l’Unità 21.9.12
La caduta di un sistema feudale
di Vittorio Emiliani
CENTOQUARANTADUE
ANNI FA I BERSAGLIERI ITALIANI ENTRAVANO IL 20 SETTEMBRE in Roma dalla
breccia di Porta Pia, con non pochi morti e feriti, mettendo fine al
potere temporale dei papi e il severo Quintino Sella diventava il
regista della Terza Roma. Centoquarantadue anni dopo alla Pisana si apre
pure una breccia, ma in uno scandalo che ferisce lo Stato regionale,
l’idea stessa di democrazia. Uno scandalo fra i più gravi e grotteschi
che si ricordino, anche in una città come Roma che di corruzione ne ha
vista passare parecchia assieme all’acqua del Tevere. Del resto le carte
dei giudici milanesi non parlano linguaggi molto diversi per i vertici
della Regione Lombardia.
Che è lontanissima dall’austera, morale efficienza e lungimiranza del riformismo lombardo.
Lo
scandalo scoppiato alla Regione Lazio è di tale natura e dimensione da
non poter essere ridotto o medicato con misure parziali.
Esso esige l’azzeramento e nuove elezioni.
Perché
parliamo di uno scandalo «diverso» rispetto ai molti scoperchiati in
giro per l’Italia? Perché qui i nostri denari, destinati ai gruppi
consiliari regionali, sono stati usati come se si trattasse di una torta
da spartire fra un certo numero di privilegiati del centrodestra, un
bel pacco di euro per ciascuno.
Da spendere a piacere: cene,
festini, viaggi, convivi di massa e via brindando. Senza controlli di
sorta. Come se ormai la politica fosse e in molti casi lo è una impresa
individuale o di clan. Mentre i contribuenti (i redditi fissi per lo
più) pagavano e pagano una crisi senza fine.
Si è sparato a zero,
per anni, sui partiti. Salvo scoprire che, liquefatti, o
autoaffondatisi, i tanto detestati (dalla destra) partiti, al loro
posto, con l’irrompere del partito-azienda e degli interessi del
«salvatore», si è creato un vuoto agghiacciante di idee-guida, di
programmi, di moralità, di controlli.
In Tangentopoli si è detto
in sede di bilancio si prendevano i soldi per il partito, ora li
prendono ognuno per sé. E la marea della corruzione sale, togliendo
ossigeno all’economia oltre che alla moralità.
«Ognuno è padrone a
casa sua», è stato uno degli slogan più fortunati di Silvio Berlusconi.
Alla Regione Lazio gestione-Polverini è diventato un motto feudale: al
vertice c’era una governatrice che, forse troppo inesperta e occupata,
poco o nulla vedeva (colpa non lieve), mentre ai suoi piedi i
neo-notabili si sentivano autorizzati a quella «dolce vita» di massa da
decine di migliaia di preferenze incettate come sappiamo. Alla maniera
di questo Fiorito, detto, chissà perché Batman: quello dei fumetti è un
superatleta che vola a stornare soprusi e ingiustizie; questo è un tipo
grasso e imbarazzante che ammette di aver distribuito i soldi del suo
gruppo (soldi di tutti) «a otto ladri» (dice lui), sapendo che ne
avrebbero fatto un uso solo personale.
Un tempo si protestava
fieramente contro le correnti dei partiti che si finanziavano per
organizzare convegni, studi, riunioni in provincia, o, annualmente, a
livello nazionale (a Montecatini, a Saint Vincent, a San Pellegrino,
ecc.) e anche, specie nel Sud, per le campagne elettorali.
Cose
che comunque avevano a che fare, in modo diretto sovente, col dibattito
politico. Qui siamo alla «società dei magnaccioni» allo stato puro, ai
banchi della porchetta, al «ma che ce frega, ma che ce importa», senza
alcuna ricaduta di tipo sociale (se non per il fatturato di ristoratori e
affini). Gli spavaldi «magnaccioni» della canzone popolare almeno
protestano «contro ‘sta zozza società». Quindi un fine politico se lo
danno. Per poi confessare candidamente: «A noi ce piace de magnà e beve,
e nun ce piace de lavorà». Come questi qua, che in più però se la
spassano a spese nostre, gettando fango a raffica sulla politica, sulla
Regione, sullo Stato regionale. Per questo la cura non può che essere
radicale. Essa deve tuttavia contenere il recupero di strumenti di
controllo che sono stati divelti o gettati chissà in quale scantinato
della Pisana (e di altre Regioni). La soluzione presidenziale è stata
piegata in Italia a caricatura grottesca (costosa e corrotta), togliendo
voce agli oppositori e senza nulla guadagnare in efficienza e
governabilità. Anzi.
Corriere 21.9.12
L’ingordigia dei mediocri
di Gian Antonio Stella
qui
«[Alla
Regione Lazio...] I partiti, tutti assieme, incassano in un anno —
ufficialmente per l'attività politica — dodici milioni di euro» [...]
Di
certo, nessuno sa spiegare come la cifra totale venga divisa tra i
partiti: difficile che il criterio sia il numero dei consiglieri, perché
altrimenti La Destra (due persone, 538 mila) avrebbe gli stessi soldi
di Sel, Fds (due consiglieri, 322 mila euro) o dei Radicali (422 mila).
[...] Non rimane che leggere le cifre: detto dei partiti maggiori (il
Pdl quasi tre milioni di euro totali, il Pd, 14 consiglieri, incassa
poco più di due milioni, l'Idv ne ha cinque e prende 1.217.000),
rimangono i monogruppi. Verdi (183 mila euro), Api (181), Mpa (182), Fli
(188), Gruppo Misto (180). Poi ci sono i 154 mila euro dei Responsabili
di Olimpia Tarzia: nelle sue note, «indennità e rimborsi per i
consiglieri» per quasi trentamila euro. C'è ancora la Lista Civica dei
cittadini di Giuseppe Celli (180 mila) [...]
Alessandro Capponi sul Corsera di oggi, pag. 5
«Fiorito:
"Le cifre che prendiamo sono vergognose. In tutto il consiglio
regionale vengono distribuiti 17 milioni di euro fra i vari gruppi
consiliari attraverso un patto". Un meccanismo di sovvenzioni esteso a
tutti i gruppi regionali»
La Stampa 21.9.12
Scatta il blitz della Finanza Alla Regione tremano tutti
I magistrati vogliono capire se il “sistema Fiorito” coinvolge anche gli altri partiti
E
ora la Guardia di Finanza sta estendendo le indagini per verificare
come sono stati usati finora i fondi di tutti i partiti della regione
Lazio
di Flavia Amabile
ROMA Mentre il
capogruppo del Pdl alla Regione Francesco Battistoni ha dato le
dimissioni come chiesto dalla presidente Renata Polverini, da ieri gli
investigatori del nucleo di polizia stanno effettuando controlli negli
uffici del consiglio regionale ma stanno anche sentendo i funzionari
dell’ufficio di presidenza per capire come funzioni il regolamento sui
finanziamenti per poi estendere le indagini agli sportelli bancari e ai
movimenti bancari di tutti i gruppi.
Gli investigatori cercano
riscontri alle rivelazioni arrivate durante l’interrogatorio dell’ex
capogruppo del Pdl alla Regione, Franco Fiorito che ha consegnato
«almeno due casse di documenti» e indicato i nomi di una decina di
persone, quasi tutti consiglieri regionali.
Nei prossimi giorni
Franco Fiorito sarà ascoltato anche dal pm di Viterbo Massimiliano Siddi
per un nuovo filone di questa pessima vicenda. Tre fatture potrebbero
essere gonfiate. La fattura numero 735 emessa dalla Panta Cz per una
campagna pubblicitaria è di 3 mila euro e non di 13 mila. Altre due
risultano emesse dalla Majakovskij Comunicazione: una da 1275 euro
sarebbe stata portata a 12mila mentre la seconda, di 15 mila euro,
risulterebbe totalmente falsa. Ma le somme spese dall’ex capogruppo
Francesco Battistoni con partner commerciali con sede della Tuscia sono
almeno una ventina e almeno metà sarebbero state falsificate secondo il
consigliere regionale.
Il rischio sempre più concreto, a questo
punto, è che la vicenda dilaghi in un susseguirsi di rivelazioni e
illegalità. «E’ una vicenda che può portare a sviluppi clamorosi e a
colpi di scena inimmaginabili», conferma Enrico Pavia, l’avvocato che
insieme con Carlo Taormina difende Fiorito. L’ex capogruppo, infatti, «è
provato, ma allo stesso tempo determinato nella richiesta di
approfondimenti delle posizioni di altri consiglieri regionali».
Nel
frattempo il Consiglio Regionale è convocato per questa mattina alle 11
e mezza per esaminare i tagli chiesti dalla presidente Renata
Polverini: il dimezzamento delle commissioni consiliari permanenti, la
cancellazione delle tre commissioni speciali: «Federalismo fiscale e
Roma Capitale», «Sicurezza ed integrazione sociale, lotta alla
criminalità», «Sicurezza e prevenzione degli infortuni sui luoghi di
lavoro».
Le dimissioni di Francesco Battistoni sono giunte al
termine di un lungo incontro in via dell’Umiltà con il segretario del
Pdl Angelino Alfano. Non è stato semplice ottenere il passo indietro e
ora si cerca il successore adatto per dare un segnale di svolta da parte
del partito rispetto ad una vicenda che rischia di costare molto cara. I
nomi che circolano sono di Antonio Cicchetti o Chiara Colosimo, anche
loro due ex-An per non modificare gli equilibri.
«Abbiamo persone
degnissime all’interno del gruppo che possono succedere a Battistoni -
assicura il coordinatore regionale del Pdl Vincenzo Piso - sono persone
con qualità diverse. Cicchetti è riconosciuto da tutti come una persona
onesta, di grande esperienza. La Colosimo è una brava ragazza, che
rappresenta la freschezza».
Repubblica 21.9.12
La mangiatoia degli ex missini
Addio ai miti Patria e Onore gli ex Msi nell’orgia del potere tra case di lusso, cene e auto blu
di Filippo Ceccarelli
DOMANDINA innocente, ma fino a un certo punto. Come mai gli ex missini sono, o appaiono, o comunque risultano, in tutte queste storie, i più famelici? Quale misteriosa energia spinge questi attempati giovanotti?
SONO cresciuti con il mito della Patria, dell’Ordine, della Gerarchia, dell’Onore, della Tradizione e via dicendo. E ora perché sono lì ad abboffarsi senza requie nei ristoranti di lusso? Quale maligno incantesimo, quale invincibile demonio li obbliga oggi a smaniare e a vendersi l’anima e la reputazione per una casa con un buon indirizzo o per una villa, un Rolex d’oro, una macchina di alta cilindrata, un autista servizievole, uno champagne millesimato, una vacanza esotica, una consulenza alla Rai, una escort che lo è, ma non lo sembra?
Quando Francone-Batman rivendica di sentirsi «il federale» non viene più nemmeno in testa quella fantastica pellicola con Ugo Tognazzi (1961). E a guardare tanti suoi ex camerati, quegli stessi che in gioventù rischiavano o prendevano le botte nelle scuole o sotto casa, si resta attoniti come dinanzi a un sogno che è svanito. Adesso fanno anche un po’ ridere gli effetti del risveglio. Però il ripudio degli ideali, la secolarizzazione nera, come quella bianca e quella rossa, si rivela col tempo una faccenda molto seria e anche un po’ triste. Ma quale fascismo! Questi che saturano le cronache con i loro grossolani desideri hanno in realtà acchiappato il peggio dei loro nemici, quegli stessi che per anni e anni li avevano rinchiusi in un recinto per appestati, o li avevano seppelliti nelle catacombe a lucidare mortiferi labari e polverose reliquie; prima che il Cavaliere gli restituisse la vita all’aria aperta, ma sempre stando bene attento che ai nuovi alleati un po’ rimanesse appiccicato il complesso d’inferiorità, che nel caso specifico ha tuttora e a buon ragione il nome di «impresentabilità». No, non è nostalgia, «ah, i buoni fascisti di una volta! ». E’ che ora la compromissione dei postmissini in ciò che un tempo definivano «il regime» s’è intensificata e accelerata, e la trasformazione non solo li ha visibilmente e definitivamente stravolti, ma li sta anche perdendo, forse per sempre. Famelici, sì. «È ora famelica, l'ora tua, matto. / Strappati il cuore» (Ungaretti). E se pure non esiste un attendibile strumento che misuri il primato della bulimia di potere degli ex missini rispetto ai leghisti, per dire, o ad altri eroi dell’appropriazione selvaggia. Ma certo a Roma, con Alemanno, il processo è vistoso, asfissiante, spesso ridicolo perché al tempo stesso sorcio e tracotante.
Fecero impressione, quando fu eletto, i saluti romani, ma oggi francamente spaventano di più le parentopoli Ama e Atac, gli sprechi pazzeschi, le arcane consulenze, i capricci di elicotteri acquistati, i «Punti verdi» di sospetto lucro a schermo ecologico, gli orrendi e costosi alberi di Natale commissionati ad agenzie amiche, poi ritirati e ripiantati in periferia, gli uffici di comunicazione che proliferano improbabili professionalità, a loro volta da girare ad altri enti a prova di elezioni ormai date per perse. E gli incredibili videoclip di santificazione del sindaco, i sogni di bolidi sfreccianti, i pomposi Stati Generali e milionari, gli ex banditi della Magliana e gli ex terroristi dei Nar «sistemati» su comode poltrone.
La tentazione è che si tratti di fame antica, atavica, ancestrale. Una sorta di risarcimento che lega i poveri pasti dei padri epurati, le minestre degli enti di assistenza, oppure i «ranci» militareschi, al massimo le porchettate nel ristorante vicino al Luna Park all’odierno raffinato magnamagna, agli smoking, ai Suv, ai red carpet, alle hostess e ai buttafuori con l’auricolare in vista, insomma all’odierna e ostentissima pacchia.
L’inventore della «Festa dei nonni», il giovanissimo Samuele Piccolo, recordman di preferenze al Consiglio comunale, è finito in prigione con qualche parente. Durante la perquisizione agli uffici del clan volavano i documenti dalla finestra e gli armadi sigillati dalla Guardia di finanza sono stati violati. Si è poi scoperto che i Piccolo si erano anche agganciati alla cabina dell’Enel per recuperare elettricità.
In Campania ci sono esponenti, come l’onorevole Landolfi, sotto accusa per avere avuto impicci con la Camorra; mentre da qualche mese l’onorevole Laboccetta è nei guai per i suoi stretti rapporti con il mondo delle società del gioco d’azzardo. Ma dietro le questioni giudiziarie tuttora aperte, per gli ex missini del Pdl ma anche per Fini e per quelli che l’hanno seguito nel Fli, s’intravede un andazzo di villana ostentazione, una voglia pazza o forse addirittura un destino di edonismo disperato e a buon mercato. Vita comoda, case all’estero, viaggi esotici, servizi fotografici patinati, le carte di credito della Rai utilizzate per le spesucce dall’onorevole Rositani, i premi Almirante in prima serata, l’«Ignazio Jouer» di Fiorello, le poltroncine bianche di Vespa, l’amichetta che presenta il 150°, le fiction futuriste, i quotidiani che durano mesi, l’imitatrice che la Polverini (« A’ bellaaa! ») ha voluto portarsi a pranzo in regione, le sfilate di moda baby, i compleanni con Novella2000, le maxi-torte, Malgioglio e la principessa Borghese.
Peppino Ciarrapico, in fondo, insediato com’era nel formaggio dell’andreottismo all’ultimo stadio, era un profeta della trasformazione degli «esuli in Patria » in gaudenti uomini di potere, e più in generale del percorso che dal trittico «Dio Patria e Famiglia » inesorabilmente li avrebbe convertiti, o adeguati, o perfino addomesticati lungo l’asse degeneratasi in: «Io Patrimonio e Tengo Famiglia».
Hai voglia poi a intitolare qualche strada «via Almirante». E hai voglia a invocare le foibe e intanto prendersela con Berlusconi. Il vuoto di ideali si è riempito di soldi, voglie, esibizionismo, vanità. In altre parole si è colmato di nulla, del Nulla. La fine della diversità è l’inizio della fine. Francone- Batman, Polverini e gli altri ex camerati non possono farci nulla. Dopodomani, d’altra parte, non importerà a nessuno sapere chi vinse il campionato di voracità, avendolo perso l’intero paese.
l’Unità 21.9.12
Lo spazio dei progressisti
di Alfredo Reichlin
SE
HO CAPITO BENE CIÒ CHE HA SPINTO BERSANI A CHIEDERE NON SOLO AGLI
organi dirigenti del suo partito ma a milioni di persone, a tutta
l’Italia del centrosinistra, di legittimare la sua candidatura alla
guida del paese non è l’ambizione personale. Almeno, credo.
È la
consapevolezza che gli italiani sono di fronte a una scelta di portata
storica alla quale non possono più sottrarsi. In poche parole: l’Italia
così com’è non regge alle nuove sfide che derivano dal fatto del tutto
inedito che stiamo entrando a far parte di una nuova costruzione
europea. Se il Paese non si riforma e non si modernizza, sia come Stato
che come nazione finirà ai margini della storia, come nel ‘600. È da qui
che viene l’interrogativo (che è serio e non è solo italiano) sulla
candidatura del Pd a guidare l’Italia in questo passaggio storico. Che
poi tutto questo dia spazio anche a manovre, a manovrette, a calcoli
personali e ridicole ambizioni, è normale. Ma il problema vero è
l’altro. E sta qui il bisogno di un rinnovamento radicale di idee.
Sono
passati cinque anni dall’inizio di una devastante crisi mondiale e non
si vede una via d’uscita. Ma allora è sulla parola crisi che bisogna
intendersi. È evidente che non si tratta di una normale crisi che si
chiude dopo alcuni trimestri e poi la vita ricomincia come prima. In
realtà noi siamo già di fronte a un nuovo processo di trasformazione
dell’«ordine» mondiale. L’oligarchia finanziaria che fa capo a Wall
Street e alla City conserva tutta la sua potenza ma non è più in grado
di dettare il futuro del mondo. Valuteremo tra poche settimane i
risultati e gli effetti delle elezioni americane. Saranno grandissimi.
In Europa la crisi dell’Eurozona continua ma la moneta unica ha
resistito e il grande tema politico di fare dell’euro lo strumento di
una sorta di Stato federale europeo è venuto sul tappeto. Il fatto
avrebbe conseguenze enormi e confermerebbe che un riequilibrio sulla
distribuzione della ricchezza globale è in atto. Dice qualcosa che le
economie emergenti detengono ormai la maggioranza delle riserve
internazionali rispetto alle economie avanzate? In sostanza ciò che è in
atto è molto di più di una crisi, è una transizione per cui il mondo di
oggi è già molto diverso di quello di cinque anni fa. La grande
illusione che il processo storico della globalizzazione si potesse
governare dando mano libera ai mercati finanziari e riempiendo il mondo
di debiti non è riproponibile. Wall Street conta. Ma nei Paesi emergenti
si sta formando un gruppo di imprese multinazionali in grado di
condizionare i flussi degli investimenti. E mi sembra sempre più
difficile impedire l’evoluzione del sistema monetario internazionale da
un modello in cui il dollaro era l’unica moneta di riferimento ad un
regime dove, oltre al dollaro, avranno un ruolo crescente l’euro e la
moneta cinese.
Bisognerebbe quindi guardare anche alle cose
italiane con occhi un po’ diversi da quelli del miserabile baraccone
politico e giornalistico italiano che rincretinisce la gente. La
decadenza del Paese è del tutto evidente. Eppure io credo che la partita
non è giocata. Anzi. Forse si riapre. Molte cose stanno cambiando anche
se noi appena le intravediamo. Nella sostanza io credo che si sta
allargando lo spazio per una forza popolare e progressista di stampo
europeo che abbia l’ambizione di costituire il perno non solo di una
svolta politica ma di una rinascita sociale e morale. Al di là dei suoi
silenzi, delle sue risse inconcludenti e delle debolezze del suo
scombinato gruppo dirigente, io mi ostino a credere che il Pd è la sola
forza in grado di capire che nuove prospettive si aprono alle forze di
progresso. Faccio un solo esempio. Finalmente si riapre la grande
questione della «produttività». È giusto. Non si vive di solo spread.
Alla
fine ciò che conta è la produttività del lavoro, compreso il lavoro
dell’imprenditore. Ma allora il lavoro ritrova la sua dignità e
centralità. Allora esiste anche il «capitale sociale» e non solo quello
finanziario. Allora vi siete sbagliati. Non regge l’illusione del denaro
fatto col denaro, del lavoro ridotto a puro prezzo , residuo, roba da
usa e getta. Torna a contare non più solo il banchiere e dovete
smetterla di guardare il Pd dall’alto, come un prodotto dialettale. Ma
anche noi stiamo attenti a non montarci la testa. Noi non siamo il
passato che ritorna. Un «neo-sinistrismo» sarebbe del tutto fuori dalla
realtà. Così come un «neo-liberismo». Non si tornerà al mondo di ieri.
L’economia finanziaria ha cambiato tutto. Ha coinvolto tutti: le imprese
produttive come le famiglie come gli Stati e le istituzioni pubbliche.
Ha cambiato non solo i confini del mondo ma il modo di essere della
società umana. E in modo radicale. Per questo è così difficile uscire
dalla crisi. Ma questo non deve scoraggiarci. La forza di un nuovo
pensiero riformista, (e la sua radicalità) stanno proprio nel fatto che
un nuovo assetto dell’economia comporta, necessariamente, un nuovo
assetto della società, dei bisogni e dei valori. Dunque, la politica e
la società tornano a contare. Devono entrate in scena nuovi attori, sia
politici che sociali. Ma il mondo di ieri non tornerà più.
Il
capitalismo globale non ha rappresentato solo un ampliamento senza più
confini del sistema dell’economia di mercato. Esso ha rotto la vecchia
trama su cui si era fatta la storia delle società umane, cioè la trama
degli Stati, delle solidarietà sociali, della famiglia, delle religioni,
insomma le cose all’interno delle quali si erano sviluppati i sistemi
economici precedenti. E tuttavia non torneremo ai vecchi blocchi
sociali. L’individuo ha assunto una nuova dimensione ma il suo apparente
trionfo si è accompagnato allo smarrimento di quelle certezze che
derivano da un rapporto meno squilibrato tra la potenza del denaro e il
potere della società e delle istituzioni. La gravità della crisi
italiana va letta anche così. La produttività italiana è diminuita per
tante ragioni ma tra queste c’è la trasformazione del cittadino
produttore in un consumatore.
Oggi misuriamo fino a che punto ciò
ha distrutto l’antico sapere degli italiani e lo straordinario saper
fare dei suoi lavoratori-imprenditori. Ma per fortuna le radici della
pianta-uomo italiana non sono morte. Andate a vedere come l’Emilia
risorge dal terremoto. È la cultura cooperativa: il mio successo dipende
anche dal tuo successo, non dalla tua rovina. Non esiste ricchezza
fondata sulla rovina degli altri. Questa è la nostra bandiera. Ma la
novità è che questa non è più una affermazione astratta e ideologica. La
novità è che l’Europa e il mondo non possono più far leva come nel
passato sui consumi privati ma devono porsi il problema di nuovi bisogni
e di una nuova domanda. E quindi il problema di nuove forme di vivere e
di associarsi degli uomini tra loro.
l’Unità 21.9.12
Regole e candidati
Tensioni nel Pd verso l’assemblea
Malumori Areadem sulla linea. Bindi contro la deroga per Renzi: nel fine settimana deciderà se correre
di S.C.
Gli
attacchi dal fronte pro-Renzi, ma anche i dubbi espressi dagli
esponenti di Areadem, le riserve dei bindiani “Democratici davvero”, e
poi la richiesta di chiarimenti da parte degli ex-popolari, per non
parlare dei “montiani” (già veltroniani di Modem) che tra dieci giorni
si riuniscono per decidere (al netto di quelli che già hanno optato per
Renzi) se scendere in campo con una propria candidatura. La scelta di
Bersani di indire le primarie per decidere chi sarà il candidato premier
del centrosinistra sta agitando parecchio le acque nel Pd. E allora
l’Assemblea nazionale convocata per il 6 ottobre per modificare lo
statuto e dare di fatto il via alla competizione rischia di non essere
semplicemente un passaggio burocratico. Quel giorno si voterà una deroga
al regolamento interno al partito che consentirà a tutti gli iscritti
del Pd, e non solo al segretario, di correre per la premiership. Servirà
però il via libera da parte del 50% più uno dei membri elettivi
dell’Assemblea nazionale (poco meno di mille) perché l’operazione parta.
E benché sia difficile che riescano nell’intento, sono in molti nel Pd a
volerlo impedire.
Rosy Bindi non fa mistero di pensare che sia un
errore votare una norma ad hoc che permetta a Renzi di candidarsi
contro Bersani. La presidente del Pd da oggi a domenica riunisce a
Milano marittima la componente “Democratici davvero”, nata per la sua
corsa a segretario del Pd alle primarie del 2007. Lì scioglierà la
riserva sulla sua candidatura alla sfida del 25 novembre. Bisognerà
invece aspettare il week-end della prossima settimana per capire come si
muoveranno Ichino, Tonini, Ceccanti, Follini e gli altri che sostengono
la necessità di proseguire nel solco dell’agenda Monti (Gentiloni e
Morando hanno comunque già espresso apprezzamenti per Renzi).
Non
meno agitazione c’è tra gli ex-popolari, che vogliono «serietà e
chiarezza» in vista delle primarie, e che con Lucio D’Ubaldo chiedono a
Bersani di sciogliere i nodi prima dell’Assemblea del 6 ottobre. Dice
Beppe Fioroni: «I programmi di Renzi e Vendola sono oltre le ambiguità.
Sono conflittuali. Così si perdono le elezioni». La riprova, per l’ex
ministro dell’Istruzione, è nei sondaggi: «Dobbiamo evitare di fare
qualcosa di peggio dell’Unione. Da quando è iniziata la campagna sulle
primarie, Berlusconi recupera il Pd perde consensi».
Anche dentro
Area democratica si guarda con preoccupazione alle prossime settimane.
La componente che fa capo a Franceschini e Fassino si è riunita per
discutere il profilo da tenere in questa sfida. Il sostegno a Bersani
non è in discussione, anche perché come hanno detto durante l’incontro
Marini ed altri una vittoria del leader Pd è d’obbligo: «Ne va di mezzo
l’Italia». Alcune mosse del segretario Pd stanno però suscitando tra gli
esponenti di Areadem dei malumori che consigliano di tenere in questa
partita un profilo autonomo. Al segretario viene rimproverato lo scarso
coinvolgimento di una componente che di fatto fa parte della
maggioranza, di essersi fatto trascinare nel vivo della competizione
delle primarie quando ancora non si sa con che tipo di legge elettorale
si andrà alle urne (per molti di quest’area con un sistema proporzionale
la chiamata ai gazebo non andrebbe fatta), e di aver impostato la
campagna su una linea “di sinistra” che rischia poi di risultare
controproducente quando si giocherà la sfida decisiva, le elezioni
politiche del 2013.
RICONCILIARE POLITICA E SOCIETÀ
Bersani,
che alla polemica di Reggi sul sostegno ricevuto dai segretari
dell’Emilia Romagna risponde dicendo che ogni iscritto ha il diritto di
dire la sua e che «le strutture del partito devono essere neutrali ma
ognuno può essere protagonista» («è curioso che arrivino queste critiche
quando è il segretario del partito che si è messo in discussione»), fa
fronte invece alle pressioni che gli vengono fatte dicendo che le
primarie serviranno a «riconciliare la politica e la societa», che il
confronto dovrà essere senza rete (da Areadem arriva anche la richiesta
di un albo degli elettori a cui iscriversi nei giorni precedenti alla
convocazione ai gazebo) e che questo appuntamento farà da «traino» alla
campagna elettorale della prossima primavera. «Siamo in un momento di
caos creativo, ma non ci risulta che ci siano danni», dice il leader del
Pd smentendo Fioroni e minimizzando il peso della proliferazione di
candidature. All’Assemblea nazionale del 6 ottobre verrà infatti votata,
oltre alla deroga allo statuto che permetterà a Renzi di correre, anche
una norma che prevede si possa candidare soltanto chi riuscirà a
raccogliere un certo numero di firme (10 mila viene data come soglia
minima), il che porterà a un netto dimagrimento della lista degli
aspiranti premier circolata finora.
l’Unità 21.9.12
«Chi vota ci mette la faccia. Non si va ai gazebo mascherati»
Il responsabile organizzazione del Pd risponde a Reggi: «Ceausescu? Sono
gli stessi argomenti di Berlusconi»
di Andrea Carugati
«Voglio
dirlo a tutti, dentro il Pd: quella delle primarie deve essere una
campagna tranquilla, in cui tutti i candidati parleranno delle loro idee
per l’Italia. Parlare di regole “da regime comunisti”, o citare
Ceausescu per criticare una riunione di dirigenti che sostengono
Bersani, è un atteggiamento che appartiene a Berlusconi, che dal 1994
agita questi spauracchi pensando di ottenere qualche risultato. Ma nel
nostro campo non si gioca così, certi argomenti vanno tolti dal tavolo».
Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd, replica all’intervista
apparsa ieri su l’Unità, in cui il responsabile della campagna di
Matteo Renzi, Reggi, ha bollato come «comunista» l’ipotesi di pubblicare
le liste dei votanti alle primarie. «Raccogliere i dati di chi viene ai
gazebo a votare è una pratica che abbiamo sempre seguito, fin dalle
primarie di prodi del 2005, e anche in quelle fiorentine vinte da
Renzi», ricorda Stumpo. Stavolta però vorreste anche renderli
pubblici...
«I cittadini che sono venuti a votare ci hanno sempre
lasciato i loro dati, compresi il telefono e la mail, che sono stati
inseriti in dei data base. Per un elettore che si riconosce del
centrosinistra non c’è nulla di strano nel vedere il proprio nome
inserito in un pubblico elenco. Di certo non pubblicheremo i dati
sensibili come telefono o indirizzo».
Secondo gli uomini di Renzi
questo vuol dire allontanare gli elettori fluttuanti, che magari in
passato hanno votato Berlusconi o la Lega.
«Il voto politico è
segreto, e nessuno intende fare l’analisi del dna ai votanti delle
primarie o pretendere una antica fedeltà nelle urne. E tuttavia chi vota
dovrà sottoscrivere la carta d’intenti del centrosinistra e firmare una
liberatoria, come sempre è successo».
Lo staff di Renzi sostiene che nelle primarie passate gli elenchi dei nomi non sono stati effettivamente pubblicati.
«È
vero, ma non sono neppure mai stati segreti. Io ritengo che d’ora in
poi debbano essere pubblicati. Ma definire questo un cambio delle regole
è una forzatura». E se qualcuno volesse votare ma non farlo sapere?
«Visto
che non accettiamo votanti mascherati, e che non si vota per
corrispondenza, chi si presenta al seggio compie un atto pubblico. Ci
mette la faccia. E io credo sia giusto così. C’è un grande popolo che è
orgoglioso di appartenere al centrosinistra. L’unica barriera sarà per
quelle persone che appartengono esplicitamente a una forza politica
estranea al centrosinistra. Queste non sono elezioni generali, ma
primarie di una parte politica».
Parliamo delle regole per evitare una babele di candidati del Pd.
«All’assemblea
del 6 ottobre approveremo una deroga che consente anche ad altri
iscritti di candidarsi alle primarie. Questa è l’unica modifica di
sostanza, visto che da statuto potrebbe correre solo Bersani. Approvata
questa deroga, Renzi, Laura Puppato o altri dovranno raccogliere un
certo numero di firme tra gli iscritti, su tutto il territorio
nazionale. In una seconda fase, tutti i candidati, compresi Bersani e
Vendola, dovranno raccogliere un certo numero di firme tra i cittadini
italiani: nel 2005 erano tra 10 e 20mila, mi pare un numero ragionevole,
ma ne discuteremo con gli altri partner della coalizione».
Dunque gli altri i candidati Pd dovranno fare due raccolte di firme?
«Certamente».
E quante firme dovranno a raccogliere tra gli iscritti?
«Per
le primarie dei sindaci si parla del 35% dei delegati dell’assemblea
comunale o del 20% degli iscritti in quella città. Tradotto in nazionale
vorrebbe dire 120mila firme. È evidente che è una soglia troppo alta e
che dovrà essere drasticamente abbassata».
Le primarie saranno a doppio turno?
«La
mia idea è che, se nessuno raggiunge il 50%, occorra un ballottaggio
tra i primi due candidati. Ma siamo aperti alla discussione».
Reggi
polemizza con gli 11 segretari provinciali dell’Emilia Romagna che
hanno fatto una riunione con il leader regionale Bonaccini per sostenere
Bersani. «Quando la campagna inizierà ufficialmente, le strutture del
partito saranno a disposizione di tutti i candidati del Pd, senza
favoritismi. Ma tutti i dirigenti hanno il diritto inalienabile di
impegnarsi nella campagna e di sostenere chi vogliono. Qualsiasi
tentativo di impedirlo fa parte di culture illiberali».
Alcuni
dirigenti del Pd sostengono che la campagna sia iniziata troppo presto,
prima ancora di conoscere la legge elettorale e le coalizioni.
«Non
credo, perché l’idea che ci sia una coalizione fa ormai parte della
cultura del nostro Paese. Noi ci batteremo contro il ritorno al
proporzionale ma, anche se passerà, diremo prima ai cittadini con chi
vogliamo governare».
Corriere 21.9.12
Mal di pancia nel Pd: «Primarie sbagliate» Bersani: che potevo fare?
Il leader presenta una squadra «giovane»
di Monica Guerzoni
ROMA
— Pier Luigi Bersani non si è pentito di aver lanciato le primarie.
Anzi, è «sempre più convinto» di aver fatto la cosa giusta: «Se stiamo
qui a pettinar le bambole gli italiani ci prendono a calci». Davanti a
un piccolo buffet nel cortile della Casa internazionale delle donne, il
leader brinda al suo giovane comitato elettorale e si mostra serafico,
per nulla timoroso che la gara per Palazzo Chigi finisca per terremotare
il partito. «Preoccupato io? È una vita che mi sento chiedere se lo
sono. Ebbene no, non sono preoccupato affatto».
A chi gli
rimprovera un eccesso di generosità per aver raccolto la sfida di Matteo
Renzi, il segretario risponde allargando le braccia: «So bene che è una
cosa seria, ma il candidato era in campo. Cos'altro avrei dovuto
fare?». Non teme, come Beppe Fioroni, gli effetti delle risse interne?
«È un momento di caos creativo — respinge l'allarme degli ex Popolari il
leader —. Ma non è vero che i sondaggi ci diano in calo. Anzi, delle
buone primarie faranno da traino alle politiche».
Con questo
spirito il segretario dichiara aperta la campagna e presenta il suo
team, tre giovani «capaci ed esperti, perfettamente in grado di guidare
una macchina complessa». Tutti assieme fanno un secolo e sono la
risposta del segretario alle accuse di Renzi, che lo dipinge circondato
di «matusa» da rottamare. Toccherà a loro coordinare la raccolta fondi e
i comitati, organizzare i volontari e gestire la comunicazione. «Ci
metteremo la faccia e il cuore», è lo slogan di Alessandra Moretti,
portavoce del comitato, avvocato e vicesindaco di Vicenza: a 39 anni (e
due figli) è la più «anziana» e la più nota al pubblico tv. Il più
giovane è Tommaso Giuntella, consigliere municipale a Roma, segretario
della storica sezione Mazzini di Roma Prati e programmista regista in
Rai per i nuovi media. A coordinare il comitato sarà Roberto Speranza,
33 anni, segretario regionale del Pd in Basilicata: «Non vogliamo una
competizione sfrenata, ma una co-petizione. Dobbiamo guardare alle
grandi dinamiche che interessano il Paese, non a quelle piccole che
attraversano il partito».
Lui, Bersani, continuerà a fare prima di
tutto il segretario. E pazienza se gli toccherà combattere «con le mani
legate» contro gli attacchi di Renzi, che ha presentato in simultanea
la sua squadra di sole donne. «Tre a tre, sarà una sfida fantastica!», è
l'augurio del sindaco, che a sorpresa si è fatto fotografare a Milano,
alle sfilate di Armani e Scervino. E quando gli hanno chiesto se è vero
che ha siglato l'armistizio con Bersani, magari in vista di un futuro
ticket, ha invitato tutti a occuparsi «di questioni concrete, come la
moda». Intanto però il capo della macchina elettorale di Renzi, Roberto
Reggi, accusa Bersani e i suoi di comportarsi da comunisti in stile
Ceausescu. Il segretario promette che «le strutture del partito saranno
neutrali», ma insiste nel rivendicare che «ognuno può dire la sua»:
segretari territoriali e sindaci compresi. E siccome è stufo di «certe
polemiche», ricorda di aver accettato di «mettersi in discussione»
nonostante lo Statuto dica chiaro e tondo che il candidato premier è
lui.
I dirigenti del Pd ancora glielo rimproverano. Dario
Franceschini e Piero Fassino, che pure sostengono Bersani, hanno riunito
Area democratica e i malumori sono venuti a galla. Chi lamenta che il
comitato elettorale è troppo vicino all'ala sinistra di Orfini e
Fassina, chi non apprezza la «rincorsa giovanilista» di Renzi, chi
avrebbe voluto far partire la macchina delle primarie solo dopo la
riforma della legge elettorale... Franco Marini vede nero e mette in
guardia Bersani: se il leader perde le primarie, si sfascia il Pd e ci
rimette l'Italia. Il 6 ottobre all'assemblea nazionale sarà battaglia,
anche sulle regole. Un assaggio? Reggi ha detto a L'Unità che schedare i
partecipanti alle primarie in un albo pubblico «è cosa da regime
comunista».
Repubblica 21.9.12
Bersani sceglie tre giovani, i big si ribellano
La corrente di Fassino e Franceschini: “Pier Luigi si vergogna di noi”
di Goffredo De Marchis
ROMA — «Si vergogna di noi». Noi sarebbero gli apparati, la nomenklatura, il gruppo dirigente. L’allarme viene dalla corrente di Dario Franceschini e Piero Fassino che mercoledì sera hanno riunito alla Camera parlamentari, amministratori e militanti. Pier Luigi Bersani fa tutto da solo, non riunisce i leader, sceglie collaboratori e squadra per le primarie senza ascoltare nessuno. «Per carità, visto il tono della sfida di
Matteo Renzi è giusto così. Ma dovrebbe anche rispondere a chi ha tenuto unito il partito in questi tre anni», è stata la critica mossa in quella riunione. Critica condivisa da una cerchia che va oltre il capogruppo del Pd e il sindaco di Torino.
La prova di un Bersani che vuole liberarsi della “zavorra” dei notabili, secondo alcuni, è “fotografata” dalla scelta della squadra per la campagna delle primarie: la portavoce Alessandra Moretti, 39 anni, vicesindaco di Vicenza; il coordinatore Roberto Speranza,
lucano, 33 anni, segretario regionale del Pd in Basilicata; l’ambasciatore presso l’associazionismo Tommaso Giuntella, 28 anni, di Roma, consigliere municipale, cattolico. Tre aderenti alla corrente dei “giovani turchi”, l’ala socialdemocratica del Pd che esprime anche Stefano Fassina, Matteo Orfini e Andrea Orlando. «Così Bersani si chiude invece di aprirsi all’esterno», dicono i fedelissimi di Franceschini e Fassino. Un grido di dolore che forse nasce dal disappunto per essere stati tenuti fuori e dalla preoccupazione per una competizione che si vuole come una sfida a due. Ma la verità non è lontana dalle paure espresse nella riunione dei franceschiniani. Bersani ha fatto sapere a chi gli ha parlato in questi giorni che vuole andare “leggero” allo scontro con il primo cittadino di Firenze: sul palco con lui non ci saranno mai i big, né D’Alema, né Bindi, né Fioroni, né altri parlamentari di lungo corso. Neanche i cosiddetti bersaniani i quali da giorni si lamentano per la mancanza delle regole d’ingaggio da parte del “capo”. La sua campagna si affida ai tre ragazzi presentati ieri e alle strutture locali che come il segretario ripete spesso sono guidate soprattutto da under 40 e in alcuni casi da under 30. Una scelta precisa, un’“autorottamazione”, un segnale di rinnovamento che gli elettori delle primarie dovranno toccare con mano. «Non voglio un coro di fan — ha detto ieri Bersani presentando la squadra — ma un gruppo di protagonisti che apra comitati in tutta Italia e combatta con me». Renzi ha risposto facendo gli auguri ai giovani di Bersani e presentando il suo staff di donne: Simona Bonafè, 39 anni, Sara Biagiotti, 42, e Maria Elena Boschi, 31. Naturalmente, da tempo si sa che i veri attori della squadra del sindaco sono il coordinatore Roberto Reggi e lo spin doctor Giorgio Gori.
Su quel «si vergogna di noi” si gioca adesso la partita delle correnti, soprattutto dentro la maggioranza che sostiene Bersani dal 2009. Rosy Bindi è stata fra le prime a denunciare la rottura di un patto. Ma altri stanno salendo sulla medesima barca. Non a caso ieri il leader ha cercato di rassicurare i “delusi” garantendo che il suo impegno da segretario continua. È un modo per dire che la tutela per coloro che Renzi vuole rottamare non verrà meno. Però le primarie libere non si toccano: «Ci faranno bene, sono un momento di caos creativo». Proprio il caos che temono i maggiorenti.
il Fatto 21.9.12
Quando non rottamava
Renzi, 600 mila euro per aragoste e viaggi all’estero
La sprecopoli renziana
Cene, viaggi, fiori, pasticcini: 5 anni a spese della Provincia di Firenze
di Davide Vecchi
La
Corte dei conti setaccia i bilanci della Provincia di Firenze dell’era
renziana. Alla voce “rappresentanza istituzionale” in 5 anni è stato
inserito di tutto. A partire da cene da 2.000 euro
Aragoste,
vini pregiati, soggiorni negli Stati Uniti, biglietti aerei, cene,
pasticcini e fiori: il giovanissimo Matteo Renzi, quando era presidente
della Provincia di Firenze, si è adeguato con estrema disinvoltura al
modus operandi dei politici di professione. E così, tra gli spaghetti al
caviale di Luigi Lusi e gli sprechi della giunta regionale di Renata
Polverini per la comunicazione, l’attuale sindaco di Firenze e possibile
candidato premier per il centrosinistra si insinua tra i due esponenti
simbolo dello sperpero del denaro pubblico. Anche la Corte dei Conti
vuole vederci chiaro sui conti della Provincia dell’era renziana: ci
sono troppi rimborsi senza giustificativi adeguati e un uso allegro
delle carte di credito da parte del rottamatore. Dal 2005 al 2009, nel
periodo in cui Renzi è stato presidente, la Provincia ha speso 20
milioni di euro. Il capo di Gabinetto Giovanni Palumbo, nominato da
Renzi, ha firmato decine e decine di delibere per rimborsi di spese di
rappresentanza per il presidente che aveva a disposizione una carta di
credito con limite mensile di 10mila euro di spesa. Nell’ottobre 2007
però, durante un viaggio (ovviamente di rappresentanza) negli Stati
Uniti, la carta viene bloccata “a garanzia di un pagamento da parte di
un hotel a Boston”, si legge nella delibera del 12 novembre 2007. Renzi,
trovandosi senza carta di credito della Provincia è costretto a usare
la sua per pagare 4 mila dollari (pari a 2.823 euro) all’hotel Fairmont
di San Josè, in California. Come torna in Italia si fa restituire la
cifra con una delibera, ma senza fornire giustificativi. Tolta la
dicitura “spese regolarmente eseguite in base alle disposizioni
contenute nel disciplinare delle attività di rappresentanza
istituzionale”. Nei soli Stati Uniti la Provincia, con Renzi, ha speso
tra biglietti aerei, alberghi, ristoranti 70mila euro. Spese di
rappresentanza. Ovviamente. In tutto arriva a sfiorare i 600 mila euro.
TRA
I 20 milioni di euro al vaglio della Corte dei Conti ci sono anche
centinaia di migliaia di euro ricostruiti con numerosi scontrini e
ricevute. Non molti. In tutto 250 circa. In prevalenza di ristoranti.
Gli elenchi depositati agli atti mostrano una intensa attività di
rappresentanza da parte di Renzi. Per lo più svolta alla trattoria
Garibaldi, al Nannini bar, alla taverna Bronzino e al ristorante da
Lino. Locali prediletti dal candidato alle primarie del Pd che, in
particolare nel 2007 e nel 2008, riesce a spendere qualcosa come 50mila
euro per il cibo. Con conti singoli che spesso superano i mille euro. Il
31 ottobre 2007 la provincia paga 1300 euro alla pasticceria Ciapetti
di Firenze. Il 5 luglio alla Taverna Bronzino viene saldato un conto di
1.855 euro. ll ristorante non è tra i più economici di Firenze, del
resto. Ma a Renzi piace. Per tutto il suo mandato alla guida della
Provincia frequenta assiduamente i tavoli della taverna. Con conti che
oscillano tra i 200 ai 1.800 euro. Renzi ogni tanto cambia ristorante.
Alla trattoria I due G in via Cennini il 29 aprile 2008 ordina una
bottiglia di Brunello di Montalcino da 50 euro per annaffiare una
fiorentina da un chilo e otto etti. Alla Buca dell’Orafo in via dei
Girolami il 13 giugno 2008 si attovaglia con due commensali e opta per
un vino da 60 euro a bottiglia. E ancora: al ristorante Lino, dove è di
casa (anche qui), riesce a spendere per un pranzo 1.050 euro. 1.213 li
lascia al ristorante Cibreo.
NEI SOLI mesi compresi da maggio a
luglio 2007 spende in ristoranti circa 17mila euro. Nel lungo elenco di
ricevute e spese che gli inquirenti stanno verificando ci sono anche le
fatture di fioristi, servizi catering, biglietti aerei e società vicine
all’attuale sindaco. A cominciare dalla Florence Multimedia che riceve
complessivamente 4,5 milioni di euro dall’ente. La Florence Multimedia
srl è la Società in house della Provincia che svolge attività di
comunicazione e informazione per la provincia. Nel 2009 Renzi è
diventato sindaco. In bici. Ora sta girando l’Italia in camper, con lo
sguardo rivolto a Roma. Ieri, Renzi era alla sfilata milanese di Armani.
A Firenze, intanto, l’aspetta Alessandro Maiorano, ex dipendente del
Comune che ha denunciato la gestione del sindaco e promette di dar
battaglia alla “sprecopoli renziana”. Anche rottamare costa.
l’Unità 21.9.12
L’ente ecclesiastico truffava la sanità pugliese
Rimborsi gonfiati e voci di spesa inesistenti: ai domiciliari i dirigenti dell’Opera Pia Miulli
Per
gli obesi, diabetici, ipertesi era previsto un regime alimentare
giornaliero pari a 4mila calorie invece delle 1.200 previste nelle
diete. I tavoli operatori acquistati erano un centinaio e per i 300
ospiti della Colonia Hanseniana Opera Pia Miulli era previsto anche un
sussidio giornaliero di 30 euro. Il tutto, ovviamente, rimborsato dalla
Regione Puglia. Così sarebbero stati gonfiati i bilanci della struttura
ecclesiastica ad Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari,
perpetrando una truffa ai danni delle casse regionali.
Ai
domiciliari sono finiti don Mimmo Laddaga e Saverio Vavalle,
amministratori della Colonia Hanseniana di Gioia del Colle. Tra gli otto
indagati a piede libero gli imprenditori Giovanni e Francesco Romano
titolari di una ditta esecutrice dei lavori di ristrutturazione del
lebbrosario. Nei loro confronti è ipotizzato il reato di truffa
aggravata e continuata in danno della Regione Puglia mentre l’Ente
ecclesiastico è accusato di omesso controllo. L’inchiesta del
procuratore capo Antonio Laudati e del sostituto Renato Nitti, avrebbe
svelato un sistema di finte spese per la gestione del lebbrosario, in
cui nei fatti non ci sarebbero stati soggetti con la patologia di
Hansen. Ma non solo, in quanto «nei bilanci della Colonia si legge negli
atti sono state inserite voci di costo insussistenti al fine di
rappresentare contabilmente l’utilizzazione totale (anche in eccedenza)
dei fondi assegnati dalla Regione per il finanziamento della spesa
sostenuta per la gestione della struttura pari ad euro 6 milioni fino al
2009, la cui entità veniva stabilita nei Documenti di Indirizzo
Economico Funzionale annualmente approvati dalla Giunta Regionale, onde
ottenere il rimborso di spese superiori a quelle realmente sostenute».
L’inchiesta
fu raccontata anche dall’Unità a novembre 2010, svelando la presunta
truffa che avrebbe permesso di distrarre il denaro pubblico dal
lebbrosario all’ospedale Miulli. Sotto sequestro preventivo sono finiti
25 immobili e 11 fondi rustici tra la provincia di Bari e Taranti
riconducibili sia agli indagati sia all’Ente ecclesiastico, per un
valore di 2 milioni 70mila 407 euro.
«ad aprile è stato indagato, con il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per una transazione da 45 milioni»
il Fatto 21.9.12
Bari. Prete-manager truffava la regione
di Antonio Massari
Bari
Il vescovo agli arresti domiciliari. L’accusa: avrebbe truffato la
Regione, danneggiandola per 2,3 milioni di euro, truccando i conti del
“lebbrosario” di Gioia del Colle. Parliamo dell’unico “lebbrosario” –
chiuso nel 2011 – esistente in Italia. E così, la parabola giudiziaria
di don Mimmo Laddaga, stando agli atti della procura di Bari e della
Guardia di Finanza, ha ben poco da spartire con le parabole evangeliche:
nel lebbrosario si truffava su tutto, dalla manutenzione al cibo,
passando per la distribuzione, agli ammalati, di ben 18mila litri di
birra (e altrettanti di Coca cola) dal 2007 al 2010. Laddaga è il
rappresentante legale dell’ospedale Miulli, l’ente ecclesiastico che
gestisce il “lebbrosario”, dove si contano 29 pazienti – “ospiti” li
definisce la procura – in una struttura a cinque piani con nota spese
esorbitante: 7 milioni l’anno.
IL PM Renato Nitti intercetta un ex
medico: “Otto chili di prodotto a persona – lamenta al telefono Roberto
Giannico - per poi certificare 2 milioni di euro all'anno, per
mangiare, per 10 persone… per la manutenzione… la luce se ne va… un
milione mentre invece se ne vanno 100 mila... hai capito? E’tutto un
gioco, che poi, alla fine, dici… spendiamo 7 milioni. .. e la Regione ti
da 7 milioni”. E quella di Giannico è un storia nella storia: secondo
le accuse, confluite in un altro procedimento, il medico avrebbe tentato
di estorcere all’ente 1,5 milioni di euro, per non rivelare le
informazioni sul lebbrosario: don Laddaga rifiuta l’accordo e Giannico,
che nel 2009 lascia l’ospedale, medita di ucciderlo con l’aiuto della
camorra.
PRENDENDO spunto da un articolo scritto da
Repubblica-Bari, poi, la procura decide d’aprire un nuovo fascicolo e
scopre che la “colonia di Hansen” - l’ospedale che scatena la guerra tra
Giannico e don Laddaga - conta appena 29 “ospiti”. “Ospiti”, scrive la
procura, e non “pazienti”: perché si “tratta di soggetti che, in un
passato alquanto remoto, hanno contratto il morbo di Hansen e
attualmente sono in buone condizioni generali”. Più che un ospedale, la
struttura “ha finalità recettive di tipo socio assistenziale”, e appare
“inappropriato e opportunista” il tentativo di “medicalizzazione” dei 29
“ospiti”. La loro presenza, piuttosto, sembra un’opportunità di
guadagno e occupazione: per 29 persone si contano “6 cucinieri,
organizzati per circa 600 pasti giornalieri, quando ne vengono preparati
circa 15”. Nonostante esistano i telefoni cellulari, si contano ben “6
centralinisti”, ma è alla voce “pinze depilatorie” che la GdF scopre
l’inverosimile: nel bilancio 2006 si scopre una spesa di 84mila euro
che, scrivono gli inquirenti, è “cento volte superiore al valore reale”.
La cifra - “cento volte superiore a valore reale” - sarà riportata
anche negli esercizi successivi, dal 2007 al 2009, e così rimborsata
dalla Regione all’ente ecclesiastico.
Con questi e altri trucchi,
scrive l’accusa, “il Miulli, ha conseguito indebitamente e
fraudolentemente dalla Regione Puglia, sino ad oggi, la somma di 1,42
milioni di euro che, permanendo l'attuale impostazione contabile,
comporterà l'indebita percezione di 2,3 milioni”. Il gip di Bari
Giovanni Abbattista, letta la richiesta del pm Nitti, che indaga su
altre otto persone, dispone l’arresto del vescovo. E per don Laddaga non
si tratta della prima rogna giudiziaria: ad aprile è stato indagato,
con il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per una
transazione da 45 milioni (non conclusa) tra il Miulli e la Regione.
La Stampa 21.9.12
Il Senato decollato
di Massimo Gramellini
Per
riprendermi dalle foto del toga party laziale - deputate travestite da
ancelle e maiali travestiti da maiali - sentivo il bisogno di rifugiarmi
in un’istituzione seria, il Senato della Repubblica. Ieri quell’augusto
consesso si occupava di violenza sulle donne. Nell’accostarmi al
dibattito, trasmesso dalla tv parlamentare, mi domandavo quali mozioni
ed emozioni avrebbero prevalso. In realtà la domanda che avrei dovuto
pormi era un’altra: a che ora sarebbe atterrato l’aereo del
vicepresidente Nania.
L’uomo incaricato di presiedere la seduta,
Nania appunto, era infatti ancora all’aeroporto di Catania per un
ritardo di cui ha subito incolpato il ministero dei Trasporti.
Ingenuamente mi sono chiesto cosa ci facesse il vicepresidente del
Senato a Catania di giovedì. Già il Parlamento funziona due giorni e
mezzo alla settimana. Sarà troppo pretendere che almeno quelle sessanta
ore i nostri stipendiati le trascorrano a Roma nel luogo di lavoro? In
attesa del decollo di Nania, sullo scranno presidenziale è salita Rosy
Mauro, che dopo lo scandalo della Lega si è dimessa da vicepresidente
vicario, però non da vice semplice. La capisco: i distacchi vanno
centellinati. Ma anche lei aveva un aereo in partenza e così «per
impegni urgenti e improrogabili» (qualche laurea all’estero?) una donna
ha sospeso la seduta dedicata alla violenza sulle donne. Dopo mezz’ora
di buio istituzionale senza precedenti è dovuto accorrere il presidente
Schifani, interrompendo un incontro coi beagle della Brambilla. Sto
cercando una battuta per chiudere, ma dalla disperazione mi è caduta la
testa sulla tastiera. La rialzerò appena atterra Nania.
«L'altra
vicepresidente, Emma Bonino, che aveva guidato l'assemblea fino a pochi
minuti prima, si era resa disponibile a «coprire» un quarto d'ora del
ritardo di Nania (che — tra l'altro — ha mandato a quel paese il
ministro dei Trasporti per il ritardo del suo aereo). Ma poi aveva
chiesto alla collega di continuare la supplenza»
Corriere 21.9.12
Quelle poltrone vuote per «impegni»: il Senato non è un secondo lavoro
di Gianna Fregonara
Se
fosse stato un negozio, invece del Senato, Rosi Mauro avrebbe
tranquillamente appeso il cartello: «Torno subito». In fondo lei in quel
momento sostituiva un altro vicepresidente, Domenico Nania, che era in
ritardo causa traffico aereo, e dunque si è considerata una «precaria»
della presidenza e aveva altro da fare. Un impegno «improrogabile», si è
giustificata, come se la vicepresidenza del Senato fosse per lei un
secondo lavoro, o un volontariato.
L'altra vicepresidente, Emma
Bonino, che aveva guidato l'assemblea fino a pochi minuti prima, si era
resa disponibile a «coprire» un quarto d'ora del ritardo di Nania (che —
tra l'altro — ha mandato a quel paese il ministro dei Trasporti per il
ritardo del suo aereo). Ma poi aveva chiesto alla collega di continuare
la supplenza.
Il presidente Renato Schifani che stava consegnando
con Michela Brambilla gli ultimi tre beagle di Green Hill alle famiglie
affidatarie si è precipitato in Aula. Ma l'approvazione della mozione
(incredibilmente unitaria e bipartisan) che impegna il governo a
sottoscrivere la convenzione di Istanbul contro la violenza alle donne è
stata rinviata di qualche ora. È la prima volta nella storia che il
Senato sospende i suoi lavori perché manca il presidente. Fortunatamente
contro la poltrona vuota si sono indignati i senatori.
Ma
brevemente. L'assenza di un presidente ha subito creato un effetto di
«sciogliete le righe» e un'ora dopo la ripresa dei lavori il Senato era
vuoto (si suppone causa pranzo, erano quasi le due del pomeriggio...)
tanto che Schifani ha dovuto promettere che le norme sull'insegnamento
della storia dell'Arte verranno votate senza altri rinvii.
Una
situazione incresciosa e paradossale. Che darà benzina all'antipolitica
(ma è possibile che neppure il ruolo di vicepresidente del Senato sia
ormai considerato un dovere oltre che una carica onorifica e
remunerativa?).
Certo viene da chiedersi se un po' non c'entri
anche il tema: la lotta alla violenza alle donne è un argomento buono
per i convegni. Ma evidentemente al Senato, anche per donne con
incarichi di primo piano, non vale più di un aereo.
Repubblica 21.9.12
Roma, si lavora a ritmi cinesi con stipendi tra i più bassi d’Europa
Sottopagati i maestri e gli ingegneri italiani
di Lucio Cillis
ROMA — In Italia si lavora tanto e si guadagna poco. Lo sanno bene a Roma, la città dell’Eurozona dove quasi in tutti i settori l’orario di lavoro è il più elevato tra le grandi città europee ma in cambio la paga è tra le più basse, e con essa il potere di acquisto. I dati sono contenuti nella ricerca pubblicata dalla banca svizzera Ubs. Si tratta di un campionario di dati, rilevati ogni tre anni, su ore di lavoro, stipendi e costo della vita nelle principali metropoli del mondo. Per l’Italia sono prese in considerazione Milano e Roma.
Ed è proprio dalla capitale che arrivano le sorprese maggiori, rispetto a taluni luoghi comuni sulla pigrizia dei romani. Professionisti e dipendenti della capitale, nel confronto omogeneo del monte di ore lavorate con le altre realtà dell’area euro, risultano i primi della classe e se la battono addirittura con i cinesi: un lavoratore di
Shanghai, nel corso dell’anno (e grazie anche a ferie ridotte a 9 giorni) riesce ad arrivare a 1.967 ore trascorse al lavoro contro le 1899 di un romano (che dispone di 22 giorni di pausa l’anno). Quindi solo un pugno di ore (appena 68) separa i due tipi di lavoratori.
Anche Milano è nella classifica alta delle ore di lavoro, e supera molte capitali europee con 1.753 ore l’anno. L’operosa Germania concede più riposo ai propri dipendenti: a Francoforte si sta in ufficio per 1.731 ore e si dispone di 28 giorni di vacanza l’anno, a Monaco di Baviera 1.756 (26 giorni di congedi annui) e a Berlino 1.742 ore e 29 giorni. Un romano si sobbarca quasi 170 ore in più rispetto ai colleghi tedeschi, il che vuol dire, con 8 ore quotidiane di ufficio, oltre 21 giorni di più. Le altre grandi città europee sono tutte al di sotto delle 1.800 ore: è il caso di Bruxelles (1.730), Barcellona (1.761), Madrid (1.734), Amsterdam (1.755), Dublino (1.707). Fanalini di coda Lisbona con 1.696 ore (quasi 26 giorni in meno di lavoro rispetto ad un romano) e Parigi che risulta a sorpresa la città dove — almeno per quantità oraria — si lavora meno: 1.558 ore, con 30 giorni di ferie annue.
Allargando lo sguardo fuori dall’Europa, ci sono Paesi dove il lavoro a volte può trasformarsi in un impegno massacrante: Città del Messico svetta al primo posto mondiale con 2.375 ore l’anno e 6 giorni liberi. Più o meno allo stesso livello Il Cairo (2.331), Bangkok (2.312), Dehli (2.265), Manila (2.246).
Il primato europeo della capitale italiana per numero di ore lavorate non si riflette affatto, tuttavia, in busta paga. Sia Roma sia in parte anche Milano si trovano infatti agli ultimi posti in Eurolandia per stipendi. L’Ubs confronta in particolare due categorie di lavoratori: ingegneri e maestri. Un ingegnere di Roma incassa 16.300 euro netti l’anno contro i 25.500 di Barcellona, i 40 mila di Francoforte, i 29.600 di Madrid e i 36.900 di Parigi.
E la musica non cambia per i maestri elementari. A Roma lo stipendio netto medio è di 17.100 euro, a Milano 16.800 mentre i colleghi della zona euro oscillano dai 22.800 di Parigi ai 24.600 di Vienna; dai 25.200 di Amsterdam fino ai 35.600 di Francoforte.
Infine, i salari orari netti nella media di 15 lavori o professioni: a Roma un lavoratore incassa 9,40 euro l’ora contro i 12 di Milano, i 13,80 di Amsterdam, gli 11,40 di Barcellona, i 13,60 di Berlino, i 15,30 di Dublino, i 15,20 euro di Francoforte, gli 11,30 di Madrid, i 13,80 di Vienna o i 14,30 di Parigi. Solo Atene fa un po’ peggio della capitale italiana con 7,80 euro l’ora.
Corriere 21.9.12
Arriva il maxibando per 12 mila insegnanti
Lunedì la pubblicazione. Chi potrà candidarsi
di Luisa Adani
Novità
in arrivo dalla scuola. Il 24 settembre (cioè lunedì prossimo) è
prevista l'emanazione del bando di concorso — il primo dal 1999 — per
l'assunzione di 11.892 insegnanti, la metà del fabbisogno stimato dal
ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca. Riguarda le
scuole statali di ogni ordine e grado (scuola per l'infanzia, primaria,
secondaria di primo e di secondo grado) ed è organizzato per titoli ed
esami, su base regionale e per cattedre reali. Non verranno quindi
definite delle graduatorie permanenti a cui attingere rispetto alle
eventuali vacanze e i posti saranno interamente assegnati, dal prossimo
1° settembre in poi. Inoltre, a questi nuovi ingressi se ne
aggiungeranno altrettanti attingendo ai nominativi dalle attuali
graduatorie che sono in parte il lascito degli ultimi due concorsi
generali.
In attesa delle precisazioni che saranno indicate nel
bando, potranno candidarsi: le persone già inserite nelle vecchie
graduatorie (per migliorare le loro possibilità), i diplomati delle
Scuole di specializzazione all'insegnamento secondario (Ssis), i
laureati entro il 2001/02 (per i corsi di laurea quadriennali, oppure
2002/03 per quelli quinquennali etc.). Nel caso invece di posti banditi
per le scuole elementari, potranno accedere al concorso sia i diplomati
delle magistrali (fino al 2001) sia i laureati in Scienze della
formazione in quanto si tratta di un corso universitario abilitante
all'insegnamento. Inoltre, dato che i posti sono destinati a cattedre
specifiche, si potrà candidare solo chi avrà i titoli coerenti con la
classe di laurea prevista. Al concorso non potrà accedere invece chi
questa estate si è candidato per sostenere uno dei 20.000 Tirocini
formativi attivi (da ora necessari per conseguire l'abilitazione
all'insegnamento) che dovrà terminare il percorso e aspettare il
prossimo concorso previsto dal Miur in primavera.
Le prove
selettive — ci dice Paola Borgonovo editor di Alpha Test, la casa
editrice specializzata sui test e sui concorsi — sono organizzate in tre
fasi. La prima, preselettiva, si svolgerà in autunno e prevederà la
somministrazione di una batteria di test, uguale per tutte le classi di
concorso, che valuterà competenze di carattere generale (ragionamento
logico deduttivo, comprensione testi, abilità informatiche e lingua
straniera). A gennaio sarà la volta di una prova scritta organizzata
rispetto alle diverse materie disciplinari. Si tratterà di una prova
strutturata in «domande aperte e risposte sintetiche». Chi supererà
questa prova accederà all'ultima che prevede che i candidati si
cimentino nella simulazione di una lezione (di un laboratorio oppure di
una prova pratica nel caso degli insegnanti delle materie
tecnico/scientifiche oppure musicali o coreutiche) di 30 minuti su un
argomento che verrà comunicato con almeno un giorno di anticipo in modo
che ci si possa preparare in tempo.
Corriere 21.9.12
Se alle professioni serve più psicologia
Le novità in aula e in ufficio
di Giuliana Gagliardi
Se
la crisi pesa sempre più sull'occupazione, il mondo delle professioni
si fa più esigente lasciando porte aperte soltanto a chi ha una
formazione di altissimo livello e una forte capacità di «essere
professionalmente»: saper essere e saper fare. Ecco alcuni esempi. Il
pedagogista relazionale dovrà effettuare interventi sull'individuo e sul
sistema, svolgendo la sua attività principalmente nelle scuole, presso
gli enti locali, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private e
negli studi professionali. Le competenze acquisite verranno utilizzate
in vari ambiti occupazionali, fra cui: settore socio-educativo; settore
della gestione ed erogazione dei servizi sociali; gestione e sviluppo
delle risorse umane. Lo psicologo clinico e sociale, il mediatore
familiare e lo psicoterapeuta individuale e di gruppo dovranno, a
seconda del proprio ambito, costruire relazioni di aiuto, gestire lo
sviluppo organizzativo nell'ambiente di lavoro, svolgere consulenze nel
porre in atto competenze complesse, svolgere una ricerca «attiva» e
l'ascolto dell'altro, contribuire alla comunicazione, intervenire come
facilitatore nei gruppi di lavoro.
Le imprese puntano anche — come
è facilmente intuibile — al contenimento dei costi. Il mercato — si
legge in una nota relativa all'ultima indagine dell'Osservatorio Seltis
(società di head hunting di Openjobmetis) — è in continua evoluzione
nella ricerca di manager «under 40», con una formazione che garantisca
maggiore disponibilità a seguire un percorso di crescita all'interno
dell'azienda. «Nei primi tre mesi di quest'anno — spiega Francesca
Cancian, responsabile di Seltis — le professioni "rinnovate" che hanno
visto il maggior numero di assunzioni, sono diverse: dall'analista
finanziario allo specialista del controllo di gestione, dal tecnico
commerciale al sales engineer, fino al project manager e agli esperti di
manutenzione dei macchinari».
Oggi, si chiede una «marcia in più»
ai giovani in cerca di lavoro nelle nuove professioni: adattabilità
alle diverse situazioni che si vengono a creare in un'azienda e, di
conseguenza, plasmare il profilo direttamente sul campo.
Il 27 e
28 ottobre prossimi, a Firenze — Cenacolo di Sant'Apollonia — c'è un
appuntamento per la formazione con una conferenza dedicata al modello
biopsicosociale rivolta ai professionisti della salute e della qualità
della vita (www.polopsicodinamiche.com/conference-26-28-oct-2012/):
prima conferenza internazionale di psicologia e psichiatria dinamica.
Saranno affrontati temi che riguardano opportunità e limiti della
ricerca, della pratica clinica e della conoscenza in relazione
all'approccio biopsicosociale. Il taglio della conferenza è
multiprofessionale e si rivolge, anche, a umanisti, avvocati, mediatori,
assistenti sociali, sociologi, antropologi, pedagogisti, architetti e
urbanisti. E per i corsi dal 15 settembre, informazioni all'indirizzo
email ceo@polopsicodinamiche.com.
Il Progetto Europsy è invece una
«Certificazione europea in psicologia» che fornisce uno standard di
formazione accademica e training professionale. Il progetto prevede
anche lo sviluppo delle competenze in lingua inglese (professionale e
interpersonale) che permette al professionista di redigere articoli in
inglese e partecipare a congressi. Dettagli sul sito:
www.polimniaprofessioni.com.
Il sequestro di Abu Omar
La Stampa 21.9.12
Intervista
“Traditi da Bush e Obama. Le leggi italiane violate dai presidenti”
Lo sfogo di una funzionaria condannata: non siamo difesi
di M. Mo
Irresponsabili
della rendition di Abu Omar hanno avuto l’immunità diplomatica o non
vengono perseguiti mentre ad essere condannata è una come me che non
ebbe alcun ruolo». L’agente Sabrina De Sousa è uno dei 23 funzionari
della Cia nei cui confronti la Corte di Cassazione ha confermato la
condanna del Tribunale di Milano. Ha scelto di parlare ora per far
conoscere la propria versione.
Iniziamo da quanto avvenne a Milano
il 17 febbraio 2003. Lei è stata condannata, assieme ad altri 22
agenti, per essere stata coinvolta in un’operazione illegale in Italia.
Cosa risponde?
«Dal fine settimana precedente al 17 febbraio ero a
Madonna di Campiglio in settimana bianca. Non ho avuto ruoli nella
presunta operazione illegale. Dico presunta perché questa è la posizione
del governo Usa che non conferma nè smentisce la “rendition”. Per il
tribunale italiano è un caso di sequestro e i sequestri sono illegali.
Le “rendition” invece sono legali negli Usa. Una “rendition
straordinaria” è la cattura e il trasferimento extragiudiziale di una
persona da una nazione all’altra e, per renderlo legale deve essere il
presidente Usa ad approvarlo».
Perché alla AbcNews ha detto che gli Usa «hanno violato la legge»?
«Sono
stati individui sotto la direzione del presidente Usa a violare la
legge italiana. Alti funzionari di Cia, Dipartimento di Stato e
consiglio per la sicurezza sono responsabili di averla violata
approvando e finanziando le rendition. Purtroppo i governi europei hanno
difficoltà a indagare su funzionari dell’amministrazione Bush perché
facendolo vengono sottoposti a pressioni dall’amministrazione Obama.
Ogni azione politica di diplomatici Usa sul suolo straniero è approvata
da Washington».
Quale è il stato suo ruolo in questa vicenda?
«Non
ero presente sulla scena nè avevo un’anzianità di servizio tale per
essere responsabile di decisioni su rendition o sequestro. Il mio ruolo è
stato di porre l’interrogativo sul perché alti funzionari a Washington
avevano concordato con i funzionari Usa a Roma che Abu Omar avrebbe
dovuto essere rapito e mandato in Egitto. Aspetto ancora la risposta».
Si trattò di un’operazione Usa o fu condotta con gli italiani?
«Questa
è una domanda a cui devono rispondere le autorità italiane e il
presunto regista della rendition, Jeff Castelli (capostazione della Cia,
ndt), che era a Roma in contatto gli italiani».
Cosa pensa del verdetto di colpevolezza del tribunale di Milano?
«Non
ha preso in considerazione i fatti. Basta leggere i verbali. Ad esempio
vi è scritto che “il procuratore generale ha chiesto l’annullamento per
l’agente De Sousa”. La procura mi considera centrale nel rapimento
perché sarei stata trasferita dall’ambasciata a Roma al consolato di
Milano per eseguirlo. Ma fui trasferita a Milano prima dell’11 settembre
2001 ovvero assai prima che iniziassero le rendition straordinarie».
La Corte di Cassazione ha convalidato la sua colpevolezza e l’Italia potrebbe chiedere la sua estradizione. Cosa farà?
«Da
un punto di vista legale non c’è molto che possa fare negli Usa o in
Italia in merito a tale verdetto. E non so con certezza quali passi
adotterà l’Italia sull’estradizione».
Come giudica la difesa che le ha garantito il governo Usa?
«Il
governo Usa sotto le amministrazioni Bush e Obama ha abbandonato i
diplomatici e militari. Se l’Italia avesse processato alti funzionari
del governo, gli Usa avrebbero fatto di più per difenderli. L’unica
ragione per cui sono riuscita ad avere un avvocato difensore in Italia è
perché ho fatto causa al Dipartimento di Stato. Le credenziali
diplomatiche e gli accordi “Sofa” sullo status delle truppe all’estero
non valgono la carta sui quali sono scritti. Senza contare che il
presunto regista della rendition di Abu Omar si è visto riconoscere
l’immunità diplomatica dall’Italia. Inoltre i leader della Cia e del
Dipartimento di Stato che hanno approvato e finanziato le rendition
restano immuni da ogni tipo di azione legale».
Si aspettava una decisione differente della Cassazione?
«Ero ottimista, sulla base delle affermazioni del procuratore».
Cosa prova verso l’Italia e gli italiani?
«I miei sentimenti positivi non cambiano a causa dei tribunali».
Corriere 21.9.12
L’ambiguo culto di Mao. Perché la Cina ne ha bisogno
risponde sergio Romano
Il
Partito comunista cinese ha festeggiato con gran pompa il 90°
anniversario dalla sua fondazione. Mi interesserebbe conoscere come i
cinesi di oggi giudichino Mao, l'uomo politico che per anni ha diretto
la loro politica. Un barista da me interpellato, di cui non so quando
fosse espatriato dalla Cina, mi ha detto che veniva apprezzato il Mao
dei primi tempi e non quello dell'età avanzata. La politica economica
cinese, artefice del notevole sviluppo, è però coerente con i principi
ideologici professati dal partito al potere? Se non esiste discrasia,
capisco Le riflessioni sulla Cina scritto da Enver Hoxha e lo sfascio
del legame dei marxisti-comunisti che si erano riuniti nel 1994 ma
litigarono proprio per una diversa opinione su Mao Zedong.
Silverio Tondi
Caro Tondi,
Nella
Cina d'oggi Mao è soltanto una mummia, oggetto di un culto ambiguo e
contraddittorio, simile a quello riservato nella Russia post-sovietica
alla mummia di Lenin, ancora custodita nel mausoleo della piazza Rossa.
Il «grande timoniere» è onorato e celebrato, sia pure senza troppe lodi e
pubblici omaggi, perché recita ancora una parte necessaria alla
continuità dello Stato fondato nel 1949. La classe politica ha ripudiato
tutti i suoi pericolosi progetti, dal «balzo in avanti» degli anni
Cinquanta alla «rivoluzione culturale» degli anni Sessanta e Settanta.
Ha cancellato dalla pubblica memoria i suoi slogan rivoluzionari e il
«libretto rosso». Non esita a eliminare (come è accaduto nel caso
recente di Bo Xilai, ambizioso governatore del Chongqing) chiunque
pretenda di salire al vertice del potere agitando vessilli maoisti. E
considera la rivoluzione culturale come una delle fasi più inutilmente
tragiche della vita nazionale. Ma non può espellere Mao dalla storia del
partito.
Se chiudessero a chiave il suo tempio nella piazza
Tienanmen e trasferissero la sua tomba in un lontano cimitero di
campagna, i dirigenti del Pcc metterebbero in discussione la loro
legittimità. A dispetto dei madornali errori della sua politica
economica e dei crimini commessi in suo nome, Mao è l'uomo che ha
persuaso i contadini cinesi a credere nella rivoluzione, che ha creato
il primo Stato comunista cinese nella provincia dello Shaanxi, che ha
salvato il suo popolo e il suo esercito nella fase decisiva della Lunga
Marcia (12.000 km, 200 scontri, 80.000 caduti), che si è battuto contro
il Guomintang del nazionalista Chiang Kai Shek e le forze armate
giapponesi, che è entrato trionfalmente a Pechino nel gennaio 1949.
Deng
Xiaoping fu un grande riformatore e creò le condizioni per uno
straordinario miracolo economico. Ma voleva che le liberalizzazioni e le
privatizzazioni avessero luogo sotto l'occhio vigile di un partito
forte, capace di reprimere, se necessario, qualsiasi forma di dissenso.
Se avessero permesso alla nuova Cina di divorziare dal suo passato
comunista, Deng e i suoi eredi avrebbero perso lo scettro. È questo il
grande paradosso della Cina: quanto più è lontana da Mao, tanto più ha
bisogno di lui.
«Pier
Paolo Pasolini [...] gli atti del processo per atti osceni in luogo
pubblico del 1949: pedofilia»
La Stampa 21.9.12
L’intellettuale ingombrante
Sciascia in Italia come Camus in Francia: quando un autore è così scomodo che perfino il suo ricordo non smette di urtare
di Marco Belpoliti
Albert
Camus premio Nobel per la letteratura nel 1957, era nato a Dréan, in
Algeria, nel 1913 (sarebbe morto in un incidente d’auto in Borgogna nel
1960). In vista del centenario della nascita la figlia Catherine aveva
preparato una grande mostra celebrativa a Aix-en-Provence, affidandola
prima allo storico Benjamin Stora (che voleva enfatizzare la battaglia
dello scrittore contro le atrocità del colonialismo francese in
Algeria), poi al filosofo Michel Onfray, che qualche giorno fa ha
gettato la spugna denunciando l’atmosfera culturale francese che «è
sempre da guerra civile».
Una mostra documentaria di
Albert Camus, che doveva aprire nel Sud della Francia, a
Aix-en-Provence, fa fatica a trovare un curatore. La ragione risiede
nelle posizioni anticolonialiste dello scrittore dello Straniero, che
mettono in causa le torture inflitte negli Anni Cinquanta agli
indipendentisti algerini con l’accordo di un ministro d’allora, François
Mitterrand, o che urtano la suscettibilità degli eredi dei pieds-noirs,
i coloni francesi costretti a lasciare l’Algeria. La guerra d’Algeria
appare un vulnus ancora aperto, nonostante la grandezza della figura di
un intellettuale e scrittore come Camus.
Chi sono, tra gli italiani, gli scrittori così scomodi da rendere impossibile l’allestimento di una mostra su di loro?
Pier
Paolo Pasolini, di sicuro. Provate a immaginare un’esposizione
biografica del poeta con gli atti del processo per atti osceni in luogo
pubblico del 1949: pedofilia. Ma Pasolini è troppo risaputo. Silone
potrebbe essere un altro, visto che viene accreditato come un
doppiogiochista nell’epoca dei totalitarismi novecenteschi. E Sartre,
con la sua difesa dei terroristi della Raf e il Ribellarsi è giusto?
Quando la polizia arrestò il filosofo, nel ’68, De Gaulle intervenne
presso il ministro dicendo: «Non si arresta Voltaire! ». Un rispetto
verso la figura dell’intellettuale che sembra scomparso. Oggi la parola
risulta quasi un insulto, e nessuno, o quasi, si presenta come tale.
Zygmunt Bauman, in un suo libro di qualche anno fa, ha decretato la
decadenza di questa figura nata con l’Illuminismo e codificata dalla
protesta contro il caso Dreyfus (il termine viene proprio da lì).
Ma
forse l’intellettuale più scomodo non è un poeta dedito agli amori con
adolescenti e neppure un filosofo sostenitore della rivolta totale,
bensì un ex maestro elementare passato alla narrazione e al saggio alla
fine degli Anni Cinquanta. Mi riferisco a Leonardo Sciascia il cui astro
letterario, e intellettuale, sembra essersi spento, o quanto meno
appannato, dopo essere stato uno dei più letti e seguiti scrittori del
secondo dopoguerra. Adesso l’editore Adelphi, che lo pubblica da poco
prima della scomparsa, avvenuta nel 1989, manda in libreria il primo
volume delle sue opere. Non saranno disposte in ordine cronologico, ma
radunate per temi e argomenti; dapprima le opere narrative poi quelle
saggistiche - se la differenza ha un senso in un narratore così
profondamente saggista. Tra i saggi ci sarà l’ultimo libro di Sciascia
pubblicato l’anno della sua morte, A futura memoria, ma non la raccolta,
composta in gran parte di interviste, La palma va a Nord, pubblicata
nel 1980 a cura di Valter Vecellio.
In questi due volumi ci sono
tutte le ragioni dello scandalo di Leonardo Sciascia, le ragioni per cui
una mostra biografica, come una biografia letteraria e intellettuale,
non potrebbe ignorare alcune questioni scomode. In un articolo su La
Stampa del novembre 1977, Sciascia così definiva l’intellettuale:
«Uno che esercita nella società civile la funzione di capire i fatti, di
interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne
le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza,
unita a una somma di conoscenze e mossa - principalmente e
insopportabilmente dall’amore alla verità, gli consentono di svolgere».
L’avverbio «insopportabilmente» è perfetto.
Prima viene il caso
Moro, su cui Sciascia scrive un libro, L’affaire Moro, nel 1978, testo
letterario che viene attaccato, prima ancora che sia in libreria, da
Eugenio Scalfari, come ricorda Miguel Gotor in Dentro il baule di Aldo
Moro, nel terzo volume dell’ Atlante della letteratura italiana (appena
uscito da Einaudi), e anche da Indro Montanelli. Il conflitto tra lo
scrittore e una parte dell’establishment giornalistico e politico
italiano era già cominciato all’epoca de Il contesto, romanzo stroncato
dai giornali comunisti. Sono decine le interviste, le lettere ai
giornali, gli interventi in cui Sciascia replica ai suoi critici, ma a
quel punto tra l’autore de Il giorno della civetta e la sinistra
italiana si crea una rottura che lo porterà a candidarsi con i Radicali,
dopo essere stato vicino al Pci.
Negli anni degli articoli
raccolti in A futura memoria - il cui sottotitolo è «(se la memoria ha
un futuro) » - c’è una denuncia: Sciascia riferisce una frase detta da
Enrico Berlinguer a Guttuso riguardo le interferenze dei servizi segreti
cecoslovacchi nel sequestro Moro; il segretario comunista lo denuncia
per calunnia. Poi l’intervento, nel 1982, contro la mitizzazione del
generale Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo; e ancora l’appoggio
alla campagna per l’innocenza di Enzo Tortora accusato da «pentiti»
della camorra.
Il culmine della polemica si raggiunge con la
recensione nel gennaio del 1987 del saggio dello storico inglese
Christopher Duggan su La mafia durante il fascismo, dove Sciascia
sostiene che l’antimafia può diventare uno strumento di potere e parla
anche della nomina di Paolo Borsellino a procuratore a Marsala. Si
tratta della polemica sui «professionisti dell’antimafia» (ma
l’espressione non c’è in quel pezzo) che diventa un punto controverso
della sua vicenda di scrittore e polemista, cui segue, tra le altre
cose, anche una dichiarazione d’innocenza per Adriano Sofri riguardo al
delitto Calabresi: «Se è davvero colpevole davanti ai giudici
confesserà», scrive.
Bauman concludeva il suo libro la Decadenza
degli intellettuali evocando la figura dell’«intellettuale legislatore»,
almeno «sino ai prossimi tagli della spesa pubblica». Adesso ci siamo.
Gli scomodi alla Sciascia che fine faranno? Niente mostre anche per
loro?
Corriere 21.9.12
Quando i filosofi si confrontano con lo scetticismo
di GIianni Vattimo
Caro direttore, i «nuovi» realisti, a cui Emanuele Severino («la Lettura», 16 settembre) fa l'immeritata gentilezza di prenderli sul serio, saranno «in sé» o «fuori di sé»? Essi (Maurizio Ferraris, «Repubblica», 17 settembre) lo ricambiano facendo dire al povero Kant che i fenomeni, per essere tali, devono avere dietro delle «cose in sé» (ogni fenomeno la sua cosa; multe, colapasta, sciacquoni, ecc); e siccome questo è impossibile (lo era soprattutto per Kant, che non avrebbe mai parlato di cose in sé al plurale), multe, colapasta e sciacquoni non sono fenomeni, ma essi stessi cose in sé. Ma a parte l'imprudenza di dialogare con simili interlocutori, Severino argomenta anche in modo serio; serio e anzi eterno, perché le sue ragioni sono sempre le stesse (del resto lui non se ne preoccupa: «Ogni cosa è un essere eterno», dunque anche il suo discorso sull'incontrovertibile). Due i punti essenziali dell'articolo.
a) Gentile. Come i suoi maestri neoscolastici dell'Università Cattolica, Severino riconduce tutto a Gentile e al suo idealismo estremo e soggettivistico. Sono loro che gli hanno insegnato a preferire Gentile a Croce: più facilmente riducibile ad absurdum: tutto sarebbe nelle mani dell'uomo empirico, io lui loro; soggettivismo, nichilismo, ecc. Se questo è l'esito del pensiero moderno, è chiaro che bisogna tornare agli antichi e agli eterni: Parmenide, alla faccia di ogni esperienza vissuta di storicità, libertà, cambiamento.
b) L'incontrovertibile. Se io, con Nietzsche (e Gadamer e Heidegger; ma anche Marx critico dell'ideologia), dico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questo è un'interpretazione, Severino sostiene che anch'io (e i sunnominati) pretendo di fare una affermazione metafisica e incontrovertibile. E perché? Lo dico, qui, ora, leggendo così la mia condizione ed eredità storica. La leggo così e non altrimenti. Ah, ecco, il principio di non contraddizione da cui dovrebbe discendere la verità incontrovertibile dell'eternismo severiniano. Che poi questo vada a braccetto con il «realismo» dei banalizzatori di Kant con cui egli dialoga può solo far da tema a un racconto patafisico. Oltre alla confutazione del pensiero moderno identificato con Gentile, il discorso di Severino (qui e sempre) si riduce tutto al vecchio argomento antiscettico: se dici che tutto è falso, pretendi che la tua tesi sia vera. Dunque... Ma c'è mai stato uno scettico che si sia «convertito» sulla base di questo giochetto logico-metafisico?
La Stampa TuttoScienze 19.9.12
“Inseguite i paradossi e troverete la fisica”
di Barbara Gallavotti
Un tempo la fisica era rassicurante: forniva una visione del mondo in cui le mele cadevano dagli alberi proprio come ci si aspetta da loro e non era impossibile conoscere allo stesso tempo la velocità e la posizione di qualcosa che si muove. Poi gli scienziati si sono spinti a fondo nei segreti della natura, scoprendo come le regole che reggono l'Universo siano spesso in contrasto con il nostro senso comune.
La teoria della Relatività, la meccanica quantistica oppure la fisica delle particelle ci hanno posto di fronte a fenomeni così paradossali da fare venire il mal di testa al curioso di scienza più motivato. Ma Jim Al-Khalili non è uomo da spaventarsi, non per nulla questo fisico teorico di origini irachene trapiantato in Inghilterra è uno dei divulgatori più noti al mondo. Così ha visto la luce il suo ultimo libro, il cui titolo, «La fisica del diavolo» (edito da Bollati Boringhieri) ammicca al successo del mistico nomignolo del bosone di Higgs («la particella di Dio»), anche se in realtà allude al famoso diavoletto di Maxwell. Al-Khalili prende di petto i più noti rompicapo della fisica e dissolve la loro imperscrutabilità alla luce delle scoperte dell'ultimo secolo. Professore, perché spiegare la fisica partendo dai suoi fenomeni più controintuitivi? «I paradossi della fisica sono come dei giochi: sembrano inconciliabili con il senso comune, ma basta introdurre un nuovo concetto o una nuova scoperta e si chiariscono. Sbrogliare un paradosso è divertente, è una sfida mentale che spinge a superare gli ostacoli per comprendere non solo la soluzione dell'enigma, ma anche alcuni profondi concetti scientifici». Prendiamo uno degli enigmi che lei affronta: perché di notte il cielo è scuro? «E’ un quesito vecchio di secoli. L'Universo è enorme e contiene così tante stelle che in qualsiasi direzione si guardi dovremmo vederne abbastanza da non lasciare nessuno spazio di cielo oscuro. Quindi di notte dovrebbe esserci luce come di giorno. Insomma, sembra un paradosso. La soluzione è semplice, a patto di sapere qualcosa che è stato scoperto solo di recente, e cioè che l'Universo ha avuto un inizio ed è in espansione. Ciò vuol dire che possiamo vedere solo la luce dei corpi celesti relativamente vicini, perché quella prodotta dai più lontani non ha ancora avuto il tempo di raggiungerci». Un altro paradosso celebre è quello di Fermi. Viste le caratteristiche dell' Universo, sarebbe plausibile che ci fossero molte forme di vita extraterrestri, e allora come mai non ne abbiamo mai incontrata una? «Questo è un paradosso molto intrigante e per rispondere bisogna riesaminare le ricerche della vita extraterrestre che sono state fatte, così come i calcoli per capire le sue probabilità di esistere. Alla fine penso sia piuttosto semplicistico chiedersi se ci sono degli alieni là fuori: presumibilmente dovrebbero esserci, perché l’Universo è così vasto che potremmo non essere stati ancora contattati. Il punto, però, credo sia un altro: la vita è così speciale da poter esistere solo sul nostro pianeta? Questo interrogativo conduce a due grandi misteri ancora senza soluzione. Il primo riguarda l’inizio della vita sulla Terra, mentre il secondo è: come mai tutto nell’Universo sembra essere stato calibrato in maniera finissima proprio per rendere possibile la vita?». Alla fine del libro lei accenna anche al bosone di Higgs. Secondo lei, la sua scoperta risolve qualche paradosso? «Il bosone di Higgs è una risposta a interrogativi aperti, ma al momento non ci svela nessun mistero e non risolve paradossi. Bisogna aspettare di capire fino a che punto la particella osservata ha le caratteristiche che ci si attendeva. Possiamo essere certi che questa scoperta porterà a nuovi esaltanti sviluppi nella fisica, anche se al momento non abbiamo idea della direzione in cui saranno».
La Stampa TuttoScienze 19.9.12
Neuroscienze
L’imprevedibile caccia ai geni che ci trasformano in killer
Le ricerche sul cervello sono destinate a rivoluzionare anche il diritto penale?
di Pietro Calissano
EUROPEAN BRAIN RESEARCH INSTITUTE - ROMA
Studiare il male. Le conoscenze sul cervello e sulle sue malattie stanno svelando nuove realtà sui comportamenti devianti e criminali
Abbiamo assistito al processo ad Anders Breivik, responsabile delle stragi di Oslo e di Utoya, in cui 77 persone sono rimaste uccise. Dalle tv emergeva un individuo ben vestito, un po’ manierato, con un viso del tutto identificabile con quello di molti suoi coetanei e privo di quei connotati - diremmo lombrosiani - che ci porterebbero ad immaginare come criminale un individuo che ha commesso un massacro simile. Era davvero lui l'uomo che per ore aveva preso di mira e ucciso tutti quei giovani?
Di fronte a questa immagine molti sono rimasti confusi e sconcertati: la nostra mente, abituata a meccanismi quasi automatici, talvolta inconsci, di istantanei collegamenti tra ciò che vediamo e ciò che emotivamente elaboriamo a livello cognitivo, rimane quasi ipnotizzata in una specie di schizofrenia indotta. Come se, per qualche istante, anche noi fossimo preda della stessa apparente scissione di personalità che aleggia nella mente di Breivik e di altri che hanno commesso crimini così orrendi e inspiegabili.
Il rapido, e a volte tumultuoso, progresso delle conoscenze sul funzionamento del cervello pone un dilemma da tragedia greca a chi si occupa di diritto penale ed è chiamato ad esprimere valutazioni sullo stato mentale degli assassini seriali. L’imputato è portatore di tare genetiche che inducono un comportamento pluri-omicida? La sua crescita adolescenziale ha influito sulla sua formazione, fino a modificarla strutturalmente? Fino a che punto un eventuale consumatore di droghe pesanti può subire danni irreversibili al cervello e condurlo al crimine? Queste domande - e molte altre a cui i giudici o una giuria popolare sono chiamati a rispondere - sono sintetizzabili nella domanda di fondo: quel dato individuo era veramente capace di intendere e di volere? Questione riassumibile in una più generale dalla connotazione etico-filosofica: in che misura un pluriomicida (ma il quesito si estende a tutti noi) è dotato di libero arbitrio al momento del suo gesto e quindi agisce in tutta coscienza?
Oggi le conoscenze sul cervello e sulle sue malattie svelano nuove realtà: si è dimostrato, per esempio, che numerose risposte motorie volontarie sono precedute, per una frazione di secondo, dall’attivazione di aree di cui non siamo coscienti, ma che possono interferire sui nostri movimenti. Esiste, in altre parole, un complesso di reazioni, ritenuto totalmente sotto controllo volontario, che, invece, può essere preceduto da attività inconsce. Grazie alle indagini che localizzano determinate funzioni cerebrali in specifiche aree del cervello, quindi, si potranno confrontare sempre meglio le caratteristiche di una mente normale e quelle di un potenziale killer seriale. Ciò implicherebbe che, forse, si potrà davvero definire la normalità e l’anomalia di un comportamento. Non è difficile prevedere che chi sarà incaricato (e in grado) di comunicare queste valutazioni sarà oggetto di infinite critiche e possibili accuse sul piano professionale e personale. E proprio di questi temi si è discusso a Foggia in un convegno organizzato da Ombretta Di Giovine, dal titolo «Neuroscienze e diritto penale», che ha coinvolto giuristi e neuroscienziati.
Non è azzardato prevedere che presto si potranno identificare geni o gruppi di geni direttamente collegati a determinati comportamenti oppure a specifiche malattie o psicosi gravi, come la schizofrenia o le forme depressive. In sostanza, il progresso delle nostre conoscenze sul cervello, come spesso accade nella scienza, da un lato è fonte di enormi vantaggi per l’uomo (che, com’è evidente, sempre di più trae grandi benefici per la propria salute) e dall’altro può essere causa di inesauribili discussioni tra chi vorrebbe una pena in rapporto diretto al delitto commesso e chi, invece, in base proprio a quelle nuove conoscenze, sarà indotto ad un «giustificazionismo» assolutorio, anche e soprattutto nei casi dei crimini più terribili e scioccanti.
La Stampa TuttoScienze 19.9.12
Mille formule svelano l’agonia sconosciuta della civiltà maya
Il Santa Fe Institute: troppe ipotesi sbagliate
di Gabriele Beccaria
Poveri maya. Astrologi e fanta-archeologi giurano che avessero previsto una catastrofe cosmica per il 2012, ma la storia dimostra che non si accorsero in tempo di un’altra catastrofe - la loro - più precoce e localizzata. Nel IX secolo la civiltà che aveva colonizzato il cuore dello Yucatan crolla di colpo e ora due scienziati veri - gli americani Jerry Sabloff e Billie Turner - propongono uno scenario alternativo, diverso dai tanti che l’hanno preceduto.
Dimentichiamo l’ossessione per le cause singole, spiegano. Il disastro - hanno scritto sulla rivista «Pnas» - fu il prodotto di una lunga serie di elementi, intrecciati l’uno nell’altro. Come una rete che un po’ alla volta mise in trappola un intero mondo, strangolandolo. E che si può portare alla luce solo se si adotta la visione allargata della complessità. Il passato, così, si trasforma e da rozzo meccanismo lineare diventa sistema dinamico, dal quale emergono proprietà e conseguenze impreviste.
Per chiarirsi, Sabloff e Turner hanno ideato un grande disegno-diagramma. Un’esplosione di frecce collega a doppio senso i protagonisti del dramma, dalle foreste primigenie ai campi coltivati, dagli insediamenti contadini alle cittàstato, dalle paludi alle risorse idriche, dalle alterazioni climatiche alle metamorfosi dei paesaggi. L’impatto visivo è forte, forse non altrettanto risolutiva è la chiarezza per un nontecnico, ma il messaggio a grandi linee è cristallino. E’ inutile tormentarsi nella ricerca di un fattore scatenante (c’è chi ha ipotizzato le siccità, altri le epidemie e altri ancora le guerre civili). La realtà che si manifesta in questo viaggio a ritroso nel tempo è un’altra.
«Non c’è stato un periodo monolitico in cui si verificò il collasso - sostiene Sabloff, che (non a caso) è il presidente del Santa Fe Institute, la celebre istituzione del New Mexico impegnata a studiare ciò che ci circonda con le logiche della complessità -. Quello che abbiamo portato alla luce, invece, è una quantità di modelli variabili». Traducendo, può essere andata così: secoli di pratiche agricole non sempre adeguate finirono per alterare i suoli e creare un «ambiente stressato». E quando i cicli naturali cambiarono e si manifestarono periodi ravvicinati di siccità, gli habitat erano già al limite, sull’orlo di una crisi irreversibile. Intanto le principali vie commerciali si erano trasferite dalla terraferma alle rotte costiere intorno allo Yucatan, isolando le città dell’interno, già sofferenti per un doppio sisma, alimentare ed economico. Tra le conseguenze a catena, deflagrò il disordine sociale, con rivolte e guerre intestine, mentre le élite si dilaniavano nel tentativo sempre più disperato di conservare il potere. Le fughe di massa dei contadini infersero ulteriori colpi al già fragile equilibrio delle metropoli, fino alla dissoluzione finale.
Le frecce che esemplificano i rapporti dei modelli matematici dimostrano che errori umani e irrequietezze naturali si saldarono in un abbraccio mortale. E dimostrano che il caso di «ecocidio» dei maya non fu inevitabile. Semmai una corsa nel baratro che evoca angosce contemporanee. «Speriamo - concludono i due studiosi - di aver fornito un contesto utile anche per i politici del presente, costretti, come sono, ad affrontare problemi altrettanto complessi».
La Stampa TuttoScienze 19.9.12
Sessualità
Trasformate dal sesso
“Dal sistema immunitario al sonno, gli effetti sulle donne”
di Valentina Arcovio
Il sesso può avere sulle donne effetti insospettabili. Specialmente quando il rapporto viene consumato senza protezioni. Secondo uno studio condotto all’Università dell’East Anglia, quando una femmina si accoppia con un maschio subisce un vero e proprio «scossone» a livello genetico. Il passaggio del liquido seminale accenderebbe una serie di geni legati a diverse funzioni dell'organismo femminile: dalla fertilità alla capacità immunitaria, dalla libido all'alimentazione e al sonno.
Lo studio, pubblicato su «Proceedings», ha coinvolto i moscerini della frutta, i «Drosophila melanogaster», di sesso femminile. Ma i risultati - secondo Tracey Chapman, professoressa di genetica alla scuola di Scienze Biologiche dell'università britannica - possono estendersi agli umani e a tutte le specie animali che, per riprodursi, rilasciano liquido seminale nella femmina. Già quattro anni fa il team aveva accertato che quest’ultimo contiene proteine che inducono un profondo rimodellamento fisiologico e comportamentale, ma ciò che non era ancora stato dimostrato è quale proteina sia la vera «regista».
«Adesso - sottolinea Chapman - abbiamo testato gli effetti di un’enigmatica proteina, conosciuta con il nome di “peptide sessuale”, e abbiamo scoperto che condiziona l’espressione di molti geni, con conseguenze sullo sviluppo delle uova, la formazione dell’embrione, il sistema immunitario, l’appetito, il sonno, il bilancio idrico e il desiderio sessuale».
I ricercatori, in particolare, hanno trovato nelle cavie un’elevata produzione di ovuli e una ridotta ricettività sessuale verso altri partner. Non solo. Il «peptide del sesso» sembra in grado di spingere a mangiare di più, aumentando l’alimentazione post-sesso. E infine influisce anche sul sistema immunitario, contribuendo alla prevenzione delle infezioni del tratto riproduttivo, e fungendo da «barriera» contro lo sperma di maschi diversi.
«Abbiamo trovato alterazioni significative di geni legati alla sviluppo dell’ovocita, all’embriogenesi precoce, all’immunità, alla percezione dei nutrienti, al comportamento e, inaspettatamente, alla fototrasduzione, vale a dire le vie attraverso le quali le donne vedono - riferisce Chapman -. La proteina dello sperma - aggiunge - è un “master regolatore”: significa, in ultima analisi, che i maschi hanno effettivamente un’influenza diretta e globale sul comportamento e sul sistema riproduttivo della femmina».
Si tratta di conclusioni molto forti e destinate a far discutere: i maschi, infatti, avrebbero un indiscutibile vantaggio innato.
«E un tocco aggiuntivo e intrigante è anche che gli effetti dello sperma possono favorire gli interessi dei maschi, mentre nelle femmine genera dei costi, con un conseguente conflitto sessuale - ha spiegato Chapman -. Si può verificare, di conseguenza, una sorta di “gara di tiro alla fune”, in cui gli uomini spingono perché le donne facciano un forte investimento nella “covata”, anche se questo tipo di costrizione può non soddisfare gli interessi a lungo termine delle donne». Dopo l’accoppiamento, infatti, la femmina diventa meno ricettiva rispetto ad altri maschi e investe molte energie nel garantire la sopravvivenza della futura prole.
«Sono tutti aspetti su cui non sappiamo ancora abbastanza», ha sottolineato la studiosa. Le ricerche - promette - sono destinate a continuare.
«Minucci è stato anche direttore di Left»
l’Unità 21.9.12
Adalberto Minucci scompare a 80 anni: fu nella segreteria Pci
È morto ieri all’età di 80 anni Adalberto Minucci. Politico e giornalista, la sua storia si intreccia con quella del Pci e del nostro giornale per il quale ha diretto per vari anni la cronaca regionale piemontese.
Nato a Magliano in Toscana, 4 marzo 1932, è proprio a Torino che si svolge la sua carriera politica. Iscrittosi al Pci nel 1950 è stato il responsabile torinese negli anni Sessanta e Settanta. Membro della direzione nazionale comunista per vent’anni, è stato direttore di Rinascita e ha fatto parte della segreteria nazionale del Pci durante la segreteria di Enrico Berlinguer.
Responsabile dell’informazione del partito è stato eletto per due legislature alla Camera dei deputati (nel 1983 e 1987) e per una al Senato della Repubblica nel 1992 nelle liste del Partito Democratico della Sinistra. Infine l’approdo al Pdci
Minucci è stato anche direttore di Left.
Tra i suoi libri “ Il grattacielo nel deserto” (1960), “Terrorismo e crisi italiana “(1978) e “I comunisti e l’ultimo capitalismo “(1989).
Repubblica 21.9.12
Esce il libro che raccoglie i colloqui del Cardinale con il fondatore di “Repubblica”
Martini, Scalfari e Mancuso
Conversazioni filosofiche
di Roberto Esposito
Ciò che più colpisce, delle Conversazioni tra Eugenio Scalfari e Carlo Maria Martini – adesso raccolte per Fazi con l’introduzione e un commento di Vito Mancuso – è il loro particolare rapporto con il tempo. Non solo, intendo, con il nostro tempo, con questi giorni indelebilmente segnati dalla morte recentissima del Cardinale, ma con la dimensione del tempo in quanto tale, guardata a partire dal punto di fuga che la collega all’eterno. Tutti i dialoghi, come anche i due commossi testi di commiato di Scalfari e Mancuso, si affacciano su quella soglia estrema in cui, incalzati dagli anni, “ci si sente come sentinelle avanzate su un terreno incognito”. E’ un pensiero costante, questo, che non solo non nega la vita, ma conferisce senso e rilievo alle sue opere, come ben sapeva Montaigne quando affermava che “bisogna portare il pensiero della morte come i signori dell’epoca portavano il falcone sulla spalla” – perché prendesse dimestichezza con colui che, fin dalla nascita, comincia a morire. In questo senso, intenso e profondo, si può ben dire che al centro di queste pagine si accampi la vita stessa, interpellata sulle grandi questioni della fede e del sapere, del possibile e del necessario, dell’amore e del potere. L’energia che ne promana nasce dall’attrito tra queste dimensioni contrastanti che, al limite della loro divergenza, trovano, infine, un inatteso punto di raccordo. Come le prospettive dei due dialoganti, lontane nei presupposti, ma accomunate dallo sforzo di attenzione reciproca. Ciò che sorprende – in uomini con esperienze così diverse come quelle del gesuita Arcivescovo di Milano e del laico fondatore di Repubblica – non è tanto la somiglianza delle domande, ma la ben più singolare consonanza di alcune risposte scaturite da esigenze apparentemente incomparabili. Come due rette parallele che ad un tratto, d’improvviso e contro ogni logica, si toccano, aprendo uno squarcio problematico all’interno dei rispettivi linguaggi. E’ così già in ordine al tema, centrale, della vita umana. Da Scalfari ricondotta alla combinazione di elementi chimici riuniti nel nostro corpo non diversamente da quanto accade alle altre specie animali, ma con in più quella capacità di guardarsi dall’interno che ha assunto il nome di coscienza. Da Martini invece intesa come qualcosa che oltrepassa radicalmente la falda biologico- naturale, per situarsi in una relazione privilegiata con il suo creatore. Per il primo destinata a dissolversi senza lasciar traccia, trascinando nell’oblio anche il nome di Dio, per il secondo destinata, alla fine dei tempi, a rientrare nel grembo divino da cui è scaturita. Eppure, pur nella nettezza di questa alternativa, i due interlocutori condividono qualcosa di decisivo, attinente alla libertà di scelta che rende ogni vita responsabile dei propri atti – perfino nella sua fase terminale, quando l’uomo affronta, da solo, la “nera Signora”. Di tale libertà, come ha ricordato Mancuso, lo stesso Martini ha dato estrema testimonianza staccando, quando ha lo ha ritenuto inevitabile, le macchine che lo tenevano artificialmente in vita. Il secondo nucleo problematico che il libro affronta, dopo quello che interroga la vita dal margine della morte, è la relazione, nella Chiesa cattolica, tra missione apostolica e forma istituzionale. Come fa Mancuso dal suo interno, anche Scalfari batte con forza sulla contraddizione di una Chiesa che nel corso del tempo ha non solo perseguitato coloro che dichiarava eretici, ma è entrata in relazione diplomatica anche con regimi nefasti, come quello nazista. La risposta di Martini è che essa non avrebbe potuto fare altrimenti a meno di non esporre i cattolici tedeschi alla rappresaglia di Hitler. Più in generale egli ricorda, non senza ragione, che se la Chiesa di Roma non avesse costruito una salda struttura istituzionale sarebbe stata spazzata via dalla storia come è accaduto ad altri movimenti puramente profetici. E tuttavia, anche in questo caso, la distanza delle posizioni lascia trasparire più di un punto di tangenza. Non solo Martini fa chiaramente intendere di condividere le preoccupazioni di Scalfari, al punto da affermare che il papa deve essere prima di tutto vescovo di Roma, ma concede qualcosa di ancora più rilevante sul piano teologico. Si tratta del rapporto, giustamente individuato da Scalfari come decisivo dell’intera vicenda cristiana, tra Monoteismo e Trinità. La ricchezza originaria del cristianesimo, rispetto agli altri due monoteismi, nasce dalla complessità della sua struttura trinitaria, che vieta ogni trasposizione indebita dal monoteismo religioso a quello politico – secondo il modello imperiale che fa corrispondere ad un unico Dio un unico monarca. Lo stesso Martini non solamente attribuisce alcuni caratteri autoritari del Dio dell’Antico Testamento alla difficile instaurazione del modello monoteista in un mondo antico politeista, ma interpreta il dogma trinitario nel senso di una relazione vitale con l’alterità. Solo un Dio capace di contenere in sé la pluralità può spezzare il vincolo dogmatico tra verità e forza. Il terzo baricentro delle conversazioni è costituito dalla relazione tra pensiero e fede. Mai come in questo caso le posizioni di partenza, tra il cardinale e L’uomo che non credeva in Dio – come s’intitola un libro di Scalfari – sono logicamente lontane. Come può il successore di Sant’Ambrogio dialogare con l’erede di Diderot? Cosa è più lontano dalla problematicità della ragione che la certezza della fede? E come può, la forza del pensiero, coniugarsi con l’ispirazione della preghiera? E’ forse il punto di maggiore distanza delle rette parallele. Ma anche, e proprio per questo, il luogo più straordinario della loro attrazione. Intanto chi conosce i libri di Scalfari sa bene che, dopo o insieme a Diderot, la sua predilezione va al giansenista Pascal – in nome di una ragione sempre pronta a mettersi in dubbio in base alla propria costitutiva finitezza. Ma ancora più decisivo è l’argomento proposto da Mancuso quando nega che la fede in Dio rappresenti un vantaggio sotto il profilo conoscitivo, e perfino etico, rispetto a chi non crede. Se così fosse, se si dichiarasse la verità di fede autonoma dalla ragione e insieme capace di incarnarne l’unica verità, si farebbe una manovra a tenaglia destinata a schiacciare la verità nel calco di un’insostenibile imposizione. Del resto lo stesso pensiero, se non vuole limitarsi alla pura descrizione della realtà così com’è, deve tendere a spingersi oltre se stesso, aspirare a penetrare nello spazio aperto della vita per conferirle quel senso che a volte, o forse sempre, le manca. In questo caso esso, nella sua tensione al mutamento delle cose e degli uomini, non è poi così lontano dalla preghiera. «Quando ci lasciammo – così si conclude l’ultimo testo di Scalfari – lui mi sussurrò nell’orecchio “pregherò per lei” ed io risposi: “Io la penserò”. E lui sussurrò ancora: “Eguale”».
S’intitola “Conversazioni con Carlo Maria Martini”, il libro di Eugenio Scalfari e Vito Mancuso (Fazi, pagg. 165 euro 15)
Repubblica 21.9.12
“Il papiro della moglie di Gesù non influisce sulla Chiesa”
ROMA — «Non influisce sulla visione di Gesù Cristo che appartiene alla tradizione della Chiesa». E’ lapidario padre Federico Lombardi, responsabile della Sala Stampa della Santa Sede; il frammento di papiro copto del quarto secolo dopo Cristo con la frase: «Gesù disse loro: “mia moglie”, presentato a Roma nei giorni scorsi dalla studiosa di Harvard Karen L. King, non fornirebbe alcuna prova — come ha dichiarato al nostro giornale la stessa King — che fra i primi cristiani alcuni credevano che Gesù fosse sposato. «E’ una questione specialistica che riguarda gli studiosi di frammenti di papiri copti» ha tagliato corto il portavoce del Vaticano.
A richiesta con Repubblica e l’Espresso “La psicologia”, nel secondo dvd Stefano Mistura racconta Freud...