Corriere 22.9.12
Il rito miope dell’autoassoluzione
Così un sistema rivela il collasso anche in periferia
di Massimo Franco
L’ autoassoluzione della giunta regionale del Lazio è così perentoria da apparire sfacciata, quasi impudica. L’assenza di dimissioni di Renata Polverini, e la sua rivendicazione di avere «bonificato» la situazione facendo saltare un paio di teste, è peggio di una presa in giro: dimostra una miopia ai limiti dell’irresponsabilità.
Si tratta di una cecità politica che coinvolge quanti a livello nazionale pensano di poter comprimere una montagna di soldi e fango destinati a tracimare. La Guardia di Finanza che entra nella sede della Regione Campania e indaga sulle spese dell'Idv di Antonio Di Pietro a Bologna, allarga l'obiettivo e addita gli enti locali come una vera idrovora del denaro pubblico. D'altronde, lo scandalo segue la scia delle inchieste della magistratura che hanno toccato Lombardia e Sicilia, abbracciando simbolicamente l'intero territorio nazionale.
Si delinea dunque proprio quell'«effetto domino» politico-giudiziario che i partiti temono a pochi mesi dalle elezioni. Il fatto che di fronte ad accuse gravi di sperperi la reazione sia quella di farsi schermo con la legge, costituisce un'aggravante. Si tratta, di fatto, di norme di autofinanziamento che le nomenklature si sono ritagliate su misura, e che gridano vendetta in una fase di crisi economica acuta. Rappresentano la degenerazione caricaturale del potere legislativo, e minacciano di colpire a morte qualunque idea di autonomia locale. Sono destinate a portare non soltanto al disgusto nei confronti della politica, ma ad una riduzione drastica e a furor di popolo dei fondi per regioni e comuni.
Il rischio è che le vittime innocenti del malcostume diffuso, anche se si spera non generalizzato, siano settori come la sanità, l'istruzione, i servizi. Quando si pensa che in passato sindaci e governatori erano considerati il serbatoio naturale al quale attingere la classe politica nazionale, vengono i brividi. Oltre a bruciare denaro dei contribuenti, va in fumo qualunque speranza di ricambio. Il «potere municipale» si sta manifestando con le caratteristiche di una partitocrazia minore ma più famelica e più arrogante dell'altra. Forse perché la selezione è avvenuta al ribasso; o perché ha goduto di riflettori addomesticati e indulgenti, all'ombra di una altisonante retorica federalista.
L'idea di fingere punizioni esemplari per dare un contentino all'opinione pubblica senza cambiare comportamenti e meccanismi di finanziamento, è illusoria. I calcoli elettorali dei partiti, più preoccupati di non perdere clientele e voti che di dare segnali veri di rinnovamento, somigliano a sacchetti di sabbia affastellati in fretta e furia per fermare uno tsunami. In realtà, il collasso del modello regionale è il cascame inevitabile della crisi della Seconda Repubblica. E l'implosione di alcune forze politiche è il segno che il collante della spesa pubblica non regge più neppure a livello locale. Anzi, se ha retto tanto a lungo è stato solo grazie ad una complicità trasversale.
Il 2012 promette di essere la tomba di un modo di governare come lo sono state le inchieste giudiziarie di una ventina d'anni fa. E il vuoto di potere che si intravede provoca vertigini ancora più preoccupanti. Mette paura non tanto il rifiuto di vederlo, ma l'incapacità di farlo per mancanza di consapevolezza. Un'Italia che per anni è stata «mitridatizzata» assorbendo dosi di velenoso malgoverno, adesso è costretta a guardare in faccia politici locali che sono lo specchio di questa lunga impunità. Ma forse la nomenklatura è convinta che si possa continuare all'infinito, perché «così fan tutti». La novità è che, moralità o moralismi a parte, si tratta di un andazzo troppo costoso. Il parassitismo e l'inefficienza hanno un prezzo che pochi, ormai, si possono permettere di sostenere. Dover ricorrere di nuovo alla «supplenza» dei tecnici o delle procure è la certificazione dell'ennesima involuzione.
Repubblica 22.9.12
Batman e la banda degli onesti
di Francesco Merlo
È vero che sono sapide e gustose le cronache dello scandalo laziale, ma non fatevi ingannare: questa non è una burinata in romanesco. È infatti l’atto finale, nella capitale d’Italia, della dissoluzione della politica come professione, un epilogo drammaticamente serio che non è fatto solo di peculato e di maiali con il loro ricambio giornaliero di melma fresca. Ci sono anche i soci, i complici, i pali della banda.
E cominciamo con i 14 consiglieri del Partito democratico, che certamente non appartengono alla commedia né alla farsa ciociara, non sono indagati, non si trimalcionizzano e non si travestono da grecoromani. Anzi, al contrario dei fastosi e spudorati banditi del Pdl, non si espongono e neppure si compromettono con il codice penale. Hanno infatti il pudore di nascondersi, che in latino – lo dico per restare in tema di romanità classica – si dice latére, il cui frequentativo è latitare. Dunque i 14 democratici, come i 5 dell’Italia dei valori, i 2 di Rifondazione comunista, i 2 di Sel, i 6 dell’Udc, i 2 della Destra di Storace e i 13 che fanno capo alla Polverini, “latitano”, e di nuovo lo dico in senso latino. Sono infatti solidali, di una solidarietà “economico parametrale” direbbe un sobrio tecnico. Per noi, che invece sobri non siamo, somigliano ai compari di fiera, quelli che sempre stanno al gioco perché nel gioco hanno un interesse. Come diceva Marx, che ogni tanto torna ancora buono, l’essere sociale non è determinato dalla coscienza, ma dal dato materiale. E dunque non è importante quello che pensi, lo stare all’opposizione, il richiamarsi a Gramsci, a San Francesco, a Gandhi, a Di Pietro, a Vendola, a Bersani, alla retorica della legalità, al Santo padre, alla classe operaia o alla dialettica hegeliana; conta solo quello che fai. Ed ecco il punto: non fare è peggio che fare.
Di sicuro, oltre al già lauto stipendio e alle diarie, per ciascun consigliere, anche dell’opposizione, ci sono centomila euro netti l’anno gestiti dal proprio capogruppo. Quello del Pd si chiama Esterino Montino e non risulta che faccia il mazziere come il suo collega del Pdl, il famose er Batman, Francone Fiorito. Ma certo Montino governa i soldi, li distribuisce secondo i bisogni della politica, li divide in mazzette. Insomma non è un mazziere ma un mazzettiere. E quanto guadagna Montino? Anche questo è controverso. Lo stipendio sarebbe di circa 14mila euro netti al mese. Secondo er Batman salirebbe, per tutti i capigruppo, verso i trentamila con diarie e indennità a pioggia che invece Montino e gli altri negano.
E forse sarebbe bene accertarlo ed accertare pure come sono stati spesi, voce per voce, dettaglio per dettaglio. Di sicuro si tratta di cifre comunque scandalose che giustificano il silenzio di tutti questi anni, le teste nella sabbia, il tartufismo.
Anche il capogruppo dell’Itala dei valori, che si chiama Vincenzo Maruccio e che ora propone di azzerare e tagliare, e annunzia drastiche autoriduzioni, è stato sempre presente nel luogo del delitto ma non si è mai accorto di nulla. E tuttavia ha sempre portato a casa i troppi soldi che gli spettavano. E dov’era quando i consiglieri si sono aumentati lo stipendio? E’ accaduto tre volte. E per tre volte il gallo ha cantato. La verità è che la regione Lazio somiglia alla spelonca dei bucanieri della politica. A Roma la casta è diventata tresca. Il capogruppo dell’Udc si chiama Francesco Carducci, quello di Rifondazione comunista Ivano Peduzzi, quello di Sel Luigi Nieri, quello dei seguaci della Polverini Mario Brozzi. E ci sono persino 8 monogruppi: Mario Mei dell’Api, Francesco Pasquali di Fli, Antonio Paris del gruppo misto, Giuseppe Celli della Lista civica, Rocco Pascucci dello Mpa, Luciano Romanzi del Psi, Olimpia Tarzia dei Responsabili e Angelo Bonelli dei Verdi. Ebbene, pensate al consigliere che da solo è un gruppo misto. Pensate alle assemblee di gruppo, all’appello dei presenti. Pensate al verde Angelo Bonelli che prima di prendere qualsiasi decisione di spesa convoca, riunisce e alla fine distribuisce i centomila, dando tutto a se stesso che è il solo modo legale di dare a ciascuno quello che gli spetta. Come si spiega? Così: è vero che un gruppo formato da una sola persona è logicamente un ossimoro, ma economicamente è un bottino. Del resto c’è un solo organo che verifica le spese dei singoli gruppi ed è il Comitato di controllo contabile, presieduto da un consigliere del partito democratico, Carlo Ponzo, con il nome che tira la facile ma irresistibile battuta – me ne scuso – sul procuratore della Giudea. Dunque questo Pilato forse non si è accorto delle ruberie del Pdl perché in quelle ruberie era legittimato il suo compenso e quello di tutti gli altri. Se avesse messo in discussione il bilancio di un singolo gruppo avrebbe segato il ramo su cui stava seduto.
Ecco cosa ci insegna lo scandalo del Lazio: non basta essere onesti per essere onesti, e non è un calembour. Anche l’onestà, come si vede, può diventare complicità, l’onestà pirandelliana, l’onestà dostoevskiana, l’onestà dei funzionari che onestamente supportano e fanno funzionare il reato. Sono i colletti bianchi di Crapulopoli.
Repubblica 22.9.12
“È vero, quel denaro è troppo abbiamo sbagliato a prenderlo e tutti siamo chiamati in causa”
Montino (Pd) si difende: «Non abbiamo rubato»
«Nessuno qui dentro può dire che il Pd si è intascato soldi. L’unica nostra colpa, se c’è, è quella di non averli rifiutati»
di M. FV.
ROMA — «Nessuno qui dentro può dire che il Pd si è intascato soldi. L’unica nostra colpa, se c’è, è quella di non averli rifiutati».
Esterino Montino, romano, 64 anni, tra il 2009 e il 2010, per 5 mesi, ha retto la Regione Lazio dopo lo scandalo Marrazzo. Oggi è il presidente del gruppo Pd alla Pisana, 14 consiglieri e, nel 2011, poco più di 2 milioni di contributi regionali.
Tanti soldi.
«Vero. Ma non li abbiamo spesi mica tutti».
No?
«No, mi dicono che oggi c’è un avanzo di 600 mila euro».
Lei non lo sa di preciso?
«No, io non sono il tesoriere, come era Fiorito per il Pdl. Io sono soltanto il capogruppo».
Quindi non sa se tra questi 2 milioni per il “funzionamento del gruppo”, ci siano anche ricevute per cene private o altro.
«Senta, noi non ci siamo intascati una lira. Quando sono arrivato, ho nominato un tesoriere tra i miei consiglieri, Mario Perilli, e ho incaricato una società esterna per la contabilità del gruppo».
Quale?
«Promogest: aveva il compito di controllare che le ricevute e le spese effettuate dal gruppo fossero fatte tutte nel perimetro dell’articolo 3 bis della legge 6 del ‘73. Nel caso contrario venivano rimandate indietro».
Ed è mai successo?
«Mai».
Ma perché nell’ufficio di presidenza non vi siete opposti?
«L’ufficio di presidenza ha preso atto, senza discutere. Tutti potevano intervenire e nessuno l’ha fatto. La responsabilità è su come vengono spesi questi soldi».
E servivano tutti quei soldi?
«Una volta che tu hai a disposizione dei finanziamenti o fai un atto unilaterale e non li prendi oppure, se ci sono, eviti che gli altri facciano manifesti e tu vada avanti con le assemblee di sezione. Diciamo che non abbiamo fatto obiezioni e li abbiamo utilizzati. Ma sempre secondo le regole ».
E questo, politicamente, non vi chiama in causa tutti?
«Sì, è vero».
Quanto avete speso per alberghi, ristoranti e bar?
«Sono circa 23 mila euro nel 2011 e si agganciano a quelli spesi per riunioni conferenze e incontri».
Altri 200 mila euro. La voce più sostanziosa riguarda la stampa dei manifesti: 783mila euro.
«Abbiamo calcolato ed è circa un euro a manifesto. Non avevamo certo libertà di spesa: abbiamo seguito alla lettera quei regolamenti, senza intascare nulla».
E i soldi alle tv? Anche per interviste a pagamento?
«Non ci sono interviste a pagamento, ci sono solo alcuni consiglieri che hanno dato qualche migliaia di euro a tv locali, per pubblicizzare le loro iniziative».
Possibile che non vi siate resi conto che l’afflusso dei finanziamenti ai gruppi era eccessivo?
«Quando, a partire da novembre 2010, sono cominciati ad arrivare tutti questi soldi al gruppo abbiamo fatto anche una riunione».
Per decidere cosa?
«Per comunicare a tutti che questi soldi c’erano e andavano usati all’interno delle norme e dei regolamenti».
Anche nel gruppo del Pd si era deciso di spartire il finanziamento con 100mila euro a testa per ogni consigliere?
«Guardi, il teorema Taormina-Fiorito secondo il quale tutti sono colpevoli non ha fatto breccia nemmeno ai tempi di Bettino Craxi. La responsabilità è individuale».
E i 100mila euro a testa?
«No, noi non ci siamo mai dati questa cifra. Centomila euro a testa è una sorta di parametro di riferimento a livello di Consiglio che non viene neanche rispettato, visto che i gruppi piccoli prendono in proporzione di più rispetto a quelli più grandi».
Chi la decide questa ripartizione?
«Non c’è una regola scritta. All’interno dell’ufficio di presidenza il presidente Mario Abbruzzese ha proposto questo parametro».
il Fatto 22.9.12
Renzi, dalle spese in Provincia alle consulenze in Comune
Ex collaboratori, ex assessori, ex dirigenti (alcuni in pensione)
portati a Palazzo Vecchio con nomine ad hoc
di Davide Vecchi
Il camper che sta scorrazzando in giro per l’Italia Matteo Renzi ieri ha raggiunto Mantova. Il sindaco di Firenze, impegnatissimo nella campagna elettorale, ha fatto sapere di aver raggiunto 20mila euro di donazioni per finanziare il tour del Paese. Le spese saranno poi pubblicate nel dettaglio. Come avvenuto già per la Provincia e il Comune ha ricordato Sara Biagiotti del comitato elettorale del sindaco, sottolineando che i conti della Provincia, guidata dal 2004 al 2009 da Renzi, sono stati “passati al setaccio dalla Corte dei conti (...) che non ha eccepito nulla”. Eppure c’è una indagine ancora in corso che vede impegnati anche gli uomini delle Fiamme Gialle su incarico del ministero del Tesoro. A breve invieranno un ispettore nel capoluogo fiorentino. La comunicazione della nuova indagine risale a maggio ed è stata recapitata prima dell’estate nella città di Dante. I giudici contabili ipotizzano un “irregolare affidamento di servizi per un importo superiore a quello previsto dai relativi contratti di servizio”, nonché “contratti, convenzioni, disciplinari di servizio, affidamenti al lordo (…) il cui importo triplica quello dei contratti di servizio di base”.
Nella sprecopoli nazionale, che giorno dopo giorno coinvolge un sempre maggior numero di enti, l’attenzione verso possibili nuovi sperperi è alta.
Così spunta anche una lista di consulenze che il Comune di Firenze ha concesso all’esterno. Come le spese di rappresentanza in Provincia, così gli incarichi a chiamata diretta, sono legittimi. E quando da presidente della Provincia diventi sindaco di una città importante come Firenze è necessario tentare di conservare al proprio fianco i collaboratori migliori, i più fidati.
Renzi lo ha fatto con Giovanni Palumbo, già responsabile dell’Ufficio di gabinetto del Renzi presidente della Provincia e portato alla direzione delle risorse finanziarie del Comune di Firenze.
A Palumbo è stato affidato un incarico da dirigente “a tempo determinato fuori organico” da subito, nel 2009 e poi rinnovato fino a oggi. Il primo anno con un compenso di 71.675,79 euro, diventato di 74.860 nel 2010, 78.736 nel 2011 e, infine, 94.286,66 nel 2012. Sempre contratti a tempo determinato. Palumbo è un professionista. In Provincia gestì tutti i rimborsi spese e la gestione dell’ente. In Comune ha gli stessi incarichi. Tra i consulenti scelti da Renzi per Palazzo Vecchio ci sono anche altri ex. Gli ex assessori Lucia De Siervo e Simone Tani, ad esempio. Gli ex dirigenti in pensione Luigi Brandi e Valerio Pelini. L’ex dipendente della provincia Giorgio Caselli. Ci sono anche ex dipendenti della società Florence Multimedia, voluta e creata da Renzi per la comunicazione della Provincia (che ha sanato con 4,5 milioni di euro). Non solo i conti della Provincia, dunque. Renzi, dal canto suo, ha sempre affrontato con serenità le verifiche dei giudici. Quando nel 2011 lo condannarono per danno erariale, nei panni di presidente della Provincia, a pagare 14mila euro di tasca propria, lui non se la prese. E dichiarò: “Le contestazioni riguardano la categoria di inquadramento di quattro persone nello staff, assunte a tempo determinato. Se poi un dirigente ha sbagliato l'inquadramento ce ne assumeremo tutte le responsabilità, anche se è veramente difficile accettare l'idea che siano gli amministratori e non eventualmente i funzionari i responsabili di erronee impostazioni contrattuali, questione puramente tecnica”. Ma ormai era in Comune. L’esperienza aiuta.
Europa 22.9.12
Il colpo che il Pd deve battere
di Mario Lavia
qui
il manifesto 22.9.12
Attenti ai forconi
di Norma Rangeri
qui
il Fatto 22.9.12
Contro le porcate un sistema c’è
di Paolo Flores d’Arcais
La scelta sembra obbligata: o la padella o la brace. O un Parlamento di “nominati”, con la fauna lombrosiana che sappiamo, o il ritorno alle preferenze, che manderanno in Parlamento mozzorecchi capaci di spendere milioni in festini e voto di scambio (più lombrosiani dei primi, se possibile). Insomma, e per riferirsi agli esemplari “migliori”, un Parlamento di Scilipoti e Minetti o un Parlamento di “er Batman”. Disperante. Così ce la cucinano i politici e il codazzo di esperti e commentatori d’ordinanza che intasa e satura i media. E invece no, in questa faccenda tertium datur, eccome. Si chiama collegio uninominale a due turni, con una piccola variante tecnica che consente di incorporare anche le primarie vincolanti. Al secondo turno non passano i due candidati più votati in assoluto, ma i “campioni” (uno per coalizione) delle due coalizioni più votate. In un collegio, ad esempio, quella che un tempo si chiamava “sinistra” può vedere in lizza Bersani, Vendola, Renzi e Rosy Bindi, l’establishment del privilegio che pudicamente si battezza “centro” offrire la scelta tra Casini, Passera, Montezemolo e la Polverini, anche se la destra è unita sull’immarcescibile Berlusconi, perché non si disperdono i voti, al secondo turno passano i “campioni” delle due coalizioni più votate.
Si otterrebbe così quello che i padroni della politica italiana spergiurano ogni giorno di volere: restituire un significativo potere di scelta agli elettori, visto che le primarie sono da tutti riconosciute come uno strumento che diminuisce la distanza tra cittadino e “Casta”, ed evitare che col proporzionale si apra la strada alla vaghezza pre-elettorale sulle alleanze e alle pastette post-elettorali per formare il governo, perché l’uninominale a due turni ha un micidiale effetto maggioritario.
Se i politici che straparlano da mesi di riforma della legge elettorale fossero in buona fede, perciò, e se il Quirinale che sul tema è passato dagli alti moniti agli ultimatum volesse davvero inchiodarli alla coerenza tra chiacchiere e fatti, la via sarebbe tutta in discesa. Ma il sistema qui accennato ha una ulteriore virtù, che agli occhi dei partiti è vizio imperdonabile: il potere che restituirebbe ai cittadini lo toglierebbe alle nomenklature. Perciò di questa alternativa neppure si parla, come se non esistesse. Una campagna di opinione sulla riforma elettorale non c’è mai stata, per la “tecnicalità” del tema. La sua connessione con la degenerazione cloacale della politica italiana è però sotto gli occhi di tutti. Forse vale forse la pena di provarci, perciò.
l’Unità 22.9.12
Non esiste politica senza partiti
di Emanuele Macaluso
La crisi della prima Repubblica si manifestò già nel 1989 quando i partiti che avevano governato e quelli che erano all’opposizione non capirono che il sistema politico non reggeva, anche (e non solo) perché dopo il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’Urss nel mondo cambiava tutto. In Italia invece, anche se il Pci di Occhetto fece la svolta della Bolognina, il tran tran politico continuò come se nulla fosse successo. Alle elezioni del 1992 il pentapartito (Dc-Psi-Pri-Pli-Psdi) cantò vittoria perché ebbe una maggioranza risicata. La Lega però ottenne, gridando contro il sistema, 80 parlamentari.
Il vittorioso pentapartito non riuscì ad eleggere né il presidente della Camera, né quello della Repubblica (Forlani) né il suo candidato a Palazzo Chigi (Craxi). La crisi era più che evidente. Tangentopoli completò solo l’opera. In quel clima arrivò Berlusconi e trovò aperta un’autostrada. E per la bisogna utilizzò cinicamente tangentopoli e l’antipolitica, anche se arruolò un gruppone di reduci della Dc, del Psi, del Pri e Pli.
Dopo tangentopoli, il partito politico venne messo al bando: non erano falliti i gruppi dirigenti ma le istituzioni e la forma partito. A destra nasce il partito personale e padronale, c’è la Lega che scimmiotta il partito «leninista» con Bossi padre padrone. Il Msi, a Fiuggi, diventò An per stare al governo, ma senza una maturazione politico-culturale e l’identità di «nuova destra». A sinistra dal 1989 sino ad oggi si discute sul fatto che i partiti di massa, come li abbiamo conosciuti nel Novecento, non sono più riproponibili (bella scoperta). Ma per fare cosa? Dal Pci al Pds, partito che aderì all’Internazionale Socialista, ma non era socialista. C’è anche l’Ulivo prodiano dove tutto si stempera e l’identità è quella del leader. Successivamente, dal Pds ai Ds (cade la P): la «Cosa 2» che finalmente dovrebbe essere socialista. Ma c’è anche l’Unione prodiana per governare. Intanto i Ds, e la Margherita erede della sinistra Dc e dei popolari, dicono di essere al capolinea.
Occorre unire tutti i riformisti: socialisti, cattolici, laici. Nasce il Pd. Chiedo scusa se ricostruisco sommariamente e criticamente un percorso in cui, a mio avviso, al centro c’è stato un tema: come andare al governo. Aspirazione legittima, ma senza un retroterra si rivela inconsistente. I partiti socialisti europei hanno attraversato crisi e hanno problemi enormi con cui fare i conti, ma alla fine, al governo o all’opposizione, sono sulla scena e rappresentano una parte rilevante della società. Lo stesso i partiti conservatori. Anche negli Usa dove i partiti non hanno i caratteri e i ruoli che hanno in Europa, lo scontro tra Democratici e Repubblicani è netto e chiaro. La crisi economica e sociale che attraversa l’Europa e anche gli Usa ha messo a dura prova i partiti, ma ovunque sono loro i protagonisti della scena politica.
In Italia invece la crisi ha messo fuori giuoco la destra berlusconiana e in evidenza la inadeguatezza del centrosinistra. Ancora una volta, più che nel 92-94, il sistema politico si frantuma. Il governo tecnico di Monti è la testimonianza di questa realtà. Il bubbone laziale mette in evidenza cos’è il personale politico reclutato dalla destra, ma anche il sistema in un punto nodale, le Regioni: dalla Lombardia alla Sicilia. E così l’intreccio tra crisi economica e crisi politica ci propone un quadro che appare sempre più ingovernabile. Scrivo queste parole che possono apparire di un pessimismo nero, perché quel che si vede nel centrosinistra candidato a governare il Paese è scoraggiante. Non commento il Di Pietro che si veste da metalmeccanico e chiede un referendum sull’art. 18, ma vedo che Vendola gli va dietro.
Le primarie sono diventate una fiera delle vanità e un modo per farsi pubblicità e prenotarsi la candidatura come sindaci o nelle Regioni. Primarie senza regole. E se c’è qualcuno che dice: votino coloro che si iscrivono come elettori del centrosinistra, il braccio destro di Renzi risponde che si tratta di proposte degne di Ceausescu. E negli Usa le regole le ha fatte Stalin? La verità è che si invocano regole di partito per far fuori i vecchi (cinquantenni o sessantenni!) e poi si fa appello al popolo senza confini né di partito né di elettori ai quali però si dice: non puoi votare i «vecchi».
Concludo. Se non si costruisce un partito che abbia una sua identità nella società di oggi e chiare regole di comportamento, non ci sarà nemmeno una politica per governare. Cari compagni e amici del centrosinistra, non so quanti di voi hanno capito che la prossima legislatura sarà condizionata dalla crisi e dalle regole dettate dall' Europa. Entro queste strettoie un governo di centrosinistra può operare per fare una politica che ponga al centro il lavoro e l’avvenire dei giovani cercando di influire anche sulle scelte europee. Ma per operare in quelle strettoie occorre un governo autorevole e una maggioranza coesa. Il radicalismo di sinistra ci porta alla Grecia. La crisi, inevitabilmente, agevola il populismo e la demagogia. Lo vediamo anche negli Usa. L’alternativa alla destra e al populismo (anche quello di sinistra) si combatte con una politica chiara e netta.
Corriere 22.9.12
Fine vita, Avvenire contro i democratici
Ma Fioroni è sicuro: non ci spaccheremo
di Monica Guerzoni
ROMA — «Una questione di democrazia». E un leader del Pd che, come un crociato che combatte dalla parte sbagliata, parte lancia in resta «contro le Camere» per bloccare l'iter del testo sul fine vita. «Bersani tenta di silurare la legge», è il titolo con cui Avvenire denuncia il «no» del segretario sul biotestamento. L'attacco del quotidiano dei vescovi forse non ha precedenti, eppure Bersani non cambia linea: troppo delicato il tema per discuterlo nei pochi mesi di legislatura che restano e, soprattutto, troppo rischioso per l'unità del partito, già minacciata dalla disfida delle primarie. Avvenire affonda, il direttore Marco Tarquinio nell'editoriale (foto sotto) rilancia l'appello del presidente del Movimento per la vita Carlo Casini e denuncia quei «veti, convenienze e calcoli politici» che rischiano di bloccare «un iter legislativo giunto alla terza e decisiva tappa». Ma il segretario non si scuote. Al Nazareno, sede del Pd, raccontano che quando dall'ufficio stampa gli hanno mostrato la rassegna con le pagine di Avvenire, è rimasto in silenzio. Un silenzio assordante, che conferma come Bersani continui a ritenere «inaccettabile» e «palesemente strumentale» la richiesta di Pdl e Lega. La «vecchia maggioranza», così l'ha bollata l'ex ministro, ha proposto di riavviare in commissione Sanità del Senato l'esame del testo e il Pd ha votato contro. «Si cerca uno scontro ideologico — aveva detto il segretario —. Il Pd non accetterà questa forzatura». Se Bersani tira dritto, senza voltarsi di fronte al monito di Oltretevere, è anche perché i cattolici del suo partito non faranno le barricate per portare in Aula la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). La lettura maliziosa è che non ne sentano il bisogno, non perché non condividano lo spirito delle norme, ma perché Pdl e Lega hanno la maggioranza. Eppure Beppe Fioroni, che rappresenta gli ex Popolari del Pd, la spiega così: «È un delitto fare campagna elettorale su temi così delicati e lo dico a tutti coloro che pensano di strumentalizzare il fine vita per ragioni politiche, da una parte e dall'altra». Ma se la legge arriva in Aula, non c'è il rischio di una spaccatura profonda nel Pd? «No — tranquillizza Fioroni —. Quando si votò alla Camera il Pd si oppose e noi cattolici, dopo aver modificato il testo, decidemmo secondo coscienza». Ed è su questo schema che Fioroni e Bersani si sono accordati in vista della sfida in Senato. Il Pd è pronto a dare battaglia. «Il centrodestra non può dire bugie — attacca Ignazio Marino —. Questo non è un ddl sul testamento biologico, ma una legge che impone a chiunque abbia perso la coscienza e non abbia possibilità di risveglio, di essere sottoposto a trattamenti, anche se aveva espressamente detto di non volerli». La tesi del senatore è che il Pdl ha in realtà due obiettivi, poco spirituali: dividere il Pd e ricostituire la vecchia maggioranza Berlusconi-Bossi. «Ma gli elettori — spera il presidente della commissione d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale — li puniranno nelle urne, perché non si può giocare sulla sofferenza, la cultura e la fede delle persone».
Repubblica 22.9.12
La deriva del capitalismo
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini
Le mille argomentazioni per spiegare la crisi in cui sono immersi i paesi occidentali da cinque anni a questa parte non ci appaiono molto convincenti e, come ha ricordato Vladimiro Giacché, riportano alla mente le giustificazioni di John Belushi nel film dei
Blues Blothers.
Per convincere l’ex fidanzata abbandonata sull’altare a non ammazzarlo, Belushi dice: «Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!».
Alle mille spiegazioni della crisi, noi ne aggiungiamo un’altra: la liberazione del movimento dei capitali, che, all’inizio degli anni ’80, pose fine al grande compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali a cui faceva da contrappeso la libertà di circolazione delle merci.
Lo strappo effettuato dai due leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario.
A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della comunità non può essere considerato un comportamento virtuoso.
Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il destino di intere popolazioni.
Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattori fondamentali che sono alla radice del processo di finanziarizzazione.
Ma c’è anche un altro motivo, l’enorme concorrenza che si stabilisce dopo la liberazione dei movimenti di capitale tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale. Questa concorrenza acuisce e aumenta l’importanza del profitto nell’ambito della struttura economica. Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioni
azionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo.
Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi “antispread” rappresentano un primo passo importante per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione Europea e per ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.
Repubblica 22.9.12
Il Maometto di Voltaire
di Bernardo Valli
Il concetto di laicità, annidato nell’Illuminismo di cui Voltaire era uno dei massimi promotori, era ben lontano dal diventare uno dei principi della Francia repubblicana, del resto essa stessa ancora di là da venire. Poiché Voltaire era il polemico, insubordinato suddito di una Monarchia per diritto divino. Quindi a quei tempi le vignette irrispettose su Maometto di Charlie Hebdo (per non parlare del video americano) avrebbero subito sanzioni peggiori di quelle abbattutesi su Voltaire, essendo oltre che empie, irrispettose verso la religione, anche volgari. Voltaire era un grande autore di teatro. Era tra l’altro l’autore dell’Henriade, poema popolarissimo in dieci canti, dedicato a Enrico IV e alla tolleranza. Ed un ascoltato interlocutore di un sovrano come Federico II di Prussia.
A Lilla, al teatro della Vieille Comédie, il 25 aprile dell’anno precedente, la tragedia ha avuto un grande successo. Anche il clero ha applaudito e questo ha rassicurato Voltaire. Ma a Parigi, dove l’opera deve andare in scena il 9 agosto, le cose si complicano. Interpellato come censore, Prosper Jolyot Crébillon, autore di cupe tragedie, ha dato un
giudizio negativo. Prevedendolo, Voltaire ha però mandato il manoscritto al cardinale de Fleury, il quale non ha fatto obiezioni. Il pubblico parigino è dunque, infine, ammesso allo spettacolo, e può cogliere facilmente le allusioni al fanatismo religioso in generale, e quindi anche a quello di casa. Gli spettatori, più avvertiti, meno bigotti di quelli di Lilla, sono entusiasti, avvertono l’audacia dell’autore, e sono al tempo stesso inquieti. Persino un prete, Le Blanc, trova «bella, forte, ardita e brillante» la tragedia. Ma i giansenisti,
gli integralisti cristiani dell’epoca, reagiscono. Loro non si lasciano ingannare: «Hanno visto cose enormi contro la religione ». Voltaire non presenta il Maometto conquistatore, ma il Maometto Profeta, e lo tratta da fanatico. I ministri si consultano. C’è chi trova la tragedia «irreligiosa, empia, scellerata», e chi vorrebbe lasciar correre. Si arriva a un compromesso: si proibisce Mahomet ma ufficiosamente.
Voltaire presenta Maometto come un impostore, e glielo fa confessare, subito, al primo atto. Assedia la Mecca con il suo esercito e cerca di convincere l’avversario a unirsi a lui. Gli confida i suoi progetti che sono quelli di un politico, di un capo militare. Tutte le potenze orientali sono in decadenza ed è giunto il momento degli arabi. I quali possono conquistare il mondo. Ma per questo bisogna fanatizzare gli uomini con una nuova religione. «Bisogna creare un nuovo culto». «Ci vuole un nuovo Dio per l’universo cieco». Il Maometto di Voltaire inganna, tradisce, seduce, è sensuale, vuole imprigionare Palmire nel suo harem. La bella Mademoiselle Gaussin, l’attrice preferita di Voltaire, recita nella tragedia. Di lei l’autore dice che è debole e volubile, ed anche «incapace di tenere un segreto come di conservare un amante». È lei che seduce Maometto.
Il pubblico di Mahometnon è ancora quello del teatro di Beaumarchais, emblematico dell’illuminismo, ma è già un pubblico che intravede «i lumi » René Vaillot, autore di uno dei cinque volumi di un’imponente biografia («Voltaire en son temps», diretta da René Pomeau ed edita dall’università di Oxford) ricorda che al posto di Mahomet,
il 16 agosto 1742, alla Comédie Française andò in scena Polyeucte di Corneille. E la platea, offesa dalla censura imposta a Voltaire, si vendicò applaudendo l’imprecazione di un protagonista contro i cristiani. E manifestò il suo entusiasmo alle parole tolleranti di un altro protagonista: «Approvo tuttavia che ciascuno abbia il suo Dio e che lo serva come vuole».
Due secoli e mezzo fa Voltaire usa Maometto per denunciare la religione sanguinaria. Egli ricorderà in proposito Réné Clement, spinto da un prelato ad assassinare Enrico III. Ed è stato un difensore di Calas, un protestante accusato ingiustamente dai cattolici di avere ucciso il figlio che si era convertito. Se è severo con Maometto, non risparmia, nel Saggio sui costumi, gli elogi alla civiltà musulmana e all’Islam in quanto regola di vita.
Per evitare che accetti l’interpretazione dei giansenisti, manda al Papa una copia di
Mahomet, con una lettera in buon italiano (Voltaire parlava e scriveva l’inglese e l’italiano) in cui dice che nessuno meglio «di un vicario e di un imitatore di un Dio di verità e di mansuetudine» può riconoscere la crudeltà e gli errori di un falso profeta. E poi esibisce un messaggio d’approvazione di Benedetto XIV che risulterà falso.
La Stampa 22.9.12
Cina-Giappone, la contesa che fa paura al mondo
di Bill Emmott
Il mondo è giustamente preoccupato dalla guerra civile in Siria, e dalla violenza antioccidentale nei Paesi arabi e nelle altre nazioni islamiche in risposta al noto film amatoriale che attaccava il Profeta. Ma c’è anche un’altra serie di tensioni di cui preoccuparsi: quelle tra Cina e Giappone. Molto probabilmente, alla fine rientreranno e tornerà la calma. Tuttavia, vi è un rischio significativo che non andrà così. Si potrebbe anche arrivare a un conflitto.
Viste da migliaia di chilometri di distanza, le questioni in gioco sembrano banali, persino assurde. Poche piccole isole nel Mar Cinese Orientale, note in Giappone come Senkaku e in Cina come Diaoyu, una manciata di rocce, di questo stanno discutendo la seconda e la terza economia più grandi del mondo. Eppure quelle rocce hanno scatenato le più gravi manifestazioni anti-giapponesi in Cina dal 2005, mentre in decine di città cinesi si sono radunate folle per protestare al di fuori delle ambasciate e delle fabbriche e dei negozi appartenenti ai giapponesi. Cosa ancora più inquietante, i media statali cinesi hanno riferito che «1000» barche da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole contese, determinate, si presume, a far valere le rivendicazioni territoriali della Cina sulla pesca all’interno di quello che sono attualmente acque territoriali giapponesi.
Quanto seriamente dovremmo prendere questa notizia? Al tempo dell’ultima grande ondata di manifestazioni anti-giapponesi, sette anni fa, avevo fatto proprio questa domanda a un vecchio politico giapponese del partito allora al governo, Taro Aso. La sua risposta fu noncurante: “Il Giappone e la Cina si odiano a vicenda da più di mille anni - ha detto, - non dovrebbe sorprenderla che anche oggi sia così. ”
Poiché l’onorevole Aso nel 2008-2009 diventò primo ministro del Giappone, un linguaggio così poco diplomatico era un po’ preoccupante. Ma in sostanza stava dicendo la verità.
Questi due Paesi sono sempre stati rivali a tutti i livelli - politica, cultura, economia, territorio.
Questo è chiaramente dimostrato dal fatto che entrambi rivendicano la sovranità su grandi distese di fondali e di oceano: la rivendicazione più controversa della Cina riguarda l’intero Mar Cinese Meridionale, con il rifiuto delle pretese di Vietnam, Filippine, Malesia e altri Paesi vicini; il Giappone rivendica le Senkaku, contese anche dalla Corea del Sud, e, per via della conformazione del Paese, un grande arcipelago di piccole isole, una vasta fascia dell’Oceano Pacifico.
Questo genere di rivendicazioni è di solito roba da avvocati e funzionari che si occupano della Convenzione delle NazioniUnitesuldirittodelmare, l’accordo internazionale che ha lo scopo di governare e arbitrare tali pretese di sovranità in «zone economiche esclusive». Ciò che preoccupa ora è che il problema tra il Giappone e la Cina si è spostato nelle strade delle città cinesi, nella politica nazionalistadientrambi iPaesi, einunmomento estremamente delicato della politica interna cinese.
Questo è ciò che lo rende pericoloso. Là in mare, se davvero 1000 navi da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole occupate dai giapponesi - o anche se il numero reale è solo la metà di quello – potrebbe facilmente capitare un incidente, una collisione con una nave della Marina giapponese o con la guardia costiera. O anche un non-incidente, un errore di calcolo, con una nave affondata e la perdita di vite umane.
L’ironia della situazione è che si è verificata a causa delle mosse che il governo giapponese ha appena fatto per cercare di calmare le acque. Le isole Senkaku, che il Giappone ebbe in piena sovranità per la prima volta nel 1895, e poi riebbe nel 1972 quando gli Stati Uniti le restituirono al Giappone insieme a Okinawa, sono state a lungo di proprietà privata. Il governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, della destra nazionalista, ha proposto all’inizio di quest’anno di acquistarle per il suo governo metropolitano di Tokyo. Così il governo centrale del Giappone è intervenuto per acquistarle, con lo scopo di impedirgli di creare problemi.
La tempistica, tuttavia, ha trasformato una misura intesa a calmare le acque in un innesco. Il partito comunista che governa la Cina si sente sotto pressione per via degli scandali legati alla corruzione e al rallentamento dell’economia. Si attende per il prossimo mese la nomina di un nuovo presidente e di un nuovo primo ministro. Così, quando l’opinionepubblicacinesehacominciato a gridare ad alta voce slogan antigiapponesi in rete e nelle manifestazioni di piazza, il partito sembra aver deciso di sfruttare le manifestazioni per confermare le sue credenziali patriottiche invece di reprimerle.
Per lo stesso motivo, l’istinto di adottare la linea dura, e di mettere a segno provocazioni nelle acque intorno alle isole, andrà avanti per diversi mesi mentre si svolge questo passaggio politico. Anche in Giappone, la politica è instabile: le elezioni generali si terranno solo all’inizio del 2013 e una delle stelle nascenti della politica nazionale - il giovane (43 anni) sindacodi Osaka, ToruHashimoto - ha appena lanciato un movimento politico nazionale in parte basato sulla retorica nazionalista.
In precedenti occasioni, quando sono sorte tensioni tra Giappone e Cina, in un mese o due le acque si sono calmate. I legami economici tra questi due partner che condividono enormi scambi e investimenti di solito inducono i politici alla ragione. Nel 2008, il Giappone e la Cina riuscirono persino a concordare lo sviluppo congiunto di petrolio e gas sotto il fondo marino intorno alle isole Senkaku, anche se il progetto non è ancora stato attuato. Gli Stati Uniti, che nel Giappone hanno uno dei più stretti alleati, di solito riescono a calmare gli animi.
Molto probabilmente questo accadrà di nuovo. Ma in un anno di elezioni presidenziali, gli Stati Uniti non sono nelle condizioni migliori per calmare le acque, e in ogni caso la loro posizione morale sulla questione non è così forte dal momento che il Congresso non ha ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, anche se la Convenzione è stata approvata ben tre decenni fa, nel 1982. In passato, i grandi conflitti sono spesso sorti da contenziosi minori e da errori di calcolo. Il mondo deve pregare che ciò non accada di nuovo ora, per colpa di alcune piccole rocce nel Mar Cinese Orientale.
Corriere 22.9.12
Comincia il lento declino della potenza americana
risponde Sergio Romano
Gli attentati di questi giorni alle ambasciate americane e l'uccisione di un ambasciatore e di altri funzionari e militari americani e libici sono un fatto assurdo, oltre che tragico. Vorrei proporle un esercizio di fantasia: che cosa accadrebbe se, per assurdo, domani mattina gli Usa decidessero di richiamare in patria tutti i militari da tutte le zone in cui sono impiegati attualmente? Quali scenari si configurerebbero? La situazione sarebbe migliore o peggiore di adesso? Preciso che per me è una curiosità e non un auspicio, non essendo in grado di prevedere le conseguenze che potrebbero esserci.
Domenico Marino
Caro Marino,
Esiste negli Stati Uniti, sin dagli inizi della loro storia, una corrente fortemente contraria al coinvolgimento del Paese in qualsiasi problema internazionale che non abbia una immediata rilevanza per gli interessi americani. È nota con il termine «isolazionismo» ed è il risultato della somma di molti fattori: orgoglio nazionale, autosufficienza economica, sentimento di superiorità e una diffidenza d'origine religiosa per l'immoralità della politica in tutti i Paesi da cui pellegrini e migranti partirono verso le sponde del Nuovo Mondo. L'unilateralismo dei neoconservatori, all'epoca della presidenza di George W. Bush, è per certi aspetti un figlio bastardo dell'isolazionismo. I neocon erano favorevoli agli interventi militari, ma ritenevano che gli Stati Uniti potessero agire a loro piacimento grazie alla straordinaria superiorità dei loro arsenali. Erano convinti, in particolare, che la sconfitta dei talebani, l'eliminazione di Saddam Hussein in Iraq e una politica minacciosa verso l'Iran avrebbero «normalizzato», sotto l'egida americana, l'intero Medio Oriente.
Nel corso della sua presidenza Bush ha finito per ricercare l'appoggio degli alleati e ha annacquato gli aspetti più radicali della filosofia neoconservatrice. Ma nelle due guerre combattute dall'America nell'ultimo decennio del secolo, Washington ha perseguito una linea strategica strettamente americana senza chiedere e ascoltare consigli. Il risultato, anche se gli amici dell'America lo dicono a bassa voce, è sotto gli occhi di tutti: due guerre perdute e il peggioramento di tutte le crisi che turbano la pace della regione, dall'Egitto al Pakistan, da Baghdad a Teheran. A questa situazione si è aggiunta una crisi finanziaria dovuta in buona parte alla crescita di un nuovo potere americano, il potere finanziario, che Washington non ha potuto o voluto controllare.
I quattro anni di Obama alla Casa Bianca sono stati una fase di transizione. Il nuovo presidente voleva mettere fine alle guerre di Bush e sperava che una linea più conciliante e dialogante avrebbe consentito all'America di esercitare la propria leadership con minori contrapposizioni e migliori effetti. Non vi è riuscito e gli avvenimenti hanno smentito le sue speranze. Oggi l'America sembra essere divisa fra coloro che accusano Obama di essere stato troppo buono e coloro per cui la sua politica è la sola che possa essere praticata. Ma tutto sembra dimostrare che gli Stati Uniti, nelle grandi crisi internazionali, saranno sempre meno determinanti. Assisteremo quindi a un progressivo declino della potenza americana con effetti che sono oggi incalcolabili. È questa la ragione, caro Marino, per cui non ho neppure tentato di rispondere alla sua domanda.
l’Unità 22.9.12
Il «bombarolo» della psichiatria
Thomas Szasz, il ricercatore che disse «La malattia mentale è un’invenzione»
Il ricordo Uno dei protagonisti più scomodi influenti e ostracizzati della scienza psichiatrica (la considerava pseudoscienza) è morto l’11 settembre scorso all’età di 92 anni
di Stefano Carta, psicoanalista
L’11 SETTEMBRE SCORSO È MORTO, ALL’ETÀ DI 92 ANNI THOMAS SZASZ, UNO DEI PROTAGONISTI PIÙ SCOMODI, INFLUENTI E OSTRACIZZATI DELLA STORIA DELLA PSICHIATRIA. Szasz era nato a Budapest da una coppia ebrea ungherese, che rifugiò negli Stati Uniti nel 1938 a causa delle persecuzioni naziste. Nel 1960, un anno dopo avere vinto la cattedra di psichiatria all’università di Syracuse, nello stato di New York, pubblicò quello che è considerato il suo libro più importante, Il mito della malattia mentale, al quale è seguita una produzione di decine di libri e centinaia articoli scientifici.
Il mito della malattia mentale fu accolto dalla comunità scientifica internazionale, così come in generale dal mondo della cultura, come una vera e propria bomba destinata ad esplodere nel cuore stesso della psichiatria. La tesi centrale del libro era, infatti, assolutamente «radicale»: la malattia mentale qualsiasi malattia mentale non esiste, essendo un artefatto inventato per ragioni di potere, prestigio e controllo dalla psichiatria, e fondato su quelli che Szasz considerava fondamentali errori epistemologici e metodologici.
Secondo Szasz, infatti, il termine malattia può essere riferito esclusivamente a malattie organiche, vale a dire a particolari condizioni osservabili e relative a organi o parti del corpo (come per esempio uno sbilanciamento nel metabolismo del litio). Alla base di questa definizione di malattia nei termini di malattia organica Szasz ha fatto posto il padre della patologia moderna, Rudolf Virchow, e il suo trattato del 1858 su La patologia cellulare nella sua fondazione dall'istologia patologica e fisiologica, considerato il punto di ancoraggio della patologia medica moderna.
Secondo l’acuta analisi di Szasz, imbevuti della cultura materialistica e riduzionista dell’epoca, gli psichiatri ottocenteschi, come Charcot e Freud (il quale era un neurologo «prestato» alla psichiatria) estesero il concetto di malattia dagli organi somatici e dai segni che ne evidenziano all’osservazione le patologie, a delle cosiddette «funzioni», creando così dal nulla una nuova classe di malattie, come l’«isteria di conversione», che vennero denominate, appunto, malattie funzionali. Tuttavia, mentre la malattia organica, per esempio, neurologica o neurochimica, è osservabile, quella funzionale, ovvero quella relativa ai comportamenti di una persona, era, secondo Szasz, inferita, e quindi letteralmente inventata da colui che interpreta un certo comportamento in termini, appunto, di malattia.
Per Szasz, quell’artefatto inventato e reificato che chiamiamo «malattia mentale» sarebbe quindi il frutto di una abusiva letteralizzazione di una metafora: il paziente che si comporta come se avesse una malattia organica (o sul quale uno psichiatra fa una simile attribuzione e assimilazione) viene etichettato come «malato mentale». Successivamente, a questa etichetta si sottrarrà il suo carattere metaforico, e si agirà come se il paziente fosse veramente affetto da una entità morbosa da eliminare. È evidente che l’eliminazione non sarebbe relativa ad un’entità inesistente, ma a forme particolari di comportamento, a forme particolari di vita. Un esempio di questo processo socioculturale di etichettamento è quello dell’omosessualità, fino a qualche decennio fa psichiatrizzata e «diagnosticata» come malattia mentale.
Szasz la pensava diversamente: secondo lo psichiatra la persona che, per esempio, si comporta da isterica o da depresso, mette in atto, esattamente come una persona «sana», comportamenti specifici orientato versi scopi. E questi comportamenti, a loro volta, iscrivendosi all’interno di una matrice intersoggettiva e sociale particolare, si organizzano e si articolano in forme e stili peculiari, che Szasz chiamava «giochi comunicativi». Pertanto, la differenza che passa tra un «sano» e un «malato» sarebbe data dal fatto che il secondo, iscritto in una matrice psicosociale di potere, non può o non riesce ad esprimere autonomamente, responsabilmente e liberamente gli scopi che desidera perseguire. In sostanza, per Szasz, la psichiatria, reificando la posizione subalterna del «malato», la confermerebbe isolandolo, etichettandolo e controllandolo sia attraverso processi di istituzionalizzazione che di «cura» farmacologica.
Szasz ritiene che colui a cui attribuiamo un’entità «reale» in verità un artefatto di carattere magico-religioso comunica, attraverso modi speciali, i propri scopi, cercando di evitare proprio ciò a cui la psichiatria, in analogia con i sistemi di etichettamento e «salvazione» delle streghe medioevali, poi lo condannerà. Per Szasz, quindi, la malattia mentale è un etichettamento patologizzante, controllante ed espulsivo di un comportamento intelligente che usa strategie difensive e di occultamento rispetto ad un ambiente oppressivo o comunque fortemente asimmetrico. Queste strategie comunicative per Szasz utilizzavano codici protolonguistici e linguaggi non-discorsivi, iconici e performativi, per manifestare ciò che in una posizione di maggior potere negoziale il soggetto potrebbe esprimere in forma più consapevole, libera e diretta.
Spesso Szasz è stato assimilato all’antipsichiatria, o addirittura ne è stato considerato il padre. Niente di più falso. Più volte, infatti, riportando il motto di Voltaire: «Dio mi protegga dai miei amici, che dai nemici mi proteggo io», Szasz sottolineò come Cooper a Laing in primis, e tutta l’antipsichiatria inglese, a partire dalla questa orrenda denominazione, anziché avvalorare l’inesistenza della malattia mentale la perpetuava attraverso pratiche comunque psichiatriche, unite ad una sinistra pseudo-idealizzazione di questa entità creata ad hoc. Se, come recita un suo libro recente, la psichiatria era un’ «impostura» per Szasz, l’antipsichiatria era un’impostura al quadrato.
Se mai un inquadramento filosofico fosse possibile, Szasz era un radicale esistenzialista; una sorta di estremo Sartre di «destra» (nel senso ampio che Bobbio diede a questa categoria) difensore radicale della libertà individuale, vicino all’interazionismo simbolico, al costruzionismo sociale (come nel caso di Goffman), alla psichiatria di Sullivan e, forse, alla «psicologia dell’azione» di Shafer nonché alla critica mossa dall’etnopsichiatria di Tobie Nathan all’impianto psicoanalitico a partire dai suoi dispositivi tecnici. Ma Szasz certamente non apparteneva all’antipsichiatria, né all’atteggiamento di Foucault, che considerava un critico algido e non impegnato in nessuno degli effetti che le sue analisi mettevano in luce.
Szasz fu sempre molto chiaro nel non voler essere «infangato» dall’etichetta di antipsichiatra proprio per il fatto la sua era una critica radicale, paradigmatica, alla psichiatria nel suo complesso. E, come fu con il flogisto prima di Lavoiser, sotto la critica di Szasz letteralmente scompare tutto un mondo che, nel paradigma precedente alla critica (quello, quindi, psichiatrico) sembra ovvio e reale. Per questo lo psichiatra dichiarava che la sua non era un’opera di psichiatria, ma una critica sulla psichiatria, e ai pochi psichiatri che non lo liquidavano con una scrollata di spalle, ma contrattaccavano, rispondeva che la loro richiesta di dimostrare l’inesistenza della malattia mentale e il suo carattere mitico e coercitivo era insensata, proprio perché verteva ancora su una invenzione inesistente di una pseudoscienza.
Oggi viviamo in un’epoca dominata dal manuale statistico diagnostico (Dsm) delle malattie mentali: una vera e propria Bibbia nosografica che, come un lupo essenzialista travestito da agnello nominalista (Brierley), deculturalizza i propri soggetti descrivendoli attraverso moduli comportamentali parcellizzati i quali escludono a priori la possibilità di un progetto e un senso simbolico delle condotte, e che, così facendo, nomina entità nosografico-nosologiche quasi-reali. Viviamo in un mondo in cui la «farmacocrazia» non solo produce strepitosi profitti, ma anche promette l’estirpamento di quella «malattia mentale» che Szasz riteneva essere invece il tentativo di progetti ed espressione simboliche individuali da tradurre e interpretare. Viviamo in un mondo di straordinari progressi neuroscientifici (quindi appartenenti al regno dell’organico), che vengono spesso invocati per giustificare la «cura» della malattia «mentale».
Un buon atteggiamento scientifico, falsificazionista fino in fondo, imporrebbe non di espellere Szasz dalla riflessione e dalla letteratura psichiatrica contemporanea, ma, al contrario, di assumerlo come il più formidabile critico dell’impostazione dominante. È infatti, possibile che Szasz fosse un visionario e fosse in errore, tuttavia credo che la domanda più utile e dotata di maggior forza euristica oggi resterebbe questa: «E se avesse avuto ragione»?
Agli psichiatri, agli psichiatri in primis, l’onere di accettare davvero la sfida.
CHI È
Professore emerito emarginato dai «colleghi»
Thomas Szasz, nato a Budapest nel 1920, era dal 1956 professore emerito di psichiatria al Centro Scientifico sulla Salute della State University a New York. Nel 1961 ha scritto l’esplosivo «Il mito della malattia mentale» (in Italia edito da Spirali) che lo portò alla fama internazionale (e all'emarginazione); «L’etica della psicoanalisi» nel ’65 (Armando) in cui Szasz considera la psicoanalisi una forma laica di confessione; «La schizofrenia, simbolo sacro della psichiatria» nel 1976.
l’Unità 22.9.12
Henry Bauchau, una vita di lotte
Se ne è andato a 99 anni lo scrittore e psicanalista belga
di Anna Tito
La prima battaglia fu con la sua famiglia che non voleva si dedicasse alla letturatura. Poi la Resistenza e l’esperienza in un ospedale per disadattati. Il successo arrivò con «Lo strappo»
È SCOMPARSO L’ALTRA NOTTE NEL SONNO, QUATTRO MESI PRIMA DI COMPIERE CENTO ANNI, NELLA SUA «CASA DELLE FATE» di legno grigio nella foresta di Louvenciennes, lo scrittore, poeta, drammaturgo e psicanalista belga Henry Bauchau, considerato uno dei più importanti scrittori di lingua francese.
Attraversare il secolo scorso e anche andare oltre fu per lui una lunga lotta, iniziata all’età di tredici anni, quando decise di dedicarsi alla letteratura dopo aver letto Un cuore semplice di Gustave Flaubert: dovette combattere con la sua famiglia di industriali valloni per i quali gli scrittori non possono essere che saltimbanchi o geni, e lo invitarono a studiare giurisprudenza.
E nel 1936, a ventitré anni, puntualmente, divenne avvocato del Foro di Bruxelles. Un decennio dopo entrò nella Resistenza nelle Ardenne in seguito all’occupazione nazista. Aveva fino ad allora scritto qualche poesia e alcuni articoli. Si trasferì a Parigi nel 1946, dove fece il grande incontro destinato a dare una svolta alla sua vita, quello con la psicanalisi: immergendosi nei meandri del suo inconscio, scoprì un universo interiore che gli era del tutto sconosciuto, e decise di assecondare la sua passione per la scrittura. Apparvero nel 1958 nella prestigiosa collana «Métamomorphoses» di Gallimard alcune sue poesie (Géologie), ed esordì come drammaturgo con Gengis Khan (1960), messo in scena a Parigi l’anno successivo da Ariane Mnouchkine.
La notorietà come romanziere arrivò con La déchirure (Lo strappo) del 1966, libro dell’abbandono, nato dal «Piccolo quaderno di tela grigia» in cui annotava i ricordi d’infanzia, quelli della Grande guerra, nel suo caso. Aveva poco più di un anno quando scampò per miracolo, insieme ai nonni, all’incendio di Lovanio nell’agosto del 1914. Non ritrovò sua madre che alcuni mesi dopo, e mai si riprese da questo «strappo originario». Come nelle favole, il bimbetto venne a conoscere la storia di quella giornata di orrori nascosto sotto il tavolo con il fratello.
La guerra, sempre lei! Costrinse il padre ingegnere e cacciatore di farfalle, a smettere di lavorare, e la famiglia venne a trovarsi sballottata da una casa all’altra, ospitata da parenti e amici non sempre benevoli. Era troppo per l’ipersensibile Henry: «Era disoccupato e ci trattavano come i parenti poveri», scriveva ricordando l’umiliazione di quegli anni.
Nel 1975 iniziò a Parigi a esercitare la professione di psicoterapeuta in un ospedale per giovani disadattati, esperienza che rievcò una trentina d’anni dopo in L’enfant bleu, che ha per protagonista il giovane Orion, psicotico tredicenne che solo con l’arte riesce placarsi. Rese in poesia il «freudismo» in La sourde oreille ou le rêve de Freud (1981), opera poetica direttamente ispirata alla psicanalisi, e apparvero i romanzi Edipo sulla strada (1990) e Antigone (1997).
Eletto nel 1990 membro dell’Académie royale de littérature de la Communauté française de Belgique, lascia un’opera densissima, in cui la poesia, la psicanalisi, la letteratura e la mitologia vengono a fondersi, tutte insieme, per riempire uno strappo originario, quello della separazione dalla madre nella Grande guerra. In Bauchau tutti i generi ne fanno uno solo, poiché rifiuta ogni frontiera fra la letteratura, l’arte, la psicanalisi, la storia, il mito o la poesia. E la trasversalità del suo lavoro e dei suoi interessi la ritroviamo appieno in Journal d’Antigone (1999), al tempo stesso diario, autobiografia, raccolta di frammenti letterari, poesie, saggi...
IL DILUVIO
Al tema del Diluvio è dedicato Déluge (2010), in cui un pittore folle, alle prese con una tela gigantesca sul Diluvio è «un uomo esausto, felice, a volte meravigliosamente felice e disperato sempre». Spiegò l’autore: «è vero che io sono spesso esausto, in fondo sono alla fine della mia vita. La sola cosa che posso fare ancora oggi, è scrivere, dettando ormai, perché la mia mano non regge più». Era quasi sordo e cieco, ma proseguiva nella sua creazione letteraria.
Caso rarissimo per un autore ultranovantenne, negli ultimi anni della sua vita scrisse quanto nei precedenti: nel 2008 gli è stato conferito il Prix du Livre per Boulevard périphérique (Il compagno di scalata), romanzo sul ricordo e l’ombra della morte, che mai però indugia nell’egotismo e nell’indulgenza per il passato; al contrario, Bauchau vi appare estremamente attento al presente, «unico vero luogo del Divino».
Conservava nei suoi cassetti della casa nella foresta un racconto sulla Vergine, una massa di giornali e un romanzo sulla guerra del 1914, ancora una volta vista con gli occhi del bambino che era, insieme al manoscritto di un volume su Blanche Reverson e Pierre Jean Jouve, protagonisti del grande incontro della sua vita, quello con la psicanalisi: Pierre et Blanche, che apparirà a giorni da Actes Sud.