giovedì 27 settembre 2012

l’Unità 27.9.12
Indignados in piazza Scontri a Madrid
Parlamento «circondato». La polizia spara proiettili di gomma
Catalogna, sfida secessione
di Claudia Cucchiarato


Barcellona Due sono le immagini che più commenti hanno provocato nelle ultime ore in Spagna. La prima è sfuocata, a colori, il fermo immagine di un video quasi rubato durante la manifestazione contro la politica di tagli del Governo che martedì scorso ha sconvolto le strade della capitale spagnola e che ieri sera è stata di nuovo convocata, con modi più pacifici e con tutta l’intenzione di trasformarsi in un appuntamento quotidiano, per chiedere le dimissioni di questo esecutivo. Nell’immagine, un signore con i capelli grigi arruffati e una camicia bianca, i cui bottoni sono sul punto di scoppiare, alza le braccia di fronte alla porta del suo bar e affronta un poliziotto in assetto antisommossa che minaccia i «clienti», urlandogli in faccia: «Con il manganello lei qui non entra». Alberto Casillas, della Cafetería Prado S.A., a pochi passi dal museo omonimo, è diventato, quasi senza volere, un eroe della resistenza che alcune migliaia di cittadini di tutte le età hanno sostenuto di fronte agli attacchi dei più di 1.300 agenti che avrebbero dovuto mantenere l’ordine pubblico davanti al Congresso, ma che finalmente si sono imbarcati in una durissima battaglia, saldatasi con 64 feriti e 35 arresti. Una brutta immagine, che ha fatto il giro del mondo e che dà un’idea di quanto sia diventata tesa la situazione sociale, economica e politica nel Paese.
ALTA TENSIONE
«Il Governo sta perdendo il controllo», hanno dichiarato i partiti dell’opposizione dopo aver visto i video che dimostrano la sproporzione tra i presunti atti provocatori dei manifestanti e la reazione delle forze dell’ordine. Al presidente Mariano Rajoy, in questi giorni a New York per un vertice dell’ONU, sta sfuggendo di mano il malessere diffuso nella popolazione. La seconda immagine più commentata del momento è infatti quella che immortala i sacrifici, la miseria, addirittura la fame che sopportano quotidianamente un numero sempre più alto di cittadini.
La foto è stata pubblicata ieri in prima pagina dal New York Times. Uno scatto in bianco e nero che ritrae un corpo mezzo immerso in un cassonetto dell’immondizia: cerca cibo. Il servizio racconta le condizioni disperate in cui sono costrette a vivere centinaia di migliaia di persone: famiglie intere in cui nessuno lavora e che vedono peggiorare le possibilità di inserirsi nel mercato, disoccupa
ti di lungo periodo che non ricevono più gli aiuti statali, sfrattati che manifestano davanti alle banche e per tutta risposta vengono schedati dalla polizia.
«La riforma del mercato del lavoro mi costerà uno sciopero generale», si era fatto scappare a febbraio Mariano Rajoy, mentre parlava con un collega europeo, a Bruxelles, davanti a una telecamera inavvertita. Tutte le altre misure che il Governo a maggioranza assoluta del Pp ha approvato da allora (aumento dell’Iva e dell’Irpef, eliminazione della tredicesima per i funzionari, tagli sistematici in tutti i servizi pubblici e ai sussidi di disoccupazione) gli stanno costando ancor più caro. La popolazione è stufa e delusa, non senza ragione, visto che finora sono state smentite quasi tutte le promesse che il partito al governo aveva fatto in campagna elettorale.
A scaldare ulteriormente l’ambiente ci si è messa nelle ultime settimane anche la ricca Catalogna, con una sempre più pressante e convinta minaccia di secessione e la convocazione, due giorni fa, di elezioni anticipate che consentano ai catalani di esprimersi sul cammino che dovrà intraprendere il loro nuovo governo regionale. Durante una manifestazione che ha riempito le strade di Barcellona l’11 settembre scorso (si parla di almeno 1,5 milioni di partecipanti), il popolo catalano avrebbe infatti già dato la propria risposta alla crisi e alla sua impopolare gestione: l’indipendenza da Madrid.

l’Unità 27.9.12
Tutta la Grecia si ferma protesta contro i tagli
Sfilano in centomila. Altissima adesione allo sciopero
Incidenti tra polizia e black bloc
di Teodoro Andreadis


Il rituale di scontri dei black bloc con la polizia greca, si è ripetuto anche ieri, per le vie centrali di Atene, intorno a piazza Syntagma, a poche decine di metri dal Parlamento ellenico. Mentre stavano affluendo i lavoratori in sciopero, circa sessanta persone, a volto coperto, hanno dato il via agli scontri con le forze dell’ ordine, impedendo al corteo pacifico di concludere la manifestazione. Da una parte le molotov, dall’ altra i lacrimogeni, uno scenario tristemente noto agli abitanti della capitale greca. L’immediato intervento dei pompieri, ha permesso di scongiurare lo scoppio di un incendio, all’ interno del Parco Nazionale di Atene, che lambisce il Parlamento. Il bilancio, alla fine della giornata di ieri, è stato di tre feriti, venti arresti e cento fermati.
AUTUNNO CALDO
I sindacati, comunque, parlano di percentuali di adesione allo sciopero altissime, per gli impiegati del parastato e del settore privato si arriva addirittura all’ 80%. Si tratta della prima grande mobilitazione autunnale contro il nuovo pacchetto di tagli a stipendi e pensioni. Tra gli altri, hanno incrociato le braccia medici, ingegneri, commercianti, bancari, controllori di volo e giornalisti. Solo ad Atene, sono scese in piazza più di centomila persone: iscritti ai sindacati del pubblico impiego Adedy, a quello del parastato e del privato, la Gsee, i comunisti del Pame e la sinistra extraparlamentare. Uniti nel gridare il proprio dissenso alle misure di 11,9 miliardi di euro, richieste insistentemente dalla Troika, che mirano a ridurre ulteriormente, per la quarta volta in due anni e mezzo, la spesa sociale.
Il primo ministro conservatore Andònis Samaràs si è incontrato nuovamente con il ministro dell’Economia Yannis Stournaras e, secondo fonti ufficiose, pare abbia dato il suo assenso definitivo al pacchetto di tagli. Questa mattina è in programma un nuovo vertice con i leader degli altri due partiti che sostengono il governo, il socialista Evànghelos Venizèlos e Fotis Kouvèlis, di «Sinistra Democratica», per quello che dovrebbe essere il varo definitivo della manovra. A quanto si apprende da ambienti del governo, l’unica cosa che si è riuscita ad evitare, dopo una lunga trattativa con i rappresentanti di Unione europea, Fondo Monetario e Banca Centrale Europea, è il licenziamento dei dipendenti pubblici. Sono confermate, però, nuove riduzioni di stipendi e pensioni e l’imposizione di una tassa unica per i liberi professionisti , sul 30% del reddito complessivo.
Le nuove misure lacrime e sangue, dovrebbero venire approvate dal parlamento, al più tardi, entro sabato 6 ottobre, in un'unica votazione per cercare di serrare i ranghi della maggioranza e non è difficile prevedere nuovi episodi di tensione, in molte città della Grecia. «I nuovi tagli costituiscono una vera e propria strage sociale, che supera l’operato della signora Thatcher e imita il generale Pinochet», insiste Syriza, la sinistra eurocomunista con a capo il trentottenne Alexis Tsipras. Syriza ha già annunciato che sino alla votazione della manovra terra alta la mobilitazione, in tutto il paese, ma la questione, è, in fondo, appare ancora più ampia: secondo gli ultimi sondaggi, nove greci su dieci pensano che i nuovi sacrifici richiesti saranno ingiusti, e sei su dieci che, oltre a ciò, si riveleranno anche inutili. L’83% del campione interpellato è convinto, inoltre, che nei prossimi anni seguiranno ulteriori interventi impostati sulla ricetta «lacrime e sangue». Sono cifre che danno il polso di un paese sfiduciato e stremato, che non vede come si possa uscire da una disoccupazione da brivido (25%) e da una recessione che si avvicina pericolosamente all’ 8%. E la cosa peggiore è che nei quasi tre anni di crisi economica conclamata, non ci sia stata nessuna inversione di tendenza positiva, ancorché minima.

l’Unità 27.9.12
Monti parla all’Onu, l’Euro ce la farà, l’Italia non è a rischio
Il debutto del premier, Berlusconi mancava dal 2009
Il ruolo decisivo della Ue contro la crisi
di N.A.


ROMA Debutto all`Onu per Mario Monti, che ha pronunciato ieri un discorso all’Assemblea generale nel corso del quale ha toccato il tema della crisi finanziaria internazionale e del ruolo dell'Italia per una nuova governance europea. È «importante essere qui per un presidente del Consiglio dopo 3 anni», aveva commentato il premier appena atterrato a New York. L’ultimo discorso di un premier italiano a Palazzo di Vetro risale al 2009. Da allora Silvio Berlusconi non aveva più partecipato ai lavori dell’Assemblea generale.
Monti aveva anticipato alcuni dei temi toccati ieri pomeriggio, durante l`intervista rilasciata martedì a Christiane Amanpour per Cnn International. «Percorrerò i punti centrali della politica estera italiana, legandoli all' impegno affinché l'Unione europea sia un attore sempre più incisivo e creatore in un quadro di stabilità interno e partecipe degli sforzi sul piano multilaterale per la pace e la prosperità», aveva spiegato ai giornalisti italiani. Rispondendo alle domande di Christiane Amanpour sul suo futuro politico, Monti aveva ripetuto tra l’altro che non si candiderà alle prossime elezioni italiane. Il presidente della Repubblica «mi ha nominato senatore a vita», ha sottolineato il presidente del Consiglio. «Non so» se si candiderà Silvio Berlusconi, aveva aggiunto, «ma ne avrebbe chiaramente tutto il diritto».
Sempre martedì, prima di partecipare alla cena con il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, con il presidente della Federal Reserve di New York, William Dudley, e con il magnate George Soros, Monti aveva sottolineato con la Cnn che le misure economiche decise dal suo governo puntano a condurre «il Paese fuori dalla crisi» e che «di fronte ai sacrifici» richiesti «gli italiani si sono dimostrati altamente responsabili». Per il premier, in sostanza, «l'Italia non è più nel gruppo dei Paesi che possono costituire un problema per l'Europa». Quanto all’Unione europea, poi, Monti ha confidato di sentirsi «molto più ottimista sul futuro dell`Eurozona» rispetto allo scorso giugno. Per Monti si tratta della quarta visita negli Stati Uniti in dieci mesi di governo, dopo quella ufficiale a febbraio, la partecipazione al G8 e al vertice Nato a maggio e quella alla conferenza di Sun Valley a luglio.
«Anche a New York c'è una grande attenzione per il ruolo dell'Italia ha spiegato il ministro degli Esteri, Riccardo Terzi, che accompagna Monti negli Stati Uniti Non solo per la politica economica che il governo sta portando avanti. Ma anche per la nostra politica estera in tutte le aree del mondo e per il nostro ruolo riconosciuto in Europa».
LA RIFORMA
Nella mattinata della seconda giornata del dibattito generale all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il titolare della Farnesina, ha riunito «undici ministri degli Esteri, impegnati con l'Italia a rendere il Consiglio di sicurezza più democratico, rappresentativo ed efficiente». Questo l’obiettivo della riunione del gruppo Uniting for Consensus, di cui l'Italia è presidente. La sfida è quella di trovare un compromesso per sbloccare lo stallo quasi ventennale dei negoziati. I veti incrociati regionali rimangono le variabili politiche che impediscono una riforma del Consiglio. «Riteniamo che sia necessario rendere più credibile il Consiglio per garantire pace e stabilità nel mondo, compito primario dell'Onu ha spiegato Terzi in un’intervista Se ne parla dalla metà degli anni novanta, con i grandi cambiamenti della realtà internazionale di quegli anni. È un negoziato che ha avuto molte fluttuazioni e contrapposizioni. Noi abbiamo sempre chiesto una riforma democratica, che rispetti il diritto, per un funzionamento efficace delle Nazioni Unite».
L’Italia, nella sostanza, propone un modello «che dia rappresentatività, con nuovi seggi elettivi pluriennali (attualmente il Consiglio di sicurezza è composto da 15 membri di cui cinque permanenti, Usa, Gb, Francia, Russia e Cina, con diritto di veto e dieci a rotazione, ndr), passi significativi sul piano regionale, ma anche un riconoscimento a quei piccoli Stati che soffrono di un insufficiente accesso al Consiglio».

l’Unità 27.9.12
Perché la Bce da sola non risolverà i nostri problemi
di Ronny Mazzocchi


MENTRE LA QUASI TOTALITÀ DEI PAESI EUROPEI sta predisponendo bilanci pubblici all’insegna dell’austerità, lo scorso 20 settembre il governo svedese ne ha presentato uno ai limiti della provocazione. Il piano di spesa del primo ministro conservatore Fredrik Reinfeldt prevede infatti un aumento delle uscite per 24 miliardi di corone rispetto al 2012, una cifra di poco inferiore all’1 per cento del Pil. Tra i principali beneficiari di questo allargamento dei cordoni della borsa ci sono le imprese, l’occupazione giovanile, la ricerca, le infrastrutture e il sistema giudiziario. La scelta non è ingiustificata. Le ultime previsioni di crescita per la Svezia sono ben più pessimiste di quelle inizialmente previste dal governo, con un aumento dell’1% per quest’anno e del 2% per l’anno prossimo.
Si tratta di numeri da sogno per buona parte dei Paesi dell’area euro, che si avviano invece a chiudere sia il 2012 che il 2013 con un segno negativo, ma che hanno preoccupato molto il governo di Stoccolma al punto da predisporre un vero e proprio piano di stimolo per evitare che il rallentamento economico abbia conseguenze sull’occupazione. Così, mentre la Svezia non si fa prendere dal fatalismo e cerca di evitare danni peggiori ad un struttura produttiva già duramente provata, nel resto d’Europa si continua imperterriti ad affidarsi ad una combinazione di austerità e riforme strutturali che dovrebbe tirare tutti fuori dalla crisi, non si è capito se vivi o morti.
Le grida d’allarme che ormai da oltre un anno arrivano da economisti, forze politiche e organizzazioni sociali sui rischi di tenuta democratica nei Paesi mediterranei sembrano lasciare indifferenti sia le tecnocrazie di Bruxelles sia il Consiglio europeo. L’unica differenza rispetto al recente passato pare essere un appoggio più convinto alle politiche monetarie non-convenzionali che Mario Draghi, non senza difficoltà, sta cercando di portare avanti.
Tuttavia pensare che la Bce possa, da sola, risolvere i problemi dell’Europa è una pericolosa illusione. Anche i pur positivi interventi già attuati, come l’Ltro il piano di finanziamento eccezionale per il settore bancario – non sono infatti riusciti a garantire un rilancio dell’economia della zona euro. Paradossalmente in alcuni Paesi questo piano ha finito invece per generare una sorta
di «crowding out» della spesa privata perché le banche hanno dirottato i fondi inizialmente destinati al finanziamento dell’economia reale verso l’acquisto di titoli di Stato. Il problema però non è stato l’Ltro, che è comunque riuscito ad evitare una crisi bancaria dalle dimensioni catastrofiche, ma la totale mancanza di politiche pubbliche che incentivassero prestiti alle imprese e alle famiglie da parte delle banche. A rendere ancora più preoccupante la situazione vi sono poi i gravissimi squilibri nei conti con l’estero dei Paesi dell’area euro che non sembrano delineare un aggiustamento strutturale. L’infelice esperienza della banca centrale dell’Unione Sovietica ai tempi di Leonid Breznev, costretta a coprire costantemente i buchi di un sistema economico incapace di garantire una crescita equilibrata, non costituisce un buon viatico per una Bce che si trova a fare la stessa cosa nell’attesa messianica che il mercato, attraverso le mitiche riforme strutturali, sia in grado di eliminare non solo ostacoli di natura istituzionale e culturale ma anche quelle decennali specializzazioni produttive che impediscono all’Europa di trasformarsi in un’area valutaria ottimale.
Insomma, sperare che le manovre monetarie possano da sole sopperire alla pressoché totale mancanza di politiche economiche anticicliche e di correzione strutturale degli squilibri europei rischia di portarci su un sentiero sbagliato. Se nella prima fase della crisi la Bce poteva essere accusata di errori ed eccessiva timidezza, ora sono gli Stati nazionali e l’Europa nel suo complesso ad essere paralizzati su posizioni che, trovano ormai una giustificazione soltanto nell’ideologia.

IL SONDAGGIO SU UNITA.IT
Il 77% non vuole il voto degli elettori di centrodestra

A chi aprire le primarie promosse dal Pd? È la domanda che abbiamo posto ai lettori con un sondaggio sul nostro sito web. In tanti hanno già risposto, scegliendo fra le tre opzioni proposte. Al momento, per il 77% dei votanti la consultazione dovrebbe essere aperta solo agli elettori del centrosinistra e a coloro che si impegnano moralmente a votare il vincitore. Per il 12% invece le urne dovrebbero essere aperte «a chiunque voglia partecipare, anche ad elettori che non assumono impegni con il Pd». Secondo l’11%, infine, dovrebbero essere coinvolti gli elettori di centrosinistra e i “non schierati”. Per dire la vostra basta un click, su www.unita.it.

l’Unità 27.9.12
Questione di etica
Da noi la destra non può votare
Ideali e visione dell’alleanza non sono secondari rispetto alla scelta del candidato
Basta uomini soli al comando
di Tommaso Giuntella


Tutto ci saremmo aspettati nella storia del centrosinistra italiano fuorché un dibattito sull’opportunità che alle primarie del centrosinistra votino solo gli elettori del centrosinistra.
Chiariamoci subito, non è una questione di regole. Potremmo dilungarci per anni nello studio di meccanismi e arrivare a giustificare le posizioni più originali e i loro opposti, ma non ne verremmo mai a capo. Le primarie, mai come in questa fase, mai come in questo Paese, sono uno strumento della dialettica di una comunità politica.
Non è una questione normativa, è una questione etica, ma ancora prima una questione di buon senso. Viviamo un tempo di estrema confusione, nel quale siamo arrivati a immaginare un controsenso logico quale la contrapposizione tra società civile e società politica. Una distanza immaginaria che è percepita e che anche solo nella percezione va colmata, prima di tutto da un partito che aspira a governare il Paese come perno di una coalizione di democratici e progressisti.
In questo contesto l’atto politico del partito democratico di Bersani, l’apertura delle primarie ad altri esponenti del Pd previa revisione dello statuto, è un segnale di apertura cruciale. La visione di base, l’idea stessa del centrosinistra, non può passare in secondo piano nella discussione su chi sarà il candidato premier. L’alternativa al berlusconismo si è formata negli anni lungo la strada percorsa da una comunità politica che si è rimboccata le maniche, ha rilanciato i propri strumenti di democrazia interna, ha condotto battaglie tematiche, ha contribuito alla caduta di Berlusconi, non per sostituirlo ma per lasciarsi alle spalle gli anni del populismo, la falsa promessa dell’uomo solo al comando, del grande taumaturgo. Non a caso il Pd ha proposto alle altre forze una carta d’intenti che sarà sottoscritta da chi vorrà partecipare alle primarie.
È curioso come si pretenda che chi vuole scegliere il presidente del Consiglio che presti il volto a tale storia non voglia rivendicarne il contributo. Desta ancor più curiosità che i dubbi sorgano da esponenti del partito che ha l’albo degli elettori nel proprio statuto. Partito che ha confermato con un milione e mezzo di voti tale scelta votando Bersani che nel 2009 scriveva nel suo programma «L' Albo degli elettori deve essere pubblico e certificato».
Ci spiega un giovane economista della Boston University: «Nelle primarie Usa è necessario registrarsi, i registri sono accessibili, il motivo non è tecnico, è morale». Chi sostiene una coalizione, mai come nel momento in cui bisogna passare il valico della Seconda Repubblica, deve farlo a viso aperto. D’altra parte che se ne farebbero i delusi del berlusconismo, i delusi degli anni in cui si liquidava una questione con un «comunisti, stalinisti, Ceausescu», di una coalizione che non risponde alla domanda di partecipazione e di politica con un’offerta rinnovata nel profondo delle proprie idee, financo nel proprio vocabolario di riferimento? È certamente in questo senso che gli elettori delle primarie di coalizione del 2005, quelli delle primarie Pd del 2007 e 2009, quelli delle innumerevoli primarie di coalizione per sindaci di tutta Italia, hanno sempre firmato una liberatoria per l’uso dei loro dati personali.
Le prossime primarie saranno una grande occasione di mobilitazione popolare nella viva ispirazione ai principi della Costituzione, è così insensato che pur nella segretezza del voto si chieda l’adesione pubblica a chi vuole indicare quale direzione debba prendere il cammino dei democratici e dei progressisti d’Italia?

Corriere 27.9.12
Primarie, doppio turno e albo Mossa di Bersani sulle regole
Prima bozza. Renzi: andrà a casa D'Alema, non il centrosinistra
di Alessandro Trocino


ROMA — La prima riunione per decidere le regole delle primarie è durata due ore, non ha partorito una decisione ufficiale (che ci sarà dopo l'assemblea del Pd del 6 ottobre), ma ha stabilito alcune linee guida. Che sicuramente Matteo Renzi non apprezzerà: perché Maurizio Migliavacca (Pd), Francesco Ferrara (Sel) e Marco Di Lello (Psi) hanno trovato un primo accordo, a grandi linee, su primarie a doppio turno, alle quali potranno votare elettori identificati, che firmeranno la carta d'intenti, politicamente impegnativa, e finiranno su un albo pubblicato.
Regole ancora da mettere nero su bianco, sulle quali però non sembra si possa tornare indietro. Voteranno i sedicenni e gli stranieri (anche se si stanno cercando meccanismi per evitare le code di immigrati inconsapevoli, e forse prezzolati, che si sono registrate in passato). Gli elettori dovranno iscriversi a un registro, ma potranno farlo probabilmente il giorno stesso. Se i socialisti vorrebbero un'iscrizione anticipata ad almeno una settimana prima (a New York si fa un mese prima), Migliavacca sembra intenzionato a cedere, per non andare a uno scontro frontale con Renzi. Ma lo sfidante di Bersani non concorda né sul doppio turno né sull'albo pubblico, sperando in un'ampia partecipazione popolare. Quanto ai candidati, dovranno presentare un numero minimo di firme, che si aggirerà sulle 25 mila. Gli elettori pagheranno una cifra intorno ai 3-4 euro (con Prodi furono 2, mentre i socialisti hanno proposto 5, essendo la consultazione più costosa, perché a doppio turno).
Che i bersaniani diano già per acquisito il capitolo regole, lo conferma la portavoce del comitato, Alessandra Moretti, che in mattinata attaccava: «Basta parlare delle regole delle primarie, il Paese è allo stremo, occupiamoci di dare risposte concrete ai giovani e all'Italia». Intanto su twitter duellano Chiara Geloni (direttrice di Youdem) e Antonella Madeo (portavoce del comitato elettorale di Renzi). Oggetto del contendere: la foto del sindaco che scende dal camper e con un Suv va verso Milano. Scambi d'accuse a base di «sta tranquilla», «prenditi una camomilla».
Renzi, in attesa di capire come finirà la partita delle regole, continua la sua campagna in camper (ieri era a Napoli) e lancia l'appuntamento alla Stazione Leopolda, anticipando le date, tra l'8 e l'11 novembre, con una postilla polemica: «È un'informazione di servizio per chi dovrà inventarsi anche quest'anno un'altra iniziativa del partito come copertura mediatica». Riferimento al Big Bang dello scorso anno, affiancato da un appuntamento ufficiale del Pd spuntato fuori all'ultimo minuto.
Renzi non rinuncia neanche a rispondere a Massimo D'Alema, con lo stesso sarcasmo feroce del big democratico: «Ieri, parlando di una mia eventuale vittoria alle primarie, ha detto che se vince Renzi, finisce il centrosinistra. Non capisco perché, sinceramente. Se vinco io, al massimo, finisce la carriera parlamentare di D'Alema». Quasi una promessa, per un candidato che ha al primo punto del programma la rottamazione della vecchia guardia del Pd.
Di regole parla anche Bruno Tabacci. L'unico extra pd che ha finora ufficializzato la sua adesione (Nichi Vendola scioglierà la riserva solo il 7 ottobre, dopo l'assemblea del Pd) non apprezza l'ipotesi che votino sedicenni e stranieri: «Va interpellato solo chi ha diritto al voto alle elezioni politiche».

Corriere 27.9.12
Nervosismo nel partito: nei sondaggi riservati il sindaco vola
Nasce la sua «corrente»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Pier Luigi Bersani è sicuro di vincere queste primarie. Ma intorno a lui il nervosismo aumenta, come dimostrano le invettive di Alessandra Moretti, portavoce del comitato elettorale del segretario, contro Matteo Renzi. O le parole, durissime, di Massimo D'Alema.
Insomma, nei gruppi dirigenti del Partito democratico serpeggia una certa inquietudine. Sarà colpa di un sondaggio riservato secondo cui il sindaco di Firenze piace al 70 per cento degli elettori del centrosinistra?
Secondo un'altra rilevazione altrettanto riservata, da quando ha avviato la sua campagna elettorale per le primarie, il primo cittadino del capoluogo toscano è salito nei consensi di 29 punti in percentuale. Sono cifre alte e la «marcia su Roma» di Renzi è appena cominciata.
Ma la vera novità si registra nei gruppi parlamentari. Finora vi erano state singole adesioni di qualche deputato e senatore. Ma da oggi le cose sono cambiate. Tra un incontro riservato e l'altro, si sta formando un'area di parlamentari che ha deciso di rendere esplicito il sostegno a Renzi. Una sorta di corrente renziana, anche se i suoi componenti rifiuterebbero questa definizione.
I parlamentari pro sindaco debutteranno prima dell'assemblea nazionale del 6 ottobre con un documento in cui chiederanno che nelle regole delle primarie non vi siano limitazioni o trabocchetti per impedire al primo cittadino del capoluogo toscano di raccogliere tutti i suoi voti potenziali. Quel documento, di fatto, sancirà la scelta a favore di Renzi di questa area.
Tra i parlamentari pronti a firmare quel testo ci sono Paolo Gentiloni, Ermete Realacci, Roberto Giachetti, Roberto Della Seta, Andrea Sarubbi, Francesco Ferrante, Alessandro Maran, Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Pietro Ichino, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo e tanti altri. In pratica, i firmatari dell'agenda Monti (dovrebbero sfilarsi solo i senatori Marco Follini e Antonello Cabras) e un pezzo della componente di minoranza, i Modem. Ossia quasi tutti i 12 parlamentari che fanno riferimento a Gentiloni e poco meno di metà dei 34 veltroniani. Tengono duro, invece, i 30 deputati e i senatori di Modem che stanno con Beppe Fioroni, anche se due o tre potrebbero sfilarsi e confluire nell'area pro Renzi.
Non c'è ancora niente di ufficiale, ma gli incontri proseguono e si sta già lavorando al testo del documento. E comunque alcuni parlamentari dell'area hanno già cominciato a dichiarare la loro scelta a favore del sindaco di Firenze. È il caso, per esempio, dei due senatori ecodem Della Seta e Ferrante che oggi scrivono un articolo su Europa in cui sottolineano che, «in Italia, per motivi evidenti», l'esigenza di «un ricambio non solo all'anagrafe, ma nella visione delle classi dirigenti è particolarmente urgente e costituisce quasi una precondizione per ogni credibile progetto riformista».
Anche Maran, vicecapogruppo del Pd alla Camera, non fa mistero delle sue opinioni: «Potrà non piacere ma, come ha osservato Giuliano Ferrara, Renzi è "nella sua eruttività la dimostrazione geologica del fatto che questi vent'anni dalla fine del muro di Berlino non sono passati inutilmente"». Sparatissimo sul sindaco di Firenze pure il segretario del gruppo Pd a Montecitorio Roberto Giachetti: «Io voterò Renzi, non ho nessun dubbio».
Ma non è solo il fronte parlamentare che si è incrinato. I primi scricchiolii si avvertono persino nell'apparato. O tra i funzionari di partito. Domenico Petrolo, che lavora con Matteo Orfini, è uno dei più renziani a Largo del Nazareno. Ma il vero caso è quello di Lino Paganelli: dal 2002 responsabile nazionale delle Feste dell'Unità, dal 2008, anno della nascita del Pd, alla guida della Festa democratica.

Corriere 27.9.12
Una classe dirigente chiusa ed esausta
Paese destinato a un sicuro declino
di Giuseppe Bedeschi


Da molto tempo assistiamo a un blocco nel ricambio della classe di governo, la quale è, da svariati lustri, sempre la medesima. Di qui le lamentele sempre più diffuse: i leader politici non cambiano da decenni, non emergono nuove personalità, non c'è ricambio. E ciò sia a destra (dove Berlusconi sta decidendo se presentarsi come leader alle elezioni), sia a sinistra (dove si fanno sempre più intense le richieste di «ricambio», o, con parola sgarbata ma efficace, di «rottamazione»).
Diceva Vilfredo Pareto che in ogni società c'è uno strato inferiore (molto ampio), che egli chiamava la «classe non eletta» (ovvero la classe dei governati), e c'è uno strato superiore, che egli chiamava la «classe eletta», da lui suddivisa poi in due parti: a) la «classe eletta di governo», e, b) la «classe eletta non di governo». Quest'ultima noi oggi la chiamiamo per lo più «classe dirigente», in senso lato: essa comprende infatti tutti coloro che (per ritornare al linguaggio di Pareto) «hanno gli indici più elevati nel loro ramo di attività», cioè tutti quelli che hanno meritato buoni voti nell'esame della vita, oppure, più semplicemente, hanno estratto numeri fortunati alla lotteria dell'esistenza sociale.
Quali rapporti intercorrono fra queste classi? La «classe eletta di governo», rispondeva Pareto, è forte e vitale nella misura in cui essa assorbe gli elementi migliori della «classe eletta non di governo» (cioè della classe dirigente). Ma questo certo non basta: è necessario anche che la «classe di governo» assorba continuamente gli elementi di qualità superiore che crescono negli strati inferiori (cioè nella «classe non eletta»). Se questo assorbimento (o «circolazione delle élite», come la chiamava il grande sociologo) non avviene, allora la «classe di governo» non è in grado di reagire al proprio invecchiamento, alla propria decadenza, al proprio logoramento. Spiegava Pareto: «Vi è un processo simile a quello che si osserva nell'animale vivente, che non sussiste se non eliminando certi elementi e sostituendoli con altri, che assimila. Se questa circolazione è soppressa, l'animale muore, è distrutto. Accade lo stesso per l'élite sociale, e se la distruzione può essere più lenta, essa non è meno sicura».
Credo che questi concetti svolti da Pareto siano assai utili per capire la situazione attuale del nostro Paese. Da molto tempo, infatti, assistiamo a un vero e proprio blocco nel ricambio della classe di governo, la quale è, da svariati lustri, sempre la medesima. Di qui le lamentele sempre più diffuse: i leader politici non cambiano da decenni, le facce sono sempre le stesse, non emergono nuove personalità, non c'è nessun ricambio nella classe politica. E ciò sia a destra (dove Berlusconi sta decidendo se presentarsi come leader alle elezioni per la sesta volta), sia a sinistra (dove si fanno sempre più intense le richieste di «ricambio», ovvero, con parola sgarbata ma efficace, di «rottamazione»). Per usare il linguaggio di Pareto, le nostre élite politiche governanti, sempre più vecchie ed esauste, non assorbono più elementi validi emergenti dalla classe dei governati. Inoltre, ai livelli intermedi (Regioni, Province, Comuni), esse si circondano di vecchi professionisti della politica (per non dire, in molti casi, di maneggioni), che danno di sé lo spettacolo che danno.
Come si è arrivati a questa situazione? Si tratta certo di un fenomeno complesso, e quindi caratterizzato da diversi aspetti. È probabile che fra le sue cause ci siano anche il crollo delle ideologie (le quali erano sì «sistemi chiusi», e quindi per tanti versi nocivi, e tuttavia erano altamente mobilitanti per i giovani, ai quali davano una forte carica ideale), e il processo di secolarizzazione della nostra società (nei primi decenni della cosiddetta Prima repubblica le grandi organizzazioni cattoliche — l'Azione Cattolica, le Acli ecc. — furono vivai di vitale importanza per la Democrazia Cristiana, ai fini del reclutamento di nuovi dirigenti). Ma io credo che nell'attuale decadenza dei partiti abbia avuto un ruolo fondamentale la prova estremamente deludente che essi hanno dato nella cosiddetta Seconda Repubblica (dove pure, a differenza di quanto avveniva nella Prima Repubblica, si è avuta una alternanza fra due schieramenti): non fu uno spettacolo entusiasmante la litigiosità e l'inconcludenza dei governi di centrosinistra, e fu uno spettacolo deprimente il venir meno del centrodestra a tutte le altisonanti promesse di riforme liberali. Entrambi gli schieramenti, di destra e di sinistra, hanno gravemente deluso le attese, in quanto, una volta al governo si sono dimostrati del tutto incapaci di incidere sui meccanismi economico-sociali paralizzanti, sui privilegi corporativi, sui gravi difetti della macchina dello Stato e della pubblica amministrazione che bloccano la crescita del nostro Paese. Finché si è arrivati sull'orlo del baratro, e i partiti stessi hanno fatto, significativamente, un passo indietro (confessando così il proprio fallimento e la propria impotenza), e hanno insediato un governo di tecnici. Quale entusiasmo, quale passione può suscitare una situazione di questo genere nelle giovani generazioni e nelle classi governate? Come può spingerle a entrare nei partiti, a rinsanguarli, a dedicarsi alla politica, divenuta ormai arena di arrivisti, non di rado senza scrupoli?

La Stampa 27.9.12
«Un giorno in più non cambia». Resa dei conti con Tajani
Polverini non si dimette e nomina dieci dirigenti
di Francesco Grignetti


La Governatrice del Lazio Polverini non ha assolutamente dato le annunciate dimissioni. Anzi, ha convocato la sua Giunta e proceduto a decisioni importanti come la nomina di dieci direttori generali. Di più: riprende le fila della politica regionale, regola alcuni conti politici e ritira le deleghe di assessori fedeli a Tajani. Dimenticate la conferenza stampa di Renata Polverini. La Governatrice del Lazio, a dispetto delle parole urlate, non ha assolutamente dato le annunciate dimissioni. Anzi, ha convocato la sua Giunta e proceduto a decisioni importanti come la nomina di dieci direttori generali, prorogando alcuni in scadenza e chiamando alcuni esterni, pescando, al solito, tra i sindacalisti dell’Ugl. Di più: riprende le fila della politica regionale, regola alcuni conti politici e sbatte fuori dalla Giunta gli assessori fedeli ad Antonio Tajani.
In gergo si chiama «ritiro delle deleghe». Lei ne parla così da Bruno Vespa: «Prima taglio gli assessori, poi mi dimetto. I consiglieri non li posso tagliare, ma la mia giunta la posso diminuire e non è necessario lo stesso numero di assessori per l’amministrazione ordinaria. Oggi ho lavorato sull’accorpamento delle deleghe, domani le riassegnerò e allora potrò dimettermi».
Due giorni dopo lo sfogo, la Polverini non ha più tanta intenzione di mollare. Delle dimissioni ancora non formalizzate, ai giornalisti dice: «Ne stiamo ragionando con il ministro Cancellieri. Tanto, un giorno in più o in meno cambia poco». Il sogno segreto, però, è che vorrebbe mollare solo dopo che il Consiglio regionale avrà approvato quelle norme taglia-spese che aveva annunciato la settimana scorsa (nel tentativo di arginare lo scandalo sulla vicenda Fiorito). Allora, e solo allora, arriveranno le dimissioni. Ma siccome la sua mossa è sotto gli occhi dei consiglieri regionali, ecco che le opposizioni si sollevano gridando al bluff. Uno su tutti, Angelo Bonelli, dei Verdi: «Altro che dimissioni. La Polverini ha convocato la Giunta e nominato nuovi direttori generali, tra cui 2 già sospesi dal Tar del Lazio. Questa è ordinaria amministrazione? Ma che film stiamo vedendo? ». Oppure Esterino Montino, Pd: «Sceneggiata cialtronesca. Presenti le dimissioni e non la tiri per le lunghe».
La Polverini invece sorprende tutti. Ai giornalisti che l’aspettavano al varco: «L’importante è essersene andati da questa Regione, aver dato un taglio a questa situazione e aver mandato a casa tutti quei cialtroni». Lo slogan dei suoi manifesti. Ma nei fatti lei non se ne è andata. Come spiega uno dei suoi fedeli: «La Presidente vuole provare in extremis di portare a compimento la riforma dei costi della politica nel Lazio. Allo stato delle cose, sono esecutivi solo due provvedimenti di quanto annunciato, ovvero quanto era di competenza della Giunta. Tutto il resto sono provvedimenti di competenza del Consiglio e la presidente vuole tentare di portare fino in fondo questo percorso».
Cerca l’onore delle armi, insomma, per poi potersi giocare una nuova partita politica.
Nel frattempo si dimostra nervosetta. Così dà una rispostaccia al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che aveva ipotizzato un Consiglio regionale straordinario proprio per deliberare di corsa i famosi tagli: «È un’altra fantasia di Alemanno». Allo stesso tempo pianifica la vendetta contro Antonio Tajani, commissario europeo per l’Industria e vicepresidente della Commissione europea, ma soprattutto leader degli ex di Forza Italia nel Lazio e suo antagonista. Tajani dalla Polverini si era beccato già una bella botta due giorni fa («Personaggi ameni che si aggirano per l’Europa a rappresentare il nostro paese... »). Ieri la rasoiata per interposta persona.
Filtra la notizia che la presidente sta ritirando le deleghe ai quattro assessori che fanno riferimento a Tajani, ovvero Fabio Armeni, assessore alle Risorse umane, demanio e patrimonio; Angela Birindelli, assessore alle Politiche agricole; Marco Mattei, assessore all’Ambiente; Stefano Zappalà, assessore al Turismo. Rimangono invece al loro posto altri ex azzurri come Giuseppe Cangemi, assessore ai Rapporti con gli enti locali e Sicurezza, e Fabiana Santini, assessore alla Cultura (fedele a Claudio Scajola, di cui è stata segretaria particolare; meglio nota perché beneficiata dal famoso costruttore Diego Anemone) perchè l’avrebbero appoggiata incondizionatamente anche nei passaggi più duri.

La Stampa 27.9.12
L’esercito degli esterni Novecento consulenti per i 71 consiglieri
Sono i primi (e finora gli unici) che rischiano la poltrona
di Grazia Longo


ROMA Oggi, come i prossimi 27 del mese fino all’insediamento del nuovo consiglio regionale, Franco Fiorito (indagato per peculato) incasserà uno stipendio di 12.800 euro netti. Stessa busta paga per il festaiolo Carlo De Romanis, alias Ulisse, e per tutti gli altri 69 consiglieri del Lazio. Compresa Renata Polverini, che con l’indennità sfiora i 20 mila euro.
Niente più stipendio, invece, per 88 collaboratori assunti con contratti a termine - per una cifra tra i 900 e 1.200 euro al mese - licenziati per effetto del taglio a 12 commissioni. Il prezzo del risparmio, si può facilmente osservare. Peccato però che a pagare siano sempre i più deboli. Mentre i 71 consiglieri regionali saranno iper garantiti: se si voterà davvero ad aprile, i loro stipendi costeranno 7 milioni di euro, mentre a 51 milioni ammonta il costo complessivo della struttura del consiglio.
Il numero dei collaboratori disoccupati potrebbe ancora crescere. Un piccolo esercito di persone assunte per la maggior parte con «chiamata diretta», in virtù del «rapporto fiduciario» con i consiglieri. Occupati prevalentemente in attività di segreteria con due ruoli chiari e dominanti sugli altri: il responsabile della segretaria e il capoufficio stampa. Una quota di dipendenti (tutti ovviamente a tempo determinato) viene retribuita direttamente dalla Regione, in proporzione al numero degli eletti, mentre un’altra attinge dai fondi dei singoli gruppi regionali.
Quei fondi da cui Er Batman di Anagni ha sottratto - secondo la procura e la guardia di finanza - 753 mila euro in auto bonifici, e da cui sono partiti 1 milione e 426 mila euro di «bonifici senza specifica» più 846 mila euro di assegni senza beneficiari su cui ancora si indaga.
I numeri dei contratti di collaborazione sovvenzionati direttamente dalla Regione sono pubblici (tranne i part time), gli altri no. E non tutti i gruppi regionali sono ugualmente disinvolti nel divulgarli. Non abbiamo dunque un totale definitivo ma solo gli 879 che ci sono stati comunicati. C’è un gruppo regionale in particolare che non li ha voluti proprio rivelare: la Lista Polverini. Che ne ha 24 (a fronte di 13 consiglieri regionali) a spese della Regione (non sono noti i part time in aggiunta) e un numero imprecisato foraggiato, nel 2011, da 379 mila euro di spese elettorali.
Il Pdl (17 consiglieri) conta su 24 collaboratori a contratto pubblico e una trentina dipendenti dal Gruppo. Questi ultimi costano 665 mila e 812 euro. Più o meno gli stessi numeri del Pd (14 consiglieri) che ha incassato 622 mila euro. L’Idv ne ha 19 di cui solo 3 a tempo pieno più 8 pagati con 13 mila e 582 euro pagati dal Gruppo. La Destra ne ha 11 di cui 2 part time più 4 spesati dal Gruppo, Sel si differenzia dalla Destra di Storace perché ha due part time in più. I radicali - che spiccano particolarmente per la trasparenza - hanno 13 collaboratori a carico della Regione e 1 solo sul bilancio del Gruppo.
La spartizione dei fondi elettorali -17 milioni e mezzo nel 2011 di cui 3,5 milioni all’ufficio del presidente del consiglio regionale Abbruzzese, è stata stabilita dai componenti dell’ufficio di presidenza: D’Ambrosio (Udc), Astorre (Pd), Gatti (Lista Polverini), Rauti (Pdl) e Bucci (Idv). Pdl, Pd, Idv, Lista Polverini e Udc, oltre ad Abbruzzese e il primo segretario generale del consiglio Cecinelli.
La procura ha intenzione di esaminare anche i loro ruoli, mentre si profila l’ipotesi dell’accusa di riciclaggio per alcuni membri dello staff di Fiorito che hanno ricevuto bonifici (per un totale di 700 mila euro) che nel conto Unicredit del Pdl gestito dall’ex tesoriere Fiorito risultavano senza beneficiario.

il Fatto 27.9.12
Sorpresa, la Polverini si dimette solo in tv
di Eduardo De Biasi


Ancora nessuna comunicazione ufficiale. Resta in carica e ne approfitta per sistemare altri fedelissimi. E da qui alle elezioni sarà lei a gestire ciò che resta del patrimonio della Regione Lazio spolpato dai partiti

Ieri hanno raccolto le proprie cose alla Pisana gli 88 dipendenti tagliati dal consiglio regionale del La-zio: ragazzi con contratti a tempo, autisti di presidenti di commissioni che non ci sono più, precari della politica da mille euro al mese. Il bonifico mensile di una dozzina di migliaia di euro arriverà invece serenamente a Franco Fiorito, il consigliere Pdl simbolo dello scandalo esploso in Regione Lazio, l’uomo del Suv, delle gite in Sardegna con i soldi dei contribuenti, delle ricche cene, delle accuse ai colleghi di partito.
E RENATA Polverini? La Presidente del Lazio, che negli scorsi giorni aveva annunciato le proprie dimissioni, tappezzando la città di manifesti con il nuovo motto della casa “questa gente la mando a casa io”, è ancora al suo posto. Ieri ha frequentato serenamente la Conferenza dei Presidenti di Regione, è stata dal Capo dello Stato, ha anche trovato il tempo per convocare una giunta che ha deciso di impugnare davanti alla Consulta la legge sulla spending review (non piacciono le norme sul riordino delle Province e i tagli previsti alle società partecipate) e di rinnovare fino a giugno i contratti di due dirigenti esterni, Raffaele Marra (direttore del Personale) e Giuliano Bologna (coordinatore dell’avvocatura regionale ). Entrambe le nomine erano state bocciate dal tar a giugno scorso, sentenza che la Regione ha preferito ignorare in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato, prevista per il mese prossimo. Non sono due nomine neutre. Bologna proviene dall’Ugl, il sindacato della Polverini, ed è stato consulente legale della stessa governatrice. Marra, invece, è considerato vicino al sindaco di Roma Gianni Alemanno. Se ne andranno poco dopo la giunta, ai giudici amministrativi piacendo.
A CHI CHIEDEVA lumi sulle sue mancate dimissioni, la Presidente di Regione ha risposto: “Ne stiamo ragionando con il ministro Cancellieri. Ve ne dovete fare una ragione. Ci sono delle procedure da seguire. Tanto, un giorno in più o in meno cambia poco. L’importante è essersene andati da questa Regione, aver dato un taglio a questa situazione e aver mandato a casa tutti quei cialtroni”. Certo le opposizioni del Consiglio regionale del Lazio attendono che quelle dimissioni, annunciate ormai due giorni fa, vengano formalizzate all’aula, ma per vederle nero su bianco si potrebbe dover attendere anche la prossima settimana.
La giunta, infatti, ha davanti a sè dossier difficili da gestire con la sola gestione ordinaria (quella che deriverebbe dalle dimissioni della giunta): c’è la partita della Sanità (Polverini è anche commissario della Sanità regionale), dei fondi europei (migliaia di euro che rischierebbero di essere spesi in altre regioni d’Europa in mancanza di una pianificazione ordinata), dei rifiuti, con il piano regionale che non pare vedere sbocchi.
Inutile nascondere che la permanenza in Regione consentirà alla Polverini di condurre le proprie battaglie politiche, e anche le proprie vendette nei confronti della sua stessa (ex) maggioranza. Nei corridoi della politica ci sono due spifferi. Il primo riferisce che sarebbe in rampa di lancio la cacciata dalla giunta di tutti gli ex forzisti vicini ad Antonio Tajani. Sarebbero quindi in uscita Fabio Armeni, assessore alle Risorse umane, demanio e patrimonio, Angela Birindelli, assessore alle Politiche agricole, Marco Mattei, assessore all’Ambiente e Stefano Zappalà, assessore al Turismo. Lo spiffero è confermato dalla stessa Polverini che afferma come oggi, l’ultimo atto della sua giunta nei pieni poteri, prevede la riduzione del numero degli assessori.
L’ALTRO SPIFFERO, che nessuno è in grado di confermare, riferisce che la Presidente sia molto interessata a conoscere nel dettaglio fatture e spese dei gruppi politici che siedono alla Pisana. Richiesta che troverebbe contrario, con schieramento bipartisan, l’intero parlamentino regionale. Altri intoppi. Prima di andare a nuove elezioni il Consiglio regionale dovrebbe poi votare la riduzione dei propri membri, da 70 a 50. È un atto dovuto, ma richiede un passaggio in consiglio misurabile in almeno un paio di settimane almeno. Certo ci vorrebbe anche la volontà politica di procedere speditamente e senza incidenti.
Ultima questione, non irrilevante, la data del voto e il possibile incrocio con le politiche (e addirittura con le elezioni in Campidoglio, se Alemanno decidesse di dimettersi, circostanza che è stata smentita giusto ieri). Sull’ipotesi di un election day, il ministro dell’Interno è cauto: “Serve una riflessione perchè sono scelte complicate”. Il Pdl, intanto, chiede che la Presidente non continui a sparare contro i suoi. La situazione, insomma, è complicata.

Repubblica 27.9.12
Il sistema malato degli ex missini al potere:
di Carlo Bonini


ROMA — Quasi fosse un esorcismo, Gianni Alemanno minimizza l’affare Mancini. «È una storia vecchia - dice - già uscita sui giornali un anno fa. Adesso sta semplicemente giungendo a conclusione il lavoro della magistratura... ». Ma - come sanno anche le pietre in Campidoglio, come sa bene lo stesso sindaco e come documenta il ventaglio di inchieste della Procura che, nell’ultimo anno e mezzo, hanno investito le municipalizzate (Atac, Ama), gli appalti Enav, funzionari del comune (la corruzione per la sistemazione dei punti verde), la faccenda è tutt’altro che «in via di conclusione» (piuttosto è al suo
incipit).
Soprattutto, torna a documentare di quale grana sia fatto il cuore nero del Sistema Alemanno e la classe dirigente di “manager” (si fa per dire) che in questi anni ha occupato fino all’ultimo stra-puntino dei centri di spesa dell’Ammini-strazione. Riccardo Mancini non è infatti un manager di Alemanno. Mancini «è Alemanno». Gli finanzia la campagna elettorale da perdente nel 2006 ed è il suo tesoriere nel 2008, quando l’assalto al Campidoglio riesce. Dal 2009, è la sua voce e i suoi occhi in «Eur spa», la colossale macchina di appalti, potere, consenso, clientele, di cui è stato riconfermato nel giugno scorso amministratore delegato e che sta ridisegnando la geografia urbana a ovest di Roma. Una spa partecipata per il 90 per cento dal Tesoro e per il resto dal Campidoglio, con un fatturato da 645 milioni di euro, che amministra un patrimonio immobiliare da 1 miliardo e mezzo di euro nel quartiere Eur (dal Colosseo quadrato, al centro Congressi di Adalberto Libera, al Palazzo dello sport di Nervi, alla nuvola di Fuksas ancora in costruzione, al Velodromo, al grande Acquario del Laghetto a 4 parchi per 63 ettari di verde). Ma Riccardo Mancini, soprattutto, è un «camerata». È l’ex militante di Avanguardia Nazionale (un anno e 8 mesi di condanna per armi) che si forma agli insegnamenti di Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher (oggi assunto come collaboratore di segreteria nell’assessorato alla casa della giunta di Renata Polverini) e che, trent’anni dopo si fa garante, con la presa del Comune, di un network di pregiudicati per reati politici che, con Alemanno, ha l’occasione straordinaria di trasformare un antico sistema di relazioni criminali in una rete di affari. Per giunta, senza necessità di alcun lavacro politico, camuffati come sono quegli “ex” in quell’area che viene genericamente indicata come “destra sociale”. Non è un caso che nell’inchiesta sul mezzo milione di euro per le tangenti sui filobus, si inciampi in due nomi che della rete sono stati in questi anni snodi importanti e che della tangente a Mancini sono stati - per quel che la Procura ha sin qui accertato garanti e strumento. Due neofascisti: il facilitatore di Finmeccanica Lorenzo Cola e il suo commercialista Marco Iannilli (sono loro infatti incaricati di creare e movimentare la “provvista” che la Breda deve versare). E non è un caso che l’uno e l’altro siano stati i grandi elemosinieri degli appalti Enav, altra storica greppia per gli appetiti neri, per i quali hanno collaudato un sistema di false fatturazioni e società offshore in quel di Cipro (dove, guarda un po’, transita la tangente per Mancini). Né infine appare irrilevante che Iannilli e Mancini abbiano uno stesso referente. Un nome pesante dell’eversione nera. L’ex Nar Massimo Carminati.
Carminati è il convitato di pietra nell’inchiesta sugli appalti Enav. Carminati è garante e referente dei tanti ex camerati che si sono fatti manager capitolini. O di avventurieri come Gennaro Mokbel, altro neofascista che tenta di entrare nel gioco grande di Finmeccanica. Ma Carminati è soprattutto l’uomo che alla fine degli anni ’70 è nella batteria di rapinatori neofascisti guidata da Giuseppe Dimitri (altro ex avanguardista), consigliere politico di Alemanno fino alla sua scomparsa, nella primavera del 2006. Il primo aprile di quell’anno, Alemanno, allora ministro dell’agricoltura, è ai funerali di Dimitri. E, come racconta nel suo libro inchiesta Daniele Autieri («AleMagno Imperatore di Roma»), pronuncia parole che definiscono un programma e un giuramento per una rete. «Ho conosciuto tardi Peppe - esordisce Alemanno - ci siamo intravisti a Rebibbia, quando entrambi eravamo detenuti, ma non ci eravamo praticamente parlati (...). Tutti noi siamo sempre rimasti legati a Peppe. E se siamo qui, ciò significa che ci è venuti a cercare uno a uno. Per parlarci, convincerci. Come sapeva fare lui. E ci è riuscito. Di tutto questo, di questo insegnamento, di questo esempio, gli saremo sempre grati ». Ad ascoltare il futuro sindaco di Roma e ad unirsi al corteo che accompagna il feretro di Dimitri all’esterno della chiesa di santa Maria della Consolazione, sono Francesco Bianco (Alemanno lo assumerà all’Atac), Enzo Piso, oggi deputato e coordinatore del Pdl del Lazio, nonché partecipe della faida che ha spaccato il partito alla Regione (è nel suo ufficio alla Camera che - ha raccontato Fiorito a verbale ai pm di Viterbo - vengono fotocopiate le ricevute che devono devastare la reputazione del consigliere regionale Francesco Battistoni) e, appunto, Riccardo Mancini.
Si capisce dunque il perché delle parole con cui Alemanno oggi minimizza l’annuncio di tempesta che l’inchiesta su Mancini pure promette. I cattivi presagi che agita. Perché se non è detto che l’ex camerata possa diventare il suo “Robin”, come Fiorito è stato il “batman” della Polverini, è altrettanto vero che l’amministratore delegato di “Eur spa” può essere la porta di accesso alla rete “nera”, al Sistema che ha sostenuto Alemanno e che ora lo può soffocare. Intervistato nel maggio del 2011 dal nostro Corrado Zunino per un’inchiesta su “Eur spa”, Mancini ha mostrato, al di là della facile fisiognomica che pure sembrerebbe sovrapporlo a Fiorito, quale diversità ci sia tra l’anima fascista ciociara, tra i “federali al sugo” che si sono mangiati la Regione e il marchio cupo, minaccioso degli ex mazzieri che si sono impadroniti di Roma. «Non mi vergogno del mio passato. Proprio, no - disse Mancini a Repubblica - Io non mi sono dimenticato niente del mio passato. Nulla. Ho avuto dei processi per Avanguardia nazionale, ma tutti chiusi. E in fondo sono di estrazione socialista. Sono per il popolo e sono statalista». A 185 mila euro lordi l’anno, diceva lui allora. A 288.750, ha accertato la Corte dei Conti esaminando il bilancio dell’Ente di cui è amministratore delegato. Dove la generosità sembra di casa. Dove le retribuzioni dei manager sono salite del 25 per cento (da 65 mila a 79 mila) e le assunzioni sono lievitate del 30 (da 85 a 111). Tra loro, collocato nei quadri dirigenziali, anche un ex tabaccaio dell’Eur. Con una sola competenza. E’ un ex camerata.

Repubblica 27.9.12
Le rovine della destra tra i porci senza ali
di Pietrangelo Buttafuoco


Rimane solamente l’inurbamento fesso e festoso dei nuovi arrivati, traviati dalla vanità e caratterizzati dalla parlata romanesca, che ormai tutti riconoscono come la lingua del ridicolo

Beate le fogne, allora. (Ricordate? “Fascisti carogne, tornate nelle fogne”). Ruggiva l’anno 1994 e c’era il primo governo Berlusconi. Osservate la scena: Pinuccio Tatarella, il primo post-fascista a palazzo Chigi, porta dolci a palazzo Taverna. È il luogo dove Italo Bocchino ha trovato il suo nuovo domicilio. Tatarella bussa e Bocchino apre per accogliere l’ospite nel fragore della conquistata rivincita sociale: indossando una giacca da camera tutta foderata di soddisfazioni.
Beate quelle fogne. A Tatarella viene da ridere tanto da non finirla più. Lascia cadere per terra i dolci (erano zeppole di Bari) e si attacca al telefono. Chiama Gianfranco Fini e gli dice: “Altro che arrivare al Governo! È oggi che ho avuto tutto dalla vita: ho visto Italo in giacca da camera”.
Ruggiva sempre l’anno 1994. Nei pressi di quella dimora, a Roma, c’è il Caffè della Pace. I “professionisti della politica” arrivavano tra quei tavoli per fare le ore piccole, tutta una prima Repubblica se n’era appena andata e le cronache riferivano di un cartello dispettoso fatto trovare all’angolo di piazza Navona: “I signori fascisti sono pregati di accomodarsi altrove”. Quando si dice il dettaglio. A pochi passi, c’è il Raphael, l’albergo da dove Bettino Craxi, il 30 aprile dell’anno precedente, era uscito di gran carriera per chiudere la sua epoca. Ripassate a mente la scena: ad attenderlo, tra i fischi e il lancio oltraggioso delle monetine, c’è una folla inferocita. Sono in gran parte attivisti del Msi. Tra loro (e lo ha ricordato lui stesso, quando si dice il dettaglio) c’è Francone Fiorito, l’ex-attuale capogruppo del Pdl al consiglio regionale del Lazio, quello che oggi, più per nemesi che per contrappasso, rischia una pioggia d’ingiurie identica a quella subita a suo tempo dal leader socialista.
E’ tutta una storia di pari e patta (e scalata sociale) quella della destra alla prova del governo. Teodoro Buontempo dormiva in una Cinquecento parcheggiata davanti Villa Borghese: il contrappasso lo vuole fino a ieri assessore alla Casa, ma la nemesi della destra — il punto di non ritorno all’austera regola dei reduci e dei nostalgici — è stata celebrata con un’altra casa, a Montecarlo, sottratta all’eredità del Msi e poi donata a Giancarlo Tulliani, cognato di Fini, l’uomo in Lebole.
Ma la destra fatta cartapesta tra musi di porco e toga party — la destra inu-
tilmente sudata di Renata Polverini — non è affatto una caricatura: è il ritratto più sincero dell’ideologia arci-italiana giunta al suo esito politico. Sarebbe stato meglio se i signori consiglieri regionali del Lazio avessero rubato e basta. Chiudere una stagione politica nella ricotta dei festini, schiantarsi di spocchia burina per restarsene tra loro, nella familiarità di passaggi rusticani un po’ scollacciati, anziché ricacciarli sotto al predellino di Berlusconi li ha rintanati un gradino sopra il Bunga-Bunga.
Beate le fogne lasciate alle spalle di tutti questi destri senza più radici cui attingere. Non più con un Leo Longanesi, che se ne fuggì alla prospettiva di mettersi a capo di un partito politico quando dovette ricevere Franco Maria Servello e si accorse che questi, pur sempre americano nello stile, portava calzini corti: “E dovrei fare la grande destra, i Circoli de Il Borghese, con le mezzecalze? ”. Non più con un Giovanni Ansaldo, “Il Vero Signore”, l’autore del libro sulle Belle Maniere, vero prontuario esistenziale dell’uomo di destra, che a quel mondo di disciplinati e di conservatori impartiva la regola delle regole: “Il vero signore non potrà certo raggiungere la popolarità, che è l’alone caldo, solare, in cui, finché dura, si muove il politico vero; ma potrà raggiungere la considerazione che è un’aureola un po’ fredda, un po’ pallida, con cui però egli lenirà l’amarezza dell’impari gara”.
Un’impari gara con le beate fogne perché qui, a sfogliare l’album fotografico di questa brutta fine toccata alla destra dello Spirito, non c’è parentela col Nerone di Ettore Petrolini, né una bizzarria derivata dal berlusconismo, e neppure più una parodia del Bagaglino: c’è solo l’inurbamento fesso e festoso dei nuovi arrivati traviati dalla vanità (non c’è giornale che, intervistandoli, non debba trascriverne i colloqui in quel romanesco che — si sa — è la lingua del ridicolo. Mai nessuno ha redatto le dichiarazioni di Umberto Bossi in varesotto, e questo, in tema di estetica e politica, qualcosa vuol dire).
Valga per tutti il dettaglio delle ostriche, che se a Fiorito non piacciono (ipse dixit) a tutti gli altri sì. Dopo aver nutrito quell’idea proletaria e sociale che era la radice del Msi, l’attuale ridursi alla crapula è più che un segnale. Insomma, finisce che la moralità e il rigore della politica si riducono ai soli mesi senza la “r”, quando le ostriche non si possono mangiare. Anche se i veri squali si nutrono d’altro.

Repubblica 27.9.12
Maschere
Dalla piramide ai toga party la deriva estetica del potere
di Francesco Merlo


In passato i maiali restavano nascosti, non c’erano le Olgettine ma le avventure di Marina Ripa di Meana, di Marta Marzotto e gli scandali di Valentina Cortese
Anche D’Alema, una volta giunto al governo, ha avuto la sua caduta di gusto. Con le scarpe fatte a mano, la barca a vela esibita e il risotto da Bruno Vespa

Monumento all’avvenenza come Scienza della Politica, Nicole Minetti in bikini sulla passerella della moda è stata la più istruttiva lezione di storia italiana, il riassunto di cinquant’anni di progressiva decomposizione del gusto nazionale. Si tratti di bunga bunga o di suini greco-romaneschi è degenerato e sbrindellato il potere che non è più capace di esprimersi con le volumetrie dell’architettura come la chiesa col barocco e come il fascismo con il monumentalismo di Piacentini che costruiva le case della legge e dell’ordine. Oggi le volumetrie del potere in passerella sono seni rialzati come le mansarde condonate, sono le rotondità levigate come i colonnati finto classici delle villette (abusive) e delle feste (abusive) in costume. Sono patacche che vengono da lontano, dalle forme dello scenografo del craxismo Filippo Panseca che costruì con cartapesta e polistirolo il tempio greco alla Fiera di Rimini, la piramide nella ex Ansaldo, 20 metri di muro di Berlino. La sua ossessione della Romanità e del Rinascimento è ancora quella di Alemanno che adora toghe, bighe, gladiatori e indossa costumi medievali presi al teatro dell’Opera.
Panseca stava a Craxi come Speer a Hitler, ma “con i materiali dell’effimero”, tra i quali anche il titolo di architetto dismesso dai giornali solo quando Craxi cadde nella polvere e Panseca tornò “il geometra”. Oggi è dimenticato come l’enorme garofano rosso illuminato a neon sul monte Pellegrino. Una sua falsa Venere del Tiziano, che stava nella camera da letto di Craxi, fu presa per vera dagli esperti del tribunale. Panseca era già kitsch ma non ancora la cloaca maximache è tornata a galla a Roma. Allo stesso modo, nella Milano da bere, c’era in nuce l’estetica del bunga bunga e dei maiali.
I socialisti portarono in politica, insieme a nani e ballerine, talkshow, barzellette, vignette, pubblicità, mode, canzoni, gossip, esibizionismi, follie, sprechi di ogni genere e cocaina. A Roma si faceva l’alba nella villa di Martelli sull’Appia antica mentre De Michelis si dissipava in discoteca. E Andreotti, per non averli tra i piedi, convocava le riunioni del Consiglio dei ministri alle 7 del mattino. E però alle feste partecipavano anche i grandi stilisti, cantavano la Vanoni e Dalla, c’erano Strehler e la Jonasson, pittori, agenti di cambio e faccendieri. Il cerimoniere non era Craxi “il faraone”, ma Pillitteri “il cognato”: «ma quale sindaco di Milano, quello mio cognato è». Alla Rai non c’erano le veline ma le zarine, famose per le note spese, e poi il mondo dell’editore di Playmen Adelina Tattilo… Giorgio Bocca rievocò una finta caccia alla volpe dai Visconti: «Quali Visconti? Non importa, i Visconti». E le cene ad Arcore non si concludevano nella sala del bunga bunga, ma in giardino tra gli obelischi bianchi di Cascella e nel sacrario famiglia dove Montanelli rifiutò l’assegnazione di una tomba e chissà se è vero che disse «Domine, non sum dignus». Il posto lo ottenne invece Emilio Fede, e chissà se ce l’ha ancora.
I maiali restavano nascosti e non c’erano le Olgettine, ma le avventure di Marina Ripa di Meana, di Marta Marzotto, gli scandali di Valentina Cortese, le chiacchiere attorno a donne che volevano rifare il mondo attraverso la bellezza. Dietro le loro gambe si vedevano la Biennale di Venezia, l’Accademia d’Arte, i poeti, Guttuso che disegnava Lucio Magri in sembianze di scimmione. Neppure Totò aveva previsto il potere maiale tra le puellae che si leccano il muso. La sua malafemmina era ancora la vipera gentile, la maggiorata che fumava mille sigarette mentre Fred faceva il grano col tressette. Oggi non c’è più posto per la Valentina selvaggia e innocente di Crepax nelle feste attorno a Ponte Milvio, che in questi anni a Roma ha preso il posto della vecchia Piazza Euclide dei Parioli: Ponte Milvio è diventato Ponte Silvio.
Nessuno poteva immaginare la maschera di Stato della femmina emancipata dal porno che Berlusconi ha mandato nei parlamenti d’Italia. Lo sguaiato incedere del suo bunga bunga è ormai il modello di tutte le esibizioni del potere. Non c’è dubbio che i maiali, i gladi di plastica e i muscoli flaccidi ripropongono a Roma la stessa sessualità sbracata di Arcore ma senza i titoli di Stato della Minetti, boccone di re Priapo.
Oggi la maschera è quella della democrazia “Fiorito plebea”, un po’ Briatore e un po’ Califano, molto Berlusconi e una spruzzata di Ciarrapico. E però Bossi che festeggia il dio Po e Alemanno che si mette in maschera sul Tevere non sono la cultura popolare di Pasolidi ni né quella di Alberto Sordi ma la sua rimasticatura “piccolo borghese” direbbe il vecchio e saggio Lukàcs (che era un grande borghese). La Roma di Alemanno e della Polverini toglie i veli alla repubblica, smonumentalizza l’ingessatura statuaria dell’Italia, è la democrazia alla vaccinara dell’arraffo. Il vecchio Gava che porgeva l’anello al bacio dei clienti devoti imitava il Papa ed era a sua volta imitato da Mario Merola che cantava «Addnocchiat e vasam sti man» (inginocchiati e baciami le mani). La sceneggiata del potere non era ancora festa.
Quando nacque l’euro solo Roma, con Rutelli sindaco, anziché organizzare convegni di studi sulla moneta come produttore di comunità, si sfrenò in canti e balli in
mezzo ai quali fu intrappolato – può capitare – anche Ciampi, in evidente e crescente disagio, molto diverso dal compiacimento della Polverini tra i porci, ai quali solo la sinistra mise le ali, festeggiando la trasgressione e la liberazione sessuale da ogni stalinismo puritano e bigottismo ecclesiastico.
Ma quando la classe operaia andò in paradiso, anche D’Alema precipitò nell’estetica del potere, con le famose scarpe fatte a mano, la barca, il risotto da Vespa. È un’estetica fatta apposta per le caricature che, in questi anni di “teatraccio”, così lo chiama il nostro grande Filippo Ceccarelli, sempre sono state migliori degli originali. E infatti solo Virginia Raffaele è riuscita a dare dignità umoristica alla Minetti che mai ci riesce da sola. Proprio come la Cortellesi con la Santanché, Fiorello con La Russa, la Guzzanti con D’Alema, Panariello con Briatore e tutti i comici d’Italia con Berlusconi. Nella satira all’italiana, la vittima ha una sola via d’uscita: farsi compare del carnefice. La Minetti che incarna lo stereotipo della Minetti diventerebbe allegria e intelligenza. Ma non accade più. Il modello è ancora Berlusconi, che cacciava dalla Rai tutti quelli che lo prendevano in giro. Il potere italiano, nelle sue varie maschere, è così degradato che non sa prendere le distanze da quel se stesso che le Virginia Raffaele così bene strapazzano.

La Stampa 27.9.12
Intervista
“L’ora di religione? Sbagliato sovvertire la nostra storia”
Il ministro Riccardi: nelle classi più ortodossi che musulmani
di Fabio Martini


ROMA Un radicale cambio nell’impostazione dell’ora di religione? Alla proposta del ministro Francesco Profumo risponde il ministro Andrea Riccardi: non si può ignorare che la stragrande maggioranza degli studenti italiani sceglie volontariamente l’insegnamento della religione cattolica, che il Concordato impedisce svolte unilaterali, ma la strada per andare incontro ai ragazzi che seguono altre confessioni religiose è aperta: quella di rafforzare la sensibilità interculturale delle scuole e dei docenti. Spiega Riccardi: «Solo per fare un esempio: se un insegnante di letteratura spiega una poesia sul vino, deve sapere che sull’argomento i suoi studenti di religione musulmana hanno una sensibilità diversa da quella degli altri ragazzi». Fondatore e leader della Comunità di Sant’Egidio - da anni l’interprete più autentica dello spirito conciliare - da 10 mesi Andrea Riccardi è ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione.
Ogni tanto si ripropone la questione dell’ora di religione: come mai si richiude sempre con un nulla di fatto?
«Ci sono questioni che suscitano periodicamente un interesse, che poi si spegne nell’opinione pubblica perché sono questioni da Guelfi e Ghibellini. L’insegnamento della religione cattolica è una disciplina incardinata nel vecchio e nel nuovo Concordato, un insegnamento che si spiega con la particolare storia del nostro Paese e col legame di tante famiglie e di tanti ragazzi con la fede cattolica. Un insegnamento che incontra un vasto avvalimento da parte degli studenti: lo hanno scelto 6 milioni e 635.000 ragazzi, pari all’89,8%. Oltretutto l’attuale statuto ha mutato il precedente: prima si parlava di esenzione, ora ci sono studenti che decidono di non avvalersene».
Ma oltre al problema di fede, c’è anche una questione culturale, che riguarda tutti gli studenti...
«C’è un’altra realtà: le scuole italiane sono frequentate da studenti di etnie ma anche di confessioni religiose diverse. C’è un fenomeno che non è ancora diventato di coscienza pubblica: la maggior parte degli immigrati sono cristiani ortodossi. Io calcolo che siano più numerosi dei musulmani e probabilmente questa prevalenza c’è anche tra gli studenti. E questo è un grande fatto storico: per la prima volta dai tempi della divisione dell’Impero d’Oriente e d’Occidente, il mondo ortodosso è così forte nel nostro Paese. Oltre alla Chiesa rumena, ci sono i russi, gli ucraini, i moldavi, i figli di stranieri cattolici, come i latino-americani, i polacchi e gli africani. Naturalmente c’è una rilevante componente musulmana, per quanto composita».
Appunto: per i laici e davanti a tutti queste confessioni perché farne prevalre una sola?
«Credo che non dobbiamo sovvertire l’architettura della nostra storia. Ci sono discipline la storia, la geografia, la letteratura - che per loro natura sono interculturali e per il loro insegnamento dobbiamo scommettere sulla sensibilità degli insegnanti e di tutti gli attori sociali».
Perché non affiancare all’attuale insegnamento, un’ora aconfessionale?
«Perché è la scuola in sé che deve diventare uno dei cardini del processo di integrazione: il vero nodo è l’amicizia tra i ragazzi, è lì che scatta la simpatia per la diversità dell’altro. E’ lì che io non considero l’altro un alieno e scoprirlo a 6 anni è molto diverso che farlo a 60».
Ministro, se le chiedessero di correre per diventare sindaco di una città universale come Roma, lei che risponderebbe?
«Roma ha un grande valore simbolico ed è un grande punto di riferimento nel mondo ed è una città nella quale i cittadini vivono bene: questo è un compito per ogni sindaco».

Corriere 27.9.12
Religione, Profumo si corregge «Non voglio cambiare le norme»


ROMA — Non se lo aspettava tanto clamore, il ministro Profumo, per le sue dichiarazioni sull'opportunità di rivedere i programmi di religione. La polemica, partita in sordina venerdì, è scoppiata ieri dopo reiterate dichiarazioni sul tema da parte del ministro. E ieri, in una lettera inviata al filosofo cattolico Giovanni Reale pubblicata da Il Messaggero, il titolare di Viale Trastevere smorza i toni parlando di «valutazioni personali», «interpretazioni fantasiose», «cortocircuiti della cronaca più spicciola».
Ma soprattutto assicura: «non penso certo a cambiare norme o patti, tantomeno a fine legislatura, quando rifletto ad alta voce» su come l'Italia e dunque la scuola italiana possa fare i conti con la mutata realtà.
Parole che dovrebbero rassicurare, soprattutto le alte sfere ecclesiastiche. L'Avvenire, il quotidiano dei vescovi, ieri in un articolo, eloquentemente titolato «Il ministro sbaglia tema», parla di «nuovo fuoco sorprendentemente aperto contro l'insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, cioè statale e paritaria». E rimprovera a Profumo — già al centro di un editoriale per la faccenda del concorso a cattedra — una «sorprendente poca dimestichezza "tecnica" con il tema».
Polemico anche Giuseppe Fioroni, esponente del Pd e cattolico convinto. «Se per evitare di confrontarsi con i danni fatti finora alla scuola italiana dai tagli si butta sempre la palla in tribuna non si risolve nulla» ha ammonito l'ex ministro dell'Istruzione, rivolgendo un invito al suo successore: «Anziché cambiare l'ora di religione, che è materia concordataria, il ministro Profumo deve dare le risorse necessarie a far funzionare l'ora alternativa, che già esiste ma che gli istituti non riescono a rendere operativa». Decisa stroncatura nelle file del Pdl. «Si legga il concordato» suggerisce il senatore Franco Asciutti, capogruppo pdl della commissione Istruzione del Senato, mentre promette barricate Alessandro Bertoldi, presidente nazionale studenti Pdl-Vis studentesca.
Nella lettera a Reale, Profumo chiarisce tuttavia il suo pensiero. Racconta di aver incontrato, visitando tante scuole in tutta Italia, un'Italia multietnica e multiculturale. «Il nostro Paese è al centro di un Mediterraneo in tumultuosa evoluzione politica e spirituale, da sempre crocevia di fedi e popoli, che da qualche tempo cerca un diverso equilibrio tra di esse e tra di essi. Sono dinamiche — scrive il ministro — che ci toccano da vicino, mi sono detto guardando le nuove classi della scuola italiana, dove questo essere crocevia è divenuto infine realtà. Conoscere questo nuovo mondo, e cercare di capirne i processi di trasformazione mi sembra essenziale per i nuovi italiani tanto quanto saper far di conto, saper scrivere nella nostra bellissima lingua, conoscerne una straniera e avere una cultura civica e costituzionale pronta per la cittadinanza».
E questa esigenza — conclude — «non ha nulla a che fare né con un relativismo culturale in spregio alle nostre radici né con la riproposizione di un multiculturalismo così ideologico da essere stato accantonato anche nella civilissima Gran Bretagna dove fu per la prima volta introdotto».

Repubblica 27.9.12
Tutti i nomi di Dio
Viaggio nella scuola elementare romana “Di Donato”. Dove il 75 per cento degli allievi è straniero
E la maggioranza chiede l’esonero dall’ora di religione. Cattolica
di Maria Novella De Luca


La croce è fatta di semi scuri, la mezzaluna è di cartone dorato, e il candelabro a sette braccia brilla nella carta stagnola d’argento. I simboli buddisti sono giallo e arancio, come quelli del tempio cinese che sta poco più in là, ben indicato dalle lanterne rosse.C’èunascuolaaRomadoveDiohamolti nomi e i bambini li sanno tutti. Dove si insegna la religione cattolica ma anche tutte le altre, e poi si fa festa, a Pasqua e per il Capodanno cinese, per la fine del Ramadan e per la nascita di Gesù bambino. Quartiere Esquilino, cuore pulsante e storico della Capitale multietnica, scuola elementare “Di Donato”, plesso “Daniele Manin”. Ottocento alunni dalla materna alla terza media, 75% di scolari immigrati quasi tutti di seconda generazione, 35% di allievi italiani, oltre il 60% di esoneri dall’ora di cattolicesimo “istituzionale”, altissima presenza invece

Bisogna venire qui, in questa ex “scuola ghetto” per stranieri, «da cui le famiglie italiane fuggivano, mentre adesso c’è la fila», ricorda Miriam Iacomini, coordinatrice didattica, per capire come e quanto la polemica sull’ora di religione, la crociata di critiche contro il ministro Profumo che ne ha proposto una (timida) modifica, siano cose e parole lontane dalla vita reale.
Perché l’Italia di Hu, di Massimo, di Pilar, cinesi, filippini, sudamericani, nordafricani, bangladesi, ma anche romeni, ucraini, albanesi, che giocano e corrono nel cortile della loro scuola, è già “multi” - culture, fedi, colori - e il cattolicesimo, visto dalle volte scrostate di questo antico istituto, è soltanto una tra le tante religioni. Racconta Yusra, 11 anni, accanto alla madre Safia, somala: «Sono musulmana, frequento la moschea, ma qui a scuola fin dalle elementari ho avuto amici di tutte le nazionalità e di tutte le religioni. Ho sempre fatto l’ora di “alternativa”, ma ho partecipato ai laboratori: ognuno raccontava le proprie usanze e anche il proprio modo di pregare». E Safia, con il capo coperto, quietamente precisa: «Nel Corano c’è ogni cosa, anche un po’ della Bibbia, dividersi non serve... ». Davanti al cancello donne velate e mamme in sari, genitori italiani e la folta, foltissima e sempre più prospera comunità asiatica dell’Esquilino. «Noi siamo buddisti scandisce sicura la bambina cinese, italiano perfetto e lieve accento romano - ma la mia migliore amica ha fatto la prima comunione, e alla sua festa sono andata anch’io». Integrazione senza barriere. Poi i ragazzini crescono, e può accadere che tutto cambi. Ma per ora è così. Semplicemente. «Questa scuola negli ultimi dieci anni ha subito una metamorfosi positiva», dice con orgoglio Rosaria D’Amico, maestra con la passione ancora intatta per il suo lavoro. «Le famiglie italiane del quartiere avevano paura di portare i loro figli in un istituto con una percentuale di immigrati così alta. Poi hanno iniziato a frequentarci, hanno capito la nostra didattica aperta ad ogni tipo di diversità, hanno visto le attività, dallo sport alla ludoteca, e le iscrizioni sono cresciute di anno in anno. Italiani e non. E forse sarebbe ora di smetterla di parlare di “stranieri”, visto che il 90% degli immigrati che frequentano la nostra scuola è in realtà nato in Italia ».
I piccoli cinesi ad esempio. Che alle 16,30, quando tutti gli altri vanno a giocare, frequentano la loro seconda scuola, in cinese, appunto. «E sono fortissimi, hanno un allenamento formidabile, come quelli che arrivano dal Bangladesh, che parlano tre lingue», aggiunge Rosaria D’Amico. Mescolarsi fa bene. Apre la mente e i cuori. Come pregare, per chi ci crede. Cristo, Allah, Budda: i grandi poster sulle pareti disegnati dai ragazzi ci ricordano che le fedi sono tante, Dio ha più volti e più nomi. «Ognuno nel cuore sa come invocarlo, soprattutto quando sei un bambino», dice Fatiah, musulmana, che però non ha esonerato i suoi figli dall’ora di religione. «Per loro è come una favola, va bene così».
Educazione alla convivenza. Alla “Di Donato” da alcuni anni, l’associazione “Uva”, che vuol dire “Universo L’Altro”, tiene laboratori di storia delle religioni, finanziati attraverso un bando della Tavola Valdese, con i fondi dell’8 per mille. Spiega la presidente Giulia Nardini: «È da questa eterogeneità che nasce la curiosità dei bambini. Ai nostri corsi partecipano tutti, anche chi è esonerato dall’ora di religione cattolica. Noi facciamo un racconto delle varie fedi attraverso i simboli, le feste e le mappe dei luoghi dove queste storie sono nate. E la narrazione li cattura, conquista sia chi in famiglia prega, chi no. La particolarità è che spesso i bambini di questa scuola già sanno a quale religione appartengono i loro compagni. Sono abituati alla diversità». E gli insegnanti di religione? «A volte collaborano, a volte è come se volessero difendere il loro territorio dalla contaminazione».
Invece questa scuola multi-tutto, aperta dal primo mattino alla sera tardi, grazie ad un efficientissimo comitato di genitori, sede di un Ctp, cioè un centro di educazione per adulti, ha fatto della “contaminazione” la propria cifra. Vincente, sembra. Francesca Longo ha due figlie. «Entrambe hanno sempre frequentato l’ora di religione. Per cultura, per curiosità.
Credo sia giusto. Purché, naturalmente, non diventi catechismo ». Aldo è il giovane padre di Paolo, 6 anni, energia incontenibile: «Siamo atei, Paolo non è battezzato e non fa religione. Il ministro Profumo ha ragione: in un mondo globalizzato non si può insegnare ai bambini che esiste soltanto il cattolicesimo. E chi lo critica dovrebbe vedere questa realtà: il miglior amico di mio figlio è di fede islamica, il suo compagno di banco è induista. Il mio sospetto è che la Cei voglia utilizzare l’ora di religione per catechizzare e riportare alla Chiesa i nostri bambini...».
Chissà. Eppure ai più giovani il contatto con il “sacro” piace. Miriam
Iacopini, maestra e coordinatrice didattica: «Poco tempo fa abbiamo fatto un lungo lavoro sulle tre religioni monoteiste, portando i bambini a visitare anche la moschea e la sinagoga. E alle famiglie che avevano esonerati i figli dall’ora di religione abbiamo chiesto un esonero “al contrario”. Un’esperienza entusiasmante. Queste polemiche invece sono inutili. Avete visto la nostra scuola? Cadono i cornicioni, la palestra è inagibile, le finestre sono rotte. Abbiano bisogno di fondi non di dibattiti già vecchi per i bambini di domani...».

Repubblica 27.9.12
Il Dio dei bambini
Se l’ora di religione rimane una trincea
di Mariapia Veladiano


Come si fa a non parlar di Dio a scuola? Far finta che non esista un credere che ha scosso la storia, disegnato le nazioni, spostato i confini, costruito cattedrali e pievi, riempito musei di opere d’arte. E poi ha dato speranza e suscitato l’azione di persone, popoli, per generazioni, ovunque, da sempre. Anche adesso. E poi, certo che è capitato, questo credere si è anche rovesciato in conflitti, ordalie atroci, fanatismi devastanti. E bisogna saperlo perché non capiti più, così si dice sempre, tutti d’accordo. Fin qui d’accordo. Poi comincia la guerra. Su come parlare di questa immensità che si declina in infiniti personalissimi modi di far propria una speranza così assoluta da non potersi quasi dire e che pure si deve dire. La via italiana al parlar di Dio a scuola è limpidamente inesemplare. L’attuale status dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc) è formalmente ineccepibile.
Ha da anni un suo corretto profilo culturale, dei programmi non confessionali che guardano al cristianesimo come fenomeno religioso fondante per la nostra storia e società, ha suoi obiettivi di apprendimento e sta definendo le specifiche competenze in uscita riferite ai diversi ordini di scuola.
Però ha alcuni peccati d’origine che la rendono una disciplina sempre in trincea: nasce da un Concordato (quella del 1984 è stata solo una Revisione del Concordato) internazionale, è disciplina a pieno titolo, ma marginalizzata a livello reale in quanto non entra nell’esame di Stato ed è soggetta a scelta, e marginalizzata anche a livello simbolico, perché la valutazione è fuori dalla pagella.
Poi ci sono i docenti: ora di ruolo per concorso, ma sottoposti all’idoneità dell’ordinario diocesano e però gestiti dallo Stato, privilegiati per alcuni, ma anche crocifissi da una condizione irrimediabilmente anomala che spesso li costringe a programmi molto dipendenti dai desideri degli studenti. A volte eroi a volte fantasisti della didattica.
Ora, a dire che va bene così, magari perché ancora i numeri “tengono” e gli studenti che si avvalgono sono ancora la maggioranza, ci vuol proprio coraggio. Non va bene così anche solo perché decenni di IRC non ci stanno salvando da un analfabetismo religioso impressionante. Chi insegna lettere conosce la disperazione di dover spiegare tutto, ma proprio tutto, ogni volta che in letteratura si ha bisogno di riferirsi alla cultura religiosa: che sia la cacciata dal paradiso terrestre per il primo capitolo del Candido di Voltaire, o la Pentecoste per gli Inni sacri di Manzoni. Gli studenti non sanno enunciare un dogma quando si parla di principio d’autorità nell’Illuminismo, non sanno dire cosa sia un salmo quando si incontrano i versi struggenti di Quasimodo “alle fronde dei salici per voto,/ anche le nostre cetre erano appese,/ oscillavano lievi al triste vento”.
E spesso neppure sanno cosa sia un voto diverso da quello di scuola.
Oggi la scuola è davvero l’ultimo splendido laboratorio della nostra convivenza e l’esperienza religiosa, che per tanti, per la maggior parte di noi, è sì storia, cultura, passato ma anche fondamento e insieme spiraglio di un futuro possibile, deve trovare un posto preservato dalla strumentalizzazione politica, difeso attraverso la sobrietà delle parole e dei toni. Chi crede sa che la fede non ha bisogno dell’IRC, ma del nostro dar ragione della speranza che viviamo, lungo tutto il laico comune costruire insieme i giorni che ci sono dati.
Ai ragazzi a scuola si deve dare la consapevolezza che l’allargarsi dell’umano alla dimensione dello spirito non è un abbaglio, ma una possibilità che moltitudini prima di loro e intorno a loro hanno conosciuto e conoscono. E nella pace possono coltivare.
Un parlar di Dio a scuola che venga dalla vittoria di un malsano accanito combattersi è sempre una sconfitta.

La Stampa 27.9.12
La modernità conservatrice del nuovo Islam
Dietro le Primavere arabe un movimento che non punta tanto sulla religiosità quanto sui valori morali della tradizione
di Olivier Roy


Una raccolta di saggi Arab Society in Revolt. The West’s Mediterranean Challenge è un volume a cura di Cesare Merlini e Olivier Roy, edito da Brookings Institution Press (p 250, $ 28,95). Contiene diversi saggi di esperti sull’evoluzione della società araba. La prefazione è di Strobe Talbott, presidente della Brookings. Roy è professore all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Merlini presiede il Comitato dei garanti dello Iai ed è senior fellow alla Brookings Institution. Pubblichiamo uno stralcio dal capitolo di Roy e un intervento di Cesare Merlini

Esiste un pregiudizio radicato nell’opinione pubblica occidentale secondo il quale non ci può essere processo di democratizzazione nel mondo musulmano se non vi è alcun processo preliminare di secolarizzazione o riforma dell’Islam. Questo è uno dei motivi per cui l’Occidente ha sostenuto dittature di fatto laiche, come in Tunisia, nella speranza che questi regimi avessero un impatto simile a quello del regime kemalista in Turchia: la secolarizzazione forzata dall’alto. Ciò spiega anche la ricerca affannosa di pensatori musulmani «liberali», teologi riformisti e musulmani «moderati». Libri, articoli e conferenze ripetono di continuo le stesse domande retoriche: l’Islam è compatibile con la democrazia, i diritti umani, i diritti delle donne e i valori occidentali? Tuttavia la primavera araba ha avuto luogo al di fuori del dibattito sull’Islam: non si è trattato di un conflitto tra «laici liberali» e «islamisti conservatori». Né l’islamismo né laicità erano all’ordine del giorno dei manifestanti. La questione è sorta soltanto dopo le elezioni.
Quindi il problema non è che la riforma religiosa è un prerequisito per la democratizzazione, né si tratta di una questione di teologia. Il nodo centrale è la religiosità, ossia il modo in cui le persone vivono il proprio rapporto con la religione e il loro modo di vivere la propria fede. Nel corso degli ultimi due decenni un certo numero di studiosi, tra cui l’autore, hanno osservato una trasformazione nella religiosità. Ciò non significa necessariamente che le pratiche religiose siano diventate più flessibili o più superficiali, ma piuttosto vi è stato un processo di atomizzazione della fede e di diversificazione del campo religioso.
L’accento è sul credere di ciascun soggetto, sulla fede individuale e non sull’appartenenza collettiva alla Ummah o comunità dei credenti né sul seguire ciecamente gli Ulema (studiosi musulmani). Questa atomizzazione della fede implica anche la possibilità di scegliere, cambiare, adattarsi e potenzialmente anche accettare altre scelte. Siamo abituati a sentir parlare di «rinascita» in termini religiosi in riferimento alle confessioni neo-protestanti, in particolare negli Stati Uniti. Il fenomeno della rinascita si verifica anche nel mondo musulmano. E quando si parla dei «rinati» si tratta sempre di qualcuno che sta rompendo con la tradizione, che non considera la religione come qualcosa di tradizionale, qualcosa di ereditato dai propri genitori. Per lui o lei la religione rappresenta qualcosa che deve essere protetto dalla tradizione, dalla cultura e dall’inerzia sociale.
Questi nuovi attivisti religiosi hanno provato, nel bene e nel male, a ricostruire la comunità dei fedeli al di fuori degli schemi tradizionali di parentela e dei legami sociali. Per questo la maggior parte di loro sembra essere «fondamentalista», poiché essi sottolineano l’autonomia delle norme religiose dalla cultura dominante. In realtà essi potrebbero anche seguire percorsi più liberali, tra cui la ricerca di una maggior spiritualità. Quindi ciò che appare come un «ritorno» al fondamentalismo è invece una sorta di trasformazione e di atomizzazione della religiosità, un tentativo di ripensare e riformulare le norme religiose in una società moderna. Il paradosso è che alcune forme apparentemente rigoriste di religiosità, come il salafismo, rappresentano un modo di riformulare le norme religiose al di fuori dei limiti della cultura e della tradizione. Paradossalmente questo tipo di revival religioso si basa sugli stessi principi che promuovono forme moderne di cittadinanza in contrasto con una concezione più tradizionale del legame sociale: centralità dell’individuo, scelta e apertura alla diversità.
Esiste un consenso anche tra molti non credenti (almeno in Egitto) circa il fatto che l’Islam sia parte integrante della società, della cultura e della vita politica. Tuttavia, questa centralità si esprime più in termini di identità che di Sharia. Questo è chiaramente il caso della Tunisia, dove il partito Al-Nahda rifiuta l’imposizione della sharia ma insiste sull’identità e sulla cultura islamiche del Paese. Il riferimento all’identità è un modo per alleviare e domare il fenomeno dei rinati, per ricollegarlo a un’identità nazionale e non solo a una comunità di fedeli. A differenza dei salafiti, gli islamisti vogliono ricollegare l’Islam a una società concreta e riconciliarlo con il patriottismo. L’Islam è identità nazionale nello stesso modo in cui il cattolicesimo è stato, fino a poco tempo fa, l’identità nazionale in Italia. E proprio perché si tratta di una questione di identità, esso risulta piuttosto vago e simbolico. Si tratta di un punto di riferimento e non di un sistema giuridico.
Andando oltre all’identità, un altro modo per restituire centralità all’Islam senza creare uno stato islamico è quello di riformulare le norme islamiche all’interno di valori conservatori più universali. Ciò è esattamente quello che sta succedendo in questo momento in riferimento a molte questioni relative alla vita quotidiana, come ad esempio il consumo di alcol. Le giustificazioni delle restrizioni al consumo di alcol sono la salute pubblica, la decenza e l’ordine pubblico e non la Sharia. Tali restrizioni sono più in linea con le normative locali negli Stati Uniti, dallo Utah a New York, che con il divieto che vige in Arabia Saudita. Le leggi che limitano l’uso di alcol possono riguardare il divieto di consumo in luoghi pubblici, l’innalzamento dell’età legale per l’acquisto di alcolici e l’aumento dei dazi. La dura critica alle madri single da parte di Souad Abderrahim, membro dell’Assemblea Costituente tunisina appartenente ad Al-Nahda, è stata espressa in termini di moralità e non in riferimento alla legge religiosa.
È possibile parlare di una modernizzazione conservatrice della vita pubblica che si esprime non nei termini della Sharia bensì in quelli dei valori morali universali, come fanno molti cristiani conservatori. Ciò non significa che non si manifesteranno altri problemi scottanti, come ad esempio quello della minoranza cristiana in Egitto. Per i Fratelli Musulmani non c’è alcun problema circa la tutela di una minoranza religiosa. Essi vedono i cristiani come una sorta di comunità «chiusa», con le proprie regole e il proprio clero, un punto di vista che è condiviso dal clero copto. Ma la nuova generazione di cristiani, musulmani o laici non considera la libertà religiosa come un diritto collettivo di una comunità, bensì come un diritto umano individuale, che implica il diritto di non credere o il diritto di convertirsi, anche dall’Islam al Cristianesimo, cosa che rappresenta un tabù per la maggior parte dei salafiti e degli islamisti.
Traduzione di Silvia Colombo

La Stampa 27.9.12
I giovani del 2011 e i frustrati del 2012
di Cesare Merlini


La tragica guerra civile in atto in Siria e le recenti violente manifestazioni anti-americane in Egitto Libia e Tunisia, oltre che in altre nazioni a prevalenza musulmana, si sono aggiunte ai successi degli islamisti nelle varie consultazioni elettorali intercorse e a ciò che per un tratto apparve come un subdolo colpo di stato dei militari egiziani così da far trarre a diversi osservatori la conclusione che le attese della cosiddetta Primavera Araba potevano considerarsi definitivamente sepolte.
Proprio l’esito delle precedenti un po’ affrettate valutazioni suggerisce di guardare di più al fondo delle cose. Cominciamo col distinguere fra piazze del 2011 e piazze del 2012. Quelle erano piene di giovani (o meno giovani) più coltivati, informati e comunicanti dei loro padri, mossi da una (vaga) aspirazione alla democrazia e alla giustizia e immersi nella dimensione nazionale, dunque non interessati a bruciare bandiere altrui, americane o israeliane. I protagonisti di queste, perlopiù assenti dalle precedenti e invece confusi con gli ultras degli stadi, sono spinti da frustrazioni identitarie e sociali, si muovono in una dimensione pan-islamica e odiano l’Occidente, l’America in particolare, pur sempre attore rilevante nell’area (donde il minor accanimento per le vignette francesi). La schizofrenia è visibile nel fatto che alle stesse ambasciate ora assalite, la gente aveva fatto la coda fino al giorno prima per un visto per gli Usa; o che gli stessi clienti arabi dei McDonald’s locali rispondevano al pollster americano di turno che le Torri Gemelle erano in realtà state abbattute da un complotto dei sionisti e della Cia. E proseguiamo con l’osservazione che la dinamica degli eventi in Nord Africa è stata essenzialmente endogena, scaturita da una profonda trasformazione delle società in contesti politici ingessati e sviluppatasi attraverso un gioco di forze essenzialmente interno (con l’eccezione parziale della Libia, il cui movimento di liberazione dalla dittatura ha avuto bisogno dell’aiuto esterno). In Siria invece, non solo il cambiamento sociale è stato travolto dalle divisioni etniche e settarie, in particolare dall’odio fra sunniti e sciiti, ma gli interessi delle potenze esterne vicine (Arabia Saudita e Turchia da una parte e Iran dall’altra) o lontane (Stati Uniti e Europa da una parte e Russia e Cina dall’altra) hanno distorto il corso degli eventi, a spese delle migliaia di civili che continuano ad essere massacrati. Evidente il contrasto con il limitato spargimento di sangue che ha caratterizzato il rovesciamento dei regimi autoritari da Tunisi al Cairo.
Lo studio realizzato congiuntamente dall’Istituto Affari Internazionali di Roma, dall’Università Europea di Firenze e dalla Brookings Institution di Washington, ora sfociato nell’attualissimo libro sulla Rivolta nella società araba, fu concepito nel 2010, mesi prima che il verduriere tunisino si desse fuoco, scatenando una rivolta rapidamente propagatasi sulle rive Sud del Mediterraneo. Orbene, il duplice assunto che spinse allora gli autori dell’opera a focalizzare l’analisi sull’Africa del Nord fu appunto che lì la tensione fra una società in rapido e profondo mutamento e il quadro politico autoritario era destinata prima o poi a esplodere; e in secondo luogo che il contesto geo-politico regionale avrebbe consentito alla crisi di sfociare nel cambiamento in misura maggiore che ad est del Sinai. Nessuno si attendeva un così immediato precipitare degli eventi, che tuttavia sono venuti a confermare le due premesse.
Il cambiamento ha investito diversi aspetti della vita degli arabi, a cominciare dal sentire religioso, che tante preoccupazioni ha sollevato in Occidente, come osserva Olivier Roy nel suo capitolo, riportato in questa pagina; per continuare con la demografia e le sue conseguenze in materia di emigrazioni, altro tema sensibile da noi, ma anche di declino delle struttura patriarcale della famiglia e dunque della tradizionale autorità politica dall’alto. Confinante con questa è la rivoluzione nel ruolo delle donne, visibile nel forte declino dei tassi di fertilità, per cui oggi le tunisine fanno meno figli delle francesi. Altrettanto privo di precedenti nella storia è l’ingresso dei privati in Internet, ivi aumentato di venti volte fra il 2001 e il 2011, di nuovo con vistose conseguenze, dall’accesso all’informazione in tempo reale al proliferare di decine di migliaia di blog e ai nuovi meccanismi di mobilitazione delle folle.
La conclusioni dello studio sono che chiunque si trovi a gestire il potere sull’altra sponda del Mediterraneo, islamisti compresi, ha a che fare con una diversa realtà sociale, con le sue aspettative di economia e di giustizia, foss’anche minime. I fondamentalisti salafiti possono mettersi di traverso, come la Banda dei Quattro fece in Cina scatenando la Rivoluzione Culturale contro il riformismo di Deng, ma avranno ancor meno successo. Ed è in questa prospettiva che i Paesi occidentali, peraltro fortemente inibiti dalla crisi economico-finanziaria, dovranno utilizzare i ristretti margini di influenza di cui ora dispongono. L’Unione Europea e gli Stati che la compongono appaiono al momento molto al di sotto di questo pur modesto obbiettivo. L’America di Obama invece, pur fra critiche da opposte provenienze, ha saputo usare finora con misura le sue leve.
Quello che gli uni e gli altri devono aver ben presente è che si tratta di un processo più che di una crisi. Il termine Primavera fu preso a prestito da quella di Praga nel 1968. Allora, già nell’estate i tank sovietici avevano schiacciato l’anelito alla libertà e ci vorranno più di vent’anni perché la democrazia rifiorisca. Anche per gli arabi la metamorfosi non è materia di una stagione o due, e nemmeno di un anno o due, ma di una generazione. Speriamo non due.

l’Unità 27.9.12
«Il nuovo realismo sradica il populismo»
Parla Maurizio Ferraris, filosofo teoretico, che risponde ai suoi critici
Una riflessione che parte da lontano: dalla scuola di Pareyson e Vattimo
E che alla fine si è rovesciata nella difesa dell’oggettività del reale. Contro il relativismo e la società dei simulacri
di Bruno Gravagnuolo


DISCUSSIONE LUNARE: ESISTONO OGGETTIVAMENTE LE COSE E IL MONDO? O TUTTO È INTERPRETABILE E MANIPOLABILE? Ma è da millenni che la filosofia ci ritorna, con corollari pratici per nulla innocui. Capita che un filosofo torinese di 56 anni, allievo di Vattimo, si ribelli al maestro, dopo averne condiviso il pensiero (debole). Pensiero libertario che affermava: tutto è interpretazione e non «verità», in virtù della tecnica e della civiltà delle immagini. La ribellione dell’allievo coltivata a lungo tra i libri esplode nel 2011 con la querelle su «il nuovo realismo». Vi si sono accapigliati Vattimo, Severino, Eco, e filosofi di diverse scuole. Il ribelle è Maurizio Ferraris, filosofo a Torino, assertore del «nuovo realismo», che afferma di averlo scoperto quando si è accorto col trionfo di Berlusconi che la civiltà delle immagini e delle interpretazioni era oppressiva e ingannevole. Dunque carne al fuoco politica oltre che teoretica. Sentiamo Ferraris.
Professor Ferraris, non crede che limitarsi a dire che le cose e i fatti esistono «oggettivamente» non ci faccia fare nessun passo avanti, né etico né conoscitivo? «Prendiamo la cosa da un altro verso: non crede che dire che le cose e i fatti non esistono oggettivamente (se vuole può anche aggiungere le virgolette, anche se io non ne vedo il motivo) ci faccia fare dei passi in avanti sotto il profilo etico e conoscitivo? Crede che dire che il bianco è nero, che il mondo è una rappresentazione, o che non c’è niente di oggettivo, nemmeno la Shoah, costituisca un avanzamento morale e un progresso del sapere? Io non lo credo, e penso che non lo creda neanche lei. Senza dimenticare poi che il fatto che le cose e i fatti esistano oggettivamente è vero, e il suo contrario è falso. Mi sembra un argomento non trascurabile. È qui che ha inizio il lavoro della filosofia, che personalmente ho articolato negli ultimi vent’anni analizzando i livelli di realtà degli oggetti naturali, degli oggetti sociali e degli oggetti ideali; discutendo la distinzione tra ontologia ed epistemologia; confrontandomi con la tradizione filosofica e le dottrine contemporanee. Se il realismo si limitasse a dire che i fatti esistono sarebbe una scemenza. E spiace che taluni critici lo riducano a questo, non so se per malizia o per insipienza». Nulla è nell’intelletto che prima non fosse nei sensi, diceva un filosofo a Lei ben noto. Che aggiungeva: sì, a parte lo stesso intelletto. Qualche a-priori dovremmo pure ammetterlo, per articolare concettualmente alcunché. Che obietta?
«Se si riferisce al detto “Nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi, a parte l’intelletto», i filosofi sono due. Tommaso d’Aquino, nel Medio Evo, sosteneva per l’appunto che “nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi”. Quattro secoli dopo, Leibniz, in polemica con gli empiristi, ha aggiunto “sì, a parte lo stesso intelletto”. Voleva dire che non tutto si impara per esperienza, per esempio posso concepire un poligono di mille lati senza averlo mai incontrato nell’esperienza. Non ho niente da obiettare neanche su questo. Morale: sono d’accordo sia con Tommaso, sia con Leibniz. Mi sembrano affermazioni molto ragionevoli, che però non sono pertinenti al dibattito tra realismo e antirealismo, che non riguarda la contrapposizione tra conoscenze apriori e conoscenze aposteriori, bensì lo stabilire se gli oggetti naturali dipendano in qualche modo dai soggetti (come sostengono gli antirealisti) oppure no (come sostengono i realisti, i quali peraltro ammettono tranquillamente che gli oggetti sociali dipendono dai soggetti)».
Crede che gli idealisti moderni Hegel primo fra tutti ritenessero che la realtà fosse un fantasma spirituale e non avesse nulla di oggettivo? Non era quello di Hegel un idealismo oggettivo dove tutto era logico e massimamente oggettivo e razionale, perfettamente conoscibile e senza trascendenza religiosa? Per inciso: quando Umberto Eco afferma con Aristotele che v'è un «senso» nelle cose, lei come reagisce? «Hegel, come Kant, come tanti filosofi dei secoli scorsi, confondeva l’epistemologia (quello che sappiamo) con l’ontologia (quello che c’è). Era probabilmente il risultato del grande e meritevole progresso della scienza moderna: riusciamo a fare delle previsioni attendibili, riusciamo a matematizzare la natura, dunque il mondo si risolve nel sapere. Questa posizione ci trasforma tutti in piccoli fisici e in piccoli chimici, è come se noi, nel rapportarci al mondo, fossimo sempre in un laboratorio, e invece non è così. Se io mi scotto, o se sono depresso, lo sono sia che io sappia tutto di fisiologia, sia che lo ignori completamente. Ed è per questo che, con Eco, con Aristotele, con Gibson, con i gestaltisti, con Husserl, con Hartmann, e con il mondo intero quando non indossa i panni del filosofo trascendentale, affermo che le cose hanno un senso anche indipendentemente dalla nostra attività conoscitiva».
Davvero il realismo empirico può salvarci dalle ideologie e dai populismi e pertanto è intimamente democratico? Non teme lo scientismo e la conversione in dato naturale di relazioni economiche e sociali storicamente determinate, come accade nell’economia liberale e liberista?
«Anche qui mi piacerebbe capovolgere la domanda e chiederle: davvero l’idealismo trascendentale è intimamente democratico e può salvarci dalle ideologie e dai populismi? La domanda suona assurda, quasi comica. E allora perché se capisco bene mi attribuisce una tesi non meno assurda e comica come quella secondo cui il realismo empirico (che per inciso non è affatto la mia posizione, visto che, per esempio, sono realista anche rispetto ai numeri, che non sono oggetti d’esperienza) ci salverebbe dal populismo? Io dico semplicemente che il populismo, come si è visto ad abundantiam, attua il principio secondo cui “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, e sono convinto che su questo punto sarà d’accordo anche Lei, insieme a tanti realisti empirici e idealisti trascendentali che hanno assistito alle cronache degli ultimi vent’anni. Quanto allo scientismo, ho appena spiegato che la confusione tra ontologia ed epistemologia, dunque lo scientismo e il naturalismo, sono un errore molto diffuso nella filosofia
dopo Kant, a cui reagisce il realismo. Perciò quando invito a non confondere gli oggetti sociali con gli oggetti naturali mi impegno proprio a evitare la naturalizzazione di elementi sociali. Non era proprio quello che proponeva Marx quando criticava gli economisti del Settecento?».
Secondo i suoi critici, debolisti, ontologi, metafisici, o post-marxisti, il pensiero è inseparabile dal processo conoscitivo delle cose. Lo era anche per Kant, per il quale l'oggetto andava costruito con le categorie dell'intelletto. Anche Kant stringi stringi era anti-realista?
«La mia posizione realista si fonda proprio sulla tesi secondo cui, confondendo l’essere con il sapere, il trascendentalismo kantiano ha avuto un esito antirealista. Dunque non c’è tanto da stringere: gli antirealisti degli ultimi due secoli derivano da Kant, per il quale “le intuizioni senza concetto sono cieche”, quanto dire che non si possono avere esperienze di oggetti senza averne dei concetti. Il che è problematico e richiede delle distinzioni che Kant non ha fatto: vale per gli oggetti sociali (un tipo di oggetti che Kant non aveva preso in considerazione) ma non per gli oggetti naturali (quelli a cui Kant si riferiva). Certo, se non avessi il concetto di “intervista” non saprei che cosa stiamo facendo in questo momento, ma ciò non significa che per avere mal di testa devo avere il concetto di “emicrania”. Quanto alla prima parte della sua domanda, sinceramente non capisco: poiché sono fermamente convinto del fatto che “il pensiero è comunque inseparabile dal processo conoscitivo”, sono perfettamente d’accordo, su questo punto, con i debolisti, con gli ontologi (che è poi la categoria a cui appartengo) e con tutti gli altri tipi filosofici che Lei menziona, e che non mi risulta mi abbiano mai obiettato nulla del genere. Se poi qualcuno, per avventura, lo avesse fatto, mi permetto educatamente di dirgli che si è sbagliato, e che non troverebbe nei miei libri una sola riga a sostegno di una tesi così stravagante come quella secondo cui si può conoscere senza pensare».

CHI È
Dal debolismo alla lotta contro il mondo ridotto a immagine

Maurizio Ferraris, laureatosi con Gianni Vattimo, insegna filosofia teoretica a Torino. Da vent’anni ha rifiutato il pensiero debole, proponendo una filosofia realista, in libri come «Estetica razionale» (1997), «Il mondo esterno» (2001), «Goodbye Kant» (2004) e «Documentalità» (2009). Nel 2011 ha avviato sui media un ampio dibattito via via estesosi, sulla sua proposta di un «Nuovo realismo». La rassegna di tutta la discussione fin qui svoltasi è consultabile su . Nel marzo di quest’anno ha pubblicato per Laterza «Il Manifesto del nuovo realismo»

Corriere 27.9.12
Ma il realismo non è tutto nuovo
di Luca Taddio


Dentro il Nuovo Realismo ci sono voci diverse, posizioni non sovrapponibili. A differenza di Ferraris, col quale condivido il senso generale del Nuovo Realismo, non ho mai provato l'ebbrezza di una svolta realista. Quel «Nuovo» che accompagna il termine realismo è occasionale: è l'aggettivo usato da Ferraris in un suo intervento a un convegno e poi ripreso per esigenze di divulgazione filosofico-giornalistica.
Ho appreso la fenomenologia da Paolo Bozzi che è stato un inguaribile realista in anni in cui andavano di moda altre posizioni; lo stesso Ferraris ha un forte debito teoretico, oltre che teorico, con il filosofo e psicologo sperimentale goriziano. Severino ha ragione quando nota come un'eccellente sartoria filosofica, quale quella italiana, venga ignorata per inseguire modelli meno originali. Egli ricorda spesso Leopardi e Gentile, ma ci sono casi meno eclatanti, come quello di Bozzi, rimasto ai margini della psicologia perché non allineato agli standard dei convegni internazionali o dei paper scientifici delle università americane. Potrei aggiungere che lo stesso Severino, o meglio la sua opera difficilmente eguagliabile per rigore e originalità, dovrebbe stare sugli scaffali delle librerie di tutto il mondo.
Severino si è mosso per lungo tempo controcorrente: quando uscì Essenza del nichilismo, pochi in Italia parlavano di verità, parola bandita per coloro che volevano occuparsi di filosofia «seriamente». Ma la radicalità del suo discorso si spinge ben oltre gli ultimi decenni del dibattito filosofico. Egli indaga il senso dell'eterno che ci porta al cuore del discorso metafisico, ossia verso l'interpretazione del divenire propria della metafisica occidentale, l'impossibilità che la «cosa» possa diventar altro da sé. Da qui il riferirsi di Severino al principio di identità e di non contraddizione.
Ferraris chiude la sua risposta su «Repubblica» (18 settembre) auspicando un confronto. Il primo richiamo l'abbiamo indicato implicitamente col termine «verità», che ci consente di fare un tratto di strada assieme; il secondo tratto comune può essere dato da quella «metà di secolo», evocata da Severino su «la Lettura», che lo porta ad affermare «un mondo anche senza che appaia questo o quell'individuo empirico». Questo tratto di strada forse è destinato ad interrompersi presto, quando comincia il vero confronto sul significato dell'apparire e della verità, ma qui usciamo dai confini che la divulgazione ci impone. Ancora una volta dobbiamo limitarci a indicare le prime linee fondamentali della contesa teoretica, il senso dell'affermazione del «Tutto». Scrive Severino: «il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente». Qui Severino ci sta indicando il «sentiero del Giorno» che trova inizio ne La struttura originaria (1958, Adelphi 1981), ossia nell'opposizione fondamentale tra essere e nulla.
Contrariamente a quanto dichiarato su questo giornale da Vattimo (21 settembre), ritengo il confronto auspicato da Ferraris sull'«apparire fenomenico» una questione serissima, che investe il significato del trascendentale. Certo, nasce nel segno della distanza, ma può prendere corpo a partire dal senso dell'apparire della cosa e di un mondo: di questo mondo indubitabile sia per noi che per Severino, se pur per ragioni diverse.

Sette del Corsera 27.9.12
E adesso riparliamo dell’Essere
di Peppe Aquaro

qui

La Stampa 27.9.12
“Buddha un filosofo grande come Socrate”
Parla Richard Gombrich che ne ha studiato il pensiero Oggi la sua lezione a Torino Spiritualità
di Alessandra Iadicicco


Il buddhismo è un modo di vivere. Non conosce «eresie», perché conta non la dottrina in cui credi, ma come ti comporti Ognuno crea il proprio karma, secondo la propria condotta di vita. Quindi solo noi siamo responsabili delle nostre azioni

Richard Gombrich parlerà alle 16,30 al Circolo dei Lettori. Tra gli altri protagonisti della giornata Massimo Cacciari, Vito Mancuso, Pino Petruzzelli, Aharon Appelfeld, Enzo Bianchi.
Richard Gombrich è figlio del grande storico dell’arte Ernst. Ha di recente pubblicato Il pensiero del Buddha (Adelphi). Docente di sanscrito per oltre un trentennio all’università di Oxford e oggi presidente del centro di studi buddisti nella stessa città, Richard Gombrich, 75 anni, è tra i più grandi indologi e orientalisti viventi. Figlio di una pianista e del celeberrimo storico dell’arte anglo-austriaco Ernst Gombrich, proviene da una famiglia dell’alta borghesia mitteleuropea di origini ebraiche. Non si è mai «convertito» al buddismo e il suo interesse per le dottrine dell’antico maestro indiano è squisitamente teoretico. Il pensiero del Buddha , è il titolo dell’ultimo libro appena tradotto in Italia da Adelphi (283 pagine, 30 euro) ed è anche l’argomento che affronterà oggi a Torino Spiritualità.

Professore, lei terrà una conferenza su «amore e compassione: i mezzi di salvezza nel pensiero del Buddha». Il buddismo dunque è una religione salvifica o una filosofia?
«Una religione, per definizione, considera insoddisfacente la vita di questo mondo e offre ai suoi adepti un’alternativa da raggiungere in questa o nell’altra vita. I cristiani per esempio possono andare in paradiso dopo morti. Ai buddisti si insegna che condurre una vita moralmente buona e migliorare la propria comprensione può trasformare l’esperienza individuale – e ciò può avvenire solo quando si è vivi. Chi non raggiunga la perfezione morale e spirituale in questa vita dovrà rinascere, più volte, fino a che non vi sia riuscito. Sarebbe dunque assurdo mettere in dubbio che il buddismo è una religione. Ma, come le altre religioni, offre anche vari spunti teorici. Ci sono stati molti grandi pensatori buddisti, fortissimi nell’ambito della logica o dell’epistemologia. I maestri buddisti di meditazione hanno scoperto tecniche adottate nel campo delle neuroscienze o della psicoterapia e oggi ampiamente diffuse in Occidente, per esempio, come antidoto alla depressione acuta. Anzitutto però il buddismo è un modo di vivere. Non conosce “eresie”, perché in fondo ciò che conta non è la dottrina in cui credi, ma come ti comporti».
Nel suo ultimo libro lei però esordisce sostenendo una tesi molto forte: scrive che «Il Buddha fu uno dei pensatori più brillanti e originali di ogni tempo». Lo considera dunque un maître à penser più ancora che una guida o un maestro spirituale?
«Ho scritto questo libro per mostrare la straordinaria potenza, lucidità e fascino del pensiero del Buddha. Vissuto in India nord-orientale nel V secolo a. C., egli fu più o meno contemporaneo di Socrate. Il loro stile e il contesto in cui agirono sono molto diversi, ma entrambi si possono considerare fondatori - lo affermo con assoluta certezza - delle due più grandi tradizioni filosofiche del mondo. Ciò che mi preme dimostrare è che il Buddha fu il primo pensatore indiano pienamente padrone del pensiero concettuale astratto, una conquista precoce e irreversibile».
Le sue idee però non avevano la loro sede nel cielo della metafisica… «No, il Buddha è stato, in primo luogo, un pensatore pragmatico: si riteneva un medico, impegnato a curare i nostri mali. Dunque era concentrato sull’esperienza. Per lui il mondo è ciò che sperimentiamo. Preoccuparsi di ciò che non possiamo sperimentare è inutile e dannoso. Non aveva tempo per la metafisica».
Ma allora, di fronte alla concretezza di un pensiero così empirico, come si spiega la percezione buddista della vanità delle cose di questo mondo?
«In contrapposizione al pensiero brahminico allora egemone, incentrato sul concetto di “essere” che definiva la sostanza dell’universo e della persona, il Buddha fece un grande passo che segnò una svolta rivoluzionaria. Sostenne che tutto ciò che sperimentiamo è impermanente, suscettibile di variazioni. Ciò ha una valenza sia fisica sia mentale: noi stessi, come il nostro mondo, non siamo altro che un insieme di processi».
Un divenire caotico e senza senso?
«Tutt’altro. Ogni esperienza è, per il Buddha, parte di una catena causale, spesso troppo complicata per essere svelata. Niente esiste senza una causa, dunque l’universo non può avere inizio: non c’è un Dio Creatore».
E dov’è allora, nella «religione» buddista, lo spazio per il valore, per la libertà di scelta, per la trasformazione e miglioramento – come diceva lei prima – della nostra esperienza?
«Ogni evento ha una causa, sostiene il Buddha, ma ciò non significa che il mondo sia un sistema deterministico. Le nostre scelte entrano nella catena causale e possono influenzare il nostro modo di essere, il nostro carattere, il cosiddetto “karma”».
È quello che i greci chiamavano ethos? Il fondamento dell’etica?
«Più o meno. Nel buddismo ogni persona è il proprio karma, che può essere eticamente buono, cattivo o neutro. Ognuno crea il proprio karma, secondo la propria condotta di vita, nessun altro può farlo al posto suo. In altre parole, siamo totalmente responsabili delle nostre azioni. È il fondamento della moralità. E dell’egualitarismo: abbiamo tutti le stesse possibilità nel corso del tempo infinito».
Come si inserisce in questo quadro l’esperienza mistica del vuoto, il nirvana?
«Intanto vorrei chiarire che il buddismo - a dispetto di ciò che molti, fraintendendolo, pensano - è l’esatto contrario di un’esperienza mistica. Ciò detto, in un universo tutto fatto di concretezza e buon senso, rientra benissimo l’idea che la morale, l’amore e la compassione ci aiutino a purificare i nostri pensieri e ad eliminare ogni desiderio, odio o confusione, finché la nostra mente non sia calma e appagata. Questo è il nirvana, paragonabile a un fuoco che si spegne».

La Stampa 27.9.12
Anche a San Pietroburgo esisterebbe una Gioconda dipinta (forse) da Leonardo


C’è la Gioconda «originale» di Leonardo, custodita al Louvre di Parigi, la Gioconda giovane , che sarà presentata venerdì a Ginevra e della quale i proprietari sostengono l’autenticità, e ora potrebbe spuntare anche una terza Monna Lisa uscita dalla mano del genio di Vinci, in questo caso caratterizzata dalla presenza di colonne all’interno del dipinto. È quanto sostiene il «leonardista» Silvano Vinceti, tra l’altro al momento a caccia delle spoglie della modella del celebre ritratto nei sotterranei di un ex convento nel centro di Firenze. «Si trova a San Pietroburgo ed appartiene ad un collezionista privato - ha spiegato Vinceti - sono già in corso tutte le perizie e le ricerche del caso per certificare che l’opera è stata realizzata da Leonardo». Vinceti, che spiega di aver avuto modo di ammirare il dipinto, ritiene che possa «avere le carte in regola per essere stato davvero dipinto da Da Vinci». La Gioconda con le colonne potrebbe portare la firma di Leonardo perché, spiega «ha le mani più scure del viso, tratto tipico dello stile del maestro che condividerebbe con l’originale custodito al Louvre».

Corriere 27.9.12
Bohémien, i beat dell'Ottocento
Degas, Van Gogh, Puccini: rigetto e fascinazione per l'arte zingara
di Stefano Montefiori


PARIGI — Barba incolta e pipa in bocca nell'autoritratto del 1846, Gustave Courbet (il pittore dell'Origine del mondo) scrisse pochi anni dopo una specie di «manifesto del bohémien» nella lettera all'amico Francis Wey: «Nella nostra società così civile bisogna che io conduca una vita da selvaggio, bisogna che io mi liberi dei governi. È il popolo a godere delle mie simpatie; devo rivolgermi direttamente a lui, per trarne ispirazione e sostentamento. Ecco perché ho appena dato inizio alla mia nuova, grande vita vagabonda e indipendente del bohémien».
Era fatta: vivere ai margini, preferire l'arte e la libertà alla carriera e al guadagno diventava non solo una scelta o un destino ma un atteggiamento estetico, l'adesione consapevole a un preciso stile di vita. Nasceva una categoria esistenziale e artistica che ha prodotto un po' di ciarpame autoindulgente, tanti capolavori — dalle opere di Puccini e Leoncavallo alle poesie dei «Maledetti», dai Van Gogh ispirati dall'assenzio ai romanzi della beat generation — e una mitologia della bellezza nella trasandatezza genialmente sintetizzata ormai 12 anni fa da David Brooks nella sua formula «bobo» («bourgeois-bohème»): ho i soldi di un ricco e triste borghese, mi agghindo da affascinante zingaro.
Con supremo gesto «bobo», il Grand Palais di Parigi ospita da ieri (e fino al 14 gennaio) una grande mostra dedicata alle «Bohèmes». Il tempio di vetro e acciaio della borghesia trionfante, che nel 1900 accoglieva la prima Esposizione universale, propone un appassionante viaggio nelle tante bohème (ecco spiegato il plurale) che si susseguono in Francia e nel mondo dal Quattrocento a oggi.
La bohème reale, innanzitutto, quella che dà origine al mito, molti secoli prima dei cabaret di Montmartre: nel 1421 nella città di Arras arrivano bizzarri stranieri ai quali viene dato il nome di «Egyptiens», egiziani (in realtà giungono dai Balcani e ancora prima dall'India del Nord, ma quell'appellativo rimane e darà in inglese «Gypsy»). Entrano in Francia grazie a un salvacondotto fornito da Sigismondo, re di Boemia, e per alcune centinaia di anni il termine bohémiens servirà a indicare, in francese, non artisti scapigliati ma il popolo che oggi chiamiamo Rom; tra i più importanti e antichi degli oltre 200 dipinti dell'esposizione, un disegno di Leonardo da Vinci (1493) mostra un signore attorniato da quattro tzigani. I bohémiens sono gli zingari che attraversano l'Europa con le carovane, che non hanno patrimonio né terre, che irritano e attraggono i cittadini con la loro libertà e l'amore per la musica e la danza.
Comincia a crearsi così quello stereotipo romantico dello zingaro, del bohémien pieno di verve e sensualità che produrrà un personaggio come Esmeralda nel romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo (1831).
«Sono rappresentazioni fantasiose — dice il commissario dell'esposizione, Sylvain Amic —, e lo sottolineiamo all'inizio della mostra. I veri bohémiens, i Rom, non assomigliano ai personaggi dipinti dagli artisti successivi. Nei loro confronti oscilliamo continuamente tra fascinazione, repressione e rigetto. Quanto alla vita da bohème, quelli che la vivono veramente non la teorizzano e quelli che la dipingono l'hanno raramente vissuta. Ma al di là dell'artificio, si tratta di un vero mito moderno, che attraversa la musica, il cinema, la letteratura, la fotografia».
Per non parlare del turismo: milioni di persone arrivano ogni anno a Parigi nella speranza di passare almeno qualche giorno e qualche notte secondo i quattro comandamenti della vita da bohème enunciati nel film Moulin Rouge (2001) di Baz Luhrmann: «Libertà, Bellezza, Verità, Amore».
La saldatura tra la bohème reale dei Rom e quella artistica dei giovani parigini arriva a metà Ottocento, quando il giornalista Félix Pyat coglie il mutamento in corso: è finita l'era dei cortigiani di regime, degli artisti che si mettono sotto la protezione del principe o del mecenate. «La mania attuale dei giovani artisti di volere vivere fuori del loro tempo — scrive Pyat —, secondo altre idee e altri costumi, li isola dal mondo, li rende estranei e bizzarri, li mette al di fuori della legge, al bando della società; sono i bohémiens (cioè gli zingari) di oggi».
In Les Roulottes Vincent Van Gogh descrive nel 1888 il campo nomadi di Arles, e risale più o meno alla stessa epoca Chaussures, sorta di incrocio tra una natura morta e un autoritratto, nel quale l'artista dipinge le proprie scarpe sfondate: espressione di povertà — a Van Gogh capitò di dare alcune sue opere in cambio di un po' di caffè — e sogno di un nomadismo bohème. A metà Ottocento lo stile di vita «zingaresco» era talmente alla moda e popolare che le Scene della vita bohème e le vicende del loro autore Henri Murger ispirarono sia Giacomo Puccini sia Leoncavallo: la mostra espone la partitura originale del quarto atto (la morte di Mimì) della Bohème di Puccini, consacrazione definitiva e planetaria di una nozione e uno stile di vita.
Dopo l'epopea di Montmartre e poi di Montparnasse, dei locali «Le Chat Noir», «Le Lapin Agile» e il «Cafè de la Nouvelle Athènes» in place Pigalle, dove Edgar Degas ambienterà il suo L'assenzio, la mostra finisce tristemente, con le fotografie dell'esposizione sull'arte degenerata organizzata da Jospeh Goebbels a Monaco nel 1937.
È il momento in cui i destini dei Rom, i veri, originari bohémiens, e degli artisti, i loro emuli di maniera, tornano a incrociarsi. Come esempio perfetto dell'arte da colpire e cancellare, i nazisti mostrano le opere di Otto Mueller, che tra il 1924 e il 1929 aveva frequentato gli zingari dei Balcani ricavando da quell'esperienza una sorta di manifesto contro la vita cittadina e in favore dello stato di natura. Di lì a poco gli zingari saranno mandati nei campi di concentramento (e circa mezzo milione vi troveranno la morte). «Il 1937 è il momento della condanna di un popolo e della sua rappresentazione — spiega il curatore Amic —. Gli tzigani vengono sterminati, e gli artisti che hanno subito il loro fascino (come Otto Pankok, Emil Nolde, August Sander, László Moholy-Nagy) condannati a non dipingere più».
La bohème sembra a quel punto finita, ma il suo mito è destinato a risorgere oltre Atlantico, nella California degli anni Cinquanta: la ribellione al conformismo, il sogno più o meno velleitario di una vita meno grigia e inquadrata sono motori che non si fermano mai. In Francia i campi dei bohémiens di oggi vengono smantellati, dalla destra di Sarkozy come dalla sinistra di Hollande, ma il Grand Palais dedica agli antenati e ai loro scimmiottatori di immenso talento una delle mostre più importanti dell'autunno: la secolare storia di rigetto e fascinazione continua.

Corriere 27.9.12
La mostra a Roma
Vermeer Nelle stanze interiori Interni e volti con effetto intimità dell'artista idolatrato da Proust Arrivano in Italia otto capolavori
di Edoardo Sassi


Pochissimi quadri e spesso di dimensioni assai ridotte. Eppure la magia che sprigiona da quelle sue minuscole tele, inversamente proporzionale al piccolo formato, ha fatto sì che di lui si dicesse, e si dica ancora, il più grande pittore di tutti i tempi. Tale lo considerava ad esempio Marcel Proust, che ne fece un protagonista della Recherche, idolatrato dai personaggi Swann e Bergotte. E fu la Francia, nell'Ottocento, a riscoprire l'artista dopo un oblio di un paio di secoli.
Da allora la fama dell'olandese Johannes Vermeer (1632-1675) è cresciuta fino a contornarsi di un'aura leggendaria. Scarse a tutt'oggi, e spesso incerte, le notizie sulla sua vita (fu Théophile Thoré-Bürger, nel XIX secolo, a definirlo «la Sfinge di Delft» e non troppo è cambiato da allora). Poche le opere che gli si possono attribuire con assoluta certezza (i curatori di questa mostra ne contano «circa trentasette», ma c'è chi sostiene siano meno, ed è questione a tutt'oggi dibattuta). E meno di venti, nel mondo, i soggetti in possesso di un suo quadro. Nessuno dei quali in Italia.
Ecco spiegato il perché, fin dall'inizio, quando si seppe della mostra «Vermeer, il secolo d'oro dell'arte olandese», inaugurata ieri a Roma presso le Scuderie del Quirinale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a parlare sono stati anche i numeri, da record per il Belpaese. In cento anni di mostre sull'artista, hanno sottolineato gli organizzatori (Azienda speciale Palaexpo e MondoMostre), solo sei rassegne hanno ottenuto più di cinque opere del «genio» in prestito: nel 1935 il Rijksmuseum di Amsterdam, nel 1966 il Mauritshuis dell'Aia, nel 1995 la National Gallery di Washington, nel 2001 il Metropolitan di New York e la National Gallery di Londra, nel 2003 il Prado, nel 2008 il Metropolitan di Tokyo.
Roma va dunque fiera dei suoi otto Vermeer esposti fino al 20 gennaio, grazie a anni di lavoro e a fatiche definite «immani» dai tre curatori della mostra, Arthur K. Wheelock, curatore del settore Northern Baroque Paintings alla National Gallery di Washington, Walter Liedtke, responsabile del comparto European Paintings del Metropolitan di New York, e Sandrina Bandera, soprintendente per il Patrimonio artistico di Milano.
Ma i numeri, compresi i 70 mila visitatori prenotati già prima dell'apertura, o i 662 milioni di valore assicurativo delle opere, non dicono tutto di questa rassegna che non si esaurisce oltretutto col «marchio» vincente di Vermeer. Straordinari e celeberrimi infatti alcuni dei suoi lavori esposti, a partire dalla Stradina in arrivo dal Rijksmuseum che apre il percorso (al suo fianco, unica opera di provenienza italiana, la Veduta del Municipio di Amsterdam di Jan van der Heyden, degli Uffizi, acquistata da Cosimo de' Medici). Ma altrettanto eccezionali per qualità di esecuzione sono alcuni dei 50 quadri del Seicento olandese che affiancano le opere del genio di Delft; tele o tavole dipinte da artisti forse meno universalmente noti di Vermeer al grande pubblico, ma di eccezionale talento. Basterebbero infatti i lavori di Pieter de Hooch (La camera da letto, Ritratto di famiglia in cortile o i Giocatori di carte concessi in prestito da Elisabetta II di Inghilterra) o le due tavole di Gabriel Metsu in arrivo da Dublino a giustificare la visita alle «Scuderie», dove si possono ammirare anche lavori, tra gli altri, di Emanuel de Witte, Carel Fabritius, Nicolaes Maes. Il resto è Vermeer, pur considerate le quasi inevitabili assenze di alcuni tra i suoi più famosi capolavori. Ma tecnica magistrale, realismo permeato di atmosfera fuori dal tempo, aura di mistero e straordinaria abilità nel catturare effetti di luce (che nessuna riproduzione fotografica potrà mai eguagliare) in scene di vita quotidiana, risaltano comunque dalla vista di tre meraviglie assolute: Ragazza con cappello rosso (pur discussa in passato quanto ad autografia), Suonatrice di liuto del Metropolitan, e Giovane donna in piedi al virginale della National di Londra. A completare la lista di quadri del maestro Giovane donna con bicchiere di vino (Herzog Museum, in arrivo il 4 ottobre), Donna seduta al virginale, in collezione privata e poco nota fino al 2004 («largamente accettata», si legge in catalogo), la Santa Prassede ritenuta opera giovanile e tratta da un dipinto di Felice Ficherelli (in mostra a confronto con la tela dell'olandese). Chiude il percorso l'Allegoria della Fede, opera tarda dal Metropolitan di NY.

Corriere 27.9.12
«Sulla mia faccia da perdente il buio di un mondo straniero»
L'unico autoritratto è di spalle, come un voyeur della tela
di Francesca Bonazzoli


Qual è la faccia del perdente? Ho passato lunghe ore, sotto le differenti luci del giorno e della notte, a scrutare ogni mia ruga, a interrogare la linea del naso e la curva delle labbra. Ho passato in rassegna ogni poro del viso con la precisione dei moderni cartografi che riconducono ai millimetri l'immensità delle coste dell'Africa o dell'Asia. Eppure, a nulla mi è servito. In nessuna delle mie cicatrici o delle mie espressioni sono riuscito a individuare con certezza i segni che definiscono la faccia del perdente. Io, però, so di esserlo, proprio perché il mio stesso volto mi sfugge. Se non fosse così, sarei riuscito a ritrarmi come Rembrandt: a lui, in tutti questi anni, lo specchio ha rimandato sempre un volto, a me un vuoto.
Sono nato in una famiglia protestante con il marchio di un nonno falsario e nella laboriosa Olanda questo tipo di infamia non si perdona in fretta. Mi sono convertito al cattolicesimo per sposare Catharina Bolnes, ma non so più se l'ho fatto per amore o per interesse. La sua famiglia era ricca e importante e il matrimonio con lei è stato un salto sociale per il figlio di un oste come me. E tuttavia anche in questo caso ho perso la partita e mi sono ritrovato cittadino di seconda classe in una città protestante dove i cattolici sono tollerati a patto che se ne stiano nell'ombra, nel quartiere di Delft, che quelli cui appartenevo chiamano con un certo disprezzo l'«angolo dei papisti». Sono entrato in quell'angolo e mi ci sono accomodato; sono diventato il confidente, l'interprete e il realizzatore delle tresche di mia suocera, Maria Thins, un carattere autoritario e litigioso, una virago che controlla tutti gli affari di famiglia, smista le eredità, scrive e riscrive testamenti e si presenta in tribunale con la stessa frequenza con cui va al mercato. Ci sarà un motivo per cui questa suocera diffidente ha trovato in me l'unica persona al mondo di sua fiducia! E quale può essere questo motivo se non il fatto che io sono un remissivo, un individuo manipolabile, senza nerbo e carattere? Senza faccia, appunto.
Non posso considerare un successo nemmeno la mia nomina tra i sindaci della gilda di San Luca: dopo l'esplosione del deposito delle polveri che nel 1654 ha causato la morte del grande allievo di Rembrandt, Carel Fabritius, i pittori più dotati hanno cominciato a lasciare la sonnolenta Delft. Se ne sono andati ad Amsterdam o all'Aja, uno dopo l'altro, i vari van Aelst, de Witte, de Hooch... io sono stato una scelta obbligata.
Ho voluto dedicarmi solo alla pittura, ma non sono riuscito a mantenerci la famiglia: i soldi con cui Catharina, io e i quindici figli siamo campati, vengono dalle rendite di Maria Thins.
La verità è che non sono mai stato in grado di dipingere più di due o tre quadri all'anno: troppo poco per poterci vivere. E ogni dipinto mi è costato un'immane fatica. So della facilità di Rubens e di Rembrandt; so che gli artisti veri tengono un altro passo, hanno committenti importanti e che io non so fare un quadro di storia né raccontare le gesta degli dèi: ho dipinto solo mia moglie, le figlie, la cameriera, la mantella gialla bordata di pelliccia di Maria Thins, le piastrelle con i disegni blu che producono qui a Delft, una veduta della città, il tappeto, le carte geografiche che abbiamo in casa.
Sono un inetto. Giorno dopo giorno dentro di me ho elaborato l'idea dell'assenza. Nella stanza dove mi chiudo a dipingere (così dico per giustificare la mia reclusione dal mondo) un perenne stato passivo e meditabondo mi ferma la mano. Ore e ore a osservare un oggetto, a scrutarlo dal vero nei minimi dettagli, per poi finire a dipingerlo sfocato, come se lo vedessi da lontano, nel ricordo. Non sono mai riuscito a trovare la precisione calligrafica, la lucidità di testa e di mano con cui i pittori di successo rendono i loro quadri simili a lacche.
Ogni mia pennellata è meditata cento e cento volte. E quando finalmente il pennello riesce ad attaccare la tela, ha lasciato fuori l'allegria delle taverne, gli aneddoti piccanti, le allusioni erotiche, il vino, i suoni, la passione, la sofferenza. In una parola, la vita. Niente di tutto quello che rende così confidenziale e comprensibile la pittura dei miei colleghi sopravvive alle mie furibonde meditazioni. Dalle fessure della porta mi arrivavano gli strilli dei miei figli, ma io dipingo stanze abitate dai silenzi. Anche i volti delle donne dei miei quadri stanno diventando sempre più idealizzati e astratti e persino gli oggetti si sono trasformati a poco a poco da reali in archetipi. Il mondo esterno, per me, ormai si è ridotto a poche forme. Perché anche io sono un'ombra in un mondo immaginario che esiste solo nella mia testa. Per questo non sono riuscito che a ritrarmi una sola volta: di spalle, in ombra, come un voyeur che guarda la Pittura. Ecco qual è la faccia del perdente: ha la forma delle mie spalle.

Corriere 27.9.12
«Pittore ideale per la classe mercantile Poco colta ma pagava bene la qualità»
Lo storico De Maere «Vermeer nel mezzo di quell'Olanda che abolì il barocco»
di Luigi Offeddu


«Jan Vermeer ha rubato la luce degli dèi e l'ha conservata sotto il suo braccio, in un fornelletto dove scaldava la sua arte».
Aveva 12 anni, Jan De Maere, quando vide per la prima volta in un museo un quadro firmato dal maestro di Delft. Oggi parla 4 lingue, ha 3 lauree prese ad Amsterdam, Bruxelles e Gand (di cui una in neuroscienze applicate alla conoscenza artistica) ed è considerato uno dei massimi esperti fiamminghi sull'«Età d'oro» dell'arte olandese. Una sua lunga intervista-presentazione su Vermeer ha corredato anche il film «I colori della passione» con Charlotte Rampling, e fra pochi giorni sarà a Berlino e a Parigi per parlare del mistero di quelle tele che conquistarono anche il grande sanguinario, Hitler. «Vermeer è un artista universale», concorda De Maere, «ma poteva essere solo olandese e aver vissuto a Delft, in quella particolare epoca, fino al 1675».
Perché?
«Cominciamo dall'Olanda del '500 e dalla sua storia».
Cioè dalla rivolta dei protestanti olandesi contro la Spagna e dallo scontro fra loro e i cattolici?
«Sì. Alla fine del secolo, l'80% dell'elite di Anversa (al Sud, nell'odierno Belgio, ndr) era già emigrata verso Nord. Erano commercianti, imprenditori, in genere ricchi, e artisti. All'inizio andarono verso Delft, che era più vicina, o verso Haarlem, poi ad Amsterdam. Che fiorì economicamente quando vi arrivarono anche gli ebrei spagnoli e portoghesi, espulsi dai loro Paesi. Soprattutto dal 1650 in poi, Anversa decadde e il Nord crebbe».
Ma che c'entra tutto ciò con Vermeer?
«C'entra. Quei mercanti o borghesi trasferitisi a Nord furono i committenti delle sue opere: classe media, mancanza di tradizioni e di una particolare educazione, avevano i soldi ma non l'amore di una cultura classica. Erano molto diversi dai nobili, dai vescovi o dai regnanti che li avevano preceduti».
E dunque chiedevano agli artisti di ritrarre la vita reale, non le regine, le corti o i palazzi?
«Sì, ma esigevano anche un'alta qualità dell'opera. Perciò pagavano. E attenzione: molti di loro erano cattolici, com'erano cattolici Vermeer e i suoi suoceri, e come in parte era rimasta cattolica Delft. E qui c'è un'altra data importante: il 1627, fine della tolleranza protestante verso i cattolici».
Ebbe conseguenze anche per l'arte?
«Sì. Sparirono le chiese con le loro decorazioni, sparirono gli ordini religiosi. L'arte barocca fu proibita. Molte famiglie rimaste cattoliche si costruirono una cappella in casa. Ma fuori prevalse l'austerità protestante: dal 1630, ci si vestì in nero, con il collare bianco. Si dava la massima importanza all'"essere normali", al controllo sociale».
Per esempio?
«Per esempio era scontato non chiudere le tende di casa e mostrare a tutti la propria vita, ancora oggi è così. Bisognava collaborare tutti, nulla andava nascosto. Ricordo ancora, da bambino, che dalle finestre si vedeva sul tavolo di certe case un pollo in ceramica, a ricordare il pasto.»
E Vermeer?
«E Vermeer vive dunque a Delft, una cittadina tranquilla e contemplativa. Ritrae perfettamente la realtà, che però vede con gli occhi della mente. E attraverso la contemplazione raggiunge senza simbolismi una dimensione quasi mistica basata sulla luce, la prospettiva, la meditazione».
Eppure la sua giovinezza non è quella di un mistico.
«No. Vermeer nasce e cresce nella taverna dei genitori, fra gli ubriachi. Sua madre, analfabeta, lo picchia. Quanto a sua suocera, aveva chiesto due volte il divorzio dal marito: caso non proprio comune nell'epoca. I suoi creditori incalzano (mai troppo, però), i clienti mostrano i soldi».
Lottava coi debiti, ma quanto guadagnò dalle sue opere?
«Si pensa fra i 500 e gli 850 fiorini all'anno, una volta e mezzo il guadagno di un buon falegname di allora. Morì a 43 anni, lasciò 25 libri: non certo molti per un artista così. Ma lui trascese la sua condizione, e le attitudini della borghesia del suo tempo. La pittura fu la sua dimensione metafisica».
E a noi cos'ha lasciato?
«La pace e la profonda consolazione che si provano nel contemplare i suoi capolavori. Forse, possiamo solo dire questo: siamo felici che una persona così sia esistita».

Repubblica 27.9.12
Vermeer. Interno olandese con infinito
Ogni cosa è illuminata
Dipinse pochissimi quadri ora una straordinaria mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma ne espone otto con altri fiamminghi del Seicento
di Anna Ottani Cavina


La Ragazza con il cappello rossosta tutta nel palmo di una mano. Una tavoletta di legno di quercia, diciotto centimetri di base, il monogramma sul margine di un arazzo nel fondo: IVM, Johannes Vermeer. Da una stanza, o forse da una scatola prospettica, quella ragazza guarda verso di noi. Viva e sfuggente, vicina ma estranea al tempo che noi conosciamo. La stanza è marcata da due colori a contrasto, il rosso e il blu lapislazzulo. Due colori soffiati di luce, che formano il cappello di porpora e il manto azzurro lucente. Per la fluidità dell’impasto, il rosso, che è un rosso di fiamma, stinge sul volto della fanciulla creando un alone, un’ombra colorata. Pochi granelli di bianco (lumeggiature), lasciati cadere sul pigmento ancora fresco, accendono l’iride, il manto, la bocca. Un ritratto? O invece – scriveva Malraux – un’astrazione sensibile di tutti i volti di donna? Nessuno mai ha dipinto tanto vicino all’intimità.
Questo piccolo capolavoro della National Gallery di Washington, che stava un tempo sul pianoforte del ministro del tesoro americano Andrew W. Mellon, è oggi alle Scuderie del Quirinale per la prima straordinaria esposizione in Italia dedicata a Vermeer (Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese, fino al 20 gennaio 2013, catalogo Skira).
Nonostante gli studi e le microanalisi sulla famiglia, il mercato, la città, riesce sempre difficile, di fronte a Vermeer, cominciare dalla realtà del suo tempo. Anche se questo si dovrebbe fare, perché molto sappiamo di lui dagli anni avventurosi della sua riscoperta. Johannes Vermeer nasce a Delft nel 1632 da famiglia calvinista. Si converte al cattolicesimo per sposare a vent’anni Catharina Bolnes. Lei appartiene a una classe sociale più elevata, gli darà undici figli e, alla morte del pittore a soli 43 anni, scriverà una supplica ai parlamentari d’Olanda confessando il suo disperato bisogno di aiuto e denaro. Di lui, che ebbe una produzione lenta e meditata, si contano oggi meno di quaranta dipinti (8 presenti qui a Roma; una conquista, anche se mancano quadri emblematici), mentre è stata esplorata la mappa affettiva, economica e sociale del milieu olandese, grazie anche agli studi di John Michael Montias, economista di Yale, che ha reperito documenti importanti sulla famiglia, il mercato, il protettore Pieter Claesz van Ruijven. Tutto questo va ricordato perché Vermeer è artista fra i più mitizzati, ed è giusto ancorarlo al suo mondo reale dopo che, sull’onda appassionata dell’indagine di Théophile Thoré-Bürger ( La sfinge di Delft, 1866), tanti si sono lasciati sedurre a occhi chiusi: Théophile Gautier, i Goncourt, Proust, Claudel, perfino van Gogh, che si chiedeva ammirato come potesse Vermeer armonizzare l’azzurro, il giallo limone, il grigio di perla, senza fallire.
Vero, verissimo. Eppure.
Eppure la storia non è così lineare. Perché ogni volta che si cala Vermeer nella serialità della pittura di genere che vanta in Olanda molti nobili artisti – da Carel Fabritius a Gerard Ter Borch a Pieter de Hooch a Gabriel Metsu, anch’essi in mostra alle Scuderie del Quirinale – la sequenza funziona; sembra quello il giusto background su cui proiettare il pittore. Ma questa prassi politicamente corretta non spiega lo scarto, su temi che sono più o meno gli stessi, tra i contemporanei e Vermeer, tra il vero e la sua distillata presenza. Così la mostra di Roma, come la mostra che l’ha preceduta a New York nel 2001 (17 Vermeer, 77 dipinti della scuola di Delft), molto ci dice sull’Olanda del secolo d’oro, su quel mondo borghese che ha scritto la propria storia nella pittura, raffigurandosi vero e “normale” nei luoghi e nelle faccende di sempre. La mostra riafferma l’appartenenza di Vermeer a quel tessuto civile così lontano dalla visione ideale che impronta la nostra cultura italiana, ma niente spiega l’elegiaca, solitaria bellezza della sua Straatje, la Piccola strada di Delft, prestata alla mostra dal museo di Amsterdam.
L’impianto è lo stesso di alcune vedute di Pieter de Hooch, con la differenza che qui, nella stradina di ciottoli che corre lungo le case e i cortili, niente succede sotto il cielo di nuvole lattee, anche se una donna è intenta a cucire e i bimbi giocano sul marciapiede. Niente succede perché le forme hanno perduto la loro ovvietà per scandire la poetica geometria degli spazi.
Gli stipiti sono rigature di luce, le imposte rettangoli colorati e le finestre a rondelle di vetro sono zone d’ombra a contrasto con le strisce calcinate dei muri. Sul rosso dei vecchi mattoni, solcatida un rampicante, emerge un’armatura di bianchi, presagio dei tracciati ortogonali di Mondrian. Un segno forte, che attenua i dettagli e spegne il parlato dei petits maîtres olandesi, il loro descrivere quotidiano e domestico.
Perché Vermeer è apologia del silenzio, spazio che non ha gerarchie, luce pulviscolare che irradia dalle cose. E non si dica, come David Hockney, che il risultato dipende dalla “camera lucida” o da esercizi acrobatici di un’ottica astrusa, che Hockney ha temerariamente descritto in un libro, flirtando con il suo narcisismo (Secret Knowledge, 2001). Vermeer rimane difficile, inattingibile, anche se gli editori regalano sempre nuove ricette (How to paint a Vermeer 2004; The man who made Vermeers 2009).
Inattingibile, se la cosa che più gli somiglia non è la pittura degli interni borghesi ma le cattedrali aniconiche di Emanuel de Witte e di Pieter Saenredam, la diafana trasparenza delle loro navate, dove la luce riscatta le scorie della materia. Il passaggio, mi scuso, è azzardato ma scaturisce da questa mostra ricca e pensata che molto ha investito sulla trama pittorica dell’Olanda del tempo (curatori: Arthur K. Wheelock, Walter Liedtke, Sandrina Bandera, con l’aiuto prezioso di Caterina Cardona). Senza scalfire la luminosa purezza di Johannes Vermeer.

«Per i dieci film in lizza ci sono volute tre votazioni. Alla prima (dove si potevano esprimere tre preferenze ciascuno) erano in testa, accanto ai Taviani, Reality di Matteo Garrone, Bella Addormentata di Marco Bellocchio, Diaz di Daniele Vicari e Gli Equilibristi di Ivano De Matteo»
Corriere 27.9.12
L'Italia sogna gli Oscar con i detenuti dei Taviani
Garrone al ballottaggio, poi il verdetto quasi unanime

di Valerio Cappelli

ROMA — Ultima chiamata per la Grande Mela. Paolo e Vittorio Taviani ieri erano in volo per il Festival di New York, hanno avuto giusto il tempo di esprimere la loro felicità per la candidatura italiana verso le nomination agli Oscar di Cesare deve morire: «Ci stiamo imbarcando e la notizia è davvero un bel buon viaggio. I film che concorrevano erano di autori importanti per il cinema non solo italiano. Il gioco è appena cominciato».
Non c'è stata unanimità, anche se la discussione fra i nove selezionatori italiani è durata poco più di un'ora. Per i dieci film in lizza ci sono volute tre votazioni. Alla prima (dove si potevano esprimere tre preferenze ciascuno) erano in testa, accanto ai Taviani, Reality di Matteo Garrone, Bella Addormentata di Marco Bellocchio, Diaz di Daniele Vicari e Gli Equilibristi di Ivano De Matteo; alla seconda (le preferenze scendevano a una soltanto), i Taviani ne hanno avute 5 e Garrone 1 (la nona è risultata nulla); alla terza, è finita 8 a 1. I motivi che hanno portato a questa decisione: la conquista dell'Orso d'oro berlinese (a Garrone il Gran premio della giuria a Cannes, di prestigio ma non è la Palma d'oro); la parola di Shakespeare (il Giulio Cesare sta dietro la rielaborazione); l'universalità del tema, come sottolinea lo stesso Riccardo Tozzi dell'Anica; il fatto che sia una storia di riscatto, dal momento che i protagonisti sono detenuti di Rebibbia.
Giovanna Taviani ha ospitato al suo Festival di Salina il film di suo padre Paolo: «Era un'edizione all'insegna della resistenza ai tagli della cultura, Cesare deve morire è un film a basso costo, stiamo anche facendo un progetto per portare il cinema dentro le carceri». È la prima volta che i Taviani sono candidati all'Oscar per il migliore film straniero. «Se me l'aspettavo? Ebbene sì», dice Grazia Volpi, produttrice dei due registi. Con lo stesso odore di bucato dei Taviani, ti dice che «ora dobbiamo capire come si fa a sostenere la candidatura. Questo film ha avuto tali dimostrazioni d'amore, al di là del giudizio estetico, che era nell'aria. Ho sentito i Taviani, sono al settimo cielo». Il film è stato venduto in 73 Paesi. Nessuno in Italia voleva distribuirlo, l'intuizione e la fiducia le ha avute Nanni Moretti con la Nuova Sacher. «La cosa che preoccupava era che fosse in bianco e nero e l'argomento diciamo non allegro», dice Volpi.
Era la prima candidatura anche per Carlo Verdone, con Posti in piedi in Paradiso: «Entrare nella selezione mi ha fatto molto piacere, non mi aspettavo nulla e va bene così. I Taviani hanno fatto un esperimento rischioso, azzardato e ben riuscito, sembra un film girato da un giovane, faccio a loro i miei complimenti. È vero il vecchio discorso della commedia penalizzata rispetto al dramma, però la commedia deve fare un gran salto di qualità». I Taviani, Il gemello di Marra, il protagonista di Reality: al cinema è l'ora dei detenuti. «È un periodo in cui il divismo cinematografico non c'è più, ormai le star sono i politici o chi commette un'illegalità e magari è un bell'uomo da portare in tv. Oggi noi del cinema siamo quelli a cui la gente vuole bene. Il pubblico rifiuta sia la risata cretina che storie troppo depressive, forse non sarebbe male tornare a film favolistici alla Frank Capra. Nel futuro sarà importante la storia, non chi prendiamo nel cast».

Sette del Corsera 27.9.12
Nichi Vendola intervistato da Vittorio Zincone

qui

Repubblica 27.9.12
Lo psichiatra Eugenio Borgna affronta, nel suo nuovo saggio, il tema della follia come elemento della vita. E qui racconta anche la sua depressione
Le ombre dell’anima
“Perché tutti debbono imparare a sentirsi fragili”
di Luciana Sica


«Finora non ne avevo mai parlato con nessuno, perché certe cose si tengono dentro, ma anch’io ho attraversato penombre laceranti... La prima esperienza depressiva, l’ho vissuta intorno ai trent’anni. Non era successo niente di particolare, ma all’improvviso la mia sensibilità si è accentuata, alterata. Del resto, la depressione nasce quando vuole: situazioni interiori che fino a un minuto prima riuscivi a contenere, ad armonizzare, a nascondere s’incendiano, si fanno incandescenti... Con certi pazienti non si può lavorare, se non si siano conosciute delle intermittenze depressive. O almeno non è possibile immergersi nel loro dolore. Lo hanno detto altri prima di me, grandi psichiatri come Bleuler o Schneider».
Per chi conosce il suo lavoro, non sorprende più di tanto la “confessione” di Eugenio Borgna, il più grande psichiatra italiano. Ha scritto libri bellissimi su temi sempre uguali e sempre diversi, sull’arcipelago delle emozioni che abitano la nostra vita interiore - come la nostalgia e i sentimenti di colpa, l’inquietudine e la disperazione, l’ansia e i rimpianti, le attese e le speranze, la gioia e la solitudine. Leggendoli, mai una volta che si avverta un distacco emotivo... Oggi Borgna ha 82 anni, seppure con il cuore palpitante di un eterno puer, ma nella stagione basagliana era in trincea, ed è lui che ha smantellato il manicomio femminile di Novara. Primario emerito di Psichiatria all’Ospedale Maggiore di quella città, insegna ancora da libero docente all’università di Milano.
Esce ora il suo nuovo libro e questa volta è del tutto intuitivo coglierne l’essenza drammatica come “qualcosa” che riguarda direttamente l’autore. Il tema è la follia, ma non intesa in senso clinico, nelle manifestazioni esteriori. A metà tra il saggistico e il letterario, qui la follia non mostra il suo volto escluso e diventa piuttosto una grande metafora della condizione umana: nelle derive di profonda sofferenza, ma anche nelle accensioni creative. Con una citazione di Georg Trakl, geniale poeta austriaco, questo libro - particolarmente intenso e struggente - s’intitola Di armonia risuona e di follia (Feltrinelli, pagg. 210, euro 18).
Un bel titolo, ma qual è il soggetto?
«È la vita di ciascuno di noi, quando sia ferita dal dolore, a risuonare di armonia e di follia. La fulminante intuizione di Trakl racchiude il senso del libro, la diversa fondazione conoscitiva, descrittiva, interpretativa della sofferenza. Il mio è un tentativo di cogliere le radici umane della follia, che rifiuta le razionalizzazioni spietate per cui solo la cruda calcolante ragione cartesiana può confrontarsi con il senso della vita e tiene invece conto della crepuscolare legge pascaliana che allude alla presenza del dolore come una fatale compagna del nostro cammino... È una tesi assolutamente insostenibile dire - come ha fatto, ad esempio, Ronald Laing - che solo nella follia c’è vita. Guardarla invece come uno specchio che rimanda anche una faccia diversa del nostro stare al mondo, non presentarla solo come una cascata di sintomi uniformi, automatici, stereotipici che dicono molto in ordine alla diagnosi ma nulla sulle sue sorgenti interiori, è una riflessione che va aldilà di ogni ideologia. Il mio viaggio nell’interiorità respinge radicalmente quella dicotomia che vuole la follia come nonsenso globale, completo, sistematico e la normalità come epifania assoluta di valori e significati».
Per l’ultimo Lacan, “tout le monde délire”. Ma oggi dire che “siamo tutti pazzi” è solo una banalità da chiacchiericcio, un paradosso per tenersi alla larga da ogni imperativo etico... Il suo libro non rischierà anche una lettura del genere?
«Sarebbe una lettura davvero semplificatrice, perché una cosa è dire che “siamo tutti pazzi”, altro è intendere la follia come esperienza ineliminabile della vita, come una dimensione metarazionale che modifica profondamente il rapporto con sé e con gli altri ed è possibile cogliere solo sprofondando da palombari nei mari inquieti dell’angoscia, dell’ansia, della tristezza, della timidezza, della paura, dell’ipersensibilità... La vita può essere tutt’altro che felice, se non è accompagnata dalla ricchezza umana di certe ferite ardenti spesso considerate patologiche, come il segno di qualcosa da normalizzare frettolosamente. Era già san Paolo a scrivere che la debolezza è la nostra forza, ma oggi questa è una verità difficile da accettare: non si concilia con i paradigmi trionfanti
della nostra epoca che ci vede gli uni estranei agli altri, intimoriti e infastiditi dalla fragilità, che pure è una possibilità umana dotata di senso».
“Come se cadesse una stella filante, / Milena, e nessuno la vedesse”... Già la dedica del libro contiene qualcosa di molto intimo. La domanda sarà forse sconveniente, ma chi è Milena?
«Non la trovo sconveniente, è una domanda bellissima. Milena è stata la compagna della mia vita, segnata da una malattia fisica autoimmunitaria che l’ha portata alla morte, dieci anni fa. È stata lei, mia moglie, a dare il senso più profondo al mio vivere, lacerato dal suo male e poi dalla sua scomparsa. Se n’è andata a sessantatré anni, vivendo più a lungo di quanto i migliori ematologi prospettassero... E certo, quando una vita stellare si spegne, somiglia appunto a una stella filante che continua a vivere soltanto nel cuore e nell’immaginazione di chi si è accompagnato a quella vita. Avevo 37 anni quando l’ho conosciuta, la sua terribile malattia non si era ancora manifestata. Da allora la mia partecipazione emozionale alle esperienze del dolore, ma anche della nostalgia e del ricordo, l’identificazione nei destini di quanti soffrono si è accentuata... E oggi che sono immerso in una solitudine infinitamente più acuta e desertica, quello che più temo è il silenzio della memoria».
Cosa l’ha aiutata, cosa l’aiuta?
«Intanto non ho mai preso antidepressivi, che andrebbero prescritti con assai meno patologica frequenza di come viene fatto oggi... Ho usato invece ansiolitici, perché nelle depressioni ci sono anche schegge ansiogene, e quelle sì, vanno controllate. In passato c’era innanzitutto Milena ad aiutarmi con la sua presenza, poi ci sono sempre stati i pazienti, anzi le pazienti, visto che mi sono occupato soprattutto di follie femminili... E poi la musica, io non so proprio vivere senza. Non scriverei, non penserei, forse non mi salverei nemmeno senza la musica».
Cosa ascolta, soprattutto?
«Beethoven, Schubert e con un salto di cent’anni, Gustav Mahler - in comune hanno avuto una disperazione senza fine».
Professore, di recente un titolo di Panorama la definiva “il guru della psichiatria italiana”. Lei si sente così? E chi sono i suoi proseliti?
Borgna ride, finalmente: «L’ho trovata una definizione quanto mai infelice, assurda, intollerabile, quanto mai lontana non dico mille miglia ma astralmente da me. Talmente inconciliabile, talmente inaccettabile...».