché sono ottimista patologico.
Perché devo continuare a crederci se voglio alzarmi da questo bar, fra cinque minuti, e tornare a guardare negli occhi la gente».
(10. Continua)
Repubblica 29.9.12
Nichi Vendola chiude al ritorno dei tecnici. “Ma tra i democratici qualcuno ci punta”
“Banchieri e conservatori gli sponsor del professore Primarie? Chissà se servono”
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA — Sostiene Nichi Vendola che il Monti bis sarebbe «una polizza di assicurazione per il mondo dei banchieri». Che il Pd non ha contrastato abbastanza le politiche «liberiste» del governo attuale: «Solo un rumore di fondo». Che lui - il primo a chiederle - non sa ancora, o non sa più, se le primarie siano davvero «una possibilità di ridare speranza all’Italia».
Monti è disponibile a un nuovo mandato. Questo cambia le cose nel centrosinistra?
«Non mi ha stupito questa disponibilità. Lo slittamento verso sistemi politici subordinati ai voleri dei mercati finanziari è un fenomeno esplicito e perfino baldanzoso. Il Monti bis è molto più di un’ipotesi accademica, e la ragione è evidente: guai se si consente a François Hollande di uscire dalla sua splendida solitudine. Guai se si determinasse un’aggregazione di governi capaci di abbattere la gabbia del liberismo».
A questo schema lavora anche una parte del Pd?
«Non c’è alcun dubbio che al suo interno ci siano espliciti filoni culturali neoliberisti. Io invece sono contro il Monti bis perché sono contro il Monti attuale, e penso che sia fallito il generoso tentativo di Bersani di provare a condizionare da sinistra l’agenda dei professori. Anzi, c’è stato un sostegno acritico a provvedimenti socialmente iniqui come le due controriforme Fornero».
Bersani ha contrastato le parti più inique.
«Più che un dissenso è stato un rumore di fondo che non ha impedito la vergogna degli esodati e lo scempio dell’articolo 18. Dal punto di
vista di che cosa è accaduto realmente i comportamenti concreti di Sergio Marchionne hanno il potere di una narrazione elementare».
Chiede una virata a sinistra?
«Chiedo al Pd se esista la possibilità di una spending review che riguardi i poteri forti, le grandi corporazioni, banche e compagnie di assicurazione. Che riguardi i manager che si aumentano i benefit milionari nel pieno del tracollo economico. Esiste anche a questo livello un problema di sobrietà o un banchiere va tolto da questa rubrica perché il ministro Passera potrebbe averne un dispiacere? Possibile che di questo non si possa parlare mai?».
Chi glielo impedisce?
«Il Monti bis è una polizza di assicurazione per questo mondo. Quando si ritiene che sia tecnicamente difficile una drastica tassazione sui grandi patrimoni mentre è
tecnicamente facile estrarre ricchezza dalla povertà, e taglieggiare il lavoro dipendente, quel “tecnicamente” è un avverbio loffio e bugiardo».
Lo firmerà il patto dei progressisti con Bersani?
«Per un uomo di sinistra un patto tra progressisti è un’ambizione naturale, ma la natura di questo patto non può che essere in contraddizione con il patto dei conservatori. Il Monti bis non può essere una delle ipotesi in campo. Altrimenti dovrei essere convocato a un altro tavolo. Quello di chi, magari con tanto giovanilismo e effervescenza, vuole un’Italia e un’Europa ancora più liberiste».
Dopo Torino oggi sarà in Emilia, domani a Marzabotto. È cominciata la sua campagna per le primarie?
«Non posso governare la Puglia se non capisco cosa accade alla Fiat, se non attraverso i luoghi del dolore dell’Emilia Romagna o se non torno in quei luoghi della memoria costruiti dai partigiani dell’Anpi. Ma sulle primarie sto molto pensando. Nei prossimi giorni deciderò. Non so se siano una possibilità per ridare speranza all’Italia».
(a.cuz.)
Repubblica 29.9.12
Rossi, governatore della Toscana: da Grilli intervento sacrosanto, ma non mettiamo tutti nello stesso sacco
“Stipendi di manager e politici bisogna dire basta agli abusi”
di Massimo Vanni
FIRENZE — Ribassiamo gli stipendi per decreto e azzeriamo i benefit. Poi parliamo di come cambiare lo Stato. Visto dal governatore Enrico Rossi e dalla Toscana, che domina la bassa classifica dei costi della politica, il ciclone che si è abbattuto sulle Regioni si affronta così.
Presidente Rossi, inchieste e scandali stanno portando le Regioni sul banco degli imputati, che sta accadendo?
«Sarebbe sbagliato mettere tutto nello stesso sacco, ci sono situazioni diverse. Ci sono Regioni che hanno portato la sanità a posto, che hanno i conti in regola. Per queste il regionalismo è stato proficuo. Per altre invece non si può dire la stessa cosa. In alcuni casi l’autonomia statutaria è stata eccessiva».
Stipendi dei consiglieri regionali, benefit, rimborsi.
«Sì, sui costi delle indennità, i costi della politica. Su questo c’è stato un chiaro abuso».
E come si rimette tutto a posto?
«Come Toscana siamo ai livelli più bassi. La mia indennità è meno di 7mila euro, altri presidenti prendono più del doppio. E’ chiaro che così non va. Abbiamo fatto una proposta al governo chiedendo un decreto per mettere in linea questi costi».
Il bello è che quando nacquero, nel 1970, le Regioni furono una speranza di rinnovamento per il Paese.
«Abbiamo alle spalle dieci anni di federalismo leghista, quello anti-nazionale, che pensava che la Regione potesse fare tutto da sola. Un federalismo che si è accompagnato ad un venire meno dello Stato, della sua capacità di indirizzo».
Buttiamo a mare il federalismo?
«Ne serve uno più equilibrato. Non puoi costruire un federalismo
se non hai una Camera dedicata alle Regioni e alle autonomie locali. Senza è difficile tenere un quadro d’insieme».
Lei cosa farebbe?
«Aprirei una discussione con le Regioni. Sono pronto a rimettere in discussione il perimetro delle Regioni: 6 hanno meno di 2 milioni di abitanti, 4 addirittura meno di 1 milione».
Dopo le Province, riduciamo anche le Regioni?
«La riduzione delle Province può essere considerata un primo passo in vista del superamento. Poi però ci sono gli 8mila Comuni. Voglio dire, è una riforma generale delle istituzioni quella di cui abbiamo bisogno. Parlamento compreso».
Dopo la bufera di questi giorni però da dove si riparte?
«Togliamo i benefit, togliamola diaria, allineiamo gli stipendi ai livelli più bassi. Al governo chiediamo un decreto d’urgenza per uscire dal pantano. Ma poi serve anche una riflessione sul federalismo, una riforma delle regioni e del parlamento. Sarà questo un tema della prossima legislatura».
Che le fa pensare quello che è accaduto nel Lazio?
«Che non basta il rinnovamento generazionale. Si devono fare i conti con il decennio berlusconiano, l’arricchimento personale, la difesa dei privilegi. C’è bisogno di un rinnovamento morale. Non condivido molte cose di Monti ma almeno è riuscito a dare l’idea di una politica come servizio. Questo governo, che si può criticare ha impresso una svolta morale».
Il ministro Grilli dice ‘fuori i corrotti dalle società pubbliche’.
«Giusto. Serve anche una legge che regoli la vita dei partiti. Basta il web per fare un partito? E’ poi giusto che le banche salvate dallo Stato non pongano limiti ai benefit dei manager? E che dire delle vacanze pagate da altri?».
Sta parlando di Formigoni?
«Di lui come di altri, a me è stato insegnato che nell’ospitalità deve valere il principio di reciprocità».
Repubblica 29.9.12
Bersani vuole un bonus più alto, ma nel partito c’è chi pensa a tenere in vita il Porcellum
Legge elettorale, il Pd teme i sondaggi “Con il premio del 10% è la paralisi”
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA — Le hanno provate tutte, a via del Nazareno. Tutte le possibili combinazioni con cui il Pd potrebbe tentare di vincere le elezioni con una legge elettorale proporzionale e un premio di maggioranza del 10% (compromesso possibile tra l’8 offerto dal Pdl e il 15 richiesto da Bersani). Il risultato è che non se ne esce: considerate le percentuali che i sondaggi danno ai partiti, in nessun caso — con un premio del 10 — si raggiungerebbe una maggioranza in grado di governare il Paese.
Sulle scrivanie del segretario e del coordinatore organizzativo Maurizio Migliavacca ci sono tabelle che mettono paura. Proiezioni della legge di cui si sta discutendo in queste ore sui sondaggi. Disastrose. Perché con il Pd che viaggia tra il 25 e il 29%, l’Udc al 6-7, e Sel e Idv strette nella forbice tra 5 e 7, le prospettive del centrosinistra non sono rosee. Sia una coalizione che metta insieme i democratici con Vendola e Casini che un ritorno della già stracciata foto di Vasto (Pd-Idv-Sel), con il 10% di premio non porterebbero da nessuna parte. E lo stesso vale per il centrodestra. Pdl-Lega-Udc — se mai potessero tornare insieme — non andrebbero lontano. Nei sondaggi in mano ai democratici il partito di Silvio Berlusconi non va mai oltre il 20-21%, e la Lega è ferma al 5. Mentre l’“incubo” del Movimento 5 Stelle prende le forme di un 16-17%, benché la settimana scorsa fosse sceso al 13,5.
La conseguenza di tutto questo è che con una legge elettorale di compromesso, la situazione che verrebbe fuori sarebbe di ingovernabilità. Servirebbero una grande coalizione, e un altro salvatore della patria. Quindi, un Monti bis. Ancora una volta con una maggioranza composita e litigiosa. Non il migliore dei mondi possibili, per il segretario Bersani. Ma il minore dei mali possibili per altri esponenti pd che starebbero lavorando a questo schema. Certo, nessuno se lo intesta, anche se più di un deputato racconta che Massimo D’Alema avrebbe detto — in semplici chiacchiere da Transatlantico — che il 10% di premio è più che sufficiente.
Quanto al centrodestra, «è quello che vuole per essere ancora della partita», dice Luigi Zanda.
Il senatore pd ieri non vedeva alcun passo avanti sulla legge elettorale, a parte il compromesso tirato fuori dal cilindro di Roberto Calderoli, con un doppio premio di maggioranza (del 15% in caso la coalizione superi il 40, oppure del 5 al primo partito) e liste corte, di 4 o 5 candidati. Difficile che l’autore della “porcata” possa venire ascoltato, ma — avverte chi ci sta lavorando — il redde rationem è inevitabile. Il presidente del Senato Renato Schifani ha garantito al Capo dello Stato che entro due settimane la legge arriverà in aula. L’ultimo appello di Napolitano è stato più duro del solito, e ce ne saranno ancora. Se la commissione non sarà capace di scegliere tra le proposte base, quindi, lo farà l’assemblea dei senatori. Col rischio che ne esca un pastrocchio, certo. Ma con la certezza di venire fuori dal porcellum.
Che invece, farebbe molto comodo ai democratici: «Bersani sta tenendo duro sul premio di maggioranza perché può permetterselo — dice un esponente della segreteria — il Pdl ha un margine di ricatto minimo visto che il punto di partenza, la legge attuale, per noi sarebbe più che conveniente». Per questo, anche chi nel Pd è favorevole a cedere sulle preferenze, spalleggia il segretario: «La battaglia per il premio è sacrosanta. Incassato quello, con un compromesso che lo porti almeno al 12%, potremmo cedere sul resto».
E però, è un dato di fatto, la voglia di porcellum tra i democratici cresce man mano che si avvicina il voto. Paolo Gentiloni avverte: «È una posizione miope, un’ipotetica coalizione con Sel e Udc avrebbe una maggioranza certa alla Camera, ma instabile al Senato per via dei premi regionali. Torneremmo da capo a dodici». Altrettanto contrario il vicesegretario Enrico Letta: «Insieme al rigore, alla riduzione dei costi e alla gara aperta delle primarie, il cambio della legge elettorale è l’unico modo che abbiamo per combattere l’antipolitica». E quindi sì, il Pd è di certo confuso, ma anche nel Pdl le posizioni cambiano da un giorno all’altro. Ora Berlusconi, in contrapposizione con Alfano e altri dirigenti, starebbe pensando di tenersi il porcellum. E di garantirsi, per lo meno, la scelta diretta di chi porterà in Parlamento.
il Fatto 29.9.12
Pd e Idv contrari all’amnistia
Orlando: “Ultima ratio per svuotare le carceri. Belisario: “Immorale”
di C. Pe.
Il Partito democratico considera l’amnistia l’ultima ratio per risolvere l’emergenza carceraria. E così l’indulto. Nemmeno l’Italia dei valori voterebbe un provvedimento di clemenza, che definisce “immorale”.
Dopo l’appello del capo dello Stato ad accelerare i tempi per risolvere il sovraffollamento delle galere italiane, anche ricorrendo a leggi svuotacarceri, si è aperto il dibattito sulla strada da percorrere. Ma il tempo stringe: nelle 206 prigioni sul territorio ci sono 66.632 detenuti contro l’effettiva capienza di 45.742 posti complessivi. Lo spazio vitale è ridotto in media a 3 metri quadri, molto al di sotto di quella soglia che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ritiene “una tortura”.
“Preferiamo continuare a lavorare su ipotesi che affrontino le cause strutturali del sovraffollamento carcerario e non su ipotesi eccezionali”, ha spiegato Andrea Orlando, il responsabile Giustizia del Pd. “Ci sono leggi che se approvate rapidamente possono diminuire la popolazione delle carceri in tempi ragionevoli”. Le ipotesi che i democratici indicano sono molteplici e prevedono tutte un percorso di reinserimento. Il primo è la “messa alla prova”. Come dice la parola stessa (dopo una sospensione della pena) prevede una “prova” per i condannati che, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, svolgono attività rieducative. Poi c’è la depenalizzazione dei reati minori. Che non significa che un reato non sia più tale, bensì che passi dalla giustizia penale a quella amministrativa. Si tratta di illeciti del livello dell’ingiuria, gli schiamazzi notturni o le infrazioni penali del codice della strada. Questi reati non prevedono il carcere, ma se commessi in successione con un crimine principale creano una recidiva che condanna quindi alla pena detentiva. Tra le proposte del Pd anche l’abolizione della ex Cirielli e un ricorso più frequente ai domiciliari.
“L’EMERGENZA è strutturale e va affrontata in maniera complessiva” spiega la vice presidente dell’Anm, Anna Canepa. “L’amnistia o l’indulto sono ‘cerotti’ che creano ulteriori problemi e non risolvono la situazione”. Quali sono allora le alternative? “Un diritto penale mite – dice ancora Canepa – che permetta di svuotare le carceri che oggi sono disumane e non rieducano come dovrebbe succedere in un paese moderno e democratico”. A favore dell’amnistia la Cei, che lo considera strumento per un “possibile riscatto”, il Popolo della libertà e anche il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, secondo il quale il provvedimento è ormai “necessario”. Il governo invece si pone a cavallo delle due posizioni: “Il mio pensiero non è molto lontano da quello del presidente della Repubblica” ha detto il ministro della Giustizia, Paola Severino, anche se “il governo sta mettendo in piedi tutta una serie di interventi strutturali che non sono solo quelli del salva carceri di gennaio ma anche misure alternative alla detenzione che dovrebbero incidere stabilmente sul numero dei detenuti”.
il Fatto 29.9.12
La religione o le religioni?
risponde Furio Colombo
Il ministro dell’Istruzione Profumo ha detto che, in un Paese ormai multiculturale, l’ora di religione non può riguardare una sola religione cattolica. Mi sembra ovvio, ma ne è nato un putiferio
Fabio
DEVO DIRE che sono stupito delle veementi reazioni di esponenti cattolici, specialmente nel mondo politico. È vero, il mondo politico sta attento alle avversità che potrebbe incontrare se e quando dispiacesse al Vaticano. E allora dirò che sono anche stupito di posizioni di rigetto di una frase semplice e (come giustamente dice il lettore) ovvia, da parte di personaggi della Chiesa che invocano le prescrizioni del Concordato. Secondo loro il cattolicesimo romano gode di un’esclusiva. Mettiamo che stia in piedi l'argomento che vincola le scuole pubbliche italiane a impartire un'unica educazione religiosa (ovvero insegnamento del catechismo, non della religione), insegnamento valido, dunque anche per i bambini islamici e delle altre culture e religioni che si contano ormai a decine nel nostro Paese. A parte la pretesa, espressa con una implicita persuasione di ragione (non religione) superiore dell'uomo bianco di avere un diritto di prelazione sui bambini degli altri, a parte il linguaggio possessorio di gran parte delle sgridate dedicate all'incauto ministro Profumo, come se si fosse permesso l'invasione di un campo che non gli compete, mancano diversi pezzi a questo discorso (parlo delle obiezioni e delle sgridate) e c'è una certa rozzezza nella visione della società italiana, ritenuta sotto tutela di vescovi e parrocchie. È vero, viviamo tuttora fra le rovine lasciate, sia nella legge, sia nel comportamento e nella percezione, dalla mala politica della Lega Nord, che ha diretto, attraverso il potere del peggior ministro dell'Interno della Repubblica, tutta la forza della sicurezza, della polizia e della burocrazia italiana, contro l'immigrazione e gli immigrati. E ciò ha impedito il riconoscimento esplicito di gruppi e culture e dunque anche di religioni, riti e forme di culto. Ha impedito che si formasse nelle scuole un mondo di accoglienza, benevolenza, attenzione e rispetto (atteggiamenti tanto più doverosi, ma anche naturali, si direbbe, per i credenti) invece di un permanere di estraneità, quando non di rigetto e di isolamento. Bravi insegnanti e intelligenti genitori hanno creato molte civili eccezioni, ma l'Italia resta, dal punto di vista delle leggi, della burocrazia e della scuola, un Paese di estraneità e di rigetto. Il ministro Profumo ha detto, sia pure quasi per caso, la cosa giusta. Speriamo che non cada nel vuoto e che il sostegno diventi impegno politico del partito che non c'è. Un partito laico e sempre dalla parte dei più deboli.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano
Repubblica 29.9.12
Patti Lateranensi
Quel “baco” nella Costituzione
risponde Corrado Augias
Caro Augias, il professor Adriano Prosperi, su Repubblica
di alcuni giorni fa, ha denunciato con rara chiarezza il “baco” che rende fragile la nostra Costituzione scrivendo “di fatto i principi di uguaglianza e di pari dignità degli italiani espressi nella Costituzione furono invalidati col semplice inserimento dei Patti Lateranensi: da quella porta come da un cavallo di Troia entrarono nella vita del paese continue e sistematiche lesioni di quei diritti”. Questa sarebbe la vera “grande riforma” costituzionale cui porre mano, la cancellazione del secondo comma dell’articolo 7. Abrogandolo si collocherebbero al loro giusto posto i Patti lateranensi, fuori cioè dalla Costituzione. Accade invece che proprio quel comma sia il collante che tiene unite le forze politiche. Per cui al momento non c’è alcuna possibilità concreta che il principio di pari dignità degli italiani venga ristabilito.
Vittorio Melandri
Dell’articolo 7 della Costituzione ormai si parla poco. Invece, fin dal momento della sua formulazione e per molti anni a seguire, è stato oggetto di accanite discussioni. Il primo comma riprende a suo modo il principio già formulato da Cavour: “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Il “baco” come l’ha giustamente definito il professor Prosperi si trova nel secondo comma: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”. Fu Palmiro Togliatti, in base ad un calcolo politico, a determinare il voto favorevole dei comunisti a questa formulazione. Il segretario del Pci pensava di favorire in questo modo la permanenza dei comunisti al governo. Di lì a poco invece vennero allontanati dato il superiore ordine mondiale che voleva l’Italia collocata nella sfera d’influenza americana. Ci sarebbe per la verità anche un terzo comma in quell’articolo, secondo il quale “le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Ma sarebbero necessari governi ben più solidi di quelli che abbiamo per metterlo in pratica. Anche per questo il ministro della Pubblica istruzione Francesco Profumo ha dovuto fare rapida marcia indietro dopo aver incautamente annunciato di voler modificare l’assetto esistente. Indipendentemente dal modo in cui si può interpretare l’insegnamento di una materia così anomala, è proprio l’esistenza di questo meccanismo a viziare in partenza la disciplina. Basta pensare che i prof di religione sono pagati dallo Stato ma scelti dai vescovi e che, nonostante l’articolo 33 della Costituzione, dica “l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”, questi insegnanti sono tenuti a seguire nelle loro lezioni il canone dettato dalla curia a pena di licenziamento.
Repubblica 29.9.12
Il risveglio degli onesti
di Carlo Galli
PUÒ apparire strano che il Ministro dell’Economia reputi necessario sancire ora una prassi di attenzione e di vigilanza che avrebbe dovuto essere ovvia da sempre, affermando che se ci sono notizie penalmente rilevanti «su amministratori o altri componenti importanti delle società di cui il Tesoro è azionista, deve essere fatta la massima chiarezza in modo trasparente sui fatti e sulle implicazioni sul funzionamento delle società».
Lo stesso potrebbe valere per le decisioni prese dalla Conferenza delle Regioni e presentate al governo; riduzioni del numero dei consiglieri regionali, delle spese dei gruppi consigliari, pubblicità dei bilanci, aumenti dei controlli della Corte dei conti. Tutte iniziative che ora, nel convulso susseguirsi degli scandali, possono sembrare dettate più dal panico che non invece – come sicuramente sono – da ottime intenzioni. Il che dimostra che le riforme non solo devono andare nella direzione corretta, ma devono anche essere tempestive. La politica ha molto a che fare con il senso dell’opportunità, del momento giusto, dei segni colti per tempo.
Segni che invece le élites non hanno ben messo a fuoco, se non in ritardo: alcuni politici sono presi con le mani nel sacco, smascherati nelle loro pratiche di sperpero del pubblico denaro divenute ormai costume diffuso, e introiettate come normalità, come privilegi di una casta irresponsabile; altri mettono il turbo ad iniziative lodevoli ma che fino a ieri procedevano con tranquillità; mentre la magistratura prende a indagare in tutta fretta, dando rapido inizio a controlli certamente benvenuti e da tempo attesi, o accelera con energia inchieste aperte da tempo.
La verità è che l’Italia, oggi, si sta forse svegliando, e che il risveglio ha colto molti di sorpresa. La dura crisi economica nella quale il Paese si dibatte, i severi tagli alla spesa pubblica – che hanno colpito la società, le famiglie, i ceti più deboli – stanno rendendo i cittadini più attenti alle spese del sistema politico, meno rassegnati a sopportare come un destino, come una inevitabile maledizione, l’essere governati da ceti politici spesso inadeguati. L’Italia costretta a guardarsi nello specchio della recessione, obbligata a una dura dieta dimagrante, a una nuova austerità, non si limita più a sogghignare della politica: chiede i rendiconti, reclama giustizia, esige rigore anche e proprio dai politici che glielo impongono. I quali, appunto, reagiscono come se fossero presi in contropiede, anche quando non sono sorpresi in flagrante. E mancano di lucidità. Basta vedere la reazione assolutamente controproducente della destra, ferma alla posizione che fu già di Craxi, e che lo rovinò – “siamo tutti ugualmente colpevoli” –, e che enumera gli inquisiti di sinistra come se questa fosse una risposta adeguata a chi l’accusa del malaffare del Lazio o della Lombardia; una destra goffamente collocata di traverso rispetto al disegno di legge anticorruzione, necessario sotto il profilo economico e ancora più sotto il profilo etico, che pure è bloccata dalla resistenza di un partito che pare non curarsi di essere finito nell’angolo, a combattere la battaglia sbagliata nel tempo sbagliato. La battaglia contro le tasse, contro l’euro, contro la magistratura, che negli anni passati tante volte fu vinta da Berlusconi; e che invece oggi sta prendendo un’altra piega.
Ciò che sta facendo pendere i piatti della bilancia nella direzione opposta è appunto il ddl anticorruzione, divenuto il punto di coagulo di un nuovo protagonismo dei cittadini, i
quali con le loro firme – ormai più di centomila – chiedono che sia approvato al più presto. E si sottraggono così tanto all’inerzia e alla rassegnazione davanti al malcostume politico, quanto alla deriva qualunqui-stica, alla protesta generalizzata, alle tentazioni anti-sistema, consegnando al governo – all’istanza centrale, uscita dalla pesante cappa di compromissione del recente passato – anche questo nuovo compito: riportare alla decenza e alla legge i territori degradati, le autonomie dissipate, le regioni che aprono voragini nei loro conti e nello spirito pubblico degli italiani (non sarà facile, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione; e molto difficile per le regioni a statuto
speciale).
Un compito da svolgere con risolutezza, con pochi proclami e con molte iniziative concrete. Un compito, tuttavia che non deve essere interpretato come la lotta del governo e dei cittadini contro i partiti e contro le regioni – sarebbe troppo facile, e anche ingiusto: non tutte le regioni sono uguali, non tutte possono esibire le stesse realizzazioni, non tutte sono segnate dal malaffare – ma come un cammino che un intero Paese e un intero sistema politico, per fuggire il rischio di una crisi sistemica, devono intraprendere verso nuovi costumi pubblici, verso un nuovo incivilimento. Che potrà consistere solo nel risincronizzare i tempi del Paese e i tempi della politica, nel nuovo incontro fra il bisogno di serietà degli italiani con una politica liberata da personaggi inqualificabili e pratiche scandalose, e riportata alla sua dimensione di potere trasparente e di severa responsabilità.
l’Unità 29.9.12
I partigiani e il veliero amico dei palestinesi
di Marco Rovelli
UNA COLTRE DI SILENZIO È CADUTA SULLA PALESTINA, DOPO LE PRIMAVERE ARABE E LA CRISI SIRIANA. Eppure lì le cose continuano ad andare male come sempre: la West Bank colonializzata e frantumata come un arcipelago di tante isolette non comunicanti fra loro, Gaza assediata da un blocco che priva i suoi abitanti dei più elementari diritti umani, oltre che distruggendo l’economia del Paese. Ecco dunque l’importanza, anche solo simbolica e comunicativa, di imprese come quella della Freedom Flotilla. Nel 2010 una nave turca venne attaccata dagli israeliani, che fecero nove morti, mentre l’anno scorso le navi vennero bloccate in porto in Grecia. Stavolta è stato un gruppo di svedesi ad acquistare un vecchio veliero finlandese, Estelle, che adesso si sta dirigendo verso Gaza. In questo viaggio la nave ha fatto tappa in diversi porti, e adesso è attraccata nel porto di La Spezia, dove stamani, al molo, ci sarà un corteo marino dove vecchi partigiani accoglieranno l’equipaggio, nel pomeriggio visite guidate alla nave, e in serata un concerto. Poi sarà la volta di Napoli, dove il Comune ha patrocinato l’evento (tutti i programmi su freedomflotilla.it). A bordo, nell’equipaggio, c’è Dror Feiler, un ex paracadutista israeliano che nel 1970 si rifiutò di prestare servizio nei Territori occupati, uno dei primi refusniks. Feiler, che oggi è un artista, e portavoce dell’organizzazione European Jews for a Just Peace, era presente sulla nave turca assaltata dai militari israeliani, e anche lo scorso anno era sull’unica nave che riuscì a salpare dalla Grecia. È necessario sostenere queste imprese, fatte di tante singole testimonianze come quella di Feiler: laddove la politica internazionale non è in grado di risolvere la questione, è solo l’impegno dal basso che può sbrogliare il tragico intrico della matassa israeliano-palestinese.
il Fatto 29.9.12
La “pistola fumante” di Netanyahu è un fumetto “atomico”
di Stefano Citati
È la nuova smoking gun, la “pistola fumante” per una guerra in Medio Oriente. Il disegno, volutamente infantile, nelle mani del premier israeliano Netanyahu che lo illustra dalla tribuna dell’Assemblea generale dell’Onu dove ha da qualche ora finito di parlare il presidente iraniano Ahmadinejad, è una bomba da fumetto con la miccia accesa e rappresenta lo stato della capacità atomica dell’Iran. Un segno rosso indica che gli scienziati di Teheran sono sempre più vicini all’ottenere - “entro la prossima estate”, dice Netanyahu - la Bomba, l’ordigno nucleare che minaccerebbe Israele e buona parte dell’Asia minore.
A differenza delle prove, anche fotografiche, che gli americani portarono a supporto delle loro ragioni per attaccare il regime iracheno di Saddam quasi 10 anni fa - e che si rivelarono poi false e montate, anche grossolanamente, il primo ministro di Gerusalemme usa l’illustrazione come una prova che ‘capirebbe anche un bambino’. E i bambini che siedono nel-l’Assemblea generale Onu rappresentando le nazioni del mondo dovrebbero convincersi che non c’è più tempo da spettare, che “Israele non permetterà che quella linea rossa venga varca” e il regime della teocrazia islamica raggiunga l’obbiettivo.
PER QUESTO il premier “falco”, rappresentate di quella destra oltranzista che ha una seppur debole maggioranza in Israele, si sta schierando, anche con la sceneggiata al Palazzo di Vetro, con il candidato repubblicano Mitt Romney, le cui posizioni sul Medio Oriente sono più belligeranti di quelle del presidente Obama. Forse per questo l’attuale inquilino della Casa Bianca ha, martedì, nel suo intervento d’apertura dell’Assemblea onusiana, usato parole minacciose nei confronti dell’Iran, per non farsi sorpassare a destra su un tema di politica internazionale comunque piuttosto sentito negli Usa. Al punto che in un colloquio telefonico ieri i due leader si sono detti “totalmente d’accordo” nell’impedire l’ordigno iraniano. La deterrenza della “sponda” repubblicana di Netanyahu sembra aver funzionato.
Corriere 29.9.12
Boom di caricature in Rete per Netanyahu
di V. Ma.
«Volete sapere quanto è vicino l'Iran alla bomba? Guardate questo diagramma...». Il disegno mostrato all'Assemblea generale dal premier israeliano Benjamin «Bibi» Netanyahu doveva far cogliere appieno ai leader mondiali i rischi insiti nel programma nucleare di Teheran. Questa almeno era l'idea degli «stretti consulenti» che per giorni gli avevano sottoposto «diagrammi» diversi. L'attenzione, in effetti, non è mancata. Decine di migliaia di commenti in pochi minuti hanno inondato Twitter. Su questo tono: «Se Wile Coyote mette le mani su quei piani, Bip Bip è fritto», ha scritto il New Yorker. E dopo i tweet, decine di caricature in Rete. I sostenitori di Bibi insistono che il «diagramma» è stato un successo: l'obiettivo era proprio questo, attirare l'attenzione. Ma Jeffrey Goldberg dell'Atlantic Monthly suggerisce che «proprio perché il programma iraniano è una tale minaccia per Israele, quella vignetta è una pessima idea». Una nota della Casa Bianca ieri riferiva che Netanyahu e Obama si sono parlati per telefono, sottolineando il loro «pieno accordo» e «l'obiettivo comune di impedire all'Iran di ottenere un'arma nucleare». Ma sul web si continuava a parlare della «Bomba di Bibi». «Se l'atomica iraniana è come quella di Wile Coyote non abbiamo nulla da temere», twittava un utente.
il Fatto 29.9.12
La cacciata del “principino maoista”
Bo Xilai, il leader che si ispirava al “Grande Timoniere” espulso dal partito comunista cinese
di Simone Pieranni
Pechino Crimini, tangenti, donne: è l’inferno di Bo Xilai tratteggiato dal comunicato stampa della Xinhua, l'agenzia ufficiale cinese, con cui viene decretata l'espulsione dal Partito del “nuovo Mao”, l'ex leader di Chongqing caduto in disgrazia a causa del più grande scandalo politico dell'ultimo ventennio cinese. Subito dopo l'annuncio del prossimo processo per Bo Xilai, un'altra comunicazione ufficiale: il 18° congresso del Partito, che sancirà il passaggio dalla 4a alla 5a generazione dei leader nazionali, comincerà a Pechino l'8 novembre, chiudendo così il sipario sulle tante voci di posticipi del summit. Un pomeriggio di fuoco, a squarciare la carriera politica del leader che più di tutti aveva saputo catturare l'attenzione mediatica e popolare, grazie a un carisma e un'intraprendenza che ha finito per pagare caro: la Xinhua ha decretato con un comunicato l'espulsione dal Pcc di Bo Xilai, ex leader del modello “Chongqing”, le cui mire politiche hanno trovato lo sbarramento di quella gestione collegiale del Partito che mai ha digerito l'esuberanza del “principino” che aveva riesumato Mao e dichiarato guerra alle triadi.
Invischiato e intrappolato dall'ex braccio destro, quel poliziotto la cui fuga nel consolato Usa di Chengdu ha dato il via al turbine di eventi che hanno consacrato la sconfitta politica di Bo Xilai: la moglie accusata e poi condannata all'ergastolo per l'omicidio dell'uomo d'affari britannico Neil Heywood (anche se un medico legale ha sollevato dubbi riguardo la sua reale colpevolezza) e ora le imputazioni per gravi violazioni disciplinari che preannunciano un processo ricco di colpi bassi e particolari. Secondo l'accusa Bo Xilai avrebbe commesso dei reati fin dai tempi dei suoi incarichi precedenti a Chongqing, ovvero a Dalian e Lianoning.
La Cina, però, nella sua consueta ritualità nasconde dietro alle accuse di crimini, uno scontro politico di cui Bo Xilai è innegabilmente lo sconfitto. A Chongqing aveva creato un modello fatto di intervento statale nell'economia e controllo ideologico con l'ausilio del ricordo della Rivoluzione Culturale. “Canta il rosso e picchia il nero”, lo slogan: insieme alle canzoni rosse, ai messaggi con frasi del Grande Timoniere, Bo Xilai aveva avviato una campagna contro la mafia locale: migliaia di arresti, condanne, e critiche di metodi poco ortodossi. Secondo i detrattori di Bo, tutta la campagna contro le triadi di Chongqing sarebbe stato solo un metodo per eliminare i propri avversari politici, che hanno avuto l’occasione irripetibile della vendetta.
Corriere 29.9.12
La cacciata di Bo il principe rosso con troppe amanti
Via dal partito l'uomo degli scandali
di Marco Del Corona
PECHINO – Ottantadue milioni meno uno. Da ieri il Partito comunista cinese non conta più Bo Xilai tra i suoi membri. Il «principino rosso» figlio di un vicepremier, ex sindaco di Dalian, ex ministro del Commercio, ex segretario del Partito della megalopoli di Chongqing, caduto politicamente in disgrazia e indagato, è stato espulso ieri. Il Politburo ha annunciato anche la data del 18° congresso, rimandata e taciuta con un accanimento tale da moltiplicare le voci di disaccordi profondi. Per scegliere i nuovi vertici, i 2.270 delegati del Partito si daranno appuntamento l'8 novembre, data significativa sia in termini numerologici (l'8 è cifra fausta) sia strategici (due giorni dopo le presidenziali Usa). L'assise sarà, per l'agenzia Xinhua, «un meeting molto importante in una fase critica in cui la Cina sta costruendo una società moderatamente prospera». Il doppio annuncio conferma l'intreccio tra la parabola discendente del paladino della sinistra «neomaoista» e la faticosa gestazione della successione, che porterà Xi Jinping alla guida del Partito. E con la sua dettagliata lista di crimini, il comunicato che inchioda Bo suggerisce che entro novembre possa esserci spazio per un'incriminazione formale se non un processo.
Le accuse sono ferocemente esplicite. Si parla delle «serie violazioni della disciplina del Partito» per le quali Bo aveva già perso il posto di leader di Chongqing, il seggio al Politburo ed era stato messo sotto indagine interna. Ma si dice anche di come abbia «abusato del potere e accumulato pesanti responsabilità» sia nel caso di Wang Lijun (il suo ex capo della polizia, fuggito in febbraio in un consolato Usa e condannato a 15 anni per corruzione e altro) sia nel caso della moglie, condannata a morte con la condizionale per l'assassinio del britannico Neil Heywood. Bo «ha sfruttato il suo ruolo pubblico per cercare profitti per altri e ricevuto cospicue tangenti». Ha poi «avuto o mantenuto relazioni sessuali inappropriate con un gran numero di donne» (volenterosi esegeti del web le hanno subito calcolate tra le plausibili centinaia e il migliaio), «violato regole organizzative e fatto scelte sbagliate nelle promozioni di altri». È citato anche «il coinvolgimento in altri delitti», benché l'impatto del caso Bo sia esplicitamente politico: «I comportamenti di Bo — scrive infatti la Xinhua — hanno minato gravemente la reputazione del Partito e del Paese, con un impatto molto negativo in patria e all'estero».
I simpatizzanti di Bo hanno già fatto sapere il loro malumore. Perché di Bo viene demolito anche il modello politico, sociale ed economico, all'opposto di quello elaborato a Pechino e spinto dagli uscenti Hu Jintao e Wen Jiabao, numero uno e premier. Tra populismo nostalgico e campagne antimafia che sfociavano in purghe degli oppositori, tra culto della personalità (la propria) e attrazione di investimenti, Bo dal 2007 ha reso Chongqing, municipalità da 33 milioni di abitanti, uno dei due avamposti — con Chengdu — della «spinta a Ovest»: un motore di sviluppo che ha richiamato investitori dall'estero (è qui che l'Italia aprirà nei prossimi mesi un nuovo consolato). La decisione su Bo mostra così una leadership almeno in parte ricompattata, ansiosa di mostrarsi solida dopo la sparizione per due settimane del numero uno designato Xi Jinping e le relative voci. E se le grandi manovre continuano, Pechino intanto si riempie di addobbi floreali. Cioè: siamo (quasi) pronti. Dirlo con un'espulsione dal Partito funziona, ma dirlo con i fiori fa più «soft power».
La Stampa TuttoLibri 29.9.12
Koonchung. Il nostro finto paradiso
Sull’oblio di Tiananmen
di Ilaria Maria Sala
qui
l’Unità 29.9.12
Biografia di un pacifista
Einstein pensatore e militante politico raccontato da Greco
Una scelta radicale Già sensibile in giovane età, sognò l’unione europea nel ’14 e cercò di fermare la bomba atomica
di Gaspare Polizzi
C’È UN ALTRO EINSTEIN OLTRE ALLO SCIENZIATO UNIVERSALMENTE NOTO: il pensatore e il militante politico che intervenne da protagonista per quarant’anni, dalla prima guerra mondiale allo scontro bipolare tra Usa e Urss, nelle drammatiche vicende del Novecento. Pietro Greco offre per la prima volta, in Einstein aveva ragione. Mezzo secolo di impegno per la pace, un quadro completo dell’Einstein politico, per «dimostrare che l’uomo è stato un pacifista militante», ricostruendo il suo impegno in stretta connessione con la sua attività di scienziato e rintracciandone con efficacia le prime motivazioni nella formazione giovanile.
L’orizzonte ideale in cui si muove l’Einstein politico è segnato, in progressione di importanza, dal socialismo, dalla democrazia e dal pacifismo. Fu un pacifismo «militante e intellettuale, intuitivo e analitico», che viene seguito da Greco nell’intreccio tra la biografia di Einstein e la storia del Novecento, con aggettivi diversi che scandiscono storicamente i capitoli del libro: pacifismo «istintivo» quello del giovane Albert, «radicale» nella tragedia annunciata dall’avvento del nazismo in Germania, «autosospeso» dinanzi allo spettro della guerra mondiale e alla scelta del governo Usa di costruire la bomba atomica, infine nuovamente impegnato, dopo la guerra, per il disarmo nucleare. I fantasmi contro i quali Einstein combatté nei suoi ultimi anni sono ancora dinanzi a noi: «quello della guerra atomica, che non accetta di scomparire. E quello della guerra classica, che è diventato ancora più aggressivo». A ragione Greco conclude: «Non solo la fisica, ma anche la pace aspetta un nuovo Albert Einstein».
L’ultima battaglia dello scienziato produsse il Manifesto Einstein-Russell, firmato poco prima di morire per contrastare l’escalation nucleare, nel quale si legge: «esortiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a riconoscere pubblicamente, che i loro scopi non possono essere favoriti da una guerra mondiale, e, di conseguenza, li esortiamo a trovare mezzi pacifici per la sistemazione di tutti gli argomenti di contesa tra loro». Sulle basi di questo manifesto è sorta la «Conferenza di Pugwash per la scienza e gli interessi del mondo», che otterrà nel 1995 il Nobel per la Pace.
LA SUA LUNGIMIRANZA
Il primo documento politico firmato da Einstein fu il Manifesto agli Europei, scritto allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1914 Einstein mostrò ancor più coraggio che nel 1955. Era già uno tra i più noti fisici europei e il grande Max Planck, «il fisico più influente di Germania, il più noto fisico teorico del mondo», lo aveva appena accolto a Berlino e con l’entrata in guerra della Germania aveva firmato un patriottico e militarista Appello alla cultura mondiale. Einstein, coraggiosamente, gli contrappone il suo manifesto dove si legge «Noi dichiariamo qui pubblicamente la nostra fede nell’unità europea... Il primo passo in questa direzione è l’unione delle forse di tutti coloro che hanno sinceramente a cuore la cultura dell’Europa». Un sogno che prenderà forma 27 anni dopo con il Manifesto di Ventotene del 1941.
Nel 1914 il trentacinquenne Einstein esprime per la prima volta pubblicamente il suo spirito pacifista, anti-militarista e anti-autoritario. E il suo «sentire» ha radici profonde: nelle felici esperienze formative vissute soprattutto a Zurigo, terra di grande vivacità intellettuale, dalla quale transitarono tra ‘800 e primo ‘900 pensatori socialisti e anarchici come Marx, Bakunin, Proudhon, Lenin, Luxemburg, Trockij, esponenti della cultura e della politica ebraica come Weizmann, il futuro primo Presidente dello Stato di Israele, psicoanalisti del rango di Jung.
Il carattere antiautoritario di Einstein si esprime già a cinque anni, quando scaglia una sedia contro la sua insegnante «privata» che dovrebbe trasmettergli un’istruzione più formale. Esso si unisce presto a una vocazione alla conoscenza che lo conduce a leggere già a tredici anni non per interesse «puramente personale», ma per comprendere il mondo, libri come la Critica della ragion pura di Kant o un manuale di geometria euclidea grazie il quale coltiva da sé il calcolo differenziale e integrale, e poi opere di Hume, Darwin, Mach. Si costruisce così in modo del tutto personale una vasta cultura scientifica, accompagnata sempre da un atteggiamento ironico e anti-autoritario. Sarà questa sua solitaria rivolta contro ogni condizionamento culturale e religioso a portarlo a decidere a sedici anni di concorrere per l’iscrizione al Politecnico di Zurigo, rinunciando alla cittadinanza tedesca ed evitando il servizio militare. A Zurigo si consolidano e arricchiscono quegli orizzonti intellettuali che faranno di Einstein uno tra i maggiori scienziati di ogni tempo, ma anche un virtuoso musicista (violino e pianoforte) e un libero pensatore intrigato dalla filosofia della natura e dalla cultura politica socialista.
C’è una nota obiezione dinanzi a questa immagine «pacifista» di Einstein: quella legata al «mito» che lo fece «padre della bomba atomica». Si tratta di un mito che Greco smonta con grande efficacia. Einstein inviò tre lettere a Franklin Delano Roosevelt. La prima, notissima, del 2 agosto 1939, invita pressantemente il presidente Usa a sviluppare un progetto per la costruzione e l’impiego della bomba atomica per sconfiggere il nazismo. Sappiamo quale potenza ed efficacia ebbe il Progetto Manhattan, al quale tuttavia Einstein mai parteciperà per il «veto dei servizi di sicurezza e dei militari», che sanno del suo impegno pacifista e delle sue simpatie socialiste e democratiche, e lo controllano in ogni movimento. Lo scienziato non è a conoscenza dello sviluppo del progetto atomico e delle decisioni politiche e militari, ma, sollecitato dal fisico Szilard, che era stato «il più lucido e il più determinato nel volere la bomba», ma che nel 1944 diventa «il più lucido e il più determinato nel volerla bloccare», scrive ancora a Roosevelt nel marzo 1945 per impedire che la bomba venga lanciata: la morte di Roosevelt e il passaggio all’amministrazione Truman bloccheranno il tentativo.
Pietro Greco ci dimostra con questo libro bello e utile (anche perché chi lo acquista devolve un euro a Emergency) che le utopie e i sogni, anche se non si avverano del tutto, possono dirigere la nostra azione per «salvare» il mondo.
l’Unità 29.9.12
Antonioni
Il regista dell’«incomunicabilità» avrebbe compiuto oggi cento anni
Andrebbero rivalutati i primissimi film: «Cronaca di un amore» e «La signora senza camelie»
Era nato il 29 settembre del 1912 ed è arrivato quasi a 95 anni.
Chi lo ha conosciuto dice di lui che fosse simpatico, ma mancano testimonianze dirette, libri, che raccontino «l’uomo»
di Alberto Crespi
SE DOVESSIMO CITARE LA PRIMA SCENA DI UN FILM DI ANTONIONI CHE CI VIENE IN MENTE, SAREBBE UN MOMENTO DI «ZABRISKIE POINT». Mark Frechette, il giovane protagonista, viene fermato durante una manifestazione e i poliziotti gli chiedono le generalità. Lui, alla domanda «come ti chiami?», risponde «Karl Marx». Quelli, ignoranti!, non fanno una piega.
Ora, non è certo una battuta da cinepanettone, e nemmeno da commedia all’italiana, però ricordiamo benissimo che quando vedemmo Zabriskie Point per la prima volta, nei lontanissimi anni 70, ci fece ridere. Direte: vi accontentavate di poco. Vero, ma forse la risata veniva dalla sorpresa. Andando a vedere i film di Antonioni, tutto ci si aspettava meno che il divertimento. Scoprire che in un’opera di siffatto regista si annidava un grammo di ironia era cosa del tutto inaspettato.
Oggi Michelangelo Antonioni compirebbe cent’anni, come un Manoel de Oliveira qualsiasi. In realtà il grande portoghese, il prossimo 11 dicembre, di anni ne farà 104: è del 1908, e nell’ambiente circola una leggenda metropolitana secondo la quale se ne toglierebbe due, per civetteria. Ne avrebbe, quindi, 106! Antonioni è arrivato quasi a 95: nato a Ferrara il 29 settembre 1912, è morto a Roma il 30 luglio 2007, lo stesso giorno di Ingmar Bergman. Tornando per un attimo a Oliveira, noi speriamo sinceramente che l’affettuosa malignità (passateci l’ossimoro) sulla sua età sia vera: trasformerebbe il Maestro in un uomo, ed è la stessa cosa che ci piacerebbe fare con Antonioni. Spinti, in questo, da un vecchio amico che è arrivato, anche lui, ai 95: Mario Monicelli. Come tutti ricorderete, Antonioni e Monicelli a un certo punto si «passarono» la Musa: Monica Vitti, che aveva incarnato le eroine dei famosi film sull’incomunicabilità (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso), saltò il fosso, fece La ragazza con la pistola e diventò una star comica. La ragazza con la pistola (che per metà si svolge in Inghilterra) è quasi coevo di Blow Up, ed è davvero curioso che due cineasti italiani, nel mezzo degli anni 60, siano andati a raccontare la Swingin’ London sia pure con stili e toni così diversi. Ma quando facevamo notare a Monicelli questa coincidenza, lui ci guardava come fossimo gli scopritori dell’ombrello: «Beh, erano gli anni 60, le novità venivano da lì, non eravamo mica scemi!». Dietro la battuta, in realtà, si nascondeva una fortissima stima reciproca: Antonioni e Monicelli erano amici, si frequentavano spesso, e fu nel corso di lunghe chiacchierate che Mario scoprì quanto Monica fosse buffa. «Li vedevo spesso e pensavo: ma guarda questa quanto è simpatica, potrebbe essere una grande attrice comica e Michelangelo le fa fare solo quei ruoli tristi...». Da lì venne l’idea, che naturalmente gli allora compagni di vita, Vitti & Antonioni, abbracciarono.
È molto bello rivedere certi film di Antonioni (non tutti). Occorrerebbe, ad esempio, rivalutare i primissimi film, Cronaca di un amore, La signora senza camelie: bellissimi. E sono sempre godibili i film del periodo «anglofono»: i citati Blow Up e Zabriskie Point, e il successivo Professione: reporter. Dire Antonioni significa normalmente evocare i suddetti film «dell’incomunicabilità», in realtà i lavori meno datati del regista sembrano, oggi, quelli della prima e della penultima fase della carriera (lasciamo perdere l’ultima, da Identificazione di una donna in poi). Ma la verità è un’altra: la perfezione formale e la ricchezza strutturale dell’opera hanno messo in secondo piano gli aspetti più curiosi dell’uomo. A noi piacerebbe molto leggere una biografia (anche «non autorizzata») che rimettesse in primo piano l’uomo, perché gli scarni racconti che, a spizzichi e bocconi, vanno oltre l’apparenza del Grande Artista sono spesso illuminanti. Secondo Monicelli, appunto, Antonioni era simpatico: e ammetterete che, vedendo i film, non si direbbe. Anche altri grandi della commedia, come Scola e Risi, confermano: ma nei loro film l’hanno qua e là preso in giro. Scola in C’eravamo tanto amati, dove Elide la meravigliosa Giovanna Ralli -, moglie ignorante e coatta di Gassman, appende quadri vuoti alle pareti dopo aver visto L’eclisse ed esserne rimasta «stranita»; Risi nel Sorpasso, dove Bruno Cortona/Gassman confessa di aver visto... L’eclisse, sempre quello!, e di averci dormito sopra. «Bel regista, Antonioni prosegue Gassman c’ha un Flaminia Zagato che una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allungà er collo».
Ecco: mancano, ad esempio, testimonianze dirette (o comunque noi non ne abbiamo mai incontrate) su come Antonioni reagisse a queste punzecchiature, amabili ma anche feroci, della commedia all’italiana. Avrà riso? Si sarà arrabbiato? Difficile indovinarlo. Perché un’altra caratteristica dell’Antonioni privato è una lieve permalosità. Stavolta la fonte è diretta: Francesco Maselli, suo storico aiuto-regista (ed è confermata nell’autobiografia di un’attrice americana che ha lavorato con entrambi, nel Grido e nei Delfini: Betsy Blair). Quando Maselli esordisce nella regia con Gli sbandati, nel 1955, comincia naturalmente a concedere svariate interviste in cui gli viene immancabilmente chiesto quali siano i suoi maestri, i suoi registi di riferimento. E invece di citare Antonioni, cita spesso e volentieri Kenji Mizoguchi, il grande giapponese di O-Haru e L’intendente Sansho (per altro, un sommo cineasta che spesso, nelle storie del cinema, viene accostato ad Antonioni). Qualche tempo dopo, Antonioni e Maselli si ritrovano ad una tavolata al ristorante (c’è anche, appunto, Betsy Blair). Arriva il momento del conto. Maselli si fruga le tasche e scopre di aver dimenticato il portafogli. A quel punto, chiede ad Antonioni se può prestargli 10.000 lire. La risposta di Michelangelo è raggelante: «Fattele prestare da Mizoguchi».
Ecco, a noi piacerebbe leggere un libro pieno di storie così. L’Antonioni che si incazza (anche giustamente, suvvia!) perché il discepolo non l’ha omaggiato nei modi dovuti è, appunto, umano. Antonioni ripeteva sempre, in ogni intervista, che per lui fare cinema era un modo di vivere, non era «un’altra cosa» da fare mentre si viveva. Ci piacerebbe andare a fondo su questa identità fra arte e vita, partendo però dalla vita, che è stata lunga ed emozionante. Perché non bisognerebbe mai dimenticare che, essendo nato nel ’12, Antonioni ha vissuto due guerre mondiali, ha scritto sulla rivista Cinema già durante il fascismo (è rimasta famosa e controversa una sua recensione positiva del film nazista e antisemita Suss l’ebreo), è stato uno dei creatori teorici del neorealismo per poi abbandonarlo e superarlo, ne ha insomma combinate in senso buono di tutti i colori. Prima o poi accadrà. Nel frattempo tanti auguri, Michelangelo. 100 anni sono una bella età. Ci risentiamo quando ne farai 106, come Oliveira.
La Stampa TuttoLibri 29.9.12
I Mottetti Il «romanzetto autobiografico» del Nobel nella lettura sentimentale di Ficara
Montale, l’amore e l’arduo nulla
di Mario Baudino
qui
Corriere 29.9.12
Buonumore ma senza esagerare. Così ridevano Socrate e Platone
di Eva Cantarella
Oggi diciamo che il riso fa buon sangue. Capita anche di sentir dire (e si spera sia vero) che ridere fa bene alla salute. Ma gli antichi la pensavano diversamente: del riso, infatti, fondamentalmente diffidavano. Socrate ad esempio (nella Repubblica di Platone) afferma che non bisogna «essere in ogni caso amanti del riso: generalmente, infatti, quando ci si abbandona a grandi risate, questo comporta anche un mutamento interiore». Aristotele (De virtutibus et vitiis) scrive che «è proprio dell'intemperanza essere amanti del ridicolo, del motteggio e della battuta facile, e l'essere faciloni nel parlare e nell'agire». Risus abundat in ore stultorum, dicevano i romani, il riso abbonda sulla bocca degli stolti. Ma questo non impediva agli antichi di amare le barzellette. E a farci sapere quali fossero le situazioni che suscitavano il riso a quei tempi sta il Phylogelos, «l'amante del riso». Una raccolta di barzellette — l'unica a noi giunta dell'epoca classica — che contiene 265 storielle all'incirca (i dubbi sul numero esatto dipendono dalle numerose ripetizioni), divise in sezioni che indicano la tipologia dei personaggi alle cui spalle ci si divertiva: gli avari, i pavidi, gli invidiosi, gli abitanti di alcune città. E poi le donne, specie se vecchie (età nella quale, secondo un topos caro ai greci, le rappresentanti del genere femminile erano perennemente assetate di sesso). Un esempio? Un giovane, dice una di queste barzellette, dà ordine ai servi di mandare a chiamare due vecchie: «A una di loro, dice, date da bere. Con l'altra fate l'amore». E le due vecchie, in coro: «Ma noi non abbiamo sete!».
Corriere 29.9.12
L'utopia degli scrittori figlia di Don Chisciotte
Perché la sconfitta aiuta a capire il mondo
di Claudio Magris
Don Chisciotte è un perdente. In questa sconfitta c'è una rivelazione sulla verità; una rivelazione che è in qualche modo pure una vittoria, perché arricchisce la vita di un elemento fondamentale. Non è un caso che in un mio libro dal titolo Utopia e disincanto io prenda lo spunto da Don Chisciotte.
L'utopia viene sconfitta nella sua pretesa di possedere la ricetta per salvare il mondo o addirittura di averlo già salvato e di aver già creato il paradiso in terra, così come hanno creduto o voluto far credere tante utopie cadute.
Eppure la sconfitta dell'utopia, di ogni utopia — poco importa se da noi condivisa o no — aiuta a capire che il mondo ha bisogno di essere migliorato e che è indispensabile continuare a migliorarlo; innanzitutto correggendo la strada che si è intrapresa quando ci si accorge che è sbagliata, e poi immaginando altre strade. Nella sua necessaria fantasia la letteratura ha una grande funzione, anche rispetto alla società; non certo perché ha il compito di proporre programmi politici o ideologici, ma piuttosto di far sentire, toccare con mano, questa necessità avventurosa di creare ogni volta un nuovo mondo.
Un'altra cosa che accomuna me e Vargas Llosa è la riflessione sul rapporto tra la scrittura che inventa (la fiction che finge, potremmo anche dire che «mente») e l'impegno per la verità, ineludibile nel nostro confronto col mondo e con la necessità di mutarlo.
In una raccolta di saggi che ho citato, Vargas Llosa denuncia la caduta dell'impegno nella letteratura contemporanea, dato che nell'epoca attuale parrebbe che molti autori abbiano rinunciato a quello che una volta si chiamava l'engagement.
Egli dice inoltre che in America Latina uno scrittore non è soltanto scrittore ma, inevitabilmente, qualcosa d'altro. E aggiunge che talvolta si è lacerati tra i propri demoni e i propri doveri verso la causa pubblica e che, in tal caso, bisogna essere fedeli in primo luogo ai propri demoni.
È questo, ritengo, un problema fondamentale per la letteratura, spesso una vera contraddizione.
C'è l'intellettuale che si vota essenzialmente ed esplicitamente alla causa pubblica e c'è lo scrittore che è essenzialmente preso dal combattimento con i propri demoni. Cosa succede quando uno scrittore è entrambe le cose, come certamente è lui e come sono anch'io? Quando cioè si sente che queste due facce sono le facce di una stessa medaglia, una cosa sola e contemporaneamente due cose diverse, e soprattutto quando ci si rende conto che dall'una nasce una scrittura molto diversa da quella che nasce dall'altra?
Leggere La casa verde o Conversazione nella “catedral” o tanti altri libri di Vargas Llosa è un'esperienza simile ma anche molto diversa dal leggere Sables y utopías.
Lo stile, la lingua sono radicalmente diversi, perché in un caso si tratta di un linguaggio che vuole esplicitamente definire, giudicare, difendere o combattere, mentre nell'altro si tratta di un linguaggio che vuole essenzialmente narrare, far vivere le contraddizioni piuttosto che risolverle o giudicarle.
In un caso non si può, nell'altro si può e talora si deve deformare la realtà per capirne il senso e la verità più profonda.
Non credo, soprattutto per quel che riguarda lo stile, che si tratti di una scelta deliberata, perché uno scrittore non sceglie bensì fa quello che può ossia quello che deve; è la vicenda, l'oggetto che gli dettano per così dire lo stile, l'incalzare paratattico delle chiare e nette definizioni oppure la struttura ipotattica che cerca di afferrare contemporaneamente la complessità contraddittoria delle cose.
Repubblica 29.9.12
L’ultimo libro della sociologa criticato da tanti è diventato un caso Ma è uno specchio dell’America
Lezioni di piacere
“Vagina”, lo scandaloso pragmatismo del libro di Naomi Wolf
di Elena Stancanelli
Non saprei. Mi è sembrato un libro utile quando spiega al centimetro l’organo in questione e il suo funzionamento e molto buffo quando si ostina nella teoria.
Nel tentativo di convalidare la tesi che una vita sessuale scalmanata e allegra si accompagna sempre a un picco di creatività, Wolf cita Edith Wharton, Christina Rossetti, George Eliot e il rifulgere della loro scrittura in corrispondenza di incontri fortunati. La grandezza letteraria de L’età dell’innocenza sarebbe collegata alla soddisfazione del sesso tra Wharton e Morton Fueller, suo amante, giornalista bisessuale e assai più vispo del marito. Non saprei.
Vagina è un libro ingenuo, che racconta l’America, un certo tipo di America. Un paese dove una donna, nel constatare che i suoi orgasmi non sono più stupefacenti come quelli a cui era abituata, decide di andar dal medico per scoprire cosa le succede. Lo ridico, perché capisco che può essere sfuggente come concetto: quella donna non ha smesso di provare piacere facendo sesso, o ha iniziato a provare dolore. Quella donna, Naomi Wolf, da qualche tempo ha questo problema: non vede più il mondo luccicare, non sente più il suo cervello galoppare e il suo corpo librarsi leggero nelle circa dieci ore successive all’orgasmo. Motivo per cui si risolve ad andare da un dottore. Mi sono chiesta cosa accadrebbe se una catastrofe di tale portata piombasse nella vita di una qualsiasi di noi, donne del vecchio mondo. A quale tipo di medico ci potremmo rivolgere, che cosa esattamente gli potremmo dire, nell’eventualità che ne scovassimo uno plausibile, per spiegargli il nostro dramma senza essere messe alla porta nei primi tre minuti. Sia chiaro, non sto dicendo che il nostro mondo è migliore, più serio, che il nostro modo di pensare alla salute è più intelligente... niente di tutto questo. Dico solo che è diverso. Semplificando: sul tema una francese avrebbe costruito un problema culturale, una tedesca una questione metafisica. L’americana, questo tipo di americana, punta alla pratica.
Cosa sia l’Europa non è chiaro, quali i nostri valori e le nostre radici culturali fatichiamo a deciderlo, ma Vagina mi ha chiarito cosa non siamo. Non siamo pragmatici, non siamo capaci di pensare che un problema, qualunque esso sia, possa essere risolto facendosene carico, non siamo mai stati sicuri che il piacere fisico sia un dono prezioso, la cui manutenzione ci spetti.
Vagina è un saggio sul femminile che si sviluppa a partire dal nervo pelvico, con buona pace di chi sostiene che noi europei produciamo letteratura ombelicale e loro epica e avventura. Nervo al quale, scopriamo leggendo Vagina, dobbiamo essere tutti, uomini e donne, immensamente grati. Perché attraverso infinite diramazioni, qualche centimetro sotto il famigerato ombelico, garantisce felicità e sollazzo. Fin tanto che non venga schiacciato dalle vertebre, come era accaduto alla sfortunata autrice. Che, reduce dall’operazione e finalmente tornata agli standard rimpianti, decide di scrivere un saggio a metà tra l’opuscolo informativo per una sessualità consapevole, e un excursus storico sull’organo.
Celebrata come divinità in epoca pre-cristiana, la vagina e la sua gloria soccombono in epoca romana. È Galeno, il celebre medico, a condannarla, retrocedendola a rovescio del pene, sorta di introflessione parzialmente riuscita dell’assai più fiammeggiante corrispettivo maschile. Tenuta ben nascosta in tutto il periodo vittoriano, la vagina prende l’ulgevole. tima potente batosta nel 1905, con la pubblicazione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, di Freud. Metonimia dell’orrorifica immagine della donna castrante, assurge a madre di tutti gli edipi. Ma il secolo scorso fa in tempo a redimerla, celebrarla, adorarla. Fino al trionfo della pornografia a portata di tutti che, secondo la sociologa americana, ha innescato nel maschio un disastroso effetto emulazione. Sostiene, basandosi sulle testimonianze da lei raccolte, che la già zoppicante educazione sessuale degli uomini, sia regredita allo stadio dei primati, nell’ossessivo confronto con atti compiuti secondo un rituale sempre identico e sempre sprecato.
Il sesso, secondo Wolf, non è certo quella cosa simile a un motore a scoppio, per cui pistoni e cilindri stantuffano senza pietà. Piuttosto una danza, un incontro, uno scambio di attenzioni. Candele, guardarsi negli occhi, ascoltarsi, tutta quella roba lì. Ma soprattutto sapersi toccare, e con un minimo di competenza.
L’uomo che sa, la chiave di volta dell’intero saggio è il maschio che ogni donna vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita, si chiama Mike Lousada. Vive e lavora a Londra (sembra che l’energico pragmatismo americano si rivolga alla vecchia e claudicante Europa, in cerca dell’ultima parola...) a un indirizzo che consiglio di memorizzare. È uno psicoterapista sessuale, e sarebbe specializzato nel curare le donne che hanno subito violenza. Attraverso il massaggio yoni, è in grado di restituire loro fiducia nell’uomo e quindi la possibilità di abbandonarsi al piacere. La prima volta che Wolf lo contatta, via Skype, è appunto per parlare di stupro. Vuole conferma del fatto che una aggressione di quel genere, danneggia non solo la sfera sessuale ma la capacità di esistere come individuo, di posizionarsi nel mondo. Basandosi su quanto i neuroscienziati adesso sanno sulla chimica del cervello, Wolf sostiene che l’attività sessuale determina felicità e consapevolezza. In breve: ormai sappiamo che il desiderio e il piacere aumentano il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens, esattamente come la cocaina, il gioco d’azzardo, persino lo shopping compulsivo. Ed essendo la dopamina l’ormone della contentezza, della fiducia in se stessi, della disinibizione, il buon sesso favorirebbe lucidità e comprensione.
Con una piccola differenza tra uomini e donne: nei maschi l’effetto di extra rilascio finisce esattamente con la fine dell’amplesso, le donne invece, se sono fortunate e non hanno il nervo pelvico schiacciato, vanno avanti a produrre dopamina per un bel po’, dopo il piacere.
Questo, dice Wolf, spiega perché gli uomini dopo il sesso si addormentino lasciando le donne senza nessuno con cui sfogare il loro picco di creatività. Le donne che hanno subito uno stupro, conferma a Wolf il dottor Lousada, sono maggiormente soggette a depressione. La violenza perpetrata in quella parte del corpo, è annichilente, psichicamente e biochimicamente. Confortata, Wolf procede nelle sue ricerche nella scrittura, ma un tarlo la consuma. Cosa accadrà davvero in quello studio di Londra, c’è qualcosa che non so e dovrei sapere (lo stesso tarlo che insinua nel nostro cervello di lettrici)? Decide quindi di andare da lui di persona e, con la scusa del libro, mettere alla prova le doti taumaturgiche del dottore mago. La scena che segue è un capolavoro di elusività. Fingiamo di crederle quando dice che alla fine, da brava ragazza ebrea monogama, decide per un generico massaggio alla schiena. Ma ci dispiace un po’. Rimarremo con la curiosità di sapere cosa si prova a fare un vero massaggio yoni (Ah: yoni, per chi non lo sapesse, significa vagina). Nel frattempo ci consoliamo coi consigli finali. Uomini, scrive Wolf, se volete che una donna sia felice, rilassata e ben disposta, ditele che è bella, bellissima: funziona sempre. Chi l’avrebbe mai detto...