domenica 23 settembre 2012

La Stampa 23.9.12
“Indagini aperte su tutti i consiglieri”
La Corte dei Conti chiederà la restituzione del denaro. Il presidente: “Necessario vigilare sulle spese dei partiti”
di Grazia Longo


ROMA Si allarga a macchia d’olio l’inchiesta su sprechi e ammanchi nelle casse del gruppo regionale Pdl del Lazio. Mentre la procura sta verificando le accuse dell’ex tesoriere Franco Fiorito - indagato per peculato - contro i suoi compagni di partito, questi ultimi finiscono anche nel mirino della Corte dei Conti.
Lo scandalo noto come Laziogate, insomma, è destinato ad assumere contorni e dimensioni più ampie e allarmanti (comprese le interviste a pagamento ora nel mirino della procura). E tra gli sviluppi possibili - se non addirittura probabili - c’è la recriminazione del danno erariale.
Tradotto in parole povere significa che chi ha sperperato denaro pubblico dovrà ora restituirlo. La collaborazione tra Procura e Corte dei conti si fa più incalzante, con il controllo incrociato di documenti. Da una parte c’è l’inchiesta della procura ordinaria con al centro, per ora, un unico sospettato - Fiorito, appunto - accusato di aver sottratto denaro pubblico a fini personali. Per ora l’ammanco certo è di 753 mila euro, che potrebbero però lievitare a 3,5 milioni di euro. Dall’altra c’è l’indagine della Corte dei Conti - sempre con l’ausilio della Guardia di finanza - che punta a verificare se davvero c’è stata «una gestione allegra», uno spreco dissennato di soldi pubblici.
Un quadro ai limiti dell’indecenza, su cui interviene anche il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, che definisce una «vergogna» lo spreco di denaro pubblico e «intollerabili» gli abusi sulla gestione dei fondi ai partiti. Pronto a prendere i provvedimenti necessari è il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino. «Non siamo solo preoccupati, ma addirittura addolorati - dichiara - per ciò a cui stiamo assistendo. C’è la necessità del controllo dei bilanci dei partiti e anche di altre spese, dal momento che deve essere chiaro che quando si tratta di soldi pubblici sono necessari controlli e verifiche da parte di un organo esterno, indipendente e autonomo. Tutti gli altri rimedi o meccanismi che si vogliono individuare non rispondono a queste esigenze di fondo». Deciso a fare chiarezza è anche il procuratore regionale della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis: «Lavoreremo con intensità sulle questioni illecite che discendono dai recenti fatti di cronaca». Ma il magistrato critica le modifiche del titolo V della Costituzione, che hanno fornito un sostanziale «semaforo verde» alle illecite gestioni dei fondi da parte delle Regioni. Per assurdo, la Corte dei Conti può chiedere i danni erariali, ma non può esercitare un controllo diretto sulle Regioni. «Non possiamo lamentarci - denuncia De Dominicis pertanto, che l’organizzazione regionale italiana vada alla deriva, con gravi sperperi di denaro pubblico. Comunque, noi faremo il nostro dovere».
E ancora: «Posso assicurare che la vicenda Fiorito, così come molte altre situazioni illecite analoghe, è stata oggetto di esame e di attenzione da parte del sottoscritto, e pertanto è stata aperta una formale istruttoria di indagine volta ad accertare le responsabilità connesse con la vicenda in questione». La spina nel fianco resta, tuttavia, la crisi del sistema regionalistico così come voluto dalla Carta Costituzionale italiana. «A mio avviso conclude De Dominicis - deve essere cambiato il ruolo istituzionale delle Regioni, con un dimagrimento sostanziale delle funzioni e quindi occorre rimettere in discussione la riforma del titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, in virtù della quale sono conseguite situazioni non compatibili con la corretta amministrazione».

il Fatto 23.9.12
A chi non ha votato Bonino
risponde Furio Colombo


Nelle ultime elezioni regionali, che hanno posto fine allo sfascio Marrazzo e dato inizio al disastro Polverini, ho votato (invano) Emma Bonino, candidata del Pd. Mi ricordo delle mille obiezioni. Soprattutto: la Polverini è gradita al Vaticano e la Bonino no. Considerati i precedenti, che vanno da Mussolini a Craxi e giungono fino a Berlusconi, direi che gli elettori dovrebbero raccogliere il segnale: stare alla larga dai candidati col marchio vaticano.
Fiorenzo

IL RICORDO di quei giorni ci dice due o tre cose ancora più gravi. Circolava un grande mormorio di freddezza e dissenso nel Pd, sezione post partito cattolico, con la frase: "la Bonino non rappresenta i nostri valori". Naturalmente questo tipo di affermazione era ben lontano da rappresentare i veri credenti. Ma la forza dirompente dei credenti finti ha sempre avuto la meglio nella vita politica italiana. Pensate a qualcuno che si chiude nella cabina elettorale e vota per i " valori " cristiani della Polverini. Ma è avvenuto. E' avvenuto anche che si inseguissero e ripetessero i rimproveri alla dirigenza del Pd con la promessa che " la prossima volta non ci sarà, non permetteremo che ci ripresenti qualcuno che non ha la nostra sensibilità. " La parola spesso era questa, " sensibilità." E adesso si scopre che Fiorito era i portatori di questa sensibilità, la persona giusta per partecipare al governo della città che ospita la chiesa cattolica. Ed eccoli al lavoro, Fiorito e gli altri, in toga , prosecco e ostriche e signorine di regime e un immenso e volgare spreco di tutto, tempo luogo, danaro, risorse, in una città in cui non sempre i disabili possono accedere agli autobus o agli uffici pubblici. Non dimentichiamo che la Bonino aveva vinto e stravinto a Roma, dove, a quanto pare la “sensibilità” dei cittadini resta vigile nella sorveglianza del rapporto fra fede, chiesa e uso del danaro pubblico. Ma la sua sconfitta nella regione è stata la sconfitta di un Pd scomposto in due anime, una delle quali, quella laica, si inchina facilmente quando comincia a calcolare le infinite ricadute del potere ecclesiastico su vita, carriera e opere di un politico, persino (specialmente) se onesto. Ci saranno altre prove? Per ora non ci resta che essere grati ai Radicali per essersi ricordati ancora una volta di Porta Pia e avere celebrato il 20 settembre la liberazione di Roma. Certo, è solo il simbolo di un grande fatto che, ammettiamolo, è stato del tutto cancellato.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

l’Unità 23.9.12
Lazio sempre peggio. Si voti
Raccolta di firme tra i consiglieri regionali democratici


«Un atto di forte rottura». Lo annuncia il segretario del Pd Lazio Gasbarra spiegando che il partito chiederà ai propri consiglieri di rassegnare le dimissioni, mossa che potrebbe portare alla fine della Giunta. Il presidente della Corte dei Conti Giampaolino: «Fatti gravissimi»
(...)
Ha iniziato Enrico Gasbarra, segretario regionale del Pd, chiedendo ai consiglieri del Pd di dimettersi: «Davanti a una così gigantesca disfatta politica e morale della coalizione che da tre anni governa il Lazio c'è bisogno di un elettroshock, c'è bisogno di dare al Lazio subito un nuovo governo regionale». E poi: «Chiedo ai consiglieri regionali Pd la disponibilità a mettere in atto tutti i gesti e le azioni più concrete per raggiungere l'obiettivo del voto. La particolare fase politica impone ai partiti da una parte e agli eletti dall'altra un' azione straordinaria dentro il Consiglio regionale e fuori, nei territori». «Sono certo conclude Gasbarra che tutto il partito e tutti gli eletti sapranno raccogliere il grido di cambiamento che i cittadini invocano e tutti insieme lavoreremo per tornare al voto». E il capogruppo Esterino Montino: «È necessario un atto di forte rottura: abbiamo avviato la raccolta di firme per le dimissioni dei consiglieri regionali del Pd». È d’accordo Luigi Nieri (Sel): «Subito le verifiche tecnico giuridiche con l'obiettivo di mandare a casa la Polverini».
Se i consiglieri di opposizione si dimetteranno, il consiglio potrebbe funzionare solo con la presenza di tutti i 42 consiglieri rimasti, compresa Renata Polverini. I sei consiglieri dell’Udc assumerebbero un ruolo decisivo di ago della bilancia.

il Fatto 23.9.12
Non dissero no agli sprechi, rivolta contro i consiglieri Pd
I vertici del gruppo regionale del Lazio annunciano le dimissioni. Il capogruppo Montino ammette: “ Non dovevamo prendere tutto quel denaro”
Troppo tardi, la base del partito chiede: “Cosa facevate mentre quelli rubavano?”
di Eduardo Di Blasi


Spiega un consigliere del Pd laziale: “Qui tutto si fa per le preferenze. Tu hai preso 15mila voti e quei 15mila te li devi conservare per la prossima elezione: è quella l’ossessione”. È per questa ossessione che in Consiglio Regionale a Roma siedono, disposti in diversi schieramenti, alcuni grandi signori della preferenza, pressochè inamovibili. È per questa ragione che i soldi pubblici vengono da anni pompati nei territori da cui provengono quelle preferenze, anche scavalcando il ruolo di filtro che dovrebbero in teoria conservare partiti e gruppi politici. Decide chi riesce a “contarsi”.
POI ARRIVA il caso Fiorito, la giostra si rompe, e tutti quelli che vi erano a bordo capiscono che il gioco non può proseguire. Si scende.
Se anche il cardinale Angelo Bagnasco, dalle colonne di Avvenire, guardando ai rimborsi imbarazzanti dei gruppi che sostengono la maggioranza parla di “cosa vergognosa”. Se il presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino usa addirittura una categoria del sentimento dicendosi “addolorato” per il conto di cene e supermarket presentato dalla politica ai cittadini del Lazio (e spiega come la magistratura contabile “non avrebbe potuto scoprirli, perchè alcuni di questi si annidano in organi legislativi rappresentativi che vogliono vantare forme di giurisdizione domestica che non subisce controlli”). Allora è evidente che il lungo giro di giostra deve finire, e che la mozione scarica presentata contro la Polverini, non è sufficiente a una pubblica riabilitazione. Il segretario del Pd La-zio Enrico Gasbarra e il capogruppo Democratico alla Pisana Esterino Montino hanno capito che l’unica strada politica percorribile è annunciare le dimissioni del gruppo regionale.
MONTINO, che è politico di lungo corso, capisce che il “non ci siamo intascati una lira” e le scuse per aver “sbagliato a prendere tutti quei soldi”, non possono apparire sufficienti. La base del partito, e non solo quella (non c’è traccia di sostegno pubblico da parte del Pd nazionale), è infatti preoccupata dal fatto che il proprio gruppo abbia avallato senza fiatare una consistente contribuzione alla politica. Perchè? Perchè, ferma la buona fede, non si potevano scontentare più di tanto i signori delle preferenze presenti anche nel Pd laziale: quei soldi erano per questo utili per la “politica” di tutti i gruppi politici. È l’ossessione delle preferenze a muovere la macchina del consenso.
Poi Fiorito, il crollo e la mossa obbligata, che sarà discussa domani nella direzione del partito regionale convocata appositamente.
Ovviamente il bubbone Fiorito è comparso sul corpaccione molle della maggioranza che sostiene la Polverini, e quindi è logico che il segretario regionale Pd Gasbarra voglia leggere la scelta schock come una messa in mora per la Polverini. Nel chiedere le dimissione del proprio gruppo afferma: “Avanti a una così gigantesca disfatta politica e morale della coalizione che da tre anni governa il Lazio la risposta del centro destra e della presidente Polverini è stata quella di arroccarsi in un bunker. Nonostante le responsabilità siano ben individuate, tutti devono riflettere e tutti sono chiamati al cambiamento”. Gli risponde Montino: “La parola deve tornare ai cittadini, solo così si esce dalla crisi attuale e si da un segnale di forte rinnovamento nella politica regionale. Le priorità oggi sono le dimissioni della Polverini e lo scioglimento del Consiglio regionale. Per farlo è necessario un atto di forte rottura: abbiamo avviato la raccolta di firme per le dimissioni dei consiglieri regionali del Pd”. Per far sciogliere il Consiglio regionale occorre che si dimettano in 36 su 71. Il Pd ne ha 14, l’opposizione tutta 27, 35 se si unisse l’Udc. Per adesso la pistola è scarica.

il Fatto 23.9.12
La base democratica “Ma dove eravate?”


Cari consiglieri regionali del Pd, vi scrivo questa lettera perché non facendo parte della direzione del partito non posso intervenire lunedì e dirvi le stesse cose in faccia (...) Da una settimana avete avuto la possibilità di mandare a casa la destra del Lazio, mandando definitivamente in pezzi il partito di Berlusconi e avviando un processo a catena che avrebbe fatto saltare, come dice lo stesso Berlusconi, Campania e Lombardia. Da una settimana avete preferito tacere (...) Dite di spendere oltre settecentomila euro per i manifesti, ma in questo caso non avete stampato manco un volantino. Davanti al consiglio regionale, venerdì mattina c’erano dieci militanti della Federazione della sinistra a manifestare. Vi scrivo non tanto perché preoccupato della vostra carriera politica, che da questa situazione – magari non ve ne siete accorti – riceverà una mazzata terribile. Ma perché quella che state gettando nel fango è la mia faccia. La mia faccia di militante del Pd che va a parlare con la gente, che apre il circolo, che attacca i manifesti. Vorrei chiedervi cosa vado a dire domani ai cittadini? Che cosa gli vado a dire: beh, ma noi abbiamo usato i fondi per le iniziative politiche, mica per le donnine e le Bmw? Io, noi, quelli che non prendono rimborsi, diarie e indennità, ci mettiamo la faccia tutti i giorni. Non ci meritiamo di sentir dire “abbiamo sbagliato ad accettare quei soldi”. Facile, voi avete fatto il sacrificio di gestire oltre due milioni di euro, noi andiamo a raccontare ai cittadini che ci serve il loro contributo per pagare l’affitto del circolo e per stampare i manifesti. E allora voi avete almeno il dovere di dirci dove stavate. Dove stavate quando l’ufficio di presidenza approvava quel meccanismo nefasto di moltiplicazione dei fondi. Forse il vicepresidente Bruno Astorre era malato? E non se n’è accorto dopo? Era così difficile capire che distribuire 12 milioni di euro in un anno ai gruppi consiliari, per giunta senza alcun meccanismo di controllo, senza nessuna regola, era una cosa scandalosa? Vi informo che la Regione ha chiuso ospedali, non paga i fornitori, taglia i fondi per i trasporti, taglia perfino il buono pasto ai dipendenti. (...) Dire che è tutta colpa di Fiorito non vi laverà la coscienza. Prima di leggerlo sui giornali, avete assunto parenti, fratelli, amanti? (...) Sono stanco di leggere le dichiarazioni di chi si scusa. Sono stanco di leggere “siamo onesti, però abbiamo sbagliato ad accettare quei soldi”. Non capite che non è la vostra la faccia, ma la mia, la nostra?
http://www.sostienecardulli.it  

La Stampa 23.9.12
La mossa del Pd “Dimettiamoci tutti” Ma l’Udc si sfila
Concordata con Bersani. Ma i centristi si smarcano freddi Verdi e Radicali
Mancano le firme necessarie per sciogliere il Consiglio
di Amedeo Lamattina


ROMA Nello scandalo della Regione Lazio il Pd non vuole rimanerci stritolato. «Qui sembra che siamo tutti dei ladri, come in una notte buia in cui tutte le vacche sono nere», sbotta il capogruppo dei Democratici alla Pisana Esterino Montino. Che ha deciso di avviare la raccolta delle firme per le dimissioni dei consiglieri regionali del suo partito. «Spero che l’iniziativa venga accolta da tutti i consiglieri dell’opposizione e da tutti coloro che non sopportano più di assistere inermi alla deriva della Regione Lazio», scrive in una nota Montino, che accusa il centrodestra di avere ridotto la Regione in uno stato comatoso. L’obiettivo del Pd è di costringere la giunta Polverini a dimettersi, portando allo scioglimento del Consiglio.
L’iniziativa di Montino fa seguito all’appello del segretario regionale Enrico Gasbarra ed è stata concordata con Bersani. Una mossa del cavallo che serve ad allontanare dai Democratici ogni sospetto di connivenza con il Pdl. Ha il sapore di un escamotage propagandistico, ben sapendo che ci vorrebbero trentasei firme di dimissionari, cioè la maggioranza più uno dei consiglieri, per provocare lo scioglimento del Consiglio e le elezioni anticipate. Per raggiungere il quorum, a quelle dell’opposizione dovrebbero aggiungersi le firme dei consiglieri Udc, che stanno in maggioranza e non ci pensano proprio.
Dice il capogruppo Udc, Luciano Ciocchetti: «Quella del Pd è una boutade che serve a prendere le distanze da una responsabilità comune, la decisione di aumentare i fondi. Ricordo che un rappresentante del Pd, il consigliere Astorre, è vice dell’ufficio di Presidenza, organo che decide la suddivisione dei fondi. Non mi risulta che si sia mai opposto. Così come non mi risulta - aggiunge Ciocchetti - che nessun gruppo di opposizione li abbia rifiutati. Poi come li abbiano spesi sono affari loro». Il capogruppo Udc precisa che i suoi consiglieri non firmeranno le dimissioni: «Voglio vedere quanti consiglieri del Pd si dimetteranno veramente. Durante le riunioni del Consiglio regionale non riesce a immaginare quanti sono venuti da me a dirmi “resistete! ”, perché nessuno vuole andare a casa».
Molto probabilmente il Pd non riuscirà nel suo intento, anche perché a ogni dimissionario subentrerebbe il primo dei non eletti. Sicuramente potrà dire «noi volevamo mandare a casa i ladri della maggioranza, ma loro ce l’hanno impedito».
Il consigliere regionale Pd Enzo Foschi è stato uno dei primi a chiedere le dimissioni in massa e ammette che nel suo partito ci sia stata una «sottovalutazione» del crescendo di fondi assegnati negli ultimi anni ai gruppi. Aggiunge di avere sollevato la questione all’interno del suo gruppo e di essere rimasto sempre in minoranza, perché bisognava combattere una battaglia politica all’ultimo sangue e ciò richiedeva un’ingente quantità di soldi. «Adesso però siamo di fronte a uno spartiacque e noi non possiamo essere messi nel calderone di chi ha usato quei fondi in maniera illecita. Nel gruppo Pd non c’è l’autocertificazione delle spese, ma dobbiamo rivolgerci a un tesoriere che autorizza e fattura».
I Radicali, che per primi hanno sollevato la questione delle spese facili, sorridono di questa tardiva presa di coscienza del Pd. Il consigliere Giuseppe Rossodivita ricorda che Montino ha pubblicato online il bilancio del suo gruppo solo quando ha subodorato la tempesta, ma «stava zitto quando noi facevamo le denunce». Come dice Pannella, maggioranza e opposizione, indipendentemente dal colore politico, si dividono la torta nella proporzione di 60 e 40.
Non dissimile il ragionamento del leader dei Verdi, Angelo Bonelli, che siede nel Consiglio: «Sul bilancio da approvare noi Verdi abbiamo fatto tre giorni di ostruzionismo, ma sui giornali non è comparso niente, mentre il Pd faceva i suoi giochi nell’ufficio di Presidenza con Bruno Astorri. Non sto dicendo che tra loro ci siano i Fiorito, ma ora non facciano le verginelle».

Repubblica 23.9.12
Il presidente dell’Udc, Buttiglione: non è possibile fare finta di nulla, la governatrice dovrebbe avere la dignità di dimettersi
“Anche noi centristi faremmo bene a andarcene”
di Carmelo Lopapa


ROMA — «La Polverini farebbe bene a lasciare. Non si può far finta di nulla. Credo che abbia sbagliato a restare lì dov’è. Sì, penso questo: avrebbe fatto meglio a dimettersi per la dignità sua e di tutta la politica». Rocco Buttiglione esprime un’idea «personale», tiene a precisare mentre è in movimento tra un convegno e l’altro nel pieno del terremoto politico e giudiziario laziale. Ma è pur sempre l’idea «personale» del presidente Udc, partito che fa parte della giunta e sostiene la Polverini in Regione. E i consiglieri del partito, sostiene ora il professore di filosofia, «farebbero bene a lasciare anche loro».
«Si sentono cose vergognose», tuona il presidente Cei Bagnasco. Onorevole Buttiglione, anche la Chiesa sembra dire basta.
«Il cardinale Bagnasco esprime un giudizio morale. Io do giudizio politico. E dico che
la selezione della classe politica non funziona. Dobbiamo ammetterlo. Perché quello a cui stiamo assistendo non sono fenomeni marginali. Non si può ancora parlare di mele marce all’interno di una classe politica sana ».
Lazio, Lombardia, Campania, che si fa? Le preferenze da voi sponsorizzate hanno permesso l’elezione di quei consiglieri.
«Non si può pensare che da sole le preferenzse siano fattore di moralizzazione. Occorre un rinnovamento della classe politica sulla base di ideali forti. Serve più democrazia nei partiti. Più controlli. Morale e politica non sono la stessa cosa, ma non sono nemmeno slegate».
Se l’inchiesta nel Lazio si allarga? La Polverini può resistere? E quanto?
«Non è possibile far finta di nulla. Dopo una vicenda come questa, chi governa dovrebbe almeno farsi da parte per ripresentarsi
agli elettori. E dire loro: mi volete ancora? »
La Polverini non ha alcuna intenzione di farlo.
«E credo che abbia sbagliato. Un errore. Non bisognerebbe mai dare l’impressione
di essere attaccati alla propria carica. Catone ha scritto una cosa della quale i politici dovrebbero sempre tenere conto: occorre dare prestigio alle cariche che si ricoprono e non cercare di riceverne dalle cariche stesse,
né offuscare quel prestigio in alcun modo».
Il Pd avvia le procedure per le dimissioni dei consiglieri. Quelli Udc, determinanti in maggioranza, che faranno?
«Rispetto l’autonomia e le idee dei nostri esponenti politici locali».
A sentire la governatrice, «lo smarcamento dell’Udc è fantapolitica».
«Io posso dire che se fossi al posto dei nostri consiglieri, mi dimetterei. Ma chi è lì in Consiglio ha tanti elementi di valutazione che io non ho. Non interferisco. Detto questo, l’iniziativa del Pd va meditata, è un modo per reagire. E oggi bisogna quanto mai reagire».
Si è parlato anche di un avvicinamento della Polverini all’Udc.
«A parte quella visita alla festa di Chianciano, grandi segnali non ne ho visti. E va bene così».

il Fatto 23.9.12
I poveri sono matti, cioè onesti
di Furio Colombo


Parlerò di Stati Uniti e di Italia, della loro campagna elettorale quasi finita e della nostra (strana) campagna elettorale appena iniziata e la conclusione sarà: bisogna essere matti per essere poveri. Altrimenti come spiegare il furore, ma anche la fretta, con cui i consiglieri regionali del Lazio, dirigenti e popolo, anziani e matricole, con e senza la toga, e non solo di destra e di potere, si sono buttati sui soldi senza neppure nascondere i conti falsi e le fatture truccate e celebrando pubblicamente la cifra ottenuta, come se non ci fosse altra ragione al mondo per essere eletti e non un minuto da perdere? È strano notare che una squallida vicenda romana, spiega e illustra la calma e autorevole frase di uno dei due candidati alla Presidenza degli Stati Uniti, detta senza imbarazzo, in una sala gremita di sostenitori che evidentemente gradivano. La frase è questa: “Non mi importa niente dei poveri. Io mi occupo di quella parte degli americani che lavora e produce (l'accento è su ‘produce’, e intende l'impresa, ndr). Chi non ha continua a chiedere, e noi non intendiamo dare ciò che spetta ai meritevoli”.
LA FRASE è esemplare. La politica è uno scambio. Tu, produttore di ricchezza, dai a me, e stai certo che riceverai quel che ti spetta in cambio. Con i poveri non c'è niente da scambiare, dunque nulla da dare, dunque è importante per il buon politico non fare il finto buono (tanto le promesse non saranno mantenute perchè impossibili) e stare alla larga. Ma Mitt Romney, il candidato repubblicano accusato di una gaffe che invece è un manifesto privo di pudore ma vero, include un concetto che gli preme sia chiaro: i poveri sono matti. Non si rendono conto che persino Dio ha perso interesse? Il candidato repubblicano porta due prove. Una: vescovi e preti non hanno niente da dire e scendono in piazza solo per aborto ed embrione, mai, da anni ormai, per una persona o un bambino vero. Due: per obbedire alla loro chiesa i poveri voteranno contro se stessi (così chiedono loro tutte le chiese) pur di fermare il demonio impersonato dal presidente in carica che si ostina a occuparsi di persone vere, malate o disabili, e di bambini veri.
Allora perchè tutto questo scandalo, in Italia, per i consiglieri - gladiatori della regione Lazio che funzionano a porchetta, vermentino e pioggia di denaro? Come per Romney, non è cinismo, è afferrare il senso del tempo. Spiega il Nobel Stiglitz che “il Pil (a cui affidiamo il senso delle nostre vite e del nostro futuro, ndr) misura solo attività in cui c'è scambio in danaro senza tenere conto del valore o disvalore per la società” (cito da Stille, su La Repubblica del 21 settembre ). “Per esempio un terremoto suscita un bel balzo di Pil, per i lavori di ricostruzione che seguono. Ma i terremotati non lo sentono come un valore”. Insomma, non c'è verso: ci sono solo due vie d'uscita per i poveri e le loro noiose insistenze.
Mitt Romney ne ha detta una, ignorarli. L'Inps, l'ente di previdenza italiano, ne ha trovata un'altra: multarli. Duecentomila pensionati fra i più poveri hanno ricevuto una lettera che ingiunge loro di restituire, sia pure a rate, una piccolissima “quattordicesima” istituita da Prodi nel 2008 (Prodi è un rigoroso economista ma non crudele e indifferente come i vescovi americani). I conti non tornano per qualche euro in più o in meno. Non ti sognare di farla franca: ti abbiamo individuato e adesso paghi e cosa importa se si tratta di pochi soldi che non cambiano niente. Tanto più che “l'imposta sulle barche di lusso è risultato un flop: incassati solo 24 milioni” (sui 155 calcolati contando le barche, ndr; Il Correre della Sera, 21 settembre).
LA MULTA ai pensionati (ciascuno dovrà restituire 300 euro, indebitamente incassati in un misero giorno di festa adesso dichiarato fuori legge) non sarà molto per l'Inps, ma è moltissimo per i multati e sarà un esempio. Non fingerti furbo se non sei in politica o nell'impresa. I due settori “dialogano per la crescita” perché hanno qualcosa da scambiare. In quest'epoca poco affidabile c'è un signore che si diverte a scrivere, ben nascosto dallo pseudonimo Johannes Buckeler lettere rivelatrici ai giornali, lettere di cose che sa. Nell'ultima, al Corriere della Sera, scrive: “Uno studio del colosso assicurativo Allianz certifica che i cittadini italiani sono i più ricchi del mondo (...) Ma l'ottanta per cento delle tasse sono pagate da lavoratori dipendenti e pensionati che detengono solo il 30 per cento della ricchezza. Il 93 per cento dell'Irpef è pagato dagli stessi lavoratori e pensionati”. I poveri sono matti è il non dimenticato titolo di un libro di Cesare Zavattini che descrive perfettamente l'Italia.
Ascoltando le interviste rubate del TG 3 su ciò che è accaduto al Consiglio regionale di Roma (somme in libertà da spendere come vuoi, la giustificazione politica è stata espressa con la memorabile frase “cazzi nostri”) ti rendi conto che tutti, ma tutti, senza distinzioni di generazione, di parte e di storia politica, più o meno rispondono (alla domanda che implica “ma non poteva rifiutare? ”): “Centomila euro all'anno senza obbligo di ricevute? Non siamo mica matti”. I matti sono i poveri, ovvero i lavoratori, che pagano le tasse, pagano le multe e sono chiamati di tanto in tanto dalla patria a restituire frammenti di minime pensioni.

il Fatto 23.9.12
Napolitano e Monti tacciono
di Antonio Padellaro


Fate schifo”, gridano nei mercati rionali di Roma i pensionati da 480 euro al mese a cui l'Inps chiede di restituire la quattordicesima erroneamente versata, mentre Fiorito-Batman “si mangia i nostri soldi” (31mila euro al mese). “E' la legge, e noi dobbiamo rispettarla”, dicono diligenti i funzionari del presidente Mastrapasqua, lesti a ripristinare la legalità violata con 24 rate da 12 euro l'una (perché non ci va lui a riscuotere?). Guarda caso è la stessa legalità a cui si appella proprio il Fiorito-Batman che da Vespa erutta l'indimenticabile frase: “Ho gestito mole ingenti di denaro ma nel rispetto della legge”. Di quale legge si parla? Di quella del più forte, naturalmente, di quella della giungla che le belve (e i porci) sanno bene adattare ai loro appetiti. Come se niente fosse, scrivemmo rassegnati a proposito dei leader smemorati che di fronte alle ruberie dei Lusi (sobri spuntini di fronte alle fameliche abbuffate dei consiglieri laziali) promisero tagli e diete alla politica ingorda salvo poi rimangiarsi, è il caso di dire, tutto. E anche le finte dimissioni della Polverini (“vere ma sospese”) suscitano più riso che altro, una barzelletta al levar delle mense. Ma alla fine devono avere ragione, loro, i ladri se dalle alte stanze dei severi palazzi nulla si ode, non un sospiro o un gemito. Possibile che tra i suoi tanti moniti Napolitano non ne abbia trovato uno per esprimere lo sdegno degli italiani onesti? Possibile che il professor Monti non possa scendere un attimo dai cieli dell’iperuranio per osservare la miseria in cui versa il Paese che con tanto sussiego governa? Attenti alla collera dei deboli.

La Stampa 23.9.12
Tutto quello che Polverini deve ancora spiegare
“La Regione sarà una casa di vetro”, disse. Ma la gestione è stata finora opaca
di Mattia Feltri


Appena insediata alla presidenza del Lazio, Renata Polverini disse: «Farò della Regione una casa di vetro». La proposta dei radicali della Lista Bonino Pannella di istituire l’Anagrafe pubblica degli eletti e dei nominati è sempre stata respinta e la Giunta non l’ha mai fatta propria. L’Anagrafe avrebbe imposto la pubblicazione dettagliata dei bilanci dei gruppi. Il consigliere radicale Rocco Berardo un giorno si è sentito dire: «Si può fare se togliamo l’obbligo di pubblicazione della rendicontazione delle spese dei consiglieri e dei gruppi». Non è un caso se lo sconquasso è venuto fuori soprattutto per iniziativa radicale. Sono però molte - oltre a questa d’inizio legislatura - le cose dette dalla governatrice nel corso della settimana che non parrebbero del tutto aderenti alla realtà.
Stipendi
«Guadagno meno di un consigliere». È piuttosto strano, perché la Polverini è un consigliere regionale e pertanto prende 8.500 euro, più circa 2.300 perché è presidente della Giunta, più altri 4 mila e 190 che è la cifra fissa (appena dimezzata) a disposizione di ogni consigliere per curare il rapporto eletto/elettore. Quest’ultima voce è destinata a un rapporto più confortevole, dice la legge, fra il consigliere e i cittadini. Ogni consigliere usa i denari come meglio crede. Anche per cene, aperitivi, feste in maschera di maiale. I soldi vengono bonificati al gruppo e il capogruppo li gira ai vari consiglieri, di modo che alla fine la somma sia zero (tanto mi entra, tanto mi esce). Se la Polverini non li ha avuti, se li è intascati uno della Lista Polverini. Se invece li ha avuti, la sua busta paga supera i 15 mila euro.
Fondi ai gruppi/ 1 «Non sapevo di tutti questi soldi ai gruppi. Noi li assegniamo in fondo unico». La parte più mirabolante dello scialacquio laziale riguarda il «funzionamento dei gruppi». Una somma di circa 8 milioni di euro. Qual è la filiera di questo denaro, lo spiega alla Stampa il consigliere radicale Giuseppe Rossodivita: «Il sistema precedente prevedeva che l’assessore al Bilancio ricevesse gli emendamenti dei consiglieri; in pratica ulteriori capitoli di spesa per finanziare l’Associazione Amici del Raviolo o il Club del Triciclo. Era un modo palese di alimentare il potere clientelare dei consiglieri. La Corte costituzionale e il Tar hanno dichiarato illegittimo il sistema. Adesso la somma complessiva viene iscritta nel bilancio del Consiglio e gestita dall’ufficio di presidenza che la distribuisce ai gruppi». Lì viene fuori la cifra media di oltre 100 mila euro l’anno per consigliere. Ora si scopre che alcuni consiglieri li usano per gli Amici del Raviolo e il Club del Triciclo. Il costo dell’intero Consiglio regionale, per il 2011, è di 103 milioni di euro. Li ha proposti l’Ufficio di Presidenza, accettati la Giunta e votati a maggioranza il Consiglio. La Polverini quantomeno sapeva della folle somma di 103 milioni.
Fondi ai gruppi/ 2
Come usare i 103 milioni? Lo si decide formalmente nell’ufficio di presidenza, ma in pratica l’operazione è delegata alla commissione Bilancio. È lì (e qualche volta nella stanza del presidente della Commissione) che si imposta la manovra d’aula, cioè come distribuire i soldi e quanti destinarne al funzionamento dei gruppi (la cifra è ripetutamente aumentata fino agli attuali 8 milioni). Chi c’è nella commissione Bilancio? «Tutti i gruppi, tranne i radicali», dice Rossodivita. E spiega quando si riunisce: «Viene convocata per la mattina o per le 14, ma le sedute sono quasi sempre notturne». Uno dei vicepresidenti della commissione (presieduta dal nostro eroe, Franco Fiorito) è Andrea Bernaudo, ora nel Pdl ma prima nella Lista Polverini. Bernaudo non ha mai spiegato alla Polverini il sistema degli 8 milioni, ossia più di 100 mila euro a consigliere? Non basta. All’impostazione della manovra d’aula in commissione deve essere presente l’assessore al Bilancio, che nell’occasione è Stefano Cetica, predecessore della Polverini alla guida del sindacato Ugl. Insomma, è alla presenza di Cetica che si è devoluto quel mare di quattrini. E Cetica, assessore della Polverini, compagno di sindacato, non le ha detto nulla?
Voto finale
Quattro volte su cinque, la manovra d’aula è stata votata con un sistema analogo alla fiducia parlamentare. E così le singole voci non sono state discusse.
Fatture
Si diceva che gli otto milioni di euro servono ai consiglieri per gli Amici del Raviolo eccetera. Le spese devono essere fatturate. Per fare un solo esempio, c’è una consigliera reatina del Pdl, Lidia Nobili, ha speso 150 mila euro per otto convegni dal titolo «Rieti incontra la Regione». È una cifra abnorme, ma senz’altro Lidia Nobili avrà le fatture. E prima o dopo le tirerà fuori. Ma perché (sempre a parte i radicali) nessuno ha tirato fuori le fatture dei suoi centomila euro? Perché non lo ha fatto nessun gruppo? Perché non lo hanno fatto neanche i consiglieri della Lista Polverini?

Repubblica 23.9.12
Quei fondi moltiplicati per dieci così Renata comprò la pace con il Pdl
Ora ha l’obbligo di recuperarli: può trattenere le indennità
di gianluigi Pellegrino


È STATA abile e furba Renata Polverini a sgusciare (per il momento) da uno dei più grandi scandali che si ricordino sull’abuso e lo sperpero di pubblico denaro, cattivo gusto, tracotanza e spregiudicatezza nell’esercizio del potere.
ABILE la Polverini, ma soltanto per chi non può conoscere i fatti e non ha dimestichezza con le norme. Perché basta mettere in fila i primi e richiamare le seconde per verificare come quel fiume di soldi regalato ai consiglieri, è stato per la Polverini e la sua giunta il toccasana più sicuro per blindare la maggioranza e scongiurare defezioni in un momento in cui era minacciata dalle nuvole nere di faide nel Pdl e da una coalizione zoppicante. Anche le date, come vedremo, ne danno impietosa conferma.
La storia inizia con il tentativo, anche quello abusivo, di recuperare la lista Pdl a Roma che doverosamente era stata esclusa perché bloccata dalla tragicomica rissa interna al partito dove letteralmente si strappavano di mano i fogli delle candidature. Quell’esclusione fece sì che nel nuovo consiglio regionale le liste Pdl e Polverini non riuscivano da sole a garantire la maggioranza necessaria, risultando invece decisivi i voti dell’Udc di Casini, allora ben poco vicino alla Presidente che invece, come ricorderete, era tutta nelle braccia del Cavaliere.
Per uscire da questa morsa dei numeri, se ne provò un’altra: aggiungere tre strapuntini in consiglio, tre consiglieri di cui due della lista Polverini e uno del Pdl in manifesta violazione dello Statuto. Fu necessario anche qui ricorrere ai giudici per scongiurare il nuovo abuso che peraltro sarebbe costato altre manciate di milioni di pubblico denaro. (Peraltro poi l’ineffabile gestione Polverini ha visto bene di garantire comunque il vitalizio anche a quei tre illegittimi soprannumerari) Ma l’espulsione dei tre voti di aiuto metteva di nuovo la Presidente nelle mani esclusive dell’Udc, esponendola vieppiù alle guerre tribali interne al Pdl, che le liti sulla lista di Roma avevano fatto montare.
È qui con plastico tempismo che arriva il fiume di euro scoperto in questi giorni e capace di blindare e tacitare, ben si capisce, qualsiasi maggioranza. Viene fissata per il 15 settembre 2010 l’udienza del Tar per rispedire a casa i tre consiglieri; e proprio il 14 arriva il primo atto della gigantesca operazione che quasi decuplica i fondi straordinari per i consiglieri, per l’intera legislatura, come ieri ha raccontato Repubblica. Niente più fibrillazioni, niente più minacce di defezioni. Guerre e faide quelle sì, ma sempre nell’intesa di farseli fino all’ultimo giorno i cinque anni miliardari, tutti ben saldi su
scranni ormai ricoperti di oro zecchino. Un’assicurazione sulla vita del governo Polverini, che era nato zoppicante.
Se questi sono i fatti di spietata evidenza nel loro sviluppo oggettivo, c’è poi la legge a dirci che anche sul versante tecnico tutto passa per l’approvazione della Presidente e della sua giunta. Invero il controllo sul bilancio e sulla corretta gestione dei capitoli (anche quelli relativi al finanziamento dei gruppi) spetta in ultima analisi proprio alla giunta, all’assessore al Bilancio e infine al Consiglio di cui ovviamente la Polverini è parte essenziale. Ora qui, leggi alla mano, uno degli aspetti più clamorosi dello scandalo, è il carattere del tutto abusivo dei fondi straordinari che si è consentito arrivassero ai consiglieri, in quanto per tutto il 2011 e 2012 non c’è uno straccio, ma nemmeno uno straccio di delibera di assegnazione di quelle cifre spropositate che pure si è permesso di mungere. E appartiene a regole elementari che nessuna somma pubblica possa essere erogata senza l’atto previsto dalla legge che ne disponga l’assegnazione.
Ora, la Presidente è la rappresentante legale della Regione e ne deve tutelare in primo luogo gli interessi economici. Ma non ha nulla obiettato su quelle spese milionarie prive del necessario atto imposto dalla norma e anche ora che è conclamata l’erogazione abusiva ci dice solo di voler fermare il saccheggio (e ci mancherebbe altro) ma non muove un dito per procedere al recupero immediato delle somme abusivamente erogate. Eppure lo può fare agevolmente (questo le chiediamo) rivalendosi sulle laute indennità mensili dei consiglieri ed agendo di urgenza verso i responsabili e i beneficiari, così come la legge pretende anche dall’ultimo amministratore di un condominio che abbia scoperto l’imbroglio. Se lo fa, ed agisce contro i suoi consiglieri a tutela della Regione che governa, ne daremo felicemente atto come cittadini e utenti. Ma se non lo fa, dovremo dire che cade di schianto, come un bluff scoperto, la maschera falsa della sua declamata dissociazione.

l’Unità 23.9.12
Regole e deroghe, la battaglia delle primarie
I renziani attaccano sull’albo
Stumpo: nessun tavolo tra i candidati, decide l’Assemblea
di Andrea Carugati


ROMA Regole delle primarie e tetto dei mandati per i parlamentari. Sono questi i due temi chiave che continuano ad animare la discussione dentro il Pd.
Sul primo fronte torna all’attacco Matteo Renzi, che ieri ha toccato Varese e Bergamo con il suo tour in camper per l’Italia (e si è detto pronto a recuperare «gli elettori leghisti delusi»). A scaldare gli animi è sempre la possibilità, o meno, di rendere pubblici gli elenchi dei votanti ai gazebo, cosa che non va giù allo staff del sindaco fiorentino. «Io ho fiducia in Pier Luigi Bersani e che le regole non saranno cambiate; saranno le regole che il Pd ha sempre usato alle primarie», ha assicurato il sindaco. E al segretario ha mandato a dire: «Caro Bersani, non avere paura di quelli che ti dicono le cose in faccia, ma di chi ti sussurra alle spalle e ti accoltella». La querelle sugli albi dei votanti si risolverà entro il 6 ottobre, quando l’assemblea nazionale del Pd voterà la deroga allo statuto per far correre altri candidati (oltre al leader del partito). Ma non sono previste novità di sostanza: l’elettore che si presenterà ai gazebo non dovrà dichiarare per chi ha votato prima, ma firmare la carta d’intenti del Pd e lasciare i suoi dati. Gli elenchi degli elettori verranno poi pubblicati on line. «È successo così anche alle primarie fiorentine del 2009, quelle vinte da Renzi», ricorda il responsabile organizzazione Nico Stumpo. «Il regolamento di quella consultazione parlava esplicitamente di “albo pubblico degli elettori”». Stumpo spiega anche che le regole non saranno scritte a un tavolo con gli emissari degli altri candidati Pd, come pure aveva chiesto Roberto Reggi, il coordinatore della campagna di Renzi. «Non vedo nessuna necessità di fare un tavolo, la segreteria elaborerà una proposta e poi la sottoporrà al voto dell’assemblea. Ma tutti stiano tranquilli: non vogliamo fare nessun “tagliafuori”».
Una decisione contestata dal trio di candidati Civati-Puppato-Boeri, che ieri si sono riuniti con il deputato Sandro Gozi (anch’egli intenzionato a candidarsi «per la generazione Erasmus») per provare a fare squadra. «All’assemblea del 6 ottobre daremo un segnale di unità e chiarezza», annunciano. La scelta di una candidatura unitaria ancora non è stata presa, ma l’obiettivo della riunione lo sintetizza Civati: «Dobbiamo tentare di mettere insieme tutti quelli che non si riconoscono in Bersani e Renzi».
Intanto, nell’area vicina al segretario si moltiplicano che le voci che chiedono uno stop alle deroghe per i parlamentari che hanno più di 15 anni di mandato alle spalle. È la portavoce del comitato Bersani Alessandra Moretti a dar fuoco alle polveri. Su Twitter, ha auspicato che l’assemblea «elimini le deroghe per chi ha più di tre mandati». Poi ha fatto alcuni nomi, da D’Alema a Veltroni, Bindi e Melandri, e ha spiegato che «dovrebbero avere la sensibilità di fare un passo indietro». Anche il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, bersaniano di ferro, va nella stessa direzione: «Chi ha più di tre mandati non chieda deroghe». Ragionamenti che certo non piacciono a Rosy Bindi, che oggi chiuderà a Milano Marittima la riunione della sua area «Democratici davvero». E scioglierà, a quanto pare, le riserve su una sua possibile candidatura.

l’Unità 23.9.12
Roberto Speranza: «Sì al rinnovamento ma senza etichette. Parliamo dell’Italia»
Il coordinatore della campagna di Bersani:
«Sulle primarie aperte deciderà l’Assemblea ma sarebbe folle far votare gli elettori di destra»


Trentatre anni e un curriculum lungo così. Roberto Speranza, laurea in Scienze politiche, dottorato in Storia dell’Europa del Mediterraneo, specializzazione a Londra e Copenaghen e tanta politica, prima nei Ds, poi nel Pd. Dalla presidenza nazionale della Sinistra giovanile all’incarico di assessore all’Urbanistica al Comune di Potenza e poi a quello di segretario regionale della Basilicata, fino a quando Pier Luigi Bersani l’ha chiamato a coordinare il comitato elettorale per le primarie.
Ha sentito che ha detto Matteo Renzi? Che cambiare la norma per aprire le primarie ad altri candidati del Pd è un dovere di Bersani, quindi nessun ringraziamento. «L’obiettivo delle primarie è quello di riconnettere la politica alla società quindi la decisione di Bersani, che non era dovuta, è giusta e importante. Dimostra generosità nella consapevolezza che viene prima il Paese, poi il partito e solo alla fine il destino personale. In questo il segretario è sicuramente più generoso di molti altri perché avrebbe potuto avvalersi di una norma dello Statuto e invece il 6 ottobre nel corso dell’Assemblea nazionale chiederà ai delegati di cambiarla. E lo farà perché quando dice che viene prima l’Italia lo pensa davvero: se non si capisce questo non si capisce il senso delle primarie».
Renzi chiede un altro atto di generosità: non istituire albi o registri degli elettori. «Questo lo deciderà l’Assemblea ma credo che sarebbe folle consentire agli elettori di centrodestra di scegliere il candidato premier del centrosinistra. Si facessero le loro primarie e lasciassero stare le nostre. Come ha detto Bersani non vogliamo Batman ai gazebo».
Nel Pd ci sono parecchi malumori tra i big sostenitori di Bersani per la scelta di una squadra, la vostra, vicina ai “giovani turchi”. Vi potrà creare dei problemi?
«C’è uno sport abbastanza diffuso in questo dibattito: mettere etichette a tutti. Non penso sia quello di cui ha bisogno il Pd. Noi siamo tre giovani dirigenti di questo partito e stiamo con Bersani perché pensiamo che sia il migliore per guidare una nuova fase dell’Italia. Un grande partito come il nostro deve saper valorizzare il pluralismo interno, il Pd è fatto di storie e culture politiche diverse e ciascuna di queste è un valore. Quando Bersani è venuto per la prima volta a Potenza, nel 2010, prima di accompagnarlo sul palco l’ho portato a fare visita a Emilio Colombo: questo è il mio modo di fare politica e come segretario regionale non ho mai lavorato per spaccare, ma per tenere tutti dentro il partito. Non ci stiamo a finire imbrigliati in questa etichettatura che molto spesso è più che altro giornalistica»
Anche i malumori provocati dall’invito, seppur gentile, della sua collega Alessandra Morelli ai big, di fare un passo indietro sono una lettura giornalistica? «Facciamo chiarezza anche su questo. Il garante del rinnovamento, che è necessario, è Bersani e il fatto che investa su di noi significa che nel partito la ruota gira, come dimostrano i tantissimi giovani segretari regionali e dirigenti. Noi non siamo per la caccia all’uomo, pur chiedendo il rinnovamento, ma nel reciproco rispetto. Rispetto soprattutto per quelle figure che hanno fatto il Pd, che hanno rappresentato e rappresentano in prima linea il nostro partito e le istituzioni».
Cosa vi distinguerà in questa campagna elettorale? Uno slogan, parole chiave o che altro?
«Ci distingueremo perché parleremo dell’Italia e dei problemi da risolvere, racconteremo l’idea di Paese che Bersani rappresenta perché queste sono le primarie per scegliere il candidato premier e non il segretario di partito».
Di là c’è “Adesso!”. Avrete anche voi un tratto distintivo...
«Non dobbiamo vendere un prodotto sconosciuto o esotico, dobbiamo convincere gli italiani a dare fiducia ad una persona in grado di prendere il posto di Mario Monti, di sedersi con Obama e Hollande. E per Bersani parla la sua storia, la sua autorevolezza».
Neanche un spin doctor?
«Non credo che lo voglia, Bersani è fatto così. E sono sicuro che non farà promesse che non potranno essere mantenute, ne abbiamo sentite troppe negli ultimi anni»
Si riferisce a Berlusconi ma anche a Renzi che promette 100 euro di tasse in meno? «Ripeto: il Pd, tutto il Pd, farebbe bene a non fare annunci irrealizzabili».

Corriere 23.9.12
Delrio chiede al governo un decreto «pro Matteo»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ormai nel Pd nessuno dubita più che Matteo Renzi punti non a partecipare alle primarie, ma a vincerle. Il suo obiettivo non è quello di arrivare a un patto di spartizione con Bersani. «Stiamo imponendo l'agenda. Stiamo cambiando per sempre questo partito», ha confidato l'altro giorno il sindaco di Firenze a un amico. E questo, temono in molti nella nomenklatura del Pd, è talmente vero che anche se Renzi perdesse, a questo punto sarebbe difficile riproporre in prima fila le stesse facce di sempre. Insomma, Renzi fa sul serio e a largo del Nazareno se ne sono accorti. Per questa ragione scrutano con attenzione le sue mosse. E non solo le sue. Anche quelle dei Democrat vicini a lui. Perciò più d'uno nel Pd si è insospettito quando ha letto il documento presentato dall'Anci e dall'Upi nella Conferenza Stato-città e autonomie locali. In quel testo si chiede al governo di inserire in un decreto sulla finanza locale — che potrebbe essere preso in esame già la settimana prossima — una norma che consenta ai sindaci di candidarsi alle elezioni politiche senza essere costretti a dimettersi sei mesi prima. Il sospetto deriva dal fatto che a presiedere l'Anci sia il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, che di Renzi è buonissimo amico (deve anche a lui il posto che occupa), e che la norma in questione sembra essere ritagliata sul primo cittadino di Firenze. La cosa è stata interpretata come un'ulteriore riprova delle intenzioni di Renzi e commentata con un pizzico di malizia: «Prima l'Anci era il partito dei sindaci, adesso è il partito del sindaco». Il documento che tanti sospetti ha sollevato nel Pd è indirizzato alla titolare del Viminale, Anna Maria Cancellieri, alla quale si chiede di inserire cinque proposte dell'Anci e dell'Upi in «un unico provvedimento di necessità e di urgenza d'iniziativa del ministro di concerto con i ministri interessati». Di quei punti, due riguardano le difficoltà finanziarie degli enti locali e i problemi di bilancio, uno la situazione dei Comuni che devono andare alle elezioni e un altro ancora si riferisce a problemi organizzativi. Ma è il punto numero quattro quello che ha fatto alzare il sopracciglio ai dirigenti del Partito democratico che hanno avuto per le mani quel foglio di carta. Lì si legge che «in considerazione della disomogeneità rispetto agli altri livelli di governo» sarebbe auspicabile «rivedere la disciplina in materia di candidature per i sindaci e i presidenti di Provincia in caso di scadenza naturale, stabilendo l'obbligo di cessazione dalla carica all'atto della presentazione della candidatura». I sospetti sono dovuti non soltanto al fatto che questa richiesta sembra fatta su misura per Renzi, il quale ha sempre dichiarato di non avere intenzione di dimettersi da sindaco come previsto dall'attuale legge per potersi poi candidare in Parlamento. C'è un altro elemento: perché — si sono chiesti al Pd — inserire una norma del genere in un decreto legge? Non sembra una questione che abbia i requisiti di necessità e urgenza. Ed è questo che ha fatto scattare subito il sospetto che l'Anci di Delrio volesse favorire Renzi. Il che la dice lunga sul clima in cui si svolgeranno le primarie del Pd.

l’Unità 23.9.12
Laura Puppato, la capogruppo democratica del Veneto:
«Voglio bene al Pd. Se mi candido non è per vanità»
«Punto sui programmi. Per esempio: ha senso la Tav? Monti ha agito bene ma ha dimenticato l’equità»


«Parlo di cose, di scelte precise, di una cultura ambientalista che pure alberga nel mio partito, il Pd, ma che ha bisogno di più aria, di maggiore visibilità e di più potere nella gestione del nostro paese. Chi sostiene che io, Laura Puppato, affronterei questa competizione spinta dalla vanità, si sbaglia e molto. Mi conveniva starmene buona e zitta, scegliermi un ombrello e starci sotto, altro che sfiancarmi in questo tour de force...»: eccola, Laura, la candidata alle primarie del Pd, ex sindaco di Montebelluna dove è stata votata e amata per nove anni facendo schiattare la Lega che allora non riusciva a spiegarsi come mai una donna «comunista» riuscisse a contenere il suo strapotere in quella parte del Veneto.
Intendi dare forza ad una visione ambientalista della politica del Pd. Questo vuol dire che sulla Tav non sei d'accordo con quel che il partito ha fin qui sostenuto? «Sostengo altre ragioni. In primo luogo: abbiamo fatto bene i conti? I soldi ci sono e ci saranno? Abbiamo accettato sulla base di una valutazione che disponeva di proiezioni relative alla evoluzione dei traffici e teneva presente gli indirizzi che vorremmo fossero premiati con una nostra azione di governo? Sappiamo come andrà il trasporto su gomma e quello su rotaia? Abbiamo idea di come sviluppare i traffici portuali e quelli fluviali, sappiamo come integrare i vettori? Non mi sembra.
Quindi, sei contraria alla Tav?
«Ho seri dubbi. E vengo all’altra ragione: nella Val di Susa attorno alla questione Tav è maturata una coscienza politica del territorio che non muove in difesa corporativa delle sue zolle ma che ne identifica i filoni di sviluppo anche a fronte di una questione di interesse nazionale ed internazionale. È maturata una intelligenza delle cose. Vogliamo affossare il prototipo di questa nuova coscienza politica che pare modellata sulle nostre istanze? Vogliamo mortificarla per un interesse momentaneo che ci spinge a sposare quelle rotaie? Io non lo farei mai: stacchiamoci dal principio che le nostre scelte devono fare cassa, impostiamo una politica sui tempi lunghi che garantisca ai nostri figli di crescere in un paese dolce ed equilibrato, bello come nessun altro».
E perché dovremmo spendere miliardi di euro per l’acquisto dei nuovi caccia? «Infatti, credo che non dovremmo spendere quei soldi a quel modo. Niente da dire sulla questione della sicurezza, ma guardiamo alle priorità. Abbiamo l’acqua alla gola oppure no? Abbiamo bisogno di caccia costosissimi o di asili nido e di materne? Abbiamo bisogno di scuole pubbliche funzionanti e confortevoli oppure di un sistema difensivo che costa come tutto ciò che non abbiamo ancora? Qualcuno deve ancora spiegarmi, e convincermi, che quei caccia erano una priorità. Bisognava semmai comprarne molti di meno. Meglio: non comprarli affatto».
Ti avviso: stai rovesciando il banco...
«Grazie, ma rispondi tu: sono anch’io il Pd oppure no? Sì che lo sono, questa bellissima forza politica sta nel mio cuore, ma voglio lasciare ai ragazzi che ci guardano con diffidenza un pacchetto di pensieri vivi di fremente senso della giustizia, dell’uguaglianza. Le risposte che cercano staranno nel solco di quei pensieri. Questo per me è il senso della politica».
Di palo in frasca: cosa hai da dire sull'indagine dei magistrati palermitani sulla trattativa Stato-mafia?
«Dico che se, come è stato autorevolmente precisato dagli stessi magistrati, le intercettazioni delle telefonate di Napolitano erano ininfluenti dal punto di vista processuale, il Presidente ha fatto bene a difendere le sue prerogative e noi, Pd, abbiamo fatto bene a difendere la massima istituzione dello Stato da un attacco così pretestuoso, da una manovra così pericolosa sotto il profilo istituzionale e democratico».
Su Monti: equilibrio e corretta ripartizione dei carichi nelle manovre di governo? «Intanto, grazie a Monti per aver riportato a Roma il rispetto e la credibilità internazionali. Poi, lo ha detto anche lui che ci sono stati casi in cui l’equità non è stata rispettata dal suo governo. Lo capisco. Noi, Pd, non potremmo mai e poi mai permetterci di sospendere questo criterio nella nostra azione di governo. Dobbiamo dare garanzie ai deboli, tagliare gli sprechi, non affidarci mai a tagli lineari. Oppure non siamo».

Corriere 23.9.12
Montezemolo e Marcegaglia piacciono a sinistra

di Renato Mannheimer

Non passa giorno senza che emerga un nuovo scandalo politico. O una nuova occasione per biasimare il comportamento di questo o quell'eletto (o gruppo di eletti) nelle assemblee nazionali o locali. Le vicende della Regione Lazio rappresentano solo l'ultimo tra gli episodi del genere. Uno degli effetti principali di tutto ciò è, come si sa, l'accrescersi della disaffezione verso la politica e, specialmente, verso i partiti tradizionali. Come si è già rilevato, una quota elevata (grossomodo la metà) dell'elettorato si dichiara intenzionata ad astenersi o è indecisa sul partito da votare. Altri si dirigono verso le forze più marcatamente di protesta, tra le quali primeggia il Movimento 5 stelle. Le intenzioni di voto per quest'ultimo, pur registrando un calo rispetto a prima dell'estate (18-19%) si collocano oggi su livelli comunque molto elevati (15-16%). L'ampia quota di elettori critici verso i partiti tradizionali indica l'esistenza di un enorme mercato potenziale per chi si presentasse assumendo un'immagine di diversità e novità rispetto all'offerta oggi esistente. Un po' come accadde dopo Tangentopoli, quando la crisi dei partiti di allora aprì lo spazio al successo di Berlusconi. Non a caso, diversi esponenti della «società civile» hanno manifestato in questi mesi l'intenzione più o meno velata a candidarsi a ruoli istituzionali, proponendo una cesura più o meno forte nei confronti della «vecchia politica». Uno dei primi a farlo, già da diverso tempo, è stato Luca Cordero di Montezemolo. Nelle ultime settimane, poi, si è parlato di Emma Marcegaglia e di Corrado Passera (che peraltro ricopre già un ruolo di governo). Ancora, di recente, Oscar Giannino ha animato un movimento, che ha già avuto un largo seguito, estremamente critico verso i partiti tradizionali. E diversi altri soggetti esterni alla politica tradizionale si sono affacciati nelle ultime settimane. Qual è lo spazio potenziale di questi «nuovi» soggetti politici? È bene sottolineare che nessuno di essi ha iniziato una vera e propria campagna elettorale e che, quindi, l'ampia parte di popolazione che non segue da vicino le vicende politiche li conosce assai poco. Già oggi, tuttavia, le persone indicate paiono convincere una fetta consistente — anche se, beninteso, minoritaria — di cittadini. In particolare, Emma Marcegaglia viene presa in considerazione per un eventuale voto alle elezioni da poco meno del 17%; Montezemolo dal 15%, Passera dal 12%. Oscar Giannino, assai meno conosciuto degli altri, tanto che più di un terzo della popolazione dichiara di non averlo mai sentito nominare, si colloca poco sotto l'8%. In qualche misura, vi è una sovrapposizione tra il pubblico di questi esponenti, nel senso che, per circa metà dei casi, chi dichiara di prendere in considerazione uno dei quattro, lo fa anche per almeno un altro. Ma, per il restante 50% si tratta di scelte esclusive, dirette unicamente verso uno dei nominativi qui citati. In generale, dichiarano l'intenzione di votare per i nomi indicati le persone con titolo di studio più elevato e i cosiddetti «colletti bianchi». Sul piano politico i loro sostenitori si collocano più spesso nel centrosinistra, con una accentuazione tra gli attuali elettori del Pd, ove il consenso supera il 20%. Ciò accade anche per Emma Marcegaglia e Luca di Montezemolo che pure sono stati presidenti della Confindustria. Entrambi, più di altri, raccolgono consensi anche nell'Udc. Come si è detto, Giannino ottiene assai meno consensi, ma anche lui sembra conquistare in misura (relativamente) maggiore gli elettori del Pd (e, nel suo caso, quelli del Movimento 5 stelle) rispetto ai votanti per gli altri partiti. Nell'insieme, questi dati confermano l'esistenza di un iniziale segmento elettorale «nuovo» rispetto ai partiti tradizionali, che raccoglie consensi potenziali anche all'interno di questi ultimi. Si tratta dell'espressione di una prima generica disponibilità al voto, che è però il presupposto del voto stesso. Ma, come detto, la campagna elettorale può cambiare notevolmente questi risultati, nel senso di un loro accrescimento o, anche, di una loro contrazione.

Repubblica 23.9.12
Le donne-sindaco della Locride scuotono il Pd sulla legalità “Unico rimedio all’antipolitica”
Cinque vite sotto scorta per 800 euro al mese
di Concita de Gregorio


Questi sono posti dove le teste di maiale non si indossano ai toga party, te le lasciano mozzate sullo zerbino davanti a casa. “E’ un rito arcaico della ‘ndrangheta ma noi qui ci siamo nate e non ci lasciamo impressionare, lo sappiamo che è così”, dice Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno. Dove l’indennità da sindaco, lo stipendio, è di 800 euro al mese che diventano “411 virgola 80 centesimi perché ne lascio la metà al comune per le spese sociali”. Sono paesi e città dove se il boss locale ti spara alla macchina ti danno la scorta, ma – spiega Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto – “io non l’ho voluta la scorta, ho detto la scambio per due funzionari bravi per i comune, due giovani assunti per concorso. Risultato: mi hanno tolto la scorta e non mi hanno dato i funzionari”. Il giornale del mattino arriva anche a Decollatura, confine con Lamezia Terme: quando il sindaco Annamaria Cardamone legge l’intervista al capogruppo Pd alla Regione Lazio Esterino Montino, suo collega di partito, che dice insomma, quei due milioni di contributi per le spee erano disponibili, non li potevamo mica dare indietro, ecco quando legge questo il sindaco mormora la cifra due volte poi dice “io le spese le pago di tasca mia, se faccio l’avvocato e compro un libro me lo pago, perché se faccio il sindaco me lo deve pagare la comunità? E’ un lavoro, fare politica, non è mica una rendita”.
Le primarie del centrosinistra bisogna guardarle anche da qui, fra la Calabria e la Sicilia: sono un altro spettacolo. Con gli occhi di questi cinque sindaci che hanno tutti 40 anni tranne uno, sono tutti laureati, tutti sotto minaccia di morte. Sono tutte donne, pensate pure che sia un caso. Tre di loro - Elisabetta Tripodi, Maria Carmela Lanzetta , Carolina Girasole - hanno avuto ieri il premio intitolato a Joe Petrosino ucciso dalla mafia. Lanzetta non è andata a ritirarlo.
“Avevo da lavorare”. E’ la veterana. 57 anni, due figli di 29 e 26. Sindaco di Monasterace, nella Locride, tremila e cinquecento abitanti. Nonni contadini, madre farmacista e padre medico condotto. Liceo classico a Locri, laurea in farmacia a Bologna. “Non era una famiglia femminista, solo che le donne studiavano e basta”. Non iscritta, vota Pd. Eletta sindaco con una lista civica nel 2006, rieletta nel 2011. Il 15 maggio vince le elezioni, il 26 giugno le bruciano la farmacia. Lettere con minacce di morte all’ordine del giorno, a marzo di quest’anno le hanno sparato alla macchina. Vive sotto scorta. “Questo è un paese bellissimo, sul mare. L’area archeologica magno greca più importante del mediterraneo. Facciamo teatro, presentiamo libri. Qui le donne facevano le gelsominaie, mandano avanti l’economia da secoli. Siamo indipendenti, non siamo malleabili. Per me libertà e possibilità di scegliere sono ragioni di vita. Sono calabrese ma sono italiana. Ho bisogno di sentirmi uguale a chi vive a Genova,
a Padova. La Locride soffre perché ci tolgono le scuole, l’acqua costa e non ci sono investimenti per le reti idriche. Ho una grande rabbia dentro, enorme. Siamo poverissimi. Non ho i soldi per cambiare le lampadine dei lampioni per strada. I lavori di manutenzione li faccio con la mia indennità. Non chiedo, non mi piacciono i lamenti. Prima di chiedere do. Le prime vittime della ‘ndrangheta siamo noi. La gente è stanca della politica, è disgustata. Le primarie, sì, ho qualcosa da dire al Pd: che sia esempio di persone sane e pulite. Che ascolti, ma ascolta? Vorrei poter votare Berlinguer. E’ bello che ci sia Laura Puppato, una donna, ma il partito ci crede? Se non ci crede bisognerà scegliere Bersani”.
Carolina Girasole, 49 anni, due figlie. Sindaco di Isola Capo Rizzuto, Crotone. 16 mila abitanti. Biologa, laureata a Roma alla Sapienza, aveva un laboratorio di analisi. Comune sciolto nel 2003 per infiltrazioni mafiose, 3 anni di commissario straordinario, poi centrodestra. Vince le elezioni del 2008. “La candidata del Pd non ero io, era la presidente del consiglio comunale ma non hanno trovato l’accordo. Il giorno prima, alle nazionali, ha vinto Berlusconi.
Il giorno dopo noi.
Lo slogan era “E’ qui che vogliamo vivere”: abbiamo detto non scapperemo. Vogliamo legalità e trasparenza. In comune quasi nessuno era entrato per concorso, tutti cooptati, inadeguati per numero e capacità. Ho riattivato i concorsi. Il controllo
sugli atti. Ci siamo costituiti parte civile per riavere il patrimonio andato ai privati. Abbiamo lottato contro il business dell’eolico, ora il parco è sotto sequestro, uno dei soci era il boss Nicola Arena, è in galera. Stiamo lavorando con Don Ciotti sui terreni confiscati. Hanno bruciato tre macchine, anche quella di mio padre. Mi scrivono minacce di morte sui muri. Ho venduto il laboratorio, perso gli amici, mio marito non ha più clienti. Al posto della scorta ho chiesto due funzionari, non me li hanno dati. Ai colleghi del consiglio regionale del Lazio chiedo che vengano qui sei mesi. Che un po’ di quei due milioni di euro che loro usano per le spese a piè di lista vadano ai ragazzi
di Isola, figli di genitori uccisi, o in carcere. Vorrei creare una casa della Musica, il futuro passa dai nostri bambini”.
Anna Maria Cardamone, 48 anni, sindaco di Decollatura. Laureata a Messina in Economia e commercio, specializzata in Inghilterra. Iscritta al Pd dalla fondazione, eletta nel 2011. Cattolica. “Sono tornata in Calabria dopo 15 anni per amore della mia terra. Non c’era nessuna legalità amministrativa. Ho interrotto l’appalto di sempre sui rifiuti, ho lavorato alla trasparenza delle gare. Abbiamo risparmiato molto, così, e assunto 12 persone da decenni precarie sotto ricatto. C’è a chi non piace. Guadagno 1400 euro. Chi fa politica deve essere sobrio e parco, le spese di rappresentanza se le deve pagare ciascuno col suo stipendio. Serve un rinnovamento
radicale. L’antipolitica nasce dalla cattiva politica. Ho paura del populismo di Grillo, non mi piace la demagogia di Renzi. Aspetto di sapere meglio di Laura Puppato, in alternativa: Bersani”.
Maria Teresa Collica, 48 anni, un figlio di 5. Sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, 45 mila abitanti. Laureata in Giurisprudenza a Messina. Docente universitario. “Ho cominciato nel movimento civico ‘Città aperta’ per sostenere Rita Borsellino alle regionali. Abbiamo fondato l’associazione antiracket, combattuto un mega parco commerciale per pericolo di infiltrazioni mafiose. La società faceva capo a Pio Cattafi, avvocato, indicato come terzo livello della Cosa Nostra messinese, ora agli arresti domiciliari. Abbiamo garantito la rotazione nei lavori di acquedotto e fognatura, di conseguenza quest’estate sono saltati tutti i tombini, sabotati. Abbiamo sforato il patto di stabilità e paghiamo una multa. La mia indennità è ridotta del 30 per cento, prendo 816 euro al mese. Ai dirigenti del Pd, il mio partito, dico: fatevi un esame di coscienza, i cittadini sono sfiduciati e giustamente, siamo fuori tempo massimo. La politica non sono calcoli matematici per le alleanze, serve il coraggio di fare scelte. Mi attaccano perché sono una donna. Ora per esempio dicono: è incinta. Non è vero, ma potrei governare anche se fossi incinta, no?. Credo che voterò Puppato”.
Elisabetta Tripodi, 44 anni, due figli di 12 e 16. Sindaco di Rosarno, 15 mila abitanti. Avvocato, laureata a Parma. Eletta dopo il commissariamento per mafia e la rivolta dei migranti. “Sono tornata perché se tutti scappano non cambierà mai nulla, spero che più avanti i miei figli capiscano. Chiamano le donne a fare politica nei luoghi e nei momenti difficili pensando che siano più manovrabili, poi non le possono manovrare e le lasciano sole”. Sotto scorta da un anno. Il boss Rocco Pesce, ergastolano, le ha inviato una lettera scritta a mano e imbucata dal carcere, la busta era di quelle del Comune. “Ci eravamo costituiti parte civile in un grande processo contro la cosca. Abbiamo confiscato la casa di sua madre e suo fratello. Pesce mi ha scritto: lei è così giovane.... Hanno incendiato macchine, tagliato alberi, fatto a pezzi animali. Ma io non posso permettermi di avere paura. Questo è anche il paese delle pentite di mafia, Giusi Pesce e Maria Concetta Cacciola. Tutte queste donne, loro ed io, stiamo combattendo per i nostri figli. Loro per sottrarli a un destino scritto, io perché voglio che restino qui. Certo che vado a votare alle primarie, anche se lo spettacolo visto da qui è desolante. La gente non si fida più di nessuno e ha ragione. Non è l’antipolitica il nostro nemico, è la brutta politica. Chissà se lo capiscono lassù a Roma che serve coraggio. Non è difficile, davvero. Venite a vedere qui da noi: ci sono donne ad ogni angolo di strada che si battono, in silenzio e da sole, come leoni”.
(7. continua)

La Stampa 23.9.12
Profumo: cambiare l’ora di religione Così com’è ha poco senso
Per rimanere al passo con le trasformazioni di un Paese sempre più multietnico
Stranieri: ogni anno cresce il numero. Su 700 mila solo una minoranza segue la confessione cattolica
Le «diserzioni» raggiungono il 27% nel Settentrione Solo il 2% nelle regioni del Sud
di Andrea Rossi


TORINO Qualcuno potrebbe anche definirla una «voce dal sen fuggita». Un tentativo, umanissimo, di ingraziarsi una platea sensibile al tema e non necessariamente amica. Ma se a dirlo è un ministro, è pur sempre una valutazione di cui bisogna tenere conto. E il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo due sera fa ha detto che l’ora di religione a scuola, così com’è strutturata, ha poco senso e andrebbe modificata. «Nelle nostre classi, soprattutto alle elementari e alle medie, il 30 per cento degli studenti è di origine straniera e, spesso, non di religione cattolica», ha spiegato venerdì sera a Torino intervenendo alla festa di Sinistra ecologia e libertà. Delineando quello che, nei suoi pensieri, dovrebbe essere l’orientamento futuro: «Credo che l’insegnamento della religione nelle scuole così come concepito oggi non abbia più molto senso. Probabilmente quell’ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica».
La considerazione di Profumo nasce da un dato di fatto, un’analisi della realtà. Nulla ha a che vedere con un giudizio sull’insegnamento attuale, anche se a luglio il ministro ha firmato un accordo con il presidente della Conferenza episcopale Bagnasco che prevede dal 2017 l’obbligo della laurea per chi insegna la religione cattolica nelle scuole italiane. Né, tanto meno, è un giudizio sulle scuole paritarie confessionali: «Io ho sempre frequentato le scuole pubbliche, ma credo che gli istituti paritari, le loro strutture e i loro docenti rappresentino un arricchimento per il Paese. Io credo nel pluralismo». Altro discorso è interrogarsi sull’ora di religione in classe, e anche in questo caso Profumo si dice convinto sostenitore del pluralismo, della necessità cioè di offrire un panorama più ampio agli studenti adattando la scuola a un contesto cambiato, sostituendo un insegnamento che si limita alla religione cattolica con una visione più laica, a cavallo tra le varie confessioni.
Nella scuola dell’obbligo, secondo l’ultimo dossier sull’immigrazione della Caritas, ci sono oltre 700 mila alunni figli di genitori stranieri, di almeno 180 nazionalità diverse. Nel 2000 erano nemmeno 150 mila. E quasi il 40 per cento è sì nato in Italia, ma non ha la cittadinanza. E spesso non è battezzato: sempre secondo la Caritas solo il 20 per cento degli stranieri in Italia è di religione cattolica. Senza contare che nelle scuole - soprattutto alle elementari - i casi di classi in cui la maggioranza degli allievi non è italiana sono ormai molti.
Il risultato è che nel 2011 per la prima volta dal 1993, quando venne fatta la prima rilevazione, la quota di alunni che preferisce uscire dalle classi quando entra l’insegnante di religione ha superato il 10 per cento. L’ultimo rapporto del Servizio nazionale della Cei per l’insegnamento della religione cattolica parla chiaro: l’unico segmento in cui negli ultimi due, tre anni non si sono verificate variazioni significative è la scuola superiore, dove circa 17 studenti su 100 scelgono di non frequentare all’ora di religione. Con differenze significative, un massiccio divario tra Nord e Centro da un lato e Sud dall’altro: nelle regioni settentrionali le “diserzioni” raggiungono il 27 per cento, nell’Italia centrale sfiorano il 20. Nel meridione appena due studenti su cento escono dall’aula durante l’ora di religione. In tutti gli altri segmenti (materne, elementari, medie), invece, il trend è significativo: probabilmente a causa della forte componente di immigrati che professano altre religioni, la diminuzione di chi frequenta le lezioni è consistente.

La Stampa 23.9.12
La Chiesa australiana abusi dal clero su 620 minori


SYDNEY  Dagli Anni 30 ad oggi, 620 bambini hanno subito abusi da parte del clero cattolico nello Stato australiano di Victoria. Sono state le stesse gerarchie cattoliche locali a rivelarlo, nel corso di un’audizione parlamentare. L’arcivescovo di Melbourne, Denis Hart, ha espresso vergogna e turbamento per gli abusi commessi dai religiosi. L’ammissione degli abusi, ha aggiunto Hart, «mostra come la chiesa sia impegnata a guardare in faccia la verità e a non mascherare gli atti di coloro che hanno tradito una fiducia sacra». Di altro parere i sostenitori delle vittime, che, denunciando un numero maggiore di casi, hanno rinnovato la richiesta di un’inchiesta indipendente. «La chiesa non ha mai alzato un dito per fermare i preti pedofili».

l’Unità 23.9.12
Dat: perché sarebbe meglio evitare la legge
di Stefano Semplici


SOLO CON UNA ROBUSTA DOSE DI INGENUITÀ SI POTEVA IMMAGINARE CHE QUESTA LEGISLATURA SI SAREBBE CONCLUSA senza che si tornasse a discutere del disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Non si tratta, a questo punto, di dare ragione a chi sostiene che tanto lavoro non merita di andare sprecato piuttosto che a coloro che denunciano il significato tutto strumentale ed elettorale della pretesa di approvare definitivamente il testo. Gli uni e gli altri recitano la loro parte in un copione scontato. È meglio allora restare sui contenuti del disegno di legge, per capire cosa accadrebbe davvero
e trarne un sommesso suggerimento. Il testo contiene una incongruenza palese, che rende impossibile la chiara identificazione della platea dei destinatari. Nell’art. 1 e nel comma 1 dell’art. 3 ci si riferisce ai soggetti incapaci di intendere e di volere e dunque, per citare solo l’esempio più facile, alle centinaia di migliaia di malati di Alzheimer che si trovino in uno stato avanzato della loro malattia. Ma nel comma 5 dello stesso art. 3 si specifica che «la dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze per accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Questa definizione risulta di difficile interpretazione e applicazione, perfino per molti specialisti, e preferisco allora assumerla nel significato ribadito da Paola Binetti nel dibattito alla Camera: si intendono i soggetti in stato vegetativo, gli stessi ai quali si riferiva il testo originariamente approvato dal Senato. E dunque si parla di una piccolissima percentuale dei pazienti incapaci di intendere e di volere. Per tutti gli altri, che nel pieno rispetto della norma avranno affidato alle dat la loro volontà, esse, semplicemente, non assumeranno rilievo. Trasformando in legge questo pasticcio si aprirà una volta di più la strada ad avvocati, giudici e tribunali.
Tutta questa faticosa discussione non sarebbe mai nata se non ci fosse stata la dolorosa vicenda di Eluana Englaro. La premessa ha condizionato il risultato. Non siamo davanti a un testo che affronta davvero, in tutta la sua complessità, la sfida della attualizzazione della volontà di un paziente che non è più in grado di esprimerla, bilanciando in una situazione per questo delicatissima il principio del rispetto dell’autonomia con quello della tutela del bene della vita. Il vero problema che la legge vuole risolvere, l’unica chiara indicazione prescrittiva, è quella che riguarda l’alimentazione e l’idratazione artificiali. Questo obbligo così formulato è insostenibile, perché introduce un regime differenziato per un trattamento sanitario al quale non possono che applicarsi le regole che valgono per tutti gli altri. E dunque cadrà rapidamente. Si tornerà così al punto di partenza: l’interrogativo sulla possibilità di considerare una volontà espressa in un momento lontano come una volontà vincolante nella stessa misura in cui lo è, dal punto di vista della deontologia professionale e giuridico, quella attuale.
L’ultima riflessione è anche la più semplice. È giusto che nel disegno di legge si affermi esplicitamente che «l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza», ma non è chiaro in che modo saranno finalmente reperite le risorse per accompagnare concretamente le famiglie nelle quali vivono persone colpite da questa come da altre disabilità. I cittadini che non hanno altra sanità possibile che quella pubblica hanno probabilmente buoni motivi per temere che questo livello essenziale non sarà garantito meglio di tanti altri. Sarebbe bello se di queste polemiche rimanesse almeno un impegno concreto e condiviso a non allargare ulteriormente nel nostro Paese le faglie di una disuguaglianza odiosa, perché incide sul primo di tutti i diritti. In caso contrario, la bioetica continuerà ad essere ciò che è stata in questi ultimi anni: un modo per piantare bandiere e consolidare gli schieramenti, se non addirittura un comodo diversivo «senza oneri per lo Stato».
Sarebbe bene rinunciare a questa legge. Meglio però, in caso contrario, andare subito in aula e votare. L’argomento, almeno, sarà tolto dalla campagna elettorale e se ne riparlerà fra qualche mese. Pochi cittadini ne sentiranno la mancanza. E si rispetterà di più la sofferenza delle persone.

Corriere La Lettura 23.9.12
La differenza non solo letteraria tra eutanasia e suicidio assistito
di Mauro Covacich


Nell'ultima «Incursione» («la Lettura» del 16 settembre scorso) Demetrio Paolin lamentava una «mancanza di messa a fuoco» dei romanzi che hanno affrontato finora il tema dell'eutanasia, mancanza dovuta al fatto che «sembra più interessante raccontare il percorso degli esecutori, rispetto a chi l'eutanasia la subisce o la desidera».
Ammetto di essere saltato sulla sedia quando mi sono visto incluso nella lista. Capisco semplificare, ma nel mio libro non c'è traccia di eutanasia: la pratica su cui verte è quella del suicidio assistito, il che sposta l'attenzione proprio sul soggetto che sceglie di morire. Il suicidio assistito si compie attraverso l'assunzione per via orale di un barbiturico oppure con un sacchetto di plastica riempito di elio. In entrambi i casi è una pratica indolore che richiede però, come credo sia evidente, la totale presenza fisica e psichica di chi compie il gesto. La persona malata si assume la responsabilità anche fisica di interrompere la vita e deve poter contare su un'autonomia motoria almeno sufficiente a sollevare un bicchiere dal comodino e succhiare da una cannuccia. Tanto per intenderci, né Terry Schiavo, né Luca Coscioni, né Piergiorgio Welby, né Eluana Englaro hanno a che vedere con il mio libro.
L'eutanasia, attiva o passiva, è comunque competenza di un medico. Il suicidio assistito invece è il superamento politico e filosofico di questa dipendenza. Perché la mia morte dev'essere un fatto medico? Perché devono essere i medici a stabilire chi ha diritto di morire con dignità e chi no? Chi gli ha dato questo potere? Perché loro hanno diritto di sapere come fare per morire dolcemente e io dovrei ricorrere ad aiutanti clandestini come la mia protagonista? La cosa che fa lei a pagamento dovrebbe essere di pubblico dominio, dovrebbe essere una cosa che so fare anch'io, che sappiamo fare tutti, secondo me. È questo il nucleo del libro: non «il percorso dell'esecutore», bensì gli ultimi istanti di vita dei singoli personaggi, coloro che hanno preferito rinunciare alla cosa che più amavano al mondo pur di non finire bloccati per anni su un letto, con un tubo nella trachea a pompare ossigeno, un altro nello stomaco a pompare cibo, e un computer che trasforma i movimenti degli occhi in sillabe digitali.
Che fossi concentrato sugli assistiti più che sugli assistenti è provato dal fatto che la mia eroina deve fare i conti per tutto il libro con un vecchio ingegnere, sano, che intende avvalersi dei suoi servizi perché ritiene semplicemente di aver vissuto abbastanza. È lui — le sue riflessioni, il suo caso estremo — al centro di tutto. Non lei.
In Oregon e in Svizzera il suicidio assistito è ammesso dalla legge in caso di malattia inguaribile, ma io volevo spingermi ancora un po' più in là, volevo interrogarmi sulle ragioni di quell'ingegnere. Fino a dove ho diritto a disporre della mia vita? C'è davvero un limite? Se esistono nobili forme di pensiero come lo stoicismo o lo shintoismo, che vedono nel suicidio una scelta rispettabile, talvolta opportuna, comunque tutt'altro che irrazionale, perché a noi scandalizza anche il solo parlarne?

l’Unità 23.9.12
Anche Hollande apre all’Unione politica
Il presidente francese davanti alla Merkel ammette per la prima volta che per salvare l’Europa è necessario arrivare a forme comuni di governo che contemplino cessioni di sovranità
di Paolo Soldini


Sarà stata la suggestione dell’ambience, la memoria di quel famoso «discorso ai giovani» con cui cinquant’anni fa a Ludwigsburg Charles de Gaulle sancì la riconciliazione franco-tedesca a suggello della nuova e pacifica Europa. Certo è che, parlando ai giovani tedeschi e francesi nel Castello della Residenza dei Württemberg nella cittadina a nord di Stoccarda, François Hollande ha aperto per la prima volta espressamente le porte della Francia alla prospettiva dell’Unione politica. Davanti ad Angela Merkel ha ammesso che, «per salvare l’Europa» (e la sua moneta unica) non bastano né l’Unione bancaria né quella fiscale, che peraltro latitano, ma è necessario arrivare a forme comuni di governo che contemplino cessioni di sovranità. Proprio quello che da de Gaulle in poi tutti i capi della Francia, compreso l’attuale, hanno sempre rifiutato come un’eresia.
Certo, non è il caso di esagerare sopravvalutando quello che restano pur sempre dei discorsi, in cui la cancelliera ha infilato qualche parola in francese e il presidente qualche frase in tedesco, ma la novità c’è. Tanto più che il caso ha voluto che proprio nelle stesse ore in cui i due leader parlavano ai giovani nella bella sala del Monrepos fatta costruire «à la française» dal principe Carlo Eugenio, negli ambienti assai più prosaici dell’Eurotower a Francoforte il belga-tedesco Peter Praet, chiefeconomist della Bce, poneva anch’egli, a nome dell’istituto e certo d’intesa con Mario Draghi, il problema delle cessioni di sovranità, e non soltanto sulle strette questioni di bilancio. L’economista capo è sceso anche nei dettagli di un piano che prevederebbe il passaggio dei controlli sulle manovre finanziarie nazionali a una autorità politica sovradeterminata, la quale avrebbe anche il potere di intervenire direttamente nella formazione dei bilanci nazionali, se questi rischiassero di sforare sui tetti predisposti. Non si tratta, in realtà, di una novità assoluta: già il Fiscal compact impone agli stati controlli e disposizioni esterne in materia di finanza pubblica. Ma è evidente il carattere «politico» del piano cui starebbero lavorando gli uffici di Francoforte: l’obbligazione esterna, ottenuta non con ricorsi alla Corte di Giustizia contro gli stati refrattari alla disciplina di bilancio (com’è previsto dal Fiscal compact), ma con esplicite cessioni di sovranità in materia economica a un organismo politico comunitario presuppone anch’essa l’evoluzione verso l’Unione politica. Questa avrebbe non solo poteri di controllo, ma dovrebbe svolgere un ruolo molto più ampio di indirizzo di politica economica.
Né Hollande e Merkel, e certo non era il caso che lo facessero loro, né Praet e il suo capo Draghi, che da «tecnici» non hanno la minima propensione ad occuparsene, hanno affrontato il nodo che sta diventando il problema ineludibile di ogni ipotesi di cessione di sovranità: il rispetto delle regole di partecipazione democratica e la tutela delle prerogative dei parlamenti, quelli nazionali e quello europeo. È la questione che ha spinto la Corte costituzionale della Repubblica federale a condizionare il suo via libera a Fiscal compact ed Esm a garanzie precise in materia di controlli parlamentari sulle scelte e gli indirizzi di spesa.
Il ruolo giocato dai giudici costituzionali non è piaciuto a Helmut Schmidt, il quale ha accomunato la Corte di Karlsruhe alla cancelliera Merkel e alla Bundesbank come coloro i quali hanno fatto dubitare ai partner che la Germania voglia davvero l’Europa o non persegua piuttosto soltanto interessi nazionali. L’ex cancelliere novantatreenne ha parlato al municipio di Münster ringraziando per il conferimento del «premio della Pace di Westfalia», ma il suo non è stato affatto un discorso di circostanza. «L’Unione europea rischia di fallire per colpa della Germania», ha denunciato, criticando pesantemente il governo federale. E non ha risparmiato neppure le istituzioni di Bruxelles, le quali poco o nulla hanno fatto per realizzare «effettivi progressi» verso una Costituzione europea che garantisca i diritti democratici e le competenze delle rappresentanze politiche dei cittadini.

l’Unità 23.9.12
Il grido della Siria: «L’Italia ci aiuti a cacciare Assad»
Abdulbaset Sieda. Curdo di religione cristiana, è presidente del Consiglio nazionale siriano, principale piattaforma dell’opposizione al regime
di Umberto De Giovannangeli


Nessuna riconciliazione è possibile con chi «ha dichiarato guerra al suo popolo, macchiandosi di crimini contro l’umanità che non possono restare impuniti». E sul futuro, una rassicurazione: la nuova Siria sarà «un Paese civile, democratico e pluralista e lo Stato sarà neutrale per quanto riguarda l’appartenenza religiosa e le etnie». Le sue parole non raccontano «solo» una guerra senza fine, che in 17 mesi ha provocato oltre 30mila morti, tra cui 1825 bambini e 400mila profughi. Le sue parole suonano anche come un monito alla Comunità internazionale: la crisi siriana sta precipitando verso un «punto di estrema gravità» che può portare ad una «situazione catastrofica con più estremismo e un effetto domino destabilizzante per i Paesi confinanti». A parlare è Abdulbaset Sieda, 56 anni, curdo di religione cristiana, presidente del Consiglio nazionale siriano (Cns), principale piattaforma dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad. In missione a Roma, Sieda ha incontrato il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi, ed è stato ricevuto ieri da Benedetto XVI. Sieda ringrazia l’Italia per la sua «fattiva solidarietà al popolo siriano» e mette sotto accusa Russia e Cina «il loro atteggiamento ha bloccato ogni soluzione politica. Quella che Mosca e Pechino stanno concedendo ad Assad e ai suoi miliziani è una garanzia di impunità, è una licenza di uccidere. I siriani sono rimasti soli con bombardamenti, cannoneggiamenti e missili». Alla Comunità internazionale chiede più coraggio e determinazione: «Apprezziamo gli sforzi economici rimarca il leader del Cns ma non bastano, perché quello che è avvenuto nel mio Paese, ciò che sta accadendo mentre noi parliamo, non è un terremoto, non è una catastrofe naturale: è una rivoluzione. C’è un problema politico e gli aiuti umanitari non bastano».
Mentre parliamo, in Siria si continua a combattere e a morire. È una situazione senza via d’uscita? C’è chi vi esorta ad una «riconciliazione» con Bashar al-Assad: è una strada percorribile? «No, non lo è. Non ci può essere riconciliazione con un regime che ha dichiarato guerra al suo popolo, macchiandosi dei crimini più efferati. Siamo pronti ad aprire un tavolo di riconciliazione nazionale, ad una unica condizione».
Quale?
«L’uscita di scena di Bashar al-Assad. Con lui al potere, il dialogo non ha senso. Una vera riconciliazione a cui lavorare, per la quale siamo impegnati, è quella tra settori della società divisi dal regime. Non vogliamo vendetta, esigiamo giustizia. È tempo di voltare pagina. Senza Bashar al-Assad». L’uscita di scena di Assad è un problema politico o militare?
«Quello tra politico e militare è un confine labile, praticamente inesistente, se chi hai di fronte conosce solo il linguaggio della forza. Non chiediamo un intervento militare internazionale ma un sostegno che riduca il gap di mezzi tra gli insorti e le forze fedeli al dittatore. Un sostegno attivo, sul terreno come sul piano politico: è ciò che chiediamo alla Comunità internazionale. Vogliamo tornare a vivere, a decidere del nostro futuro, in libertà. È questa l’essenza della “primavera siriana”. Aiutateci a farlo».
Della Comunità internazionale a cui lei si appella, fa parte, e con un ruolo di primo piano, la Russia. Mosca ripete che la sorte di Assad deve essere decisa dal popolo.
«Di quale popolo parlano? Quello cui Assad ha dichiarato guerra? In libere elezioni, il regime sarebbe spazzato via. Assad lo sa bene, per questo pratica un terrorismo di Stato che produce ormai centinaia di morti al giorno. Come si può parlare di pace e continuare, come fa la Russia, a difendere un uomo pronto a tutto pur di mantenersi al potere?».
C’è chi sostiene che l’incertezza internazionale su Assad sia anche dovuta alle divisioni interne all’opposizione siriana. C’è chi teme che ad assumere la guida della rivolta siano i jihadisti. In questo quadro, che significato ha che a guidare il Cns sia stato chiamato proprio lei, vale a dire un esponente curdo di religione cristiana?
«Sta a significare che l’opposizione al regime di Assad è una opposizione inclusiva, una opposizione che non discrimina e non è animata da spirito di vendetta. Sappiamo distinguere tra il clan Assad e quanti hanno servito lo Stato. Un discorso proiettato nel futuro. La nuova Siria sarà un Paese civile, democratico e pluralista e lo Stato sarà neutrale per quanto riguarda l’appartenenza religiosa e le etnie». Da leader dell’opposizione, e da cristiano, come valuta il recente viaggio di Benedetto XVI in Libano?
«Il Papa è stato portatore di uno straordinario messaggio di pace e di dialogo. Quello che abbiamo sentito da Benedetto XVI non lo abbiamo sentito da nessun’altra autorità religiosa del Medio Oriente. Il Papa ha affermato che la Primavera araba è ricerca di dignità e libertà da parte dei popoli arabi e ha detto ai cristiani che non devono lasciare i loro Paesi perché ne fanno parte e non sono ospiti ma devono perseguire assieme agli altri la libertà e la democrazia. Per questo la sua visita è un sostegno alla nostra causa e alla causa della libertà. I cristiani non hanno bisogno di chi li protegge perché sono comproprietari del Paese assieme agli altri siriani. Da cristiano posso dire di essere fiero di essere cristiano dopo aver finalmente sentito una voce cristiana vera».

La Stampa 23.9.12
Principe Hassan: “Tavolo di pace per Iran e Israele”
«E’ importante anche il riconoscimento dello Stato palestinese»
Membro della famiglia reale di Giordania
intervista di Alain Elkan


Principe Hassan di Giordania, lei è appena tornato da un importante convegno internazionale a Teheran: da che cosa nasce il suo rammarico?
«L’Iran è un Paese che ha tutto, dall’agricoltura al petrolio. Purtroppo, però, sembra che non tutte le cose riescano ad andare al loro posto. In Medio Oriente ci sono quattro realtà politiche e due poteri economici forti, la Turchia e Israele, poi una voce solitaria, l’Iran, che incarna la voce degli sciiti. E dall’altra parte ci sono i sunniti, che sono la maggioranza nei Paesi arabi».
Chi sono i Fratelli Musulmani?
«In origine si sono costituiti come partito conservatore, non teologico. I Fratelli volevano lavorare all’interno del sistema ed essere eletti e fin dall’epoca di Nasser si sono fatti perseguitare e uccidere. Credo che l’unico Paese dove non sono mai stati perseguitati sia la Giordania».
E la Turchia?
«La Turchia vuole essere un Paese laico, secolarizzato».
Non le sembra che i Fratelli Musulmani siano sempre più importanti?
«Durante la guerra tra Urss e mujaheddin e poi nello scontro tra Usa e al Qaeda hanno svolto un ruolo positivo, in quanto unico partito populistico islamico che fa parte del sistema parlamentare. In Marocco i Fratelli cercano di stimolare la politica ad essere più sensibile ai problemi del mondo che la circonda».
Come giudica le azioni terroristiche contro le ambasciate americane di questi ultimi giorni?
«Da un punto di vista storico l’escalation di odio dovrebbe essere condannata da ogni parte. Io sono stato una delle prime voci a condannare l’11 settembre e la morte dell’ambasciatore Stevens, uomo rispettato da molti anche nel mondo arabo. Ma il ciclo di odio è cominciato molto tempo fa e l’industria dell’odio ha portato a una spesa per le armi di 12 trilioni di dollari: mi domando come sarebbero ora le cose se avessimo speso più soldi per l’educazione. Sono convinto che la chiave della pace è nell’educazione e nel rispetto della dignità umana».
Come vede la situazione tra Israele e Iran?
«Mi domando quanto tempo debba durare questa agonia sul sapere o non sapere ciò che succederà. Vorrei un tavolo della pace come ci fu a Helsinki e che discuta di tre punti. Il primo è la sicurezza per quanto riguarda le armi chimiche, nucleari, biologiche. Poi bisognerebbe punire le attività criminali, il contrabbando di armi e droga e naturalmente il terrorismo. Il terzo punto è che occorrerebbe dare più importanza, per esempio con l’educazione, alla sicurezza degli individui».
Cosa pensa della primavera araba?
«È cominciata con dei giovani innocenti, poi il potere è stato tolto loro da chi controlla il potere stesso, l’esercito e i Fratelli Musulmani».
Crede che la situazione fosse migliore in precedenza?
«Prima era una situazione di monopolio. Oggi il leader dell’Egitto ha vinto le elezioni ed è riconosciuto dai più. Da Nasser a Mubarak ci sono sempre state figure di riconosciuti capi militari».
Come vede il rapporto tra Netanyahu e l’Iran?
«Di recente ho suggerito l’importanza del fatto che non vengano violati i patti sul non uso delle armi chimiche. Ma in 43 anni nessuno degli “addetti ai lavori” è stato capace di controllare il proprio ego».
Cosa succederà, secondo lei?
«Siamo a un bivio: a meno che gli Usa non guardino con maggiore attenzione al Medio Oriente, temo che possa scoppiare una guerra regionale».
Perché il mondo arabo non ha abbastanza influenza per mettere fine alla tensione tra Iran e Israele?
«Perchè non ci sono regole condivise in quella parte del mondo e perchè ci sono investimenti fortissimi da parte del mondo arabo in Occidente: e l’Occidente non rifiuta certo questi forti investimenti».
Lei come vive i fatti siriani?
«Per molto tempo la Siria è stato un esempio di Stato laico, ma oggi ci si domanda cosa succederà. Ciò che mi amareggia di più, guardando il Medio Oriente, è che abbiamo tutto, ma non sappiamo parlare tra noi. Questa è la tragedia. Oggi non c’è nessuna garanzia di stabilità regionale».
Qual è il ruolo del suo Paese, la Giordania, in questa crisi?
«Sua maestà il re mi ha pregato di parlare con l’ex segretario generale dell’Onu, Kofi Annan: ciò che è molto importante per la Giordania è il riconoscimento di uno Stato palestinese, allo scopo di un aggiustamento della regione. Io spero che in tempi brevi la Giordania possa diventare una monarchia costituzionale».
Gli israeliani faranno la pace con i palestinesi?
«Penso di sì: noi tutti vogliamo uno Stato palestinese: l’unica vera soluzione sarebbe una sorta di Benelux regionale».
E i terroristi?
«Purtroppo tutti possono comprare le armi che vogliono. Bisognerebbe istituire un tavolo con Israele per stabilizzare la Siria: ma come si può discutere senza che l’Iran partecipi? ».

l’Unità 23.9.12
Realismo fuori dalla realtà
di Massimo Adinolfi


Dunque, la storia sarebbe andata così: a un certo punto, verso la fine del Settecento, mentre in Europa si sta per fare la rivoluzione, la filosofia compie una «svolta trascendentale», e smette di credere che là fuori ci siano cose.
Da allora, alberi o fontane, ciabatte o satelliti non sono più cose, per i filosofi, ma soltanto «dati di senso, fenomeni, apparenze». Sulle prime si continua a credere che le cose sussistano, però invisibili e inaccessibili: di sotto ai fenomeni, al di là delle apparenze, dietro ai dati sensibili. Poi, però, i filosofi si accorgono che li si lascia fare (pochi protestano, il mondo è in subbuglio, le rivoluzioni politiche si accavallano a quelle industriali), e allora tentano il colpaccio: cominciano a pensare – prima timidamente, poi con insopportabile baldanza – che non è vero che le cose se ne stanno nascoste alle spalle dei fenomeni, è che non ci sono proprio. Non esistono i fatti, solo le interpretazioni!, tuona a quel punto Nietzsche, e da quel momento la filosofia entra nell’estrema propaggine della sua storia, che ha il nome funesto di nichilismo (in politica, quello di totalitarismo): dell’essere non ne è più nulla, la realtà non fa valere i suoi diritti e non c’è proposizione che possa essere verificata, o potere che possa essere smentito.
Quel momento data ormai da più di un secolo. Nietzsche è morto nel 1900. Berlusconi, però, ci è toccato in sorte solo adesso. E la rilevanza filosofica del berlusconismo starebbe in ciò, che con lui si tirano le ultime conseguenze pratiche della svolta trascendentale avviata da Kant e completata da Nietzsche: se i fatti non esistono, ne possiamo combinare di tutti i colori! E prima il Cavaliere, poi il Pdl del Lazio hanno mostrato che, effettivamente, si può.
Ma per fortuna quella storia volge al termine: la resipiscenza è cominciata. Al centro della discussione è ora il «nuovo realismo». Che torna a far valere un robusto senso della realtà facendo presente che, perbacco!, se davvero la realtà è solo una nostra interpretazione e non c’è nulla là fuori ma tutto è nelle nostre teste, come la mettiamo con i fossili? Non dimostrano essi che sono esistiti esseri viventi prima ancora che l’uomo e la sua testa comparissero sulla terra? E come potrebbe stare il Tirannosaurus Rex dentro le nostre teste, di grazia? Forte di questa inoppugnabile argomentazione, Maurizio Ferraris (su Repubblica) ristabilisce i diritti della realtà contro Emanuele Severino, che aveva invece difeso (sul Corriere) Giovanni Gentile e la sua balzana idea che non c’è realtà che non sia nel pensiero, stazione finale della pazzia idealistica dei moderni.
Pazzia, certo. Perché il buon senso, le cui ragioni il nuovo realismo difende, non può non pensare, di tutti i filosofi che si sono messi dietro Kant e la sua mirabolante svolta trascendentale, che dovevano essere poco meno che folli, o forse soltanto disonesti, nel credere o far credere che le cose non si danno in natura ma «stanno nella nostra testa» (e ogni cosa nella testa di ciascuno: chissà). Il fatto è che Ferraris li rappresenta proprio così, alimentando il sospetto che la filosofia sia solo un cumulo di sciocchezze (però scritte bene). D’altra parte, ci voleva tanto a obiettare a Kant o a Gentile quel che dimostrano i fossili, i tirannosauri e non so cos’altro? Ci voleva davvero un altro filosofo, Ferraris appunto, per annullare la svolta, fare macchina indietro e rimettendo alberi e fontane, ciabatte e dinosauri tutti al loro posto (dove, peraltro, sono sempre stati)?
Siccome il buon senso è meno ingenuo di quanto si creda – i nuovo-realisti, almeno su questo, saranno d’accordo con me – sono sicuro che, ascoltata questa piccola, stravagante storia di insania filosofica, si domanderà: e se il nuovo realismo fosse esso (non i filosofi idealisti, postmodernisti, nichilisti e cattivoni) del tutto fuori dalla realtà? In effetti: come si può essere filosofi e, al contempo, rappresentare la vicenda filosofica moderna come una roba per confutare la quale basta ritrovare un fossile o giocare con un gatto (perché, spiega Ferraris, se ognuno ha un mondo nella propria testa, incommensurabile con ogni altro, e noi non siamo nella testa del gatto, è evidente che con il gatto è impossibile giocare: eppure non smettiamo di farlo)? Come è possibile che a Kant, Nietzsche o Gentile non sia venuto in mente nemmeno un fossile, o una ciabatta, o un gatto? Forse le cose non stanno proprio come Ferraris le racconta. In ogni caso, è un corollario del principio di carità di Donald Davidson, e una norma di ogni buona conversazione, quello che raccomanda: prima di trionfare del tuo avversario, chiediti se non sia falsa fino alla caricatura l’idea che credi di aver confutato. In questo caso, chiediti se per esempio sia mai stata in questione, per Kant o Gentile, Nietzsche o Severino, non l’esistenza dei dinosauri, ma che cosa significhi esistere. E nemmeno l’immane capienza delle nostre teste, ma il modo in cui c’è mondo per noi.
Però non filosofeggiamo troppo. Facciamo ugualmente che abbia ragione Ferraris. Ripetiamo tutti insieme, filosofi e non filosofi, che le cose esistono, per diana! Per favore: non dubitiamone più. Ma, gettati nel ridicolo secoli di riflessione filosofica, guadagnata probabilmente una vasta e varia collezioni di fossili, di come pensare la realtà del nostro tempo – e di come mettere pensiero nel nostro rapporto con la realtà, e idee, e prospettive di senso – non ne sapremmo molto di più. E francamente, per battere la destra, in Italia e in Europa, non c’è forse bisogno, molto più che di allineare fatti, di tirar fuori un’interpretazione della crisi diversa da quella che ha dominato negli ultimi due o tre decenni? Perché esistano pure i fatti, ma senza le interpretazioni sono davvero ben poca cosa: fossili, ciabatte, gatti, e poco più.

l’Unità 23.9.12
Montessori. l’infanzia liberata
Ventimila le sue scuole nel mondo ma in Italia ce ne sono soltanto 136
Con la celebre pedagogista si conclude il ciclo dedicato agli scienziati italiani
che «hanno fatto politica» Avversata dal fascismo ha lasciato un insegnamento a tutto il mondo
di Pietro Greco


NEL 1913 «LA BELLA ITALIANA» SBARCA IN AMERICA, SALUTATA DAL NEW YORK TRIBUNE COME «THE MOST INTERESTING WOMAN OF EUROPE»,la donna più interessante del Vecchio Continente. Venti anni dopo «la bella italiana» deve lasciare definitivamente l’Italia, perché come scrive Roberta Passione nel ricco Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli XVIII-XX), curato da Miriam Focaccia e Sandra Linguerri, appena uscito nelle edizioni Pendragon «l’”educazione alla libertà” che (... ) propugna poco collima con l’orientamento sempre più autoritario della scuola fascista».
Con 22.000 scuole di ogni ordine e grado a lei dedicate e a lei ispirate in tutto il mondo, Maria Montessori è la donna italiana che ha avuto e ha tuttora più influenza nel mondo. È dunque con lei che vogliamo chiudere questa breve carrellata che, nel corso dell’estate, ci ha portato a conoscere alcuni dei grandi scienziati italiani che nel XX secolo hanno «fatto politica», indicando al Paese un percorso di crescita culturale, di progresso civile e di sviluppo economico che l’Italia non ha voluto seguire. Scelta per la quale, oggi, paghiamo conseguenze piuttosto salate.
Maria Montessori nacque a Chiaravalle, un tiro di schioppo da Ancona, il 31 agosto 1870. Era nipote, per parte di madre, di quell’abate e naturalista, Antonio Stoppani, autore di un libro di gran successo, Il Bel Paese, che non poco ha contribuito a costruire la nostra identità nazionale. Stoppani era un uomo di scienza e individuò una vena scientifica anche nella sua nipotina. Sta di fatto che Maria, dopo aver seguito tutto il percorso delle scuole elementari e medie a Roma, dove la famiglia si è intanto trasferita, a 20 anni si iscrive all’università La Sapienza di Roma. Quando nel 1896 termina gli studi, è la prima donna ad essersi laureata in medicina a Roma.
In un primo momento si occupa di psichiatria e inizia a frequentare quelli che lei chiama i «bambini deficienti», malati psichici. Scoprendo almeno tre cose. Che questi bambini hanno una straordinaria umanità e anche una creatività che può esplodere quando li si lascia liberi, appunto, di esprimersi. La seconda è che la scienza la scienza positiva è uno strumento non solo di progresso culturale ma anche un strumento politico di emancipazione dei deboli. Un fattore di democrazia, che può fornire un contributo forse non sufficiente, ma assolutamente necessario per restituire dignità e piena cittadinanza a questi bambini. E che, infine, come nota ancora Roberta Passione, è proprio dai bambini, dalla loro protezione e dalla loro educazione che è possibile avviare «la rigenerazione del mondo».
Non abbiamo lo spazio per ricostruire in dettaglio la storia del rapporto di Maria Montessori con i bambini. Ma è anche vero che non possiamo trascurare due fatti. Il primo è che Maria Montessori con questo quadro di riferimento opera a tutto campo. Nella cura dei bambini malati come nella lotta per l’emancipazione femminile. E infatti in un medesimo anno, il 1896, da un lato fonda con il patrocinio del Ministro e suo ex maestro Guido Baccelli e con l’aiuto di Giuseppe Ferruccio Montesano, l’amato collega e compagno di vita da cui, fuori dal matrimonio, avrà un figlio la Lega nazionale per la cura e l’educazione dei deficienti; e dall’altro contribuisce a fondare l’Associazione femminile di Roma, con un preciso scopo: avvicinare le donne alla scienza. E viceversa. In quel medesimo anno si reca a Berlino per partecipare al Congresso Femminile. In quella assise internazionale, la «bella italiana» non passa inosservata. Non solo per la sua grazia, ma anche per la veemenza con cui denuncia la condizione delle lavoratrici in Italia e chiede sia un più facile accesso al sistema educativo sia la parità di diritti e di salario tra maschi e femmine. È chiaro che sta nascendo una scienziata con una marcata «visione politica»: un autentico prototipo. E non solo in Italia.
Altro anno fondamentale nella vita di questa donna, che da psichiatra si è ormai trasformata in esperta pedagogista, con una solida formazione antropologica e filosofica, è il 1906. Quando crea la Casa dei bambini nel quartiere romano di San Lorenzo, dove inizia a sperimentare la sua «pedagogia scientifica» e inizia ad applicare ai «bambini normali» ciò che ha capito prendendosi cura dei «bambini deficienti»: la libertà come fonte di creatività e, insieme, di disciplina. Il rispetto dell’individualità come condizione per uno sviluppo armonico della socialità.
È un modo di fare scuola del tutto nuovo. I bambini che a San Lorenzo sono figli di famiglie alquanto povere non sono irreggimentati nei banchi, classe di età per classe di età, ma si muovo in spazi liberi, seguendo percorsi di apprendimento in cui componente fondamentale è la propria autodeterminazione. L’insegnante aiuta i suoi studenti a seguire il percorso migliore, che è il percorso di apprendimento preferito.
Non saremo noi ad approfondire i contenuti della pedagogia di Maria Montessori, che trovano espressione nel 1909 in un libro, Manuale della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei bambini, che viene scritto in pochi giorni mentre è ospite dei conti Franchetti a Città di Castello ma che presto ottiene fama planetaria. Trasformandola, nel giro di pochi anni, nella «donna più interessante» e in una delle più note d’Europa.
I SUOI LIBRI BRUCIATI DAI NAZISTI
In breve nascono scuole che si ispirano direttamente al «metodo Montessori» un po’ ovunque, ma soprattutto in Germania e negli Stati Uniti. È per questo che, una decina di anni dopo, quando arriva al potere, il maestro elementare Benito Mussolini cerca un qualche appeasement una qualche diplomazia dell’accordo con Maria Montessori, i cui principi positivistici non incontrano certo l’idealismo che informa di sé la scuola di Giovanni Gentile. Per molti anni le scuole Montessori vengono tollerate e persino protette dal Duce. Ma alla fine i principi di libertà su cui si fondano entrano definitivamente in collisione con l’autoritarismo fascista. Maria e il figlio Mario lasciano l’Italia. Intanto le sue scuole vengono chiuse anche da Adolf Hitler in Germania e i suoi libri bruciati dai nazisti.
Maria Montessori ripara prima in Olanda e poi nel corso della Seconda guerra mondiale, in India, dove riprende con forza immutata la battaglia per il valore educativo della libertà e il valore emancipativo dell’educazione. È dall’India che inizia la sua battaglia contro l’«analfabetismo mondiale», convinta com’è che la mancanza di cultura cristallizza le condizioni di povertà e solo l’educazione consente l’emancipazione dei poveri. A guerra finita torna in Italia, ma sporadicamente. La sua terra adottiva è, ormai, l’Olanda. Dove, il 6 maggio1952, a Noordwijk muore.
Non è certo «profeta in patria». Delle oltre ventimila scuole che oggi esplicitamente fanno riferimento al «metodo Montessori» solo 136 secondo un censimento realizzato dall’Università di Roma Tre e aggiornato al 2003 sono in Italia. Contro le 4.000, circa, negli Usa; le 1.140 in Germania, le 800 in Gran Bretagna, le 375 in Irlanda, la 220 in Olanda, le 163 in Svezia, le 150 in Giappone e le 200 in India. La «bella italiana» e il suo progetto di riscatto sociale attraverso la scienza appartengono, ormai, al mondo. Ma, come troppo spesso accade a molti geni italiani e a molte idee di italiani, non appartengono più al loro
distratto e irriconoscente Paese.
Con Maria Montessori si chiude il ciclo dedicato agli scienziati italiani che hanno fatto politica. Abbiamo scritto il ritratto di Pontecorvo, Levi, Ciamician, Amald

Corriere 23.9.12
Siamo più intelligenti (o no?)
Il quoziente raddoppiato in un secolo
di Giulio Giorello


Negli Stati Uniti, come pure in Europa, i test che valutano il Quoziente di intelligenza danno risultati che sono in media superiori a quelli ottenuti nella prima metà del Novecento. Dal 1910 a oggi il «Q.i.» è raddoppiato. Dunque, possiamo dire di essere tutti più «intelligenti» dei nostri antenati? Qualunque possano essere le nostre riserve, resta il fatto che sono cambiati insieme il nostro ambiente fisico e quello intellettuale. E che oggi siamo certamente sottoposti a un numero maggiore di stimoli alla conoscenza.

Domanda: «Non ci sono cammelli in Germania; la città di Brema è in Germania; ci sono dunque dei cammelli a Brema?». Risposta: «Non lo so, non ho mai visto le città della Germania. Ma se Brema è una grande città dovrebbero esserci anche dei cammelli!». Domanda: «Ma come puoi dirlo, se di cammelli non ce ne sono in tutta la Germania?». Risposta: «Se Brema è una città piccolina, magari non c'è posto per cammelli» (nemmeno allo zoo). Così suonava un test proposto dal grande psicologo Alexander Luria agli abitanti di alcuni villaggi di campagna della Russia degli anni Venti del Novecento. I loro colleghi americani non ottenevano punteggi migliori. Ricorda l'esperto James R. Flynn, in un articolo apparso ieri nel Wall Street Journal, che quando chiedevano a suo padre che cosa mai avessero in comune cani e lepri lui era pronto a rispondere «Niente: i cani sono fatti per cacciare le lepri!». Oggi un ragazzino delle elementari saprebbe subito rispondere che lepri e cani sono entrambi dei mammiferi e così passerebbe il test del Quoziente d'intelligenza (QI). Non è che quegli americani o quei russi fossero tutti degli sprovveduti; piuttosto, argomenta Flynn, le loro risposte denunciavano poca dimestichezza con le città tedesche o esclusivo interesse per la lepre in salmì. Oggi constatiamo che negli Stati Uniti, e pure in Europa, le valutazioni del QI danno risultati che sono in media superiori a quelli ottenuti nella prima metà del Novecento. La cosa agli studiosi è nota, appunto, come «effetto Flynn», che aveva riscontrato una crescita del genere già nel 1984. Adesso la conferma: ogni decade, dagli inizi del '900, sono stati guadagnati tre punti. Rispetto al 1910, quando per gli americani la media del QI oscillava tra 50 e 70 punti, ora è tra 130 e 150, più del doppio.
Dunque, siamo tutti più «intelligenti»? Ammesso che i test del QI «misurino» davvero quella dote elusiva che chiamiamo abitualmente «intelligenza». Qualunque possano essere le nostre riserve sull'impiego di tali test, resta il fatto che sono cambiati insieme il nostro ambiente fisico e quello intellettuale. Capaci di spostamenti veloci, garantiti da un buon tenore di vita, protetti da un efficiente sistema sanitario eccetera, siamo anche più abituati alla flessibilità del linguaggio, alla potenza dell'immagine, all'esercizio della logica — nonostante i ben noti difetti che si possono individuare nelle istituzioni e nei media. Così riusciamo ad adeguarci a forme di classificazione astratta (come quelle per gli animali: mammiferi, ovipari eccetera) o a ragionamenti del tipo «se... allora» (se non ci sono cammelli in tutta la Germania allora non ci sono nemmeno nella città tedesca di Brema) e proprio questo ci rende agili nel rispondere alla sfida di test che avrebbero fatto fare cattiva figura ai nostri nonni. Hanno probabilmente avuto un ruolo essenziale educazione e tecnologia nel non limitarsi al rudimentale «leggere, scrivere e far di conto» per venire sempre di più in contatto con testi sofisticati, magari utilizzando strumenti nuovi e affascinanti. A mio avviso, per esempio, l'abbinamento ben fatto di figure e di parole dei fumetti ha costituito un potente fattore: ai tempi in cui ero ragazzo; oggi forse un ruolo analogo viene svolto da quei videogiochi che talvolta destano perplessità e timore in severi pedagogisti. Ma scenari di questo genere sono sempre congetturali. E sarebbe bello poter indovinare quali cambiamenti nella costellazione delle idee e delle cose potrebbero portare a un'ulteriore crescita del nostro QI; ma per dirla con una battuta di Tex Willer «se davvero riuscissimo a prevedere tutto, troveremmo la vita meno interessante». Fa parte dell'effetto Flynn anche una dose di incertezza e di rischio: ma è questa forma di irrequietezza che accende il fuoco dell'intelligenza.

Corriere La Lettura 23.9.12
Victor, ragazzo solo nell'età dei Lumi
Sotto il microscopio dell'autore americano la pedagogia di fine Settecento
di Ida Bozzi


Il caso notorio del ragazzo inselvatichito, l'evento che scosse nel 1797 e per alcuni anni la regione francese dell'Aveyron fitta di boschi e di borghi agricoli, è narrato nel racconto Il ragazzo selvaggio di T. C. Boyle (le iniziali stanno per Tom Coraghessan), che sfida con questo «corto» niente meno che François Truffaut e una delle sue pellicole più celebri. L'americano Boyle, 62 anni ben portati tra giubbotti e capelli da rocker, tra i contributor dell'editore «McSweeney's» di Dave Eggers fin dalle origini, in passato si è già interessato, e da prospettive insolite, a personaggi storici. Lo ha fatto ad esempio con l'architetto Frank Lloyd Wright, attraverso lo sguardo delle presenze femminili nella sua vita (nel romanzo Le donne, Feltrinelli, 2009). E nel Ragazzo selvaggio, in America uscito nel 2010 come parte di un'ampia raccolta di racconti, sceglie un lineare understatement, un tono quasi didascalico, realizzando a sua volta una sorta di cronaca storico-scientifica nello stile dei pamphlet a cavallo tra il '700 e il Positivismo. Tanto da far balenare il ricordo del testo che A. R. Von Feuerbach dedicò all'altro fanciullo misterioso d'Europa, lo sfortunato Kaspar Hauser. Dunque, ecco narrata l'apparizione del selvaggio nelle campagne («quando il contadino era ormai a una ventina di metri da lui, il bambino sollevò la testa e i loro occhi si incontrarono»), la cattura, il tentativo del medico Jean Itard di insegnare a parlare al piccolo, chiamato Victor («cercava di pronunciare il suo nome, ma non gli uscì niente»), e il tratteggio delle istituzioni educative e pedagogiche nella Francia post rivoluzionaria e pre napoleonica. Ma oltre al piglio di rapporto scientifico d'epoca (solo nell'asciuttezza, non nella lingua), ciò che risalta nel racconto di una vicenda arcinota è lo studio di Boyle sulle varie psicologie (in questo, lo scrittore è specialista: il suo nuovo romanzo «San Miguel», appena uscito negli Stati Uniti, è la storia dei diversi membri di una grande famiglia arroccata su un'isola), sugli umori dei paesani, sul rapporto tra il piccolo e gli adulti (scontro d'età o di civiltà che sia). Il libro è quasi una risposta al saggio che lo stesso Itard scrisse sul caso; ma, per Boyle, una parte del monstrum analizzato è Itard stesso, qui mostrato tra ansie di innovatore e scoramento di pioniere sfortunato. Sotto la lente c'è la società del tempo, non solo il «selvaggio»: il quale ci apparirà infine cresciuto, adulto, ma non meno misterioso del giorno in cui è giunto nella società. Una società, mostra Boyle, ancora essa stessa un po' selvaggia.

Corriere La Lettura 23.9.12
Il grande successo di una teoria sbagliata
Il concetto di «salto di paradigma» è tra i più citati per spiegare svolte che spesso però sono graduali
Viene ripubblicato negli Usa il libro del '62 «La struttura delle rivoluzioni scientifiche»
di Anna Meldolesi


Nel 1962 il mondo sfiorava la guerra nucleare con la crisi dei missili a Cuba. I Beatles incidevano il primo disco, James Bond arrivava per la prima volta al cinema, Marilyn Monroe lasciava tragicamente le scene. In quello stesso anno Watson e Crick ricevevano il premio Nobel per la scoperta della doppia elica. Fra tanti avvenimenti da prima pagina, il 1962 vanta anche un altro primato. La pubblicazione di un libro tra i più citati al mondo: La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn (in Italia c'è l'edizione 2009, presso Einaudi). Molti commentatori l'hanno inserito fra i testi più influenti del Novecento e non c'è dubbio che abbia cambiato per sempre l'immagine della scienza. Eppure, quando cinquant'anni fa la University of Chicago Press diede il «si stampi», era soltanto il tomo secondo del secondo volume dell'International Encyclopedia of Unified Science, scritto da uno storico di Berkeley con interessi filosofici e studi fisici alle spalle. Nessuno, dentro o fuori la casa editrice americana, tanto meno Kuhn, poteva immaginare che sarebbe diventato un bestseller. In effetti all'inizio le vendite furono modestissime, poi però il libro ha cominciato a volare e non si è più fermato. Ad oggi ha venduto quasi un milione e mezzo di copie, una cifra straordinaria per un saggio accademico. E ora, per celebrare il cinquantenario, la University of Chicago Press lo ha riproposto in edizione speciale, con una prefazione del filosofo canadese Ian Hacking, che aiuta a rileggerlo in un contesto storico completamente cambiato.
Oggi la fisica non è più la regina incontrastata delle scienze e i computer hanno invaso i laboratori. È ancora vero quel che sosteneva Kuhn? Ovvero che la scienza è costituita dall'alternarsi di brevi periodi rivoluzionari, in cui si passa da un paradigma vecchio a uno nuovo, intervallati da lunghi periodi in cui la scienza è «normale» e gli scienziati non fanno che aggiungere dettagli al paradigma dominante?
Nel 1962, ricorda Hacking, i fisici delle alte energie sembravano collezionare particelle come farfalle, a rimetterle in ordine è stato il «modello standard». In cosmologia si affrontavano due visioni opposte, il «big bang» e lo «stato stazionario», ma nel giro di pochi anni la scoperta della radiazione di fondo avrebbe decretato la vittoria del primo. Nel frattempo nuovi mattoni hanno rafforzato l'edificio teorico della fisica fondamentale, da ultimo il bosone di Higgs che, in senso kuhniano, è decisamente «normale». I problemi da risolvere sono ancora molti e il futuro riserverà delle sorprese, scrive Hacking, ma «forse non avremo un'altra rivoluzione». Game over.
Se così sarà, possiamo essere soddisfatti di aver raggiunto conoscenze tanto solide da somigliare al nucleo della verità. Oppure possiamo pensare insieme all'autore di La fine della scienza, il giornalista John Horgan, che questa sia una prospettiva reale ma deprimente. Se invece Kuhn avesse ragione, prima o poi insorgerebbe qualche anomalia, che alimenterebbe nuovi dubbi e aprirebbe le porte a nuove rivelazioni, in un alternarsi di ehmm… e ahhh! senza fine. Ma no, Kuhn non ha più ragione e forse non l'ha mai avuta. Secondo la sua idea dell'«incommensurabilità», quando si vive dentro un paradigma non si capisce più il vecchio, perché persino la stessa parola acquista significati diversi. Come ha scritto il Nobel per la fisica Steven Weinberg, però, non è vero che Einstein ha scalzato Newton, e non è vero che i due paradigmi siano «incommensurabili». Impegnandosi abbastanza, gli studenti sono perfettamente in grado di capire sia l'uno che l'altro. Quanto alle scienze della vita, l'idea dei salti di paradigma è ancora meno convincente: Watson e Crick non hanno soppiantato Darwin, l'hanno completato. Nella biologia evoluzionistica — ha notato il grande naturalista Ernst Mayr — non si scorge alcun andamento kuhniano.
È evidente che l'eredità della Struttura è controversa, qualcuno potrebbe persino dire avvelenata, ma troppo ingombrante per decidere di non farci i conti. Kuhn ha contribuito in modo sostanziale a diffondere l'idea che gli scienziati non siano in grado di capire la verità, influenzati come sono dalla cultura e dalla società circostante, e che addirittura non siano capaci di capirsi tra loro. Non è stato l'unico filosofo che si sia dedicato a instillare il dubbio nella scienza, e le ripercussioni della sua opera sono andate abbondantemente oltre le sue intenzioni. Fatto sta che è riuscito nel capolavoro di farsi citare a ogni piè sospinto sia dagli oppositori della scienza che dagli scienziati, fino a contaminare il linguaggio comune con espressioni che sono diventate virali.
Prima di lui la parola paradigma veniva usata più che altro per la coniugazione dei verbi: ricordate amo, amas, amavi, amatum, amare? Dopo di lui è diventata un'espressione passepartout per indicare un cambiamento del nostro modo di concepire qualcosa. L'iPhone5? Non è un salto di paradigma, è troppo simile al 4. La crisi finanziaria? Quella sì che è un cambio di paradigma, secondo Tremonti. E l'elenco potrebbe continuare. A Kuhn è stato rimproverato di aver usato la parola in una ventina di accezioni diverse e lui, sconcertato dal crescente abuso, ha cercato di sostituirla con espressioni meno ambigue. Ma non c'è stato niente da fare: non si può rimettere il genio nella lampada dopo che è uscito. Nelle scienze umane l'idea dei salti di paradigma ha fatto breccia, perché è servita a liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti delle scienze dure, che smettono di essere una via di conoscenza privilegiata. Nelle scienze naturali viene usata dagli scienziati stessi come specchietto per le allodole nei confronti di media e finanziatori, per far apparire straordinari anche contributi scientifici modesti.
Citare Kuhn è diventato un topos giornalistico, un fregio per aspiranti intellettuali e un ritornello per sedicenti innovatori. Kuhn, in definitiva, si è fatto paradigma, ed è così radicato che per scalzarlo ci vorrebbe una rivoluzione.

Corriere La Lettura 23.9.12
Žižek? Una barzelletta spiegata
Le sue fonti d'ispirazione sono filologicamente Hegel, Marx e Lacan
Ma il suo cabaret mentale deriva da McLuhan in chiave Dada
di Guido Vitiello


Quando Jean-François Lyotard pubblicò Il postmoderno spiegato ai bambini, c'era da evocare il vecchio Groucho Marx: «Anche un bambino di quattro anni potrebbe capirlo... Va' a trovarmi un bambino di quattro anni, perché io non ci capisco niente». Del resto, la familiarità dei piccini con le filastrocche, le ninnenanne e gli scioglilingua li dispone meglio verso certe formule cullanti e incantatorie dei filosofi: chi corre in cerchio al grido di «giro girotondo, casca il mondo» non avrà problemi a farsi dire da nonno Heidegger che il mondo mondeggia e il nulla nulleggia. Ma chissà che non sia questo l'atteggiamento più proficuo e, in fin dei conti, il più sano. Davanti a certi grandi affabulatori verrebbe da esclamare, come le dame di La Bruyère ammaliate da un oratore alla moda: «Delizioso; che cosa ha detto?».
Che cosa ha detto Slavoj Žižek? Che cosa va dicendo per conferenze, libri, articoli e adunate militanti il più vulcanico showman della scena filosofica? Quale trama concettuale si cela dietro l'ininterrotto ricamo di citazioni di film, fumetti, aneddoti, barzellette? Un libro si propone di scovare un metodo nell'apparente follia del filosofo sloveno. Si chiama Introduzione a Žižek, lo ha scritto nel 2003 un professore di letteratura inglese, Tony Myers, e lo pubblica ora il Melangolo.
Myers espone diligentemente le fonti di Žižek — Hegel, Marx e Lacan — e riporta, come in un referto clinico, le violenze interpretative che ha inferto a ciascuno di essi perché lo aiutassero a innalzare la sua piramide speculativa. Passa poi in rassegna i suoi temi ricorrenti, dalla nozione di ideologia al rapporto tra i sessi. Richiuse le pagine si ha l'impressione di aver capito qualcosa di Žižek, una buona volta. E al seguito di qualche lacrimuccia di commozione si affacciano alla mente tre considerazioni.
La prima: Dio strabenedica gli inglesi e la loro tradizione di divulgatori. Molti pensatori continentali diventano comprensibili solo una volta che i loro panni — per lo più, Lederhosen ascellari da montanaro tedesco e trine francesi — sono stati risciacquati nel Tamigi o nel Mississippi. Solo nell'anglosfera potevano apparire manuali come Foucault for beginners (a fumetti!) o Existentialism for dummies. Solo nell'anglosfera qualcuno poteva prendersi la briga di spiegare Žižek così come s'insegna ad assemblare uno sbattiuova.
Di qui la seconda considerazione: siamo certi che questa chiarezza riguadagnata non sia a sua volta un miraggio? Adam Kotsko, traduttore americano di Giorgio Agamben, ha accostato di recente lo stile di quest'ultimo a quello di Lacan, concludendone che entrambi danno l'illusione di costruire un sistema coerente ma procedono per lo più a colpi di intuizioni e folgorazioni. È ancor più vero per Žižek, che semina più idee di quante sia in grado di coltivare e che, soprattutto, non ha un granaio sistematico in cui ammassarle.
La terza considerazione, poi, è la più triste: il libro di Myers spiega la grande barzelletta di Žižek, e questa barzelletta, una volta spiegata, non fa più ridere. Ci svela l'arrosto da cui proveniva il fumo, ma vien fuori che è stoppaccioso e insapore, e che in fin dei conti il fumo era la cosa migliore che avesse da offrire. Se Žižek ha una funzione pubblica, è appunto quella di spandere i suoi fumi inebrianti, e in questo il diretto antesignano non è certo il suo Lacan: è Marshall McLuhan. Certo, McLuhan era uno studioso incomparabilmente più importante, scriveva meglio ed era più spiritoso. Ma il suo ruolo di grande «shaker» culturale era simile a quello che svolge oggi Žižek. Fu McLuhan la prima rockstar del pensiero contornata da fan (i «McLunatics»); lui il primo ad allestire un cabaret intellettuale permanente e ad assegnarsi la parte del folle; lui il primo a tenere insieme sulla stessa pagina Heidegger e i Peanuts; lui il primo a fare del salto di palo in frasca una specialità olimpica, esasperando lettori e interlocutori. «C'è del buono in McLuhan come ce n'è nei fumatori di banana e negli hippies», scriveva Eco nel 1967: «Stiamo a vedere cosa combineranno ancora». Era un giudizio ingeneroso per McLuhan, ma è perfetto per Žižek.
Lunga vita, dunque, all'avanspettacolo filosofico: in fondo, per parafrasare Wittgenstein, di ciò di cui non è possibile parlare si può beatamente parlare a vanvera.

Corriere Salute 23.9.12
Il «mal sottile» da Ippocrate alla Montagna Incantata
di Armando Torno


L'umanità ne soffre sin dalla notte dei tempi. Nel 2010 le statistiche hanno rilevato quasi nove milioni di nuovi casi. E sue tracce si sono trovate nella spina dorsale di mummie egizie del terzo millennio prima di Cristo. Ma era già presente nell'uomo preistorico. Si chiama tubercolosi. O tisi. In tal caso il termine è greco. Deriva da phthísis (da phthíein, consumarsi). Ippocrate lo cita negli Aforismi; ricorda che questa malattia è diffusa, fatale. Diventò endemica tra i ceti meno abbienti nel XIX secolo e all'inizio del Novecento. Due cifre danno l'idea del problema: nei giorni in cui Napoleone è definitivamente battuto a Waterloo, il 25 per cento delle morti in Inghilterra è dovuto alla tubercolosi; un secolo più tardi, alla fine della prima guerra mondiale, ovvero nel 1918, in Francia un buon 16 per cento dei decessi è ancora causato da questa malattia. Ma è proprio nel XIX secolo che la tisi entra anche nelle vicende letterarie, quasi fosse una componente essenziale per talune storie strazianti. Prima del secolo romantico e della rivoluzione industriale, come rileva Katharine Mary Briggs nella Encyclopedia of Fairies (Pantheon Books 1976), questo male era associato al vampirismo. Forse perché le persone colpite presentano occhi arrossati e gonfi; forse perché nei colpi di tosse la loro saliva si tinge di sangue. Ma poi gli ammalati si fanno illustri. Il «gran mondo» ne è contagiato. Ecco Matilde Manzoni, figlia del celebre Alessandro, che muore nel 1856 a 26 anni; dalla tisi sono inoltre colpiti personaggi quali Keats (1795-1821), Pergolesi (1710-1736), Emily Brontë (1818-1848), Chopin (1810-1849), Cechov (1860-1904), Orwell (1903-1950), Gozzano (1883-1916). Essa miete vittime anche fra personaggi che abitano le pagine della letteratura o le opere del teatro lirico. Muoiono di tisi la Silvia di Leopardi, la Signora delle camelie di Alexandre Dumas e, di conseguenza, la Violetta della Traviata di Verdi, la Mimì della Bohème di Puccini e il piccolo Iljuscia dei Fratelli Karamàzov di Dostoevskij. E La montagna incantata (o «magica»: Der Zauberberg) di Thomas Mann inizia con la visita in un sanatorio sulle Alpi svizzere. Nel congedarsi dal mondo le giovani vite solitamente accentuano gli aspetti romantici. Per esempio Mimì, creatura pucciniana esemplare, si spegne con dolcezza circondata dagli amici; accanto ha l'amato Rodolfo. Si è apparentemente assopita e nessuno sembra al momento essersi accorto della sua morte. Anche Silvia — forse non fu la sola ispiratrice dei versi — attraverso Leopardi fa conoscere il «chiuso morbo» da cui è «combattuta e vinta» agli studenti. Violetta attende il terzo atto della Traviata per far venire il groppo alla gola al pubblico: sembrerebbe che riacquisti le forze, si alza dal letto, ma poi, in un batter d'occhi, cade. Il suo corpo si adagia senza vita sul divanetto imbottito, con spalliera e braccioli, chiamato canapè. Non sono che esempi.
Ora un saggio di Eugenia Tognotti dal titolo «Il morbo lento». La tisi nell'Italia dell'Ottocento (Franco Angeli, pp. 240, 29), con una prefazione di Giorgio Cosmacini, riporta l'attenzione sulla malattia e i suoi effetti sociali. È uno spaccato di storia. Cosmacini riporta nella premessa una frase del medico condotto di Sondalo, Ausonio Zubiani, che è più eloquente di tanti discorsi: «Vi sono due tisi, quella dei ricchi che qualche volta guarisce e quella dei poveri che non guarisce mai». E a questo proposito sono significativi i versi scritti in Alle soglie di Guido Gozzano, che di questo male morirà, risalenti al 1907, sorta di epigrafe del saggio di Tognotti.
L a tubercolosi del poeta è quella di un borghese che può permettersi le cure: «Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni, / m'auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro. / E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo? /Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli... ». C'è anche la serie di consigli che seguono la visita, scritti come al solito con un tocco di ironia: «Nutrirsi... non fare più versi... nessuna notte più insonne... / non più sigarette... non donne... tentare bei cieli più tersi: / Nervi... Rapallo... San Remo... cacciare la malinconia; / e se permette faremo qualche radioscopia... ». Il saggio dedica un capitolo a Matilde Manzoni. La sua lapide, scritta dal padre, ricorda che la giovane fu «spenta dal lento morbo». Sono ricostruiti sintomi, diagnosi e cure. Per esempio, doveva alternare lo «sciroppo Jodo ferrato di Mialke» con l'olio di fegato di merluzzo, fare bagni di mare; i clinici le dicono che «il polmone sinistro è sanissimo» ma in quello destro «c'è un po' di ingorgo». Lei scrive al padre nel febbraio 1855: «Seguito ad avere la febbre tutte le sere e per ora non pare voglia finire. Di giorno se si eccettua un po' di mal di capo e dei dolori più o meno acuti al petto, del resto non c'è male da tanto tempo e non posso lamentarmi; ma la sera mi sento proprio male, i sudori sono alle volte assai abbondanti e mi lasciano debole». La storia, al di là del singolo caso, è quella di un'epoca. Il libro della Tognotti va dalle strategie terapeutiche all'avanzamento della malattia dopo l'unità d'Italia, dal mito del sanatorio via via sino all'invito diffuso da migliaia di cartelli con la scritta «Non sputare». Si cercava, con tale proibizione, di non diffondere il bacillo. La pessima abitudine era un fatto naturale nell'Italia del XIX secolo e tutti espettoravano. Anche i signori delle classi abbienti. Forse con grazia.

Corriere 23.9.12
I lunghi viaggi per curare il «morbo lento»


Nel libro di Eugenia Tognotti «Il morto lento» un capitolo si intitola «Alla prova del clima: tisici in viaggio». È appunto dedicato alla climatoterapia. Per esempio, Gabriele Falloppio (morto nel 1562) era un «sostenitore del clima nel trattamento della tisi, con una scelta delle località che doveva tener conto del temperamento e della costituzione del paziente».
Il medico fiammingo Jean Baptiste van Helmont (morto nel 1644), che fu anche mistico e alchimista oltre che uomo con molte contraddizioni, «consigliava la montagna e climi più caldi per i tisici». E l'inglese Thomas Willis (morto nel 1675) «suggeriva la riviera per gli ammalati di tubercolosi». Giorgio Baglivi (si spense a Roma nel 1707), archiatra pontificio, «deplorava l'inefficacia dei rimedi medicinali e indicava climi più favorevoli ai tisici». Ci vorrà ancora del tempo prima che il batterio causa della tubercolosi, Mycobacterium tuberculosis, sarà identificato e descritto nel 1882 da Robert Koch. E per l'immunizzazione dovrà passarne ancora dell'altro: è il 1908 quando Albert Calmette e Camille Guérin riescono a ottenere il vaccino. Il quale sarà utilizzato per la prima volta nel 1921 in Francia. Ma il consenso di tutte le nazioni giungerà dopo la seconda guerra mondiale.

Corriere 23.9.12
Vessato da chi temeva il contagio Il tormento di Chopin


C'è una ricostruzione, scritta da Giovanni Iudica, del momento in cui fu diagnosticata la tisi al ventottenne Chopin. E un piccolo inventario delle conseguenze che dovette sopportare. Non si tratta di fatti eccezionali, ma di quel che accadeva con frequenza quando scoppiava la paura del contagio. Si leggono in Chopin a Palma di Maiorca e altre storie (Edizioni La Vita Felice 2009). Va ricordato innanzitutto che il musicista aveva lasciato Parigi per un periodo di vacanza insieme a George Sand e ai figli di lei, Maurice e Solange. Voleva dimenticare i veleni cittadini, quel dannato Friedrich Kalkbrenner da tutti i benpensanti dell'arte stimato come «il più grande pianista d'Europa», virtuoso «dalla calma sovrana» e dal «tocco abbagliante» (peccato fosse incapace di suscitare emozioni). Via dalla città tentacolare dunque, lontano dal 27 di boulevard Poissonnière, dove il musicista occupa un piccolo appartamento al quinto piano. A Palma di Maiorca avrebbe avuto tempo per finire i suoi Preludi, per riposarsi, per il sole e l'aria tersa. Invece il tempo cambia improvvisamente. La temperatura precipita. L'artista «fragile, gracile, cagionevole» una sera avverte una febbre altissima, ma anche un «violento accesso di tosse». Sputa sangue. Molto. Ci informa Iudica: «Furono chiamati tre medici per un consulto e il verdetto unanime fu infausto: tisi». E qui cominciano i guai, al di là della malattia, giacché a quel tempo si riteneva che la tubercolosi fosse contagiosa quanto la peste o il colera. Non c'è via di scampo: Chopin, la sua compagna e i figli sono costretti a tornare a Parigi, o meglio a fuggire da lì. Scrive Iudica: «A loro spese, vengono bruciati i mobili, la biancheria, le suppellettili, e i locali della Certosa furono purificati con la calce viva. George riuscì a ottenere a caro prezzo un passaggio a Barcellona su un naviglio di contrabbando». Ma, anche in tal caso, al di là della spesa, i tormenti per il povero ammalato non sono finiti. «Fu costruita — prosegue Iudica — una piccola, soffocante, puzzolente cabina e lì l'ammalato venne disteso su una branda. Gli fu proibito di uscire per tutto il viaggio. Una volta a Barcellona la cabina venne data alle fiamme». Chopin, comunque, vivrà altri dieci anni. Certo: magro, fragile, pallido. Ma quel viaggio, con la relativa vacanza, non riuscirà a dimenticarli.

La Stampa 23.9.12
Arriva Vermeer alle Scuderie del Quirinale


Non solo Vermeer alla grande mostra che si aprirà giovedì prossimo a Roma alle Scuderie del Quirinale. Affiancati agli otto capolavori del genio di Delft riuniti per la prima volta in Italia, si potranno ammirare 50 opere eseguite dai maggiori artisti olandesi del XVII secolo, tra cui Carel Fabritius, Emanuel de Witte, Gabriel Metsu, Pieter de Hooch. Intitolata «Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese» , la rassegna ha già registrato oltre 65.000 prenotazioni e si configura come uno degli avvenimenti espositivi più attesi dell’anno.

Corriere La Lettura 23.9.12
Vermeer, lettere d'amore
Mittenti invisibili, pagine silenziose E l'arte raccontò una nuova civiltà
di Pietro Citati


Nel 1659, Gerard ter Borch dipinse un piccolo quadro, di circa cinquanta centimetri quadrati, simile a migliaia di quadri della grande enciclopedia olandese, che portava come titolo Donna che sigilla una lettera. Sul tavolo della donna, vicino alla fiamma di una candela e al calamaio di metallo e alla penna d'oca, stava un piccolo libro rosso, Le sécretaire à la mode di Jean Puget de La Serre, tradotto nel 1651 dal francese in olandese. Il piccolo libro rosso conteneva decine di esempi di lettere, specialmente di argomento amoroso. La maggior parte delle lettere erano scritte da uomini: ma le frasi femminili, proposte come esempi, esibivano una ricca gamma di risposte: rifiuti decisi, mezzi rifiuti, incertezze, esitazioni, timidi incoraggiamenti, risposte compiacenti, assensi aperti ed affettuosi.
Le lettere, specie quelle d'amore, rappresentavano il cuore della civiltà olandese verso la fine del diciassettesimo secolo. I maggiori pittori del tempo: Gerard ter Borch, Gabriel Metsu e soprattutto l'artista sommo, Johannes Vermeer, composero molti quadri con epistolografi che impugnavano penne e calamai, sigilli e candele e ceralacche, e lettori e lettrici che afferravano avidamente le missive appena giunte e aperte. Scrivere lettere, leggerle e sigillarle era un segno: il segno di una ricchezza e di una opulenza che l'Olanda ostentava al mondo. Sulle spalle e i corpi dei gentiluomini e delle gentildonne trionfavano velluti raffinati, morbide pellicce, lucide sete, eleganti giacchette nere e gialle, gonne nere, pomposi camiciotti virili: sui tavoli erano distesi tappeti persiani e deposte tovaglie di un vibrante colore blu. Nel quadro più sontuoso della serie epistolare, un camino di marmi rossi e bianchi, ornato da colonnine corinzie e da un fregio scolpito, ricordava un bellissimo esempio del Municipio di Amsterdam, che gli olandesi consideravano l'ottava meraviglia del mondo. Sullo sfondo, o in un angolo, c'era sempre una domestica in piedi, con in mano una missiva appena ricevuta o aperta, che contrapponeva i suoi dimessi vestiti grigi agli opulenti abiti colorati delle ricche signore di Amsterdam o dell'Aia o di Delft. I grandi pittori non rappresentavano uomini pubblici, che preparavano lettere politiche o d'affari, sebbene la ricchezza olandese obbedisse alle comunicazioni epistolari. In generale, le lettere appartenevano a due tipi. Le prime erano le lettere d'amore. Un gentiluomo o una gentildonna scriveva lettere accese o spiritose a una gentildonna o a un gentiluomo, che spesso viveva lontano, oltre i mari. Decine di segni indicavano che la lettera nasceva dal cuore: una donna beveva vino in abbondanza, e sembrava prendersi gioco di se stessa e dei propri affetti: un quadro o più quadri di argomento marinaro, appesi al muro, ci ricordavano che l'amore è un mare agitato e tempestoso: un asso di cuori è caduto, non sappiamo per quali ragioni, sul pavimento del salotto: un letto col baldacchino anticipava le future gioie amorose; oppure due animali — una colomba e un caprone — alludevano o simboleggiavano la sensualità amorosa. Alcuni quadri erano completamente diversi. Al tavolo di scrittura, tra la penna, i calamai, la candela e le ceralacche, stava seduta una ragazza o una signora, che indossava una splendida giacchetta gialla (la giacca, per esempio, della moglie di Vermeer), o una giacca di pelliccia grigia, o una camicia azzurra. All'improvviso, la donna interrompeva la stesura della lettera, rivolgendosi a un osservatore invisibile, che Gerard ter Borch o Johannes Vermeer si guardavano bene dal rappresentare. Forse l'osservatore invisibile corteggiava in silenzio la donna che stava scrivendo. Di una cosa sola possiamo essere certi: la donna si rivolgeva all'osservatore invisibile — il suo complice —, salutandolo con un sorriso spesso cordiale, o sottile e malizioso. Così il quadro diventava più complesso e complicato: con tre personaggi, di cui soltanto uno appariva sulla scena. Spesso la situazione è ancora più complicata. La donna comunicava veramente col suo amante, che il quadro marinaro o l'asso di cuori o la colomba legano a lei, spesso attraverso la lontananza dei mari: la stesura della lettera s'interrompe; mentre noi guardiamo, la mano della donna continua il suo compito silenzioso. Nello stesso tempo, essa si rivolge all'osservatore invisibile, che le dice (o al quale essa dice) chissà quali parole. Ma la situazione può essere ancora più complicata. In un bellissimo quadro di Gabriel Metsu, un ricco e vistoso gentiluomo, con la mano posata sopra un tappeto persiano, scrive una lettera nelle ore calde del sole pomeridiano, che illumina i muri e i quadri della sua stanza. Intanto Gabriel Metsu compone un altro quadro: largo e lungo precisamente gli stessi centimetri del primo. Senza che noi lo sappiamo, la notte è passata. Cambiamo casa: ora abitiamo la stanza della donna amata dal nostro vistoso gentiluomo; sono le prime ore della mattina successiva, quando il nuovo sole disegna freddamente i muri della camera femminile. La donna amata ha appena ricevuto la lettera dell'amante dalla domestica: la apre; e la legge con quella attenzione estrema e quasi spasmodica con cui, alla fine del diciassettesimo secolo, amanti e amate leggono le reciproche lettere d'amore. I quadri di Gerard ter Borch e di Gabriel Metsu sono, volta a volta, spiritosi e sontuosi: ma i capolavori di questo diffusissimo genere epistolare sono tre quadri di Johannes Vermeer. Ricordo soprattutto la Donna in azzurro che legge una lettera, che possiamo ammirare al Rijksmuseum di Amsterdam. Una grande figura femminile, armoniosa e stabile, vestita con una camicia azzurra, sta leggendo una lettera, posta contro una carta geografica. Possiamo risalire indietro qualche minuto nel tempo: la lettera è arrivata da pochissimo: qualcuno, che ora è scomparso (ma è certo una domestica), l'ha portata fino alle mani della donna vestita d'azzurro. Essa ha interrotto la toeletta per leggerla: le perle del suo collo o delle sue orecchie stanno qui, abbandonate davanti ai nostri occhi, coperte con un altro foglio misterioso. Ora, in questo preciso momento, la donna (che è probabilmente incinta), sta leggendo la missiva, che ha appena cominciato, con ansia, attesa, desiderio. Gli occhi trascorrono, procedono, immaginano quello che non conosceremo mai, e che essa conoscerà tra poco.
Questo è il momento di Johannes Vermeer. Egli avrebbe potuto rendere le apparenze nel loro scintillio passeggero: forse lo tentò una volta nella meravigliosa Fanciulla col cappello rosso. O avrebbe potuto uccidere l'attimo con l'arte crudele dell'entomologo. Con la sua anima intensa e la sua sensualità pittorica, Vermeer conservò il momento pieno, ricco, vivo. Con un tocco sottilissimo, egli lo rese insieme assoluto e immobile. L'attimo è al culmine: la sua vita splende; nessuno potrà mai cancellarlo, e noi lo possederemo eternamente. Chi potrà mai dimenticare la luce che colpisce la donna mentre si aggiusta la collana di perle, o avvolge con un riflesso azzurro l'altra donna che legge la lettera? E chi potrà dimenticare la donna con la bilancia, che stabilisce il nostro destino? Mentre guardiamo, il tempo placato e addormentato ci guarda e ci rivela la propria essenza inattingibile.

Repubblica 23.9.12
La verità nell’arte è non capire ciò che si fa
di Henri Matisse


Se ho fiducia nella mia mano che disegna, è perché quando le insegnavo a servirmi mi sono sforzato di non lasciarle mai prendere il sopravvento sul sentimento. Sento benissimo, mentre la mano svolge la sua parafrasi, se c’è disaccordo tra noi: tra essa e quel non so che in me che sembrerebbe esserle sottomesso. La mano non è che il prolungamento della sensibilità e dell’intelligenza. Quanto più è pronta, tanto più è obbediente. Non bisogna che la serva divenga padrona.
Disegnare con le forbici. Ritagliare al vivo nel colore mi ricorda il cesellare diretto degli scultori. Questo libro è stato concepito nello stesso spirito. Le mie curve non sono folli. Il filo a piombo, impiegato per determinare la direzione verticale, forma col suo contrario, l’orizzontale, la bussola del disegnatore. Ingres si serviva del filo a piombo. Osservate nei suoi studi di figure in piedi quella linea non cancellata che passa per lo sterno e il malleolo interno della “gamba portante”. Intorno a questa linea fittizia si sviluppa l’arabesco. Ho tratto dall’uso che ho fatto del filo a piombo un beneficio costante. La verticale è nel mio spirito. Mi aiuta a precisare la direzione delle linee, e nei disegni di getto, non indico una curva, per esempio quella di un ramo in un paesaggio, senza aver coscienza del suo rapporto con la verticale.
Le mie curve non sono folli. Un nuovo quadro deve essere una cosa unica, una nascita che porti una nuova figura nella rappresentazione del mondo attraverso lo spirito umano. L’artista deve contribuire con tutta la sua energia, la sincerità e la più grande modestia, per scartare durante il lavoro i più vecchi cliché che gli vengono tanto facilmente sotto mano e possono soffocare il fiorellino che, già di per sé, non viene mai così come lo si attende.
Un musicista ha detto: in arte la verità, il reale, comincia quando non si capisce più nulla di ciò che si fa, di cosa si sa, e resta in voi un’energia tanto più forte quanto più è contrariata, compressa, pressata. Serve allora presentarsi con la massima umiltà, tutto bianco, tutto puro, candido, con una mente che appaia vuota, in uno stato d’animo analogo a quello del comunicando che s’avvicina alla Sacra Mensa. Evidentemente bisogna avere dietro di sé tutta la proprio esperienza acquisita e aver saputo conservare la freschezza dell’istinto.
Se credo in Dio? Sì, mentre lavoro. Quando sono sottomesso e modesto, mi sento talmente aiutato da qualcuno che mi fa fare cose che vanno oltre me stesso. Però non sento verso di Lui nessuna riconoscenza, perché è come se mi trovassi davanti a un prestidigitatore di cui non riesco a capire i trucchi. Mi ritrovo allora frustrato del beneficio dell’esperienza che doveva essere la ricompensa del mio sforzo. Sono ingrato senza rimorso. Giovani pittori, pittori incompresi o capiti troppo tardi, nessun Odio. L’odio è un parassita che divora tutto. Non si costruisce nell’odio ma nell’amore. L’emulazione è necessaria, ma l’odio... L’amore invece sostiene l’artista. «L’amore è qualcosa di grande, un bene immenso, che da solo può rendere leggero ciò che è pesante e fa sopportare con animo uguale ciò che è ineguale. Perché porta il peso senza farne un fardello e rende dolce e gradevole tutto ciò che è amaro».
Traduzione italiana tratta dal volume allegato al facsimile
Intorno a Jazz di Matisse © Electa 2012

Repubblica 23.9.12
Disegni improvvisati come note di sax
di Giuseppe Montesano


Un vecchio nonno un po’ sornione che ritaglia giocattoli per i nipotini: è così che si presenta Henri Matisse in una foto che lo ritrae a Vence, a quasi ottant’anni, mentre sforbicia uno dei cartoncini colorati con cui avrebbe costruito Jazz, uno dei libri d’arte più originali del Novecento. E oggi Jazz viene riproposto in edizione fac-simile dall’Electa, con due scritti di Francesco Poli e di Corrado Mingardi, in un libro-oggetto fatto di quartini sciolti che alternano pagine scritte a mano da Matisse e colorate immagini ritagliate da un enfantdi ottant’anni, un bambino sapiente e scapestrato che si mise a dipingere cartoncini e a costruire disegni che sono quasi sculture, tagliando le carte con le forbici e montando i pezzi come in un cinema delle origini: sono i papiers gouachés et decoupés che un editore geniale, Tériade, vide nello studio di Matisse e gli chiese di mettere insieme per comporre un libro. I giochi a colori di Matisse riguardavano soprattutto il circo, tra clown e mangiatori di spade e Pierrot, ma Tériade ebbe un’idea brillante, e dette al libro un nome che in quegli anni evocava il nuovo, l’istinto, l’improvvisazione, il ritmo e la giovinezza: e lo chiamò Jazz.
In quel 1947 le caves a Saint-Germain-de-prés cominciavano a essere invase dai jazzisti americani, i francesi un po’ fuori moda impazzivano per la faccia da Satiro ubriaco di Sidney Bechet e per lo stile New Orleans del suo sax soprano, i giovani si buttavano sui primi dischi del bop trovando nei solchi i guizzi nevrotici e tagliati di Charlie Parker, l’anno dopo si sarebbe aperto il festival internazionale del jazz di Parigi, e lo scrittore Boris Vian scriveva libri surreali e suonava la tromba in un gruppo jazz riuscendo forse a pagarsi le cene ma non certo il troppo whisky americano che beveva. Ma cosa ne sapeva l’ottantenne Matisse della nuova musica che contagiava gli zazous, i ragazzini ribelli delle caves e che si sarebbe sposata a perfezione con le nevrosi dell’Essere e del Niente di Sartre? Non ne sapeva niente o quasi, ma afferrò al volo il suggerimento di Tériade, scrisse nel libro che il gesto dell’artista sapiente deve saper dimenticare la tecnica e conservare «la freschezza dell’istinto», disse che le sue carte ritagliate erano «improvvisazioni cromatiche e ritmate», aggiunse che avrebbe usato la propria grafia «come sfondo sonoro», e creò il suo circo di colori al ritmo di un jazz immaginario. Ma quel ritmo era nelle vene dell’epoca, e basta aprire Jazz per capirlo a ogni foglio e persino negli sbalzi della scrittura. In mezzo alla grafia di curve e sgraffi e onde di Matisse, una grafia che si trasforma in calligrafia come nei rotoli di seta giapponesi o nelle volute liberty, ecco che appaiono immagini famose come Il clown, che si muove accompagnato dalla musica finto jazz della sonata per violino e pianoforte di Ravel; ed ecco i puri segni colorati che Matisse chiamava Lagune, ma che sono arabeschi, frange, virgole, trine, colori trasformati in ritmi da un colpo di forbici che somiglia a un colpo d’ancia del sax di Bechet; ed ecco un capolavoro come Cow-boy, due ombre in forma di macchie che si incrociano avvinghiate da un lazo sghembo e sincopato come il Rag-time di Stravinskij.
E in questo tardo Matisse gli intrecci ritmici e cromatici andavano tutti nella direzione del tempo sincopato e blues del jazz, la musica dell’improvvisazione emotiva in cui il nuovo è raggiunto nel momento in cui ci si lancia a proprio rischio e pericolo nel vuoto, e si dà inizio alle sorprese del Caso. Così, a un certo punto di Jazz, Matisse scriveva: «Un musicista ha detto che in arte la verità, o il reale, comincia quando non si capisce più nulla di quello che si fa... ». Il vecchio artista, che non sapeva niente di Parker e Gillespie, aveva però afferrato l’idea di improvvisazione a partire dalla scomposizione di un tema, che in lui si legava a una pratica esecutiva in cui gli strumenti erano le mani e la musica i colori: con l’aiuto del momento giusto, Matisse sapeva che le combinazioni di timbri e segni diventavano giuste, e la musica delle immagini si levava dalle sue carte colorate e ritagliate come qualcosa di mai visto prima. E non è strano che dal miscuglio tra improvvisazione ritmica e infanzia ritrovata le carte colorate di Matisse anticipino anche il pop: quasi esaurendolo prima che sia inventato. In Matisse è pop l’edonismo visivo, la decoratività che penetra nelle figure, la semplificazione delle forme, qualcosa che è raffinato e bambinesco allo stesso tempo, qualcosa che risuona allegro e dolce anche quando, come in Jazz, rappresenta il funerale di Pierrot. Il vecchio Matisse sapeva giocare, e sapeva che i bambini perenni che siamo vanno divertiti e divagati: e a quei bambini perenni, strizzando l’occhio da clown, regalò il suo jazz.

Repubblica 23.9.12
La passione per il sapere secondo il celebre saggista
Da sempre l’uomo è abitato dalla sete di conoscenza un sentimento disinteressato e inspiegabile
Pensiamo a nostro rischio e pericolo. Ecco la grande lezione di Faust
di George Steiner


Tre narrazioni, tre storie primordiali, non esauribili in un’interpretazione e innumerevoli nelle loro varianti, raccontano di un legame fatale tra conoscenza e castigo. Nell’Eden l’albero della conoscenza spinge il genere umano alla trasgressione, a esilio e infelicità persistenti. Prometeo è condannato a una tortura senza fine per aver rubato la scaltrezza teorica e pratica agli dei gelosi. L’intraprendente intelletto di Faust si spinge troppo in là e fa precipitare la sua anima nell’inferno. Un crimine inestirpabile è collegato alla determinante eccellenza dello spirito umano.
Una smisurata vendetta si è abbattuta su coloro che insegnavano «come l’uom s’etterna» (Dante). I cacciatori di verità diventano a loro volta oggetto di caccia, come se una contraddizione organica opponesse l’esercizio dell’intelletto al sentirsi a casa propria nella vita naturale. Eppure l’impulso a il frutto proibito, a rubare e dominare il fuoco, a porre le domande essenziali come fa Faust, è inestinguibile. Anche se il prezzo è la sopravvivenza personale o l’ostracismo sociale. D’altronde questa sete, questa libido sciendi e questo “gnosticismo” sono smisuratamente più potenti dei loro oggetti, di qualsiasi specifica intenzionalità. Si può trattare di sfide metafisiche, estetiche, scientifiche al loro più alto grado: ricercare “l’Uno”, la “chiave dell’universo” come fa Plotino o l’odierna accelerazione nucleare. Ma l’oggetto può anche essere rappresentato da una minuzia che appassiona, la tassonomia di un milione di specie di insetti, lo studio degli utensili da cucina dei sumeri o della Cina arcaica. In questo disequilibrio, in questo estremo disinteresse c’è un mistero permanente. Gran parte della ricerca può in effetti perseguire benefici reali o potenziali, il fuoco prometeico e le tecnologie che ne deriveranno. Quello che conta maggiormente però è la ricerca in quanto tale, le nuove idee, l’arricchirsi della comprensione e della sensibilità, per quanto astruse, per quanto inapplicabili esse siano. È l’ignoto a calamitare e l’uomo è l’animale che pone domande. Le radici di questa trascendente fatalità restano nascoste. L’intensità, l’efficienza esplorativa e creativa di questo impulso variano profondamente a seconda degli individui e delle comunità, tra Atene e Gerusalemme da una parte e ampi settori di un mondo più pastorale e contemplativo dall’altra.
L’“in-quietudine” a cui Hegel ascrive gli sviluppi filosofici, scientifici, artistici, può non essere universale. Forse le germinali allegorie della caduta dell’uomo attraverso la conoscenza, della sua tragedia prometeica e del suo patto faustiano, sono essenzialmente europee. Ma là dove prevale questa “brama di sapere”, questa capacità creativa che si oppone all’innocenza, il suo imperativo può essere irresistibile. Freud, lui stesso un brillante esempio di tale dinamismo, ne sottovalutò la forza travolgente. Essere posseduti da una problematica di tipo intellettuale, pura o applicata, da un’assoluta bramosia per la forma estetica, da costellazioni resistenti all’indagine nelle scienze, è provare una libido, che può portare alla follia e ad atti criminosi, più pressante di quella sessuale. Quale impulso orgasmico ha una potenza pari a quella del desiderio che si concentra, nel corso impassibile di otto anni, a trovare la soluzione al teorema di Fermat? Anche la sopravvivenza arriva a contare di meno.
Uomini e donne sono andati al rogo in nome di convinzioni teologiche, etiche, scientifiche per quanto astruse esse fossero. Oggi vengono spesi miliardi in esperimenti che non si sa se siano in grado o meno di gettare un’ipotetica luce sulla “materia oscura” cosmica. Al pari dell’eros, ma con maggior determinazione e con costi privati e pubblici superiori, questa instancabile indagine dell’essere e della sostanza, questo affondo per certi versi maniacale alla rincorsa dell’intelligibilità, non è negoziabile. La passione cerebrale e sensoriale disinteressata non trova maggiori spiegazioni dell’amore. Essa si riallaccia alla nostra accettazione e alla nostra negazione della morte in un modo che possiamo mitologizzare ma non comprendere totalmente. (...) Gli storici della cultura hanno spesso identificato l’arroganza scientifica, tecnocratica dell’uomo occidentale, la sua convinzione che «la vita irriflessa non è degna di essere vissuta» (in fondo, perché?), con il problema di Faust. La bibliografia a disposizione è pressoché incommensurabile. Per quel che attiene alle vere origini e alla diffusione esponenziale alla fine del XVI secolo della leggenda di Faust, molto resta ancora incerto. In questa ghirlanda letteraria si possono annoverare capolavori che vanno da Marlowe a Goethe, da Goethe a Thomas Mann, Pessoa e Bulgakov. Ma anche per quanto riguarda altri mezzi di comunicazione, la sua presenza non è da meno: spettacoli di marionette (sua fonte più probabile), opere liriche, balletti, raffigurazioni sinfoniche, film, fumetti. Esistono anche delle “Faustine”. Le ballate tratte dal Faust sono diventate grande musica. Esistono moltissime incisioni – tra le più belle di Rembrandt – e quadri di qualità variabile. In quale lingua occidentale «faustiano» non è diventato un aggettivo? Le sue innervazioni occupano un posto centrale. Poesia, arte, musica, teoria della storia (si veda Spengler) si incontrano qui con la filosofia, con l’atto di indagine filosofica. Il personaggio di Faust ha «diritto a tutte le reincarnazioni possibili», osserva Valéry. Quella di Faust e l’“Altro” – lo si consideri diabolico o si pensi a lui come a l’Autre della nostra coscienza divisa – è la storia che mette in scena meglio di qualsiasi altra le vanità e gli splendori illeciti della speculazione filosofica. La favola non ha perso nella modernità secolarizzata molto del suo fascino. Uno dei primi nomi in codice per la ricerca sugli armamenti termonucleari fu “Faustus”; il primissimo gioco di scacchi computerizzato disponibile sul mercato si chiamava “Mephisto”. (...) Più che la filosofia stessa, è il linguaggio della letteratura o, più precisamente, della filosofia diventata letteratura, come in Kierkegaard o in Nietzsche, che esprime l’estremismo patologico, la compulsiva vanagloria della vocazione e dell’impresa del filosofo. Nel tema faustiano è racchiusa questa intuizione. Facendo un passo più in là di Hegel, Pessoa definisce la speculazione metafisica niente altro che “angoscia infinita”.
La filosofia ha un suo martirologio. Le antiche biografie, che restano sempre da verificare, raccontano di filosofi trucidati nelle contese civiche, messi a morte da despoti invidiosi, assassinati da fanatici come nel caso di Ipazia. Anche a proposito della morte di Pitagora girava voce che fossero avvenute azioni violente. Un epigramma, un trattato di metafisica o di cosmologia, le considerazioni politiche di Spinoza, possono diventare l’atto più temuto dall’ortodossia e dall’assolutismo.
Quando si aggira per la città un’ideologia può diventare uno spettro minaccioso (l’immagine famosa di Marx). La tradizione avverte che Gerusalemme uccide i suoi profeti e Atene i suoi pensatori. Non c’è vocazione più pericolosa dell’esercizio della ragione, essa stessa critica costante, aperta o mascherata, alle norme vigenti. Sulla scia mitica dell’Apologia e del Fedone, le ultime ore di Socrate hanno ispirato nei secoli la letteratura, le belle arti e anche la musica, come nel caso di Satie. Nella coscienza occidentale, quella di Socrate è l’altra morte significativa divenuta un’icona.
L’interazione epistemologica e simbolica con il Golgota è il punto cruciale per Hegel, nella sua enigmatica affermazione che «l’Ora è la notte». Nella pittura europea, una pletora di freddezza accademica o di vero kitsch precede la Mort de Socrate di Jacques-Louis David con la sua amara menzogna (la presenza di Platone). Nella imitatio di questo momento canonico, il suicidio forzato di Seneca e la sua tranquilla accettazione della morte diventano emblematici per la morale occidentale e il culto dell’integrità stoica. Il libretto dell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi è mediocre, ma la musica che accompagna l’addio di Seneca ha qualcosa di magico. (...) I poeti del risorgimento che lottavano per l’emancipazione dell’Italia dal papato celebrano la morte al rogo di Giordano Bruno, teorizzatore di eretiche infinità. Onorano Campanella che subì la tortura a causa del suo naturalismo precorritore e della sua visione utopica. In tempi più recenti si sono avuti elogi funebri, poesie elegiache e amare in memoria del fenomenologo e storico delle idee Jan Patocka, vessato dalla polizia segreta ceca fino a morirne. Quanti studiosi di filosofia, seguaci di Confucio e intellettuali dissidenti sono stati umi-liati, incarcerati, condannati a morte durante il sanguinario regime di Mao? Perché potessimo intendere il prodigio del canto inestinguibile di Orfeo o la prova dell’immortalità dell’anima, pur consapevoli della proposizione di Wittgenstein per cui la morte non ha significato rispetto all’esperienza umana, il prezzo è stato comunque salato.
Si pensa a proprio rischio e pericolo.
(Traduzione di Fiorenza Conte e Renato Benvenuto) © 2012, Garzanti Libri s.p.a. © 2011 (per gentile concessione di Luigi Bernabò Associates